Iakov Levi


IL SETTIMO :  IL GIORNO DI RIPOSO


Dicembre 21, 2002

L'articolo fa parte del saggio I Numeri sacri e il loro simbolismo.


Creazione e distruzione

Jahvè crea il mondo in sei giorni e al settimo, a completamento del ciclo, si riposa.
La cosmogonia biblica ricalca luoghi comuni della mitologia sumerica e babilonese ed è stato già scritto molto su quest’argomento.
Anche il concetto di un mondo creato come il risultato dell’amplesso tra un dio maschile che sta sopra e una dea femminile che sta sotto, come dall’amplesso tra Urano e Gea, ha lasciato le sue tracce nel versetto: «...e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque» (Gn.1,1 ) (1)
Quello che è peculiare del mito biblico è la presenza di un Dio-Padre che fa tutto da solo, senza l’ausilio di nessuna divinità femminile e dal nulla, mentre nella cosmogonia degli altri popoli c’è sempre qualche materia primordiale, che c’era anche prima, e solo dalla quale emerse un dio Padre o un eroe creatore.
L’assenza di una dea femminile è facilmente spiegabile dalla serrata struttura patriarcale delle tribù ebraiche al tempo in cui adottarono queste saghe.

Nel mito sumerico il mare primordiale (abzu) esisteva prima e il cielo e la terra furono formati da esso (2).
Questa versione corrisponde a quella di Omero (Iliade 14/ 201 e 246) , che dice che l’Oceano era «l’origine degli dei» e «l’origine di tutto». Da Oceano venne Teti, che veniva chiamata Madre.
Una versione orfica diceva (3), invece, che all’inizio esisteva la Notte. Essa aveva l’aspetto di un uccello dalle ali nere. Fecondata dal vento, la Notte depose il suo uovo d’argento nell’immenso grembo dell’oscurità e da quest’uovo balzò fuori Eros, denominato Protogonos, il primogenito di tutti gli dei. Lo spazio cavo dell’uovo era il chaos. Nella parte inferiore dell’uovo c’era il Cielo e la Terra che si accoppiavano. Eros li spinse a questa unione e da essa nacquero Oceano e Teti.
Un poema di Orfeo diceva: «Il primo fu Oceano, dal bel corso, che incominciò l’accoppiamento: egli prese in isposa la sorella Teti, nata dalla stessa madre», ovvero la Notte (4).
La terza versione è quella di Esiodo, (5) che ci racconta che prima di tutto c’era il Chaos, poi Gea, dall’ampio seno, sede di tutte le divinità. Dal Chaos discendono Erebo (il buio) e la Notte, che unitasi a questi, partorì la luce del cielo (Etere) e il giorno (Emera). Gea invece, prima di ogni altra cosa partorì come suo simile Urano. Essa partorì le montagne e Ponto, il Mare deserto, da una fecondazione partenogenetica. Con Urano invece si accoppiò e partorì i Titani, tra i quali anche Oceano e Teti.
Tutti questi elementi, che esistevano nella cosmogonia degli altri popoli, prima di un dio-Padre, furono condensati e rimossi nel racconto biblico, per non dare addito a nessuna speculazione che ci fosse qualcosa prima di Dio e al di fuori di lui.
Ma le tracce della rimozione rimasero.
E infatti il secondo giorno «Dio disse: «Sia il firmamento in mezzo alle acque per separare le acque dalle acque» » (Gn., 1,6). Ma le acque non erano mai state create, poiché nel primo giorno Dio aveva creato solo il cielo, la terra e la luce.
Generazioni dopo generazioni di rabbini si chiesero a vicenda dov’erano mai le acque prima che Dio iniziasse la creazione (6).
Nelle tradizioni posteriori, la sensazione che qualcosa sia stato censurato dai testi e nascosto cominciò a premere per un riconoscimento.
Una leggenda ebraica dice: «tre elementi esistevano prima della creazione: l’acqua (la parola acqua in ebraico è sempre al plurale = le acque), lo spirito (in ebraico la stessa parola, ruah, significa anche vento, ed ecco qui il Vento della tradizione orfica, quello che aveva fecondato la Notte, che riemerge dalla rimozione) e il fuoco. L’acqua entrò incinta e partorì le tenebre, il fuoco entrò incinta  e partorì la luce, lo spirito entrò in cinta e partorì la sapienza (7).
Ecco che la concezione di elementi primordiali che precedono la creazione e quindi, implicitamente, anche il Creatore, come nella cosmogonie babilonese e greca, emergono nelle leggende ebraiche che non furono incluse nel Canone.
Ancora più esplicita è la Kabbalà, che nel libro dello Zohar (3,69)  ci dice che il Signore aveva una moglie, Matronit, e che si accoppiò con Lilit quando quella era scappata. Naturalmente tutto viene raccontato dietro il velo della rappresentazione simbolica, ma i simboli sono la condensazione di tracce mnestiche che emergono dalla rimozione. I rabbini della Kabbalà non avrebbero avuto questa “idea”, se non per la percezione rimossa che ci sia qualcosa nella cosmogonia ebraica, come viene rappresentata nel Canone, che non convince: qualcosa era stato omesso.
Ma per noi la cosa più importante è che l’immagine finale che emerge è quella di un dio maschio, da solo, che crea tutto il mondo in un periodo di tempo ben definito, secondo un ritmo prestabilito, e questo è rappresentato dal numero sette.
Perché mai il Dio onnipotente, partorito dalla fantasia ebraica in una proiezione così possente e sublimata dell’immagine del proprio Padre, non crea tutto il mondo di colpo, con un magico fiat, come ha fatto con la luce?
Il Dio che ci presenta la Bibbia crea il mondo un po’ alla volta, in numerosi atti, mandato ripetutamente in missione. Ogni giorno commette un’impresa, un fatto miracoloso, e dopo si congratula con se stesso dicendosi: «E Dio vide che era cosa buona».
 Le sue fatiche ricordano quelle di Ercole, il semidio, dio figlio che viene mandato a compiere numerose imprese = atti eroici, come a compimento di un doloroso rito d’iniziazione. E, come per mettere l’accento sulla fatica, una volta finito, si riposò.
La seconda cosa strabiliante è che Dio crea la donna, non come parte del resto della creazione, ma dopo che il suo ciclo di fatiche era già terminato.
Come i giovani novizi delle tribù selvagge che debbono avere subito un rapporto sessuale a compimento finale del rito, altrimenti rischiano la morte.
Per il momento lasciamolo solo, questo dio-faber, mentre sta forgiando la sua creazione con le proprie mani.
Riesaminiamo nuovamente qual è l’immagine di questo Dio subito dopo.
Se prescindiamo dalla Creazione, la prima cosa importante che fa è distruggere il mondo.
Come la mitologia greca ci racconta di Giganti e di Titani e di lotte spaventose e distruzioni agli albori dell’umanità, così la Bibbia ci racconta: «C’erano sulla terra i giganti a quei tempi - e anche dopo - quando i figli di Dio si univano alle figlie degli uomini e queste partorivano loro dei figli: sono questi gli eroi dell’antichità, uomini famosi» (Gn.6,4).
Tutti i racconti di dei che si univano a mortali e di dee che partorivano giovani Eroi da uomini, così dettagliatamente raffigurati in una multiforme rappresentazione scenica nella mitologia greca, vengono condensati e compressi in questo unico versetto.
Il Redattore deve essersi pentito amaramente di essersi lasciato scappare questo lapsus calami!
Ma, in associazione diretta con i figli di Dio che si univano alle figlie degli uomini e con gli eroi dell’antichità, appare l’ira di Dio e il diluvio universale.
Con la furia di un Gigante o di un Titano, Iddio si getta sulla terra per distruggerla.
Come la mitologia greca ci descrive Apollo, in uno dei suoi aspetti, come “colui che colpisce da lontano” (Iliade 1,1), con il suo terribile arco, e «colui che distrugge totalmente» (8), così appare il dio della Genesi, nel suo aspetto terribile e minaccioso.
Gli Achei, intorno alle mura di Troia, erano l’orda dei fratelli coalizzati per penetrare la città e rapirne la regina, e sul loro campo piomba Apollo con il suo terribile arco e ne fa strage, come gli adulti o lo stregone della tribù terrorizzano, con i propri simboli fallici (9), il campo dei giovani novizi, e minacciano di ucciderli.
E Apollo è il dio protettore dei ragazzi e dei fanciulli.
Infatti, durante i riti della pubertà gli adulti prima spaventano a morte i novizi, e poi istruendoli sui segreti della tribù, inducono i giovani ad identificarsi con loro e diventano loro protettori e «padri» nel senso ideale della parola.
Jahvè piomba sulla terra «perché tra sette giorni farò piovere sulla terra...e dopo sette giorni le acque del diluvio furono sopra la terra».
Il Dio-Padre ostenta davanti a Noè, l’Eroe, ovvero il giovane novizio, il proprio simbolo fallico, il numero sette, esattamente come Apollo colpiva con il proprio simbolo fallico, l’arco e le frecce.
Il numero sette, che in ebraico significa arma (Zain = sette = arma= pene), colpirà l’uomo e lo ucciderà. Noè, il novizio, riesce a superare la prova e il numero sette, che aveva distrutto gli indegni, sarà la sua salvezza, la vita:

D’ogni animale mondo prendine con te sette paia...Anche degli uccelli mondi del cielo sette paia, maschio e femmina, per conservarne in vita la razza su tutta la terra (Gn., 7,2-3), Attese altri sette giorni e di nuovo fece uscire la colomba dall’arca  e la colomba tornò da lui sul far della sera; ecco essa aveva nel becco un ramoscello d’ulivo (Gn., 8,10).
Il sette, il simbolo fallico del dio-Padre, che era stato strumento di morte, diventa strumento di salvezza (10). Esattamente come l’arco e le frecce, il simbolo fallico di Apollo, che aveva portato la morte nel campo degli Achei, salva da morte tutta l’umanità, dopo un diluvio esattamente come quello biblico, uccidendo il terribile pitone (Ovidio, Metam., I / 434-450). In entrambi i casi, nel racconto del diluvio biblico come in quello di Ovidio, l’umanità risorge dopo essere stata immersa nelle acque.
L’acqua  è il simbolo della madre e della nascita (nota 1) Inoltre, come ha rilevato Reik (11), nelle tribù primitive l’immersione nell’acqua o l’essere spruzzati con acqua è parte essenziale dei riti di pubertà, in cui il novizio è considerato rinato attraverso il rito (12).
Come abbiamo visto, Apollo rappresenta la condensazione sia del padre iniziatore, quando terrorizza gli Achei sotto le mura di Troia, sia del giovane novizio, quando uccide il Pitone, il mostro fallico emerso dalla Madre Terra dopo il diluvio. Ma Ovidio ci racconta ancora qualcosa: a coronamento della sua impresa iniziatica istituisce i giochi pitici i cui vincitori vengono coronati dall’alloro. Questa pianta, data in premio a tutti i giovani che risultano meritevoli, diventa così il simbolo della riconciliazione della generazione dei padri con quella dei figli, che è esattamente la meta finale di tutti i riti della pubertà iniziatici.
Nel mito biblico invece dell’alloro appare l’ulivo. La colomba torna nell’arca e porge a Noè il simbolo della riconciliazione tra l’umanità e dio-Padre. Per i Greci questa riconciliazione si traduce in gloria per la generazione dei figli, la corona di alloro, come il rito iniziatico rappresentato dalla Crocifissione [vedi anche Reik (13)] si tradurrà in gloria per il dio-Figlio che ascenderà al Regno dei Cieli e si siederà a fianco del Padre condividendone la gloria, implicitamente persino spodestandolo. Nel mito ebraico l’Eroe, Noè, che nella mitologia babilonese dalla quale deriva questo mito era stato certamente un semi-dio, viene degradato a mortale e, come tutti gli eroi ebrei accetta, nell’interpretazione biblica, la sovranità assoluta del Padre.
Per gli ebrei, asseragliati in una struttura sociale e mentale patriarcale, la conciliazione può avvenire solo quando i figli accettano gli insegnamenti e la morale paterna e rinunciano a qualsiasi ribellione.
Se accettiamo questa interpretazione, e ci pare che sia la più articolata e coerente di quelle che siano mai state date fin’ora, esentandoci così dalle stiracchiate interpretazioni allegoriche e razionalizzanti, che sovrappongono alla cruda realtà concreta descritta dalla Bibbia interpretazioni metafisiche estranee alla realtà esistenziale arcaica, ci diventa chiara anche un’altra “stranezza” dei racconti della Genesi: la longevità dei patriarchi.
Adamo visse novecentotrenta anni, Set novecentododici, Enosh novecentocinque, Kenan novecentodieci, Maalalel ottocentonovantacinque, Iared novecentosessantadue, Enoch “solo” trecentosessantacinque perché “Dio lo aveva preso”, forse come Zeus aveva rapito Ganimede ancora fanciullo, Matusalemme novecentosessantanove, Lamech settecentosessantasette (Gn. 5, 1-28) e Noe' novecentocinquanta (Gn, 9,29).
Dopo il diluvio le cose si ridemensionano ma siamo ancora in alta mitologia: Abramo visse centosettantacinque anni (Gn.,25,7), Isacco cent’ottantanta. Di Giacobbe non sappiamo niente, forse perché fu la prima figura veramente storica raccontata dalla Bibbia. Il suo nome appare infatti anche in documenti epigrafici esteriori alla Bibbia, come un capo tribù famoso nel medio Oriente antico. Giuseppe visse centodieci anni, e qui almeno siamo rientrati nella dimensione della realtà.
La risposta è semplice: questi erano dei e quindi immortali.
Quando il Redattore della Bibbia si trovò davanti tutte queste antiche saghe ebraiche, non poteva naturalmente trascriverle come le descrivevano le leggende orali tramandate da padre in figlio. Gli dei diventarono uomini, ma la traccia mnestica che una volta erano stati dei è rimasta nella loro straordinaria longevità. Diventarono quasi-immortali, poiché come altro si può definire un uomo che vive quasi mille anni?  Come ha detto Freud, gli uomini non sono fatti per tenere segreti, e questi emergono sempre o come lapsa calami o come deformazioni dei testi che non hanno un senso.
 

