Nella
fantasia occidentale il numero tre si staglia come l’espressione della
sintesi del tutto: l’inizio, la fine, e quello che è
compreso entro questi parametri.
Spinoza, il primo laico della storia moderna,
disse che se il triangolo potesse parlare, direbbe che Dio è per
eccellenza triangolare: “deum eminenter triangularem esse.”
Freud ci ha mostrato che il numero tre è
il simbolo del genitale maschile (Sigmund Freud, «Simbolismo nel
sogno», in Opere, B. Boringhieri, Torino 1989, Vol.8,
p.326).
Quello che diventerà un simbolo cosmico
era cominciato molto terra-terra: il centro del corpo umano
diventerà il centro dell’universo.
Attraverso l’analisi, non ha fatto altro che
confermarci quello che i filosofi dalla Grecia antica e fino a
Benedetto de Espinoza, il marrano, ci avevano sempre detto, ognuno con
le sue parole.
Con questo numero Freud apre la lunga lista dei
simboli che rappresentano il genitale maschile, come per indicarci che
questo sia il più caratteristico e il più importante.
Più avanti ci dice:
Se questo numero debba eventualmente a questa relazione simbolica il suo carattere sacro, è una questione ancora aperta. Sembra però accertato che parecchie cose tripartite che compaiono in natura, per esempio il trifoglio, derivano da questo significato simbolico il loro impiego in stemmi ed emblemi. Anche il cosiddetto giglio francese tripartito e il singolare stemma di due isole così lontane tra loro come la Sicilia e l’isola di Mann, il triscele (tre gambe semipiegate che si dipartono da un comune centro), sembrano essere solo stilizzazioni del genitale maschile. Nell’antichità le effigi del membro maschile erano ritenute i più potenti mezzi apotropaici, cioè di difesa contro gli influssi malefici, e con ciò si connette il fatto che gli amuleti portafortuna del nostro tempo sono nell’insieme facilmente riconoscibili come simboli genitali o sessuali (op.cit., p.335).
La mitologia greca ci presenta tre
categorie di rappresentazioni principali in cui appare questo numero:
1) I mostri fallici. 2) La triade di dee olimpiche vergini 3) La
triplice rappresentazione di Zeus, come Zeus Hyspsistos, Zeus Chthonios
e come dio senza un appellativo (Poseidone), in un unica consustazione
con Dioniso, il dio bambino.
I
mostri fallici Nei racconti sull’origine del mondo il
numero tre è dominante.
(Riportiamo le rappresentazioni della mitologia
greca come sono state riassunte da K. Kerenyi, Die Mythologie der
Griechen, Zurigo 1951. Tr. it. Gli Dei della Grecia, Il
Saggiatore, Milano 1962, pp. 38-9 e 48-60)
Tre grandi dee infatti sostengono la parte di
madre universale: la dea marina Teti, la dea Notte e la Madre Terra.
Il concetto base è dunque che la vita
stessa abbia origine dal genitale, di cui il tre è il simbolo.
Il pene, maschile per definizione, era dunque all'inizio generatore e
femminile.
Nyx stessa, la Notte, era una dea triforme (per
la notte e il buio come simbolo del ventre materno vedi: Karl Abraham, Opere,
B.Boringhieri, Torino 1997, Vol. II, p.595 sgg.), e tra i figli della
Notte erano anche le dee del Fato: le Moire.
Queste sono la rappresentazione più
importante tra le numerose triadi di mostri femminili che popolano il
mondo preolimpico della mitologia greca, rappresentazioni
arcaiche di madri, mostri e destino irrevocabile.
Quello che accomuna queste figure è che
sono sempre tre e sempre vergini.
Le Moire, probabilmente le figure
mitologiche più arcaiche, di cui persino gli dei avevano timore,
al disopra degli dei stessi e simbolo delle forze malefiche della
natura a cui nessuno si può sottrarre. Il loro simbolo fallico
era il fuso poiché esse filavano il filo della vita umana.
Neppure Zeus, il padre degli dei, può cambiare la loro decisione.
Le Graie, dee vecchie, come le
Moire, apparivano anche come vespe o api. Si diceva che fossero vecchie
fanciulle. Si raccontava che avessero un solo occhio e un solo dente in
comune, e quindi se lo passassero a vicenda. L’Eroe Perseo
riuscì a sottrarglielo mentre se lo stavano passando, e
poté così costringerle a rivelargli il modo di vincere la
Medusa. Dove esse dimoravano non si vedeva né il sole, né
la luna.
Il dente e l’occhio sono simboli fallici e la
loro asportazione simboleggia una castrazione (S.Freud, op.cit.,
Vol. 8, p.328). Anche il fatto che abitassero nelle tenebre allude allo
strato arcaico di queste fantasie, poiché il buio simboleggia il
ventre materno (Abraham, ibidem).
Le Erinni o Eumenidi. Furono concepite
dalle gocce di sangue dell’evirazione di Urano. Anche queste erano
vecchie e più antiche dello stesso Zeus. Al posto dei capelli
bianchi avevano dei serpenti. Perseguitarono Oreste per il suo
matricidio ed erano una delle rappresentazione della Madre arcaica.
Perseguitavano i mortali che si erano macchiati di qualche peccato.
Le Arpie alate. Mostri repellenti. Il
loro alito e la loro traspirazione erano insopportabili. Abbaiavano e
apparivano anche nelle sembianze di cani. Portavano fiaccole, fruste
guarnite di ferro e serpenti. Rapivano i fanciulli.
Le Gorgoni. Avevano ali d’oro e
mani di bronzo, zampe potenti come quelle dei cinghiali e serpenti
intorno alla testa e attorcigliati alla vita a guisa di cintura.
In tutte queste triadi vi sono gli stessi
elementi che ritornano: la verginità, il numero tre e la
ripetizione ossessiva dei simboli fallici attraverso i quali sono
rappresentate.
Tutte tre, donne, orribili, vergini e immortali.
L’unica che perse la sua verginità, la
Medusa, una delle Gorgoni, poiché fu deflorata da Poseidone,
perse anche l’immortalità e fu uccisa da Perseo.
Quindi la verginità era la conditio
sine qua non per l’immortalità.
Le triadi di vecchie del mondo
preolimpico tenebroso e nebuloso, con poteri sovrannaturali e che
incutono terrore, hanno la loro continuazione nelle streghe partorite
dalla fantasia dei popoli nordici che sono arrivate a noi attraverso le
fiabe e le saghe medioevali, tra cui le streghe di Macbeth e le inviate
della Regina della Notte, nella storia del Flauto Magico. In questi due
ultimi casi non ci viene raccontato esplicitamente della loro
verginità ma questa è implicata per associazione con i
mostri preolimpici, partoriti dalla fantasia greca.
Come ci ha insegnato Freud il tre è il
simbolo del genitale maschile, ma ci ha insegnato anche che anche la
donna viene fantasticata dal bambino con un pene come quello
maschile (Freud, «Teorie sessuali dei bambini», in op.cit.,
vol.5, pp.456-8), quindi possiamo ora cercare di decodificare il
significato di queste triadi falliche, vergini e immortali: tre =
genitale femminile uguale a quello maschile.
Verginità corrisponde dunque a
inviolabilità del membro femminile - maschile.
La deflorazione viene dunque percepita come
un’evirazione di quello che è un membro simile a quello maschile
(Freud, «Il tabù della verginità », in op.cit.,
vol. 6, pp.435-6).
Se la perdita della verginità corrisponde
alla perdita dell’immortalità, come avvenne per la Medusa, ecco
che abbiamo davanti la formula completa: tre = genitale maschile e
femminile = completezza = immortalità, e di riflesso la sua
formula equivalente: evirazione = mutilazione della completezza del
numero tre = perdita dell’immortalità.
L’immortalità e la completezza
corrispondono quindi all’inviolabilità del simbolo genitale
completo.
La triade di dee olimpiche vergini
Con lo sviluppo della società
greca e lo sbocciare delle divinità olimpiche in una multiforme
rappresentazione scenica, la fantasia occidentale crea una nuova
rappresentazione: una triade di dee sempre vergini, ma non più
mostri terrificanti, bensì vergini attraenti: Atena, Artemide e
Persefone.