 Il popolo eletto

Abbiamo visto come le tribù ebraiche, che come per tutte le tribù primitive i riti d’iniziazione erano l'evento principale della vita collettiva, abbiano fatto una proiezione a livello cosmologico di quella che era la loro realtà esistenziale tribale.
I Sumeri, i Babilonesi e, dopo di loro, i Greci si erano sviluppati a civiltà. Erano passati da una fedeltà tribale a una fedeltà di tipo nuovo.
Sumeri, Babilonesi e Greci si organizzarono a società politiche, e superarono i riti d’iniziazione arcaici, conservandone solo tracce mnestiche rimosse.
Nella mitologia greca queste sono rimaste nelle imprese eroiche, che il novizio deve compiere, a coronamento del suo passaggio iniziatico.
Per gli Ebrei fu più difficile. Pur sviluppando una cultura altamente sofisticata, non si staccarono mai da quel tipo d’identità che preferisce i legami del clan a quelli della polis.
Le tracce degli antichi riti d’iniziazione tribale continuarono, così, a emergere in tutta la liturgia ebraica (14).
Il Padre primigenio, dio esclusivo della tribù, anche se proiettato ad altezze nuove, rimase pur sempre il Padre del suo popolo, che diventò, così, popolo eletto, inversione dell’attaccamento del popolo al suo dio esclusivo.
Quando questo Dio pretende da lui di essere un «popolo sacro» (15), «Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa» (Ex., 19,6), «Santificatevi dunque e siate santi» (Lev., 11,44), e nuovamente in (Lev., 19,2) e (Lev., 20,7), in realtà pretende da lui di rimanere un popolo di novizi, perennemente immerso nella sacralità, nel tabù e nella sua esorcizzazione, un popolo di figli, eternamente terrorizzati da una generazione di adulti che spaventano i propri giovani, nascosti dietro a maschere spaventose.
Così, se il diluvio universale era stato la proiezione del proprio rito iniziatico su tutta l’umanità, tracce di questi stessi riti erano rimaste anche tra i Sumeri, i Babilonesi e i Greci, e anch’essi avevano innescato lo stesso processo di proiezione all’esterno.
E infatti anch’essi conservano memorie di uno spaventoso diluvio, nel quale l’umanità era morta e rinata.
Ma la differenza consiste nel fatto che questi popoli, abbandonata completamente la struttura tribale, avevano rimosso i riti e li avevano conservati solo come tracce mnestiche, che si riflettono appunto nella mitologia del diluvio e nelle imprese degli Eroi.
Gli Ebrei, invece, continuarono a vivere la loro realtà onnipresente di eterni novizi e, dopo il diluvio, l’eterno rito d’iniziazione continua a ripetersi in tutte le feste ebraiche, e il numero sette, questo terrificante simbolo fallico del dio iniziatico, continua a venire presentato loro davanti, come una minaccia onnipresente.
I sette giorni della Pasqua, in cui viene sacrificato e mangiato il corpo del Padre tribale, montone-agnello (16), prima in sintesi, poi sostituito, dal pane azzimo (17), in una notte in cui tutti sono asserragliati in casa, mentre l’angelo della morte compie, fuori, la sua strage (Ex., 12,21-7).
Dopo sette settimane dal rito pasquale, ecco il Shavùot, la «festa delle settimane», ai piedi del monte Sinai e Jahvè, il dio iniziatico, di nuovo terrorizza il suo popolo tra tuoni e fulmini, al punto che gli Israeliti non vogliono più né vedere né ascoltare, poiché hanno paura di morire

Tutto il popolo percepiva i tuoni e i lampi, il suono del corno e il monte fumante. Il popolo vide, fu preso da tremore e si tenne lontano. Allora dissero a Mosè: «Parla tu a noi e noi ascolteremo, ma non ci parli Dio, altrimenti moriremo...Il popolo si tenne dunque lontano mentre Mosè avanzò verso la nube oscura, nella quale era Dio (Ex., 20,19-21).
E Mosè attese sei giorni e solo il settimo il Signore gli si rivelò (Ex., 24,16).
Il settimo mese, il decimo giorno del mese, il Kippur, il Sabato dei Sabati, il giorno in cui gli Ebrei espiano, attraverso il digiuno, il loro peccato di cannibalismo primigenio (18).  E il settimo mese, quattro giorni dopo, a catena e nella sintesi di un’unica festa, la festa delle Capanne, che dura sette giorni, dove i novizi vengono relegati al di fuori del campo (19).
I rabbini raccomandano di cominciare a costruire subito la capanna la sera stessa in cui finisce il Kippur, affinché non ci sia nessun intervallo tra una festa e l’altra.
Siamo arrivati addirittura a una condizione di horror vacui, tra una manifestazione del rito d’iniziazione all’altra.
 

Da iniziatore a iniziato

E dopo questa lungo giro, eccoci arrivati nuovamente al punto di partenza, alla Creazione del mondo.
Dio crea il mondo in sei giorni e il settimo si riposò.
Abbiamo visto finora come Jahvè, il dio d’Israele, sia stato un dio iniziatico.
Dal Diluvio universale, alla Pasqua, ai riti sulle falde del monte Sinai, alla relegazione dei suoi figli per sette giorni alle capanne, era apparso nel campo degli Israeliti, da dietro la sua maschera (e infatti è proibito guardare e vedere l’immagine del Signore), dio terribile e vendicativo, come Apollo che fa strage nel campo degli Achei con il suo arco e la sua faretra, ostentando il suo sette, il suo simbolo fallico minaccioso.
Secondo la versione della Genesi, Dio crea il mondo dal nulla, ma già nei primi versetti si contraddice poiché ci rivela che in realtà le acque preesistevano alla creazione, come nella versione sumerica e greca della cosmogonia. Nel secondo versetto «aleggiava sulle acque» e nel settimo «separò le acque, che sono sotto il firmamento, dalle acque, che sono sopra il firmamento». Quindi una dea-madre simboleggiata dall’acqua esisteva già prima che Dio cominciasse la creazione.
La leggenda ebraica, come abbiamo visto sopra, aveva conservato tracce esplicite dei miti cosmologici originali: tre elementi esistevano prima della creazione: l’acqua, lo spirito e il fuoco. L’acqua entrò incinta e partorì le tenebre, il fuoco entrò incinta  e partorì la luce, lo spirito entrò in cinta e partorì la sapienza (supra).
Questo dio poteva solo essere un dio-marito o un dio-figlio, ma non un dio che venisse prima dell’acqua e che ne era il padre.
Reik, discutendo del problema del doppio sesso di Adamo dice:

Secondo la mia opinione, è molto probabile che il mito del primo uomo che aveva due sessi, sia una teoria sviluppatasi più tardi e, come tale, una versione molto alterata e distorta di una saga più antica in cui una coppia divina, dio e dea, viene sorpresa durante il rapporto sessuale e separata con la violenza da un figlio- dio. Jahvè divise il primo essere umano in due metà. Modellandogli due volti e due dorsi. Mi sembra che vi sia qui una variante della situazione originale nella quale la coppia divina si è fusa in un sol corpo mediante il rapporto sessuale (20).
Secondo Reik, dunque, il dio che separa Adamo da Eva è un dio-figlio e non un dio-padre.
Nel mito sumero, Nammu, regina dell’abisso, crea Enki, primo dio- figlio dall’abzu, le acque primordiali, e gli insegna come creare il primo uomo dalla terra (21).
Secondo un’altra versione lei stessa lo crea dalla terra, chinandosi su questa. Enki è così il primo dio-figlio, padre degli uomini.
Secondo la cosmogonia babilonese (22),  il primo uomo, Eabani, fu creato dalla terra da una dea, Aararu, e non da un dio maschio, e i riferimenti ai miti mesopotamici è particolarmente significativa, poiché gli Ebrei emersero dal conglomerato di popoli che, nel secondo millennio, si muovevano lungo la «mezza luna fertile» dalla Mesopotamia verso la Palestina.
Come abbiamo visto sopra, secondo la versione di Esiodo, Gea, la Terra partorisce da sé stessa, in un parto ortogenetico, Urano, il cielo, affinché questi l’abbracci interamente in un amplesso eterosessuale e procrei con lei tutti gli altri dei. Così Urano è un dio- figlio della Terra, che diviene dio Padre di tutti gli altri dei, e viene evirato da Crono, uno dei suoi figli.
Le possibilità che ci offrono i miti degli altri popoli vanno dalla creazione, come espansione di una materia primordiale, le acque, gli abissi, la Notte (23), alla generazione partenogenetica da una dea-Madre e, solo in un secondo stadio, la prolificazione come risultato di un amplesso eterosessuale.
Il mito orfico ci dice esplicitamente che fu Prometeo a creare il primo uomo, come rappresentato anche in un grande rilievo in marmo oggi al museo del Prado. Prometeo è indubbiamente un dio Figlio, vicario e rappresentante dei Figli, come il Cristo, che spesso viene rappresentato come Creatore del mondo e dell'uomo (Cfr. Di Maestri e di allievi).
Solo il mito biblico ci presenta un dio-Padre che fa tutto da solo, e dal momento che il mito ebraico presenta numerose somiglianze con i miti mesopotamici, e certamente deriva da questi, dobbiamo arrivare alla conclusione che la versione originale parlasse di una dea che aveva creato un dio-figlio, e non viceversa.
Nel Giardino dell’Eden abbiamo, a un certo punto, una scena, come un’istantanea fotografata da un paparazzo troppo curioso, in cui appaiono una coppia, uomo e donna, e un intruso, che cammina, non chiamato, nel Giardino, come un dio-figlio che cerchi di disturbare i rapporto sessuale tra i genitori (Gn., 3,8).
La leggenda ebraica racconta come gli angeli, notando la grande somiglianza di Adamo con il Signore, chiesero: «Vi sono forse due poteri al mondo?» Il Signore allora ridusse la statura di Adamo, statura che aveva precedentemente riempito l’intero universo, a mille cubiti (Amot) (24). Se una Ama sono circa quaranta centimetri si ricava un’altezza di quattrocento metri, e questo dopo che era stato ridotto.
Si può facilmente riconoscere nella riduzione della statura di Adamo un simbolo sostitutivo della castrazione.
Nella letteratura talmudica viene dato per scontato che Adamo fosse di una grandezza enorme, Rabbi Meir dice duecento Amot, (Sinhedrin 90/a) che sono “solo” ottanta metri. Quindi nei cento anni che vanno da Rabbi Akiva a Rabbi Meir, Adamo rimpicciolisce ancora sostanzialmente.
Nella leggenda posteriore si dice che quando Adamo si nascose dal Signore che camminava nel Giardino, solo allora la sua altezza fu ridotta a cento cubiti (Bereshit Raba 12/6)
In un altra leggenda si dice: «Quando creò il Signore il primo uomo gli angeli del cielo si sbagliavano e santificavano il nome di Adamo. Cosa fece il Signore, benedetto egli sia,? Lo fece addormentare e così tutti seppero che era uomo» (Bereshit Raba 8/10)
Il sonno è sinonimo di morte e Jahvè, che fa addormentare Adamo, rispecchia i desideri di morte-evirazione inconsci del figlio verso il padre.
Anche Noè, mentre dormiva, fu evirato dal figlio. La Bibbia è molto velata e dice: «Vide il padre scoperto» (Gn., 9,22), ma i rabbini percepirono subito che la maledizione di Noè, sul figlio e tutti i suoi discendenti, non dipendeva solo da un peccato involontario di voyerismo, infatti Rashi (25), citando il Talmud (Sinhedrin, 70/a), interpreta il suddetto versetto come un atto esplicito di evirazione.
Anche se Rashi non conosceva la psicanalisi, aveva un metodo di procedere molto simile alle libere associazioni di Freud.
Anche in questa scena, dunque, Jahvè appare non come un dio-Padre, bensì come un
dio-Figlio, che tenta di «ridurre», addormentare, ovvero, castrare, il proprio dio-Padre, dopo aver tentato di separare l’amplesso parentale, separando, prima le acque, come ci viene descritto fin dai primi versetti della Genesi, e dopo Adamo ed Eva.
Lavorando per associazioni, non possiamo che approdare alla cosmogonia greca dove Crono, un dio-figlio, evira Urano, dopo che questo si era unito alla Terra, in un divino amplesso.
Ma la similitudine tra Jahvè e Crono si spinge anche oltre.
Crono significa tempo, e lo scorrere del tempo è misurato e scandito dal movimento degli astri celesti, che sono tra le prime cose che crea Dio nella sua opera.
Jahvè immette nel mondo la dimensione del tempo che, come allude il mito greco, era stato fatto da Crono, dio-figlio, che dopo diventa dio-padre a sua volta.
Quindi il mito originale della cosmogonia ebraica era il seguente:

1) Una dea Madre, rappresentata dall’acqua o dalla terra era all’inizio di tutto, sulla scia della cosmogonia mesopotamica.
2) Da questa dea-acqua-materia primordiale si forma il primo uomo, probabilmente come mistura di acqua e terra, che è anche il primo dio, Adamo, la cui etimologia è «che viene dalla terra», come Nammu, la dea degli abissi sumerica, crea Enki piegandosi sulla terra e da essa.
3) A questo punto una dea madre, Eva, «che è madre di tutti i viventi» (Gn., 3,20), vive in coppia e in simbiosi con il dio, che lei stessa ha creato e generato da lei. In questa versione scenica Adamo ed Eva corrispondono a Urano e Gea.
4) Un dio-figlio, Jahvè, cerca di separare l’amplesso divino e di castrare il Padre.

Questa deve essere stata la prima versione della cosmogonia biblica, sulla scia di tradizioni mesopotamiche, che le tribù ebraiche si portarono appresso nel loro peregrinare attraverso i percorsi della mezzaluna fertile ai margini del seminato.
Abramo, il primo ebreo, veniva da Ur, antica città-stato all’estremo sud della Mesopotamia e da lì era arrivato fino all’Egitto.
A questa si sovrapposero tutte le altre, e si fusero nel racconto biblico che abbiamo davanti.

Perché per noi è stato così importante risalire alle tracce di questa prima versione?
Perché solo così potremo ora capire il vero significato della cosmogonia biblica, di un dio maschio che, da solo, crea il mondo in sei giorni e al settimo si riposò.
A differenza dei Sumeri, i Babilonesi e i Greci, gli Ebrei si asserragliarono in una stretta struttura tribale, sotto la cappa di un dio-Padre esclusivo, che non lasciava addito a nessuna essenza divina al di fuori di Lui. Così rimossero tutto: le acque primordiali, la dea Terra, i dei figli-Eroi, e rimasero nel testo solo tracce sporadiche ma illuminanti.
Tutto fu attribuito a un dio-Padre onnipotente.
Ma quello che è particolarmente interessante non è quello che non appare, come chiaro risultato della rimozione, bensì quello che appare nella cosmogonia ebraica e non appare in quella degli altri popoli, che rilassarono la stretta della fedeltà tribale e la superarono.
La cosmogonia degli altri popoli non ci racconta delle fatiche di un dio padre nel creare il mondo in un ciclo specifico, che la Genesi ci rappresenta con il numero sette.
Presso gli altri popoli le fatiche spettano agli dei-figli, agli Eroi.
E queste sono tracce delle prove iniziatiche.
Mentre nelle cosmogonie parallele la creazione del mondo è il prodotto delle creature divine primordiali, e gli atti eroici spettano ai dei figli, ecco che la mitologia ebraica, nella stretta del suo esclusivismo, condensa i due cicli in uno, e la parte più preminente diventa proprio quella della fatica iniziatica.
Il numero sette, che come abbiamo visto è il simbolo fallico del dio-Padre, nella condensazione dell’atto iniziatico diventa il simbolo fallico del dio-figlio che se ne impadronisce e compie la sua missione con questo.
L’arco di Apollo era il simbolo fallico del dio iniziatico, per mezzo del quale minaccia la tribù dei figli, accampati intorno alle mura di Troia, ma che poi diventa lo strumento che adopera Apollo, nella sua trasfigurazione in dio-figlio ed Eroe, per uccidere il mostro. Apollo dio-figlio si impadronisce del simbolo fallico di Apollo, dio iniziatico e rappresentante della generazione dei padri, e compie la missione: uccide il Pitone.
Jahvè, dio-figlio, adopera il numero sette, strumento del terrore di Jahvè, dio-Padre, per concludere la sua missione e crea il mondo.
Adesso finalmente ci è chiaro l’accento dato dalla Bibbia all’enumerazione dei giorni, uno dopo l’altro. Lo scandire dei tempi fino a che si forma il numero magico.
Avrebbe potuto benissimo riassumere e dire «Iddio creò il mondo in sei giorni e il settimo si riposò», ed enumerare tutti gli atti della creazione o subito prima o subito dopo.
L’accento è sul numero dei giorni. Questo numero sì, esisteva prima.
Sei le fatiche iniziatiche e il settimo la conclusione e il riposo, il Sabato. Il settimo giorno è quello della purificazione, dell’esorcismo del tabù, la chiave e la soluzione.
In questa condensazione, del racconto della creazione con quello dell’atto iniziatico primordiale, il dio-figlio, rimosso dalla mitologia ebraica, non solo preme per un riconoscimento, ma riesce ad avere la preminenza e scalza completamente la figura del Padre, lo detronizza, dall’atto della creazione.
«Dio vide che la luce era cosa buona» (Gn.1,4), «Dio vide che era cosa buona» (Gn.1,12), (Gn.1,18) (Gn.1,21), (Gn.1,25) ««Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona (Gn.1,31). Questa ripetizione, ogni volta, della propria soddisfazione narcisista è la grande rivincita dell’orda dei figli che, attraverso l’atto eroico, prendono il simbolo fallico del Padre e il suo posto e si congratulano con loro stessi per la propria prodezza (26).
Subito dopo tutto affonderà nella rimozione.
Questa nostra ricostruzione della stratigrafia del mito biblico coincide con quello che ha detto Freud della genealogia del mito in generale:

Forse l’Eroe divinizzato fu anteriore al Dio-Padre, fu il precursore del ritorno del padre primordiale sotto forma di divinità. La successione degli dei sarebbe quindi cronologicamente questa: dea madre, eroe, dio padre. Solo con l’elevazione del non mai dimenticato padre primordiale la divinità acquisì però le caratteristiche che ancora oggi le conosciamo (27)
E dinuovo ci conferma, dopo più di quindici anni, nel suo “Uomo Mose’” lo stesso concetto: “Le divinita’ maschili apparvero dapprima come figli accanto alle grandi madri e solo dopo assunsero nettamente i tratti di figura paterna” (28).
Jahvé, nell’aspetto di dio figlio, come Eroe, nella condensazione messa in atto dal mito, aveva anteceduto infatti il dio-Padre. Nella versione canonizzata, il dio figlio che aveva creato il mondo come atto iniziatico eroico viene rimosso e si trasfigura in padre e creatore, e in atto di espiazione e sottomissione delega a questi il merito della creazione, rinunciando all’atto di sfida per ritirarsi dietro alle quinte.
Adesso ci diventa chiaro anche un altro simbolo: la Menorà, la lampada a sette bracci, che nei tempi antichi era il simbolo del tempio di Gerusalemme e della sovranità ebraica e che oggi è il simbolo dello stato d’Israele. Nell’arco di Tito a Roma, è il simbolo della sconfitta della sovranità giudaica, della perdita dell’indipendenza.
La lampada a sette bracci è il simbolo fallico paterno, conquistato dai figli attraverso l’atto iniziatico, ed elevato a proprio simbolo fallico, simbolo di virilità e di indipendenza.
Ed ecco perché questo simbolo troneggia nella Knesseth, il nuovo parlamento israeliano e dietro ogni giudice in ogni tribunale del rinnovato stato d’Israele.
La Menorà, come simbolo dello stato sovrano d’Israele, è, dunque, più che il giglio francese tripartito e il triscele della Sicilia e dell’isola di Mann, di cui parla Freud (vedi nota 10), il tricolore, simbolo della rinnovata indipendenza dell’orda dei fratelli e il loro simbolo fallico, carpito al padre onnipotente.
 