Le prime due portano armi, come simbolo
genitale apotropaico, la lancia la prima e l’arco e le frecce la
seconda. Persefone, essendo vergine, probabilmente aveva anche lei
un’arma in mano.
Come Medusa, con la propria deflorazione, era
diventata mortale, anche Persefone perde simbolicamente
l’immortalità poiché esce dalla triade delle dee vergini
e diventa regina dell’Ade, ovvero del regno dei morti.
Al suo posto entra Estia, figlia di Rea
e Crono, genitori che alludono all’arcaicità della dea, sorella
dei Titani.
Probabilmente Estia faceva, dunque, parte di qualche triade preolimpica
arcaica, come le Erinni, sue «zie», ma fu adottata
dall’Olimpo, più tardo, forse per riempire il vuoto creato dalla
deflorazione e dipartita di Persefone. Entrò in questa triade
priva dell’elemento apotropaico che le sarebbe spettato, essendo
vergine. Se faceva parte di una trade di mostri sacri preolimpici,
associandosi a due vergini giovani e desiderabili, dovette cambiare
sembianza e lasciare i serpenti apotropaici terrificanti nel posto dal
quale veniva. Il suo serpente di mostro fallico, che si può
ancora intravvedere nell'illustrazione mentre esce sotto la lunga
veste, fu apparentemente raccolto da Persefone durante la sua discesa
agli Inferi, dove appare seduta su un trono incastonato
da un serpente alato.
Sembra che i rettili dei mostri fallici, quando si accompagnano a dee
olimpiche, perdano parte del loro aspetto terrificante, si
addolciscano, e la loro caratteristica apotropaica è implicata
dal carattere verginale della dea a cui si accompagnano, più che
dalla loro mostruosità, come possiamo vedere nella splendida e
maestosa Atena di Fidia.
Eppure, anche Estia qualcosa in mano
tiene: il bastone è un'allusione all'arma che le sarebbe
spettata, come ad Atena e Artemide. Vediamo come la rappresentazione
tradisca sempre gli elementi che facevano parte della storia originale.
Estia
Persefone verrà
d’ora in poi associata ai cicli della natura e della fertilità
della terra. Figlia di Demetra, la dea delle messi e del pane,
salirà dagli inferi alla terra e vice-versa insieme al
susseguirsi delle stagioni.
Estia ispirerà invece le Vestali, le
sacerdotesse sacre, custodi della verginità e del focolare
domestico.
Privata dei propri simboli fallici apotropaici
terrificanti, ma senza un’arma che li sostituiscano, Estia, come parte
della triade verginale, sembra un po' fuori posto, le manca
qualcosa, questo qualcosa era andato perso per strada nel passaggio.
Una lunga veste che la copre fino alle caviglie è l’unica cosa
che allude alla sua intoccabilità.
Vediamo, dunque, che anche nella triade olimpica
delle dee vergini, il numero tre significa verginità,
inviolabilità del genitale.
Il motivo di una triade di donne attraenti
appare anche nella scelta che fa Paride tra tre dee. Il mito
è il risultato di una condensazione e sovrapposizione in quanto
delle tre dee, Atena, Afrodite e Hera, solo la prima era la dea
vergine. Secondo noi la versione originale del mito era quella di una
triade di dee vergini, tra le quali l’Eroe doveva sceglierne una da
deflorare, alla pari di Poseidone che sceglie la Medusa tra le tre
Gorgoni, Ades, che sceglie Persefone nella triade olimpica verginale e
Mercurio che sceglie Erse, una tra le tre figlie vergini di Cecrope
(Ovidio, Metamorfosi II,710-750).
La nostra supposizione si basa sul numero stesso
delle dee tra le quali l’eroe troiano deve scegliere. Se erano tre,
questo numero implicava la completezza del loro genitale e, quindi, la
loro verginità.
A questa versione se ne sovrappone un’altra
più recente, in cui forse si può leggere anche un tipo di
simbolismo allegorico, in cui l’Eroe deve scegliere tra la dea della
verginità (Atena), quella del matrimonio (Hera) o quella
dell’amore (Afrodite). Ma noi preferiamo supporre che il motivo per il
quale la connotazione verginale di questa triade sia stato sterilizzato
nella sovrapposizione posteriore è che la scelta doveva cadere
necessariamente sulla dea che rappresentava il contrario della
verginità. L’intenzione del mito, infatti, è di alludere
come il simbolo dell’Amore, dell’Erotismo e della deflorazione,
rappresentato da Afrodite, porterà la morte e la distruzione
totale ai Troiani.