Il riposo settimanale

E adesso, dopo questo lungo giro, ci appare chiaro anche il motivo dell’importanza del riposo sabbatico e della sua sacralità.
I sei giorni della creazione rappresentano le prove iniziatiche, gli atti eroici attraverso i quali il giovane si identifica con la generazione degli adulti e soppianta il padre dalla sua posizione di preminenza, poiché si identifica con lui e contemporaneamente lo detronizza.
Questi atti di bravura e la soddisfazione narcisistica che ne segue, questo appropriarsi del simbolo fallico paterno e usarlo come strumento per detronizzare il padre e “agire” al suo posto, rappresentano anche un atto di sfida e di profanazione.
Ne consegue un sedimento di un senso di colpa che esige una  formula magica che funga da undoing della profanazione.
Questo esorcismo è rappresentato dal Sabato, e da qui la grande sacralità di questo giorno e il grave castigo per chi lo profani.
Dopo le “grandi azioni” della Creazione, ecco il grande riposo del Sabato.
Il Sabato, la grande “inazione”, fa un undoing simbolico della grande azione, degli atti di sfida della creazione.
Il figlio proclama così: “ è vero, mi sono sostituito al padre, ho preso la sua forza per compiere tutte le fatiche della creazione, ma adesso faccio il contrario, e il grande sacro riposo sarà così l’antitesi della profanazione dell’azione “.
Il sabato è quindi un controinvestimento energetico il cui scopo è incontrare la pulsione emergente dall’Es del fare, il doing, e controbilanciarla, annullarla per esorcizzare il senso di colpa annullando la pulsione stessa.
Nei sintomi della nevrosi ossessiva il controinvestimento pulsionale dell’Io neutralizza la pulsione peccaminosa dell’Es attraverso una rappresentazione antitetica che dichiara un altisonante “no” alla pulsione censurata: il risultato è sempre una formazione di compromesso.
Nel nostro caso, come nei sintomi della nevrosi ossessiva, l’azione si svolge in due tempi: doing e undoing (29).
Prima l’azione, la creazione del mondo, poi il suo contrario.
Jahvè, il dio-figlio rappresentante degli iniziati della tribù, dopo avere prevaricato, nel suo atto di sfida, deve adesso fare il contrario dell’azione sacrilega e riposarsi.
Questo spiega la più strana di tutte le storie bibliche: un dio onnipotente, che stanco come l’ultimo dei mortali, deve riposarsi.
Jahvè, il dio figlio, che aveva prevaricato nell’atto di sfida della creazione deve ora riposarsi, e il suo riposo diventa sacro, poiché sacrilego era stato l’atto della creazione.
Il riposo assoluto diventa l’esorcismo magico attraverso il quale l’azione della creazione viene depurata dall’aspetto peccaminoso.
Anche la parola stessa Shabbat, non significa riposo, questa è una sovrapposizione posteriore. La traduzione che più si avvicina al senso originale della parola ebraica è inazione-paralisi. Questa radice esprime il momento stesso dell’arrestarsi dell’azione nella brusca paralisi di un movimento in atto. In ebraico moderno la stessa parole schvitah è adoperata per sciopero. Sui giornali quando è in atto uno sciopero si legge il titolo: “Il paese paralizzato da una schvitah. Il contrario non è lavoro bensi’ azione, ma’aseh, e infatti l’opera della creazione è chiamata ma’aseh berescit.
Questo spiega come mai furono proprio gli Ebrei a  introdurre il riposo settimanale.
C’è anche una apparente incongruenza che viene così appianata: se le fatiche iniziatiche erano sette, il riposo settimanale avrebbe dovuto avvenire all’ottavo, come l’ottavo giorno è quello della circoncisione e della depurazione del periodo mestruale, come l’ottavo giorno è Simhat Torah, l’atto finale dei sette giorni in cui viene celebrato il Succoth e la permanenza per sette giorni nelle capanne.
Invece il giorno del Gran Riposo è il settimo e non l’ottavo.
Il motivo è semplice: come il sintomo della nevrosi ossessiva è una soluzione di compromesso tra pulsione e controinvestimento energetico che emerge come sintesi che comprende entrambi, così il grande undoing che depura il sacrilegio è incluso all’interno del numero sette che descrive le fatiche iniziatiche, in un’unica sintesi, e non al di fuori di esse.
L’azione coatta in due tempi, doing e undoing, diventano un’unica condensazione e nello stesso numero, sette, viene inclusa sia l’azione che il suo contrario, il grande riposo.
Così mentre la permanenza nelle capanne nei sette giorni del Succoth si conclude con l’ottavo giorno, la fine del rito iniziatico, e la circoncisione conclude nell’ottavo giorno lo stesso rito, il Sabato, che è non una conclusione ma un’azione coatta antitetica alla pulsione, il cui scopo è annullarla simbolicamente, si unisce a questa in un’unica sintesi.
Vi è un’altra associazione che ci conduce come un filo alla stessa meta. Quando gli Ebrei, raccolti in sinagoga, si apprestano dopo il tramonto del Venerdì a ricevere il Sabato, si rivolgono verso occidente e cantano: “vieni o sposa, vieni o sposa”. Il Sabato è la sposa e viene presentata a Israele il suo sposo, come premio per le fatiche iniziatiche superate. La comunità di tutto Israele, vestiti a festa, la tribù dei fratelli che attraverso il loro vicario, Jahvé il dio figlio, hanno perpetrato la fatica della creazione e si preparano al ben meritato riposo, portano sotto il baldacchino nuziale la sposa che entra dall’occidente nell’epifania del Santo Sabato. Come Eva che viene creata alla fine della fatica iniziatica, come nelle tribù selvagge odierne, descritte da Reik (cfr., nota 11), il rapporto eterosessuale avviene solo con la conclusione delle fatiche del rito. Jahvé “crea” la sposa a coronamento della sua fatica, il meritato premio.
I Greci e i Romani, quando vennero a contatto con gli Ebrei, non capirono questo strano rito e lo considerarono un’usanza barbarica come tutti gli altri riti ebraici, poiché percepirono inconsciamente il sottofondo tribale che ne era all’origine (30)
Il cristianesimo adottò quest’usanza in forma diluita, come adottò il numero sette, nel contesto della sua regressione esistenziale .
Ma l’Occidente fece di questo giorno un giorno di riposo nel senso di svago, non certo di inazione forzata e di paralisi, come rimase per gli Ebrei.
Il senso di tabù fu sterilizzato e la domenica divenne il “giorno del Signore” conservando solo la traccia mnestica che questo era, invero, il giorno di un dio- Figlio.
Gli Ebrei, invece, si asserragliarono nel senso originale del giorno sacro, del tabù, dell’undoing di un atto peccaminoso di ribellione contro il dio padre, messo in atto attraverso l’azione, lo sforzo motorio, l’attività muscolare.
La sacralità di questo giorno si rafforzò sempre di più durante i secoli, e la paralisi di qualsiasi azione fu codificata ai suoi estremi al punto che oggi è proibito persino usare la luce elettrica, viaggiare in automobile, andare in bicicletta, toccare il denaro, e fare qualsiasi sport.
Solo una paralisi assoluta da qualsiasi sfogo motorio può esorcizzare il fare peccaminoso all’origine del precetto di “non fare”.
Invece è obbligo occuparsi di attività mentali, è permesso studiare, rimuginare, cantare, discutere, eccetera.
È proibito scrivere, suonare, fare ginnastica, fare qualsiasi cosa che implichi una soddisfazione muscolare e motoria, poiché questo era stato il peccato della creazione: la gioia del fare. Come scrive Abraham, parlando di un’angoscia locomotoria:

sono dell’opinione  che nei nevrotici che si ammalano di angoscia locomotoria, sia oiginariamente presente un piacere contituzionale sovraintenso dei movimenti; dalla non riuscita rimozione di questa tendenza derivarono inibizioni del movimento fisico. Il significato del piacere del movimento è stato posto in particolare rilievo da Sadger. Egli parla dell’”erotismo dei muscoli” come un fonte particolare di piacere sessuale e lo pone accanto a quelli che egli denomina “erotismo della pelle” ed “erotismo della mucosa”. Sadger dà prove interessanti riguardo al piacere positivo del movimento fisico (31).
Per l’Occidente, che aveva ripristinato apertamente la sovranità del dio figlio, non fu necessario conservare il tabù di questo giorno con i suoi significati terribili e minacciosi. Anzi vide in questo rito il testardo attaccamento del popolo d’Israele alla fedeltà assoluta al dio-Padre, in contrasto al nuovo concetto di un dio-Figlio che con il suo sacrificio  aveva liberato l’umanità dal senso di colpa.
Quando Lutero mise in atto la sua riforma, con l’intenzione di tornare alle radici bibliche del cristianesimo, constatò con suo sgomento che alcune sette protestanti come i Sabbatari di Carlstad e gli Anabattisti avevano cominciato anche loro a celebrare la Domenica come giorno di inazione assoluta e intervenì decisamente per impedire quella che gli pareva una giudaizazzione “sacrilega” della Domenica (32).
Il Sabato ebraico divenne così per i Cristiani il simbolo dell’empietà giudaica nel rinnegare la vittoria del Figlio sul Padre, l’altro polo, e i riti satanici con le orge delle streghe e i sacrifizi cultuali di bambini [quadro di Hans Baldun Grien] che nel Medioevo popolavano la fantasia cristiana, vennero definiti “Sabbath” (33). Il satanico, legato all’immagine del Padre rimossa, in antitesi al “sacro” del corpo del Figlio e la sua Ostia Sacra. In questi riti infatti gli invasati satanici venivano accusati di profanare l’Ostia Sacra e di adorare il Diavolo, nella figura di un grande capro [quadro di Goya, (Madrid, Museo Lazaro Galdiano)], , simbolo di Dioniso, il primo Padre della cultura Occidentale (34).
Per gli Ebrei, che avevano invece seppellito la ribellione dei figli sotto la rimozione più profonda, e rinnegato un Dio-figlio che avesse preso su di sé la colpa e la pena dell’atto d’insubordinazione, interdizioni si aggiunsero a interdizioni come pietra sopra pietra, per impedire il riemergere dell’atto di sfida consumato attraverso l’azione.
Come ci dice implicitamente il testo, dunque, non un magico fiat fu all’inizio di tutto, non il logos del Vangelo di Giovanni creò il mondo e tutte le sue creature, bensì, con le parole di Faust, “in principio era l’Azione” (35) .





Prometeo crea L'uomo (Museo del Prado)


Il Cristo e' talvolta rappresentato come Pantokrator, Creatore del mondo e dell'uomo, come da Wiligelmo nella facciata del Duomo di Modena, e da Hieronymus Bosch nel suo Giardino delle delizie (museo del Prado). Il senso e' che ha rimpiazzato il Padre nel ruolo di Creatore. La razionalizzazione teologica e' che il Padre e il Figlio siano un'unica cosa.
Tuttavia, sembra piuttosto che il significato latente sia da ricercarsi nella riconnessione inconscia allo strato piu' arcaico e originale della mitologia umana messa in atto dal cristianesimo, come trova la sua espressione anche nel mito greco di Prometeo che crea l'uomo. Ovvero, un dio - Figlio che crea l'uomo, come implicato da Reik.



Spinello Aretino: Trinity
(Arezzo. Museo Civico)


Possiamo vedere in questo affresco del XIV secolo che il Padre e il Figlio della Santa Trinita' hanno le stesse sembianze. Da un lato, il Figlio diventa il Padre. Tuttavia lo strato piu' arcaico significa che all'origine il Figlio era il Padre, ovvero la prima divinita' maschile e creatore del mondo, solo posteriormente trasfiguratasi in Padre.

Links:

Le migrazioni protostoriche e lo psichismo collettivo
Eva. Verginita e castrazione nel mito greco e nell'Oriente semitico
Trauma della nascita, esilio e monoteismo
La figura di Dio nell'ebraismo: Padre o Madre? (La lettera di una lettrice)
Brutto e bello. La nascita di un concetto