Questo è anche il motivo per cui viene
scelto un Eroe troiano, che deve compiere la scelta. Sarà
obbligato a scegliere il simbolo della deflorazione e questa sua scelta
porterà lui e il suo popolo alla morte e alla distruzione.
Quindi, la triade tra cui doveva scegliere non poteva, ovviamente,
essere formata da tre dee vergini.
Una conferma al fatto che la versione più
arcaica corrispondesse a quella di Poseidone che sceglie la Medusa, e a
quella di Ades che sceglie Persefone, in una triade di vergini,
è che sia Medusa che Persefone dopo la loro deflorazione
muoiono, la prima di una morte reale e la seconda di una morte
simbolica. Nel caso di Afrodite, che viene scelta come oggetto d’amore
dall’eroe, era l’unica tra le tre dee che era associata all’Averno,
benché da lungo tempo avesse ceduto il suo ruolo ctonico ad
altre figure divine, quali Persefone e Artemide-Ecate triforme (Freud,
«La scelta degli scrigni», in op.cit., vol.7,
p.215).
Afrodite dall’Averno veniva e là
trascinerà coloro che la scelgono.
Ecate si chiamava in cielo Luna, in terra
Artemide (Diana), nell’infero Persefone (Proserpina) -(tergemina
Hecate)- ed era rappresentata come una statua trimorfa, con i tre visi
rivolti nelle tre direzioni, oppure con tre maschere di legno attaccate
a un palo (Kerenyi, op.cit.
p.41).
Se Artemide- Ecate triforme aveva avuto un
aspetto ctonico e si trasfigura poi in dea olimpica vergine e
immortale, vuol dire che anche in questa direzione c’è un
legame associativo con la Morte, di cui però viene fatta
un’inversione, un undoing, attraverso la sua trasfigurazione in
verginità. Artemide, di tutte le dee vergini, è quella
che custodisce più ferocemente la propria verginità, e
chi tenta di avvicinarsi a lei viene ucciso crudelmente, come Atteone
che fu dilaniato dai suoi cinquanta cani (K.Kerenyi,ibidem, p.126).
Anche Tiresia che aveva tentato anche solo di vederne i genitali,
mentre la dea era al bagno, viene punito con la cecità (Ibidem,
p.78.), sinonimo di castrazione (vedi K.Abraham, supra). Diremmo che il
motivo è che Artemide che aveva guadagnato l’immortalità,
la vita, non voleva perdere la verginità e tornare all’Averno,
come successe a Persefone.
Queste due dee, in uno stadio arcaico, si
erano scambiate: una era salita dall’Averno e aveva guadagnato la
verginità, che per mezzo del suo arco e le sue frecce era
diventata uno strumento apotropaico, e l’altra aveva perso la
verginità e vi era scesa, diventando la dea degli Inferi.
Nel caso di Afrodite, che viene scelta da
Paride, la scena che ci viene rappresentata è già una
sovrapposizione, in cui avviene anche un’inversione. Se Paride nella
versione originale doveva scegliere tra tre dee vergini, nella
sovrapposizione che ci presenta il mito sceglie colei che simboleggia
il contrario assoluto della verginità: la dea dell’Amore e
dell’Erotismo.
Hecate
[Metropolitan Museum of Art, New York City] White
marble colored Gypsumstone
Come ci ha mostrato Freud (ibidem, pp.
213-5) , la scena in cui Paride sceglie la terza dea, che è la
più bella, corrisponde alla scelta della Morte, che non viene al
posto dell’Amore, bensì si condensa ad esso.
Questo strato si ricollega a quello precedente
poiché Afrodite, diventando la dea dell’Amore, perdé
così qualsiasi connotazione e aspirazione alla verginità,
e diventa la dea deflorata per antonomasia.
Freud è arrivato, prendendo un’altra
strada, allo stesso punto di arrivo: Amore = deflorazione = violazione
del genitale = Morte.
Se Artemide era salita dall’Averno per
fare un undoing della Morte, attraverso la
verginità-ripristinazione del genitale, e diventa la più
solida colonna della triade verginale, Afrodite non aspira, in nessun
modo, a diventare parte di questa triade. Dall’Averno porta con
sé la connotazione deflorazione = profanazione del genitale =
Morte, e diventa, come ci ha mostrato Freud, la dea della Morte, e come
tale viene scelta da Paride.
Come riporta Kerenyi (Kerenyi, ibidem, p.71),
Afrodite non aveva nessun potere su tre dee: Atena, Artemide ed Estia.
La triade verginale olimpica doveva la sua potenza alla sua
verginità. La dea deflorata, Afrodite, privata della completezza
del suo genitale, nulla poteva contro il tre, l’organo genitale
completo, della triade verginale.
Le leggende e le fiabe ci raccontano di
numerose triadi di ragazze, e l’implicazione è sempre che queste
siano vergini, di cui una, la minore, è anche la migliore e
diviene la prescelta, da Cenerentola
alla Cordelia di Shakespeare.
Freud ci ha mostrato che la prescelta
simboleggia sempre la Morte («La
scelta degli scrigni», in op.cit., vol.7, pp. 208-218).
Quello che mancava a Freud, per completare la
sua analisi, era un ulteriore passaggio: la terza viene scelta come
anello debole della completezza della triade, del genitale
rappresentato dal suo numero. Viene scelta come simbolo di oggetto di
deflorazione, e quindi è anche la più giovane, la
più bella e la più desiderabile. Ella è il punto
di rottura. Viene scelta, deflorata e quindi si trasfigura in
rappresentazione della Morte stessa. Era il momento della scelta come
simbolo della deflorazione, che mancava a Freud.
La scelta di una su tre donne, come
momento della rottura del genitale, è ancora più
esplicita nella commedia di Shakespeare: “la Bisbetica Domata”. Tre
sono le donne di cui solo la terza viene “domata”, ovvero “deflorata”
dal marito. E, come abbiamo visto sopra, nella fantasia inconscia
deflorazione equivale ad evirazione.
Quindi, tutte le leggende e le fiabe che ci
raccontano della scelta di una donna su tre, da Poseidone che sceglie
la Medusa tra le tre Gorgoni, Ade che sceglie Persefone nella triade
olimpica, Paride-Afrodite, Lear-Cordelia ( è avvenuta qui
un’inversione, poiché Lear non sceglie Cordelia, come
avrebbe dovuto), il Principe-Cenerentola ecc. ci raccontano di un atto
di deflorazione, di rottura della completezza del genitale (in questo
caso femminile ma che, nella fantasia infantile, è pari a quello
maschile, se non ingigantito ancora di più dalla sua
misteriosità) e, quindi, di Morte.
Così sembra che il ciclo sia completato e
il circolo chiuso.
Ma c’è ancora una cosa che Freud
non ci dice sulla preferenza della terza donna come scelta della Morte.
Freud spiega questa scelta come
la sostituzione dell’oggetto del desiderio con il suo opposto…si tratta qui di un desiderio che si esprime mediante un’inversione. La libertà della scelta sta al posto della necessità, dell’inesorabilità del destino. In tal modo l’uomo vince la morte che ha dovuto riconoscere con l’intelletto. Non si può immaginare trionfo dell’appagamento di desiderio. Là dove nella realtà si è costretti a ubbidire per forza qui si sceglie (op.cit. p.216).A noi sembra che abbia introdotto qui una razionalizzazione.
Dobbiamo confessare che ci è molto più difficile cogliere quest’ultima [la pulsione di Morte], in un certo senso la indoviniamo soltanto nello sfondo, dietro l’Eros, e addirittura ci sfugge se non si svela frammischiandosi ad esso (“Il disagio della civiltà”, in op.cit., vol.10, p.508).Scegliendo la terza donna, l’uomo soddisfa anche la pulsione di morte, arruolando l’Eros in un unico impasto pulsionale.
Zeus e la Trinità
(Il paragrafo su Zeus si basa su K.Kerenyi