NOTE

 
(1)  Sull’acqua come simbolo della madre vedi Freud, «Simbolismo nel Sogno», in Opere, Bollati  Boringhieri, Torino 1989, vol. VIII, p. 325
(2) Kramer, The Sumerians, 1963, pp.112-3
(3) Riporto la storia orfica come viene raccontata da  Karoly Kerenyi, Gli Dei della Grecia, Il Saggiatore, Milano 1962, pp. 26-7.
(4)  Ibidem, p. 27. Per la Notte e il buio, come simbolo del ventre materno, vedi K. Abraham, «Limitazione del piacere di guardare», in Opere, B.Boringhieri, Torino 1997, vol. II, pp.577-80 e  597-8.
(5) K.Kerenyi, ibidem, pp. 27-8
(6) Erano ovviamente nella mitologia sumerica.
(7) La suddetta leggenda è riportata nel Sefer Haggadà, Devir Pubblishing, Tel Aviv 1948, p.13. in ebraico.
(8)  Giorgio Colli, La nascita della filosofia, Adelphi, Milano 1994, p.18.
(9) Vedi S.Freud, “Totem e Tabu”, in op.cit., vol.VII, p.134.: «...il padre è ammirato in quanto possessore del grande genitale e temuto come colui che minaccia il genitale del bambino».
(10) Qui ci ricolleghiamo a quello che ci ha detto Freud sul simbolismo del numero tre, che essendo il simbolo del genitale maschile è un potente strumento apotropaico. S.Freud, «Simbolismo nel sogno», in op.cit.,, vol. VIII, p.335. Freud dice: «Cominciamo con l’osservare che per il genitale maschile nel suo insieme è simbolicamente significativo il numero sacro tre».
(11) Theodor Reik, «I riti della pubertà» in Il rito religioso, Boringhieri, Torino 1969, pp. 104-123.
(12) Il battesimo cristiano, che fino al Basso Medioevo era a immersione completa, simboleggia una rinascita: «O non sapete che quanti siamo stati battezzati in Cristo Gesù, siamo stati battezzati nella sua morte? Per mezzo del battesimo siamo dunque stati sepolti insieme a lui nella morte, perché come Cristo fu resuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova Se infatti siamo stati completamente uniti a lui con una morte simile alla sua, lo saremo anche con la sua resurrezione» (Lettera ai Romani, 6,3-5). L’implicazione è, dunque, che anche il battesimo cristiano, come il bagno rituale ebraico, il miqve, sia il simbolo della rinascita che fa parte del contesto dei riti della pubertà arcaici.
(13) Per la Crocefissione come trasfigurazione dell’arcaico rito della pubertà inziatico, vedi Reik, in op.cit. pp. 164-173.
(14)  Per la natura particolare del popolo ebraico, dovuta al aver ripetuto in epoca storica il delitto primordiale sulla figura di Mosè vedi Freud,  «L’uomo Mosè», terzo saggio, op. cit. Vol. 11, pp. 410-1.
Per l’interpretazione di molti riti ebraici come tracce mnestiche di riti tribali vedi Reik,  Il rito religioso, cit, pp. 229-359. Dello stesso autore, Pagan Rites in Judaism, N.Y. 1964;  Mystery on the Mountain, New York 1959; Myth and Guilt, New York 1975; The Creation of the Woman; The Temptation, New York 1959, nella Trad. It.: Psicanalisi della Bibbia, Sugar editore, Milano 1963.
(15) La Bibbia italiana traduce la parola qaddosh, sacro, con santo, ma in ebraico non esistono due parole diverse sacro e santo, bensì una sola. Qaddosh significa sia sacro che sacrilego. Come in tutte le lingue antiche esisteva una solo parola per definire entrambe i concetti, in quanto sacro era quello che non si poteva avvicinare, in quanto troppo sacro o troppo sacrilego. Il sacrilego è una conseguenza del sacro e non un concetto antitetico. In ebraico qaddosh è sacro e qaddesh-qaddeshà, il prostituto-prostituta che commetteva atti obbrobriosi, che una volta, prima di diventare tali, erano considerati sacri. In arabo haram è sia sacro che proibito. In latino sacer e persino in francese sacrée
(16) Freud spiega il mito dei Titani che divorano Dioniso, un dio fanciullo=giovane, come condensazione dell’atto diretto contro dio-Padre e l’espiazione che avviene per mezzo della morte-sbranamento del dio-figlio («Totem e Tabù», op. cit., pp.156-7). Alla stessa maniera gli Ebrei sacrificano un agnello e non un montone, in quanto l’agnello è la condensazione del divoramento del corpo del dio-totem, montone, con l’espiazione nel sacrificio del dio-figlio, l’agnello.
(17) Molto illuminante la similitudine tra il sacrificio dell’agnello pasquale, che viene sovrapposto e poi sostituito dal pane azzimo e il corpo di Cristo (l’agnello), che viene sostituito dall’Ostia, il pane sacro, come simbolo del suo corpo. Il dio-totem delle antiche tribù ebraiche era il montone e nel sacrificio dell’agnello pasquale avviene una condensazione del dio- totem-Padre con quella del figlio stesso, l’agnello. L’agnello pasquale simboleggia, così, nella liturgia ebraica sia il simbolo del corpo del Padre ucciso, il misfatto, che l’espiazione nella morte simbolica del figlio, l’agnello.
(18)  T.Reik, «Il Kol Nidre», in op.cit., pp. 199-200. Per il Kippur come ripetizione dall’atto cannibalistico e la sua espiazione, vedi anche: K.Abraham, « “Il Giorno dell’Espiazione: osservazioni a «Il rito religioso: studi psicoanalitici” di Theodeor Reik», in op.cit., Vol. 2, pp. 710-721.
(19)  T. Reik, «A Home Away from Home», in Pagan Rites in Judaism, NewYork 1964, pp.3-26.
(20)   Reik, La Creazione della Donna, op.cit, p. 30.
(21)  Kramer, Samuel Noah, and Maier, John, Myths of Enki, the Crafty God, Oxford University Press, New York,1989, pp. 2-3
(22)   Morris Jastrow, "Adam and Eve in Babilonian Literature", in The American Journal of Semitic Languages and Literature, Vol. XV, n. 4.
(23) Per l’acqua, cfr. Supra, nota 66. Per il buio e la Notte, come simbolo del ventre materno, vedi K. Abraham, «Limitazione del piacere di guardare» in Opere, B. Boringhieri, Torino 1997, vol. 2, pp. 577-80.
(24) Batei Midrashot, parte seconda, midrash otiot Rabi Akiva nusah beit. La leggenda di Rabi Akiva parla di mille cubiti, che sono circa quattrocento metri, e non di un cubito come riporta erroneamente Reik, in op.cit., p.37
(25)  Rashi è il più importante di tutti i commentatori delle sacre scritture. Visse in Francia      nell’undicesimo secolo della nostra era.
(26)   Reik nel suo libro (La Creazione della donna, op.cit.) ha dimostrato come la nascita di Eva dalla costola di Adamo rappresenti un antico rito della pubertà, in cui l’estrazione della costola simboleggia un’evirazione simbolica al pari della circoncisione o l’estrazione di un dente, e l’apparizione di Eva sia il primo rapporto eterosessuale che si sussegue a catena. Noi accettiamo l’interpretazione di Reik e ci teniamo ad enfatizzare che non vi è contraddizione alcuna tra la nostra versione della Creazione del mondo in cui Jahvè da dio iniziatico si trasfigura in novizio e quella di Reik che vede nella creazione della donna una scena del rito in cui Jahvè fa da iniziatore. Queste due scene si assommano e non si escludono a vicenda, e sono un’ulteriore prova che tutte le saghe bibliche contengono tracce dei riti della pubertà arcaici che erano il contenuto esistenziale principale di tutta la vita delle tribù ebraiche, al punto che riescono ad infiltrarsi anche nella cosmogonia, diversamente da come accadde a tutti gli altri popoli.
Il popolo ebraico viveva sotto la perenne cappa della minaccia iniziatica e quindi sfruttò gli elementi comuni ai miti cosmologici sumeri e babilonesi per introdurvi la propria tensione peculiare di popolo che mantenne sempre la forma mentis tribale.
(27) “Psicologia delle Masse”, in op.cit., Vol 9, p. 324
(28) “L’Uomo Mose’”, terzo saggio, in op.cit, Vol. 11, p.406
(29)  Vd. S.Freud:  "Il caso dell’uomo dei topi" , in op.cit., vol. 6 p. 34.
(30)  Josephus riferisce che quando Tolomeo I Soter mise l’assedio su Gerusalemme pote’ conquistarla facilmente perche’ gli ebrei rifiutarono di difendersi il giorno del Sabato, e che Agatharchides di Cnidus, che scrisse gli atti dei successori di Alessandro, “Ci abbia schernito dicendo che abbiamo perso la nostra liberta’ per colpa di oscure superstizioni” (Antichità Giudaiche XII,1)
Ecco per esempio cosa dice Tacito del riposo sabbatico: “Si dice che abbiano eletto al riposo il settimo giorno, nel ricordo di quel settimo giorno che aveva visto la fine delle loro sofferenze. Poi, con l’abitudine alla pigrizia, consacrarono all’ozio anche un anno ogni sette.” ( Hist., V, 4)
(31) K. Abraham, “Una base constituzionale dell’angoscia locomotoria” in Opere, Bollati Boringhieri, Torino 1975 e 1997, vol. I, pp. 64 -5 . IL corsivo è di Abraham.
(32)Winton Solberg,: “Luther and Calvin on the Sabbath”, in Redeem the Time –The Puritan Sabbath in Early America, in <http://www.grace-for-today.com/347.htm “Luther criticized the Sabbatarian Carlstadt and certain Anabaptists for their Judiazing of Sunday: "that if Sunday were anywhere made holy merely for the day's sake or its observance set on a Jewish foundation, 'then I order you to walk on it, to ride on it, to dance on it, to feast on it, to do anything that shall remove this encroachment on Christian Liberty' " (p.17). Calvin "regarded the external observance of the Sabbath rest as a Jewish ceremonial ordinance and no longer binding on Christians." He said of Sabbatarians that they "surpass the Jews three times over in a crass and carnal Sabbatarian superstition" (p.19). For very practical reasons, Calvin wished to retain a stated rest day for rest and worship. "When Spirituals taunted Protestant as Judaizers for still keeping Sunday, Calvin replied that they celebrated it not scrupulously but 'as a remedy needed to keep order in the church.' " Solberg notes also that "in Calvin's Geneva, citizens were free to amuse themselves after Sunday worship, and they did so with military drill and bowling. Calvin himself bowled on Sunday and was buried on a Lord's Day afternoon" (p. 19).
(33) "witches' sabbath" Encyclopædia Britannica Online.
<http://members.eb.com/bol/topic?eu=79346&sctn=1&pm=1>
[Accessed March 9 2000].
(34) Vedi, in un quadro di Hans Baldung Grien del 1510, esposto al Museo Metropolitan of Art di New York,  “Witches Sabbath, 1510, woodcut. 113KB” un rito satanico in cui si vedono streghe nude di cui una vola in aria cavalcando un capro.
Vedi anche un quadro di Goya della fine del settecento, in cui si vede un "“ Black Sabbath”, con un gruppo di streghe sedute intorno a un enorme capro, simbolo del Diavolo, a cui sacrificano bambini.
(35) Goethe, Faust, prima scena nello studio, riportato da Freud in "Totem e tabù", ibidem, p.164.


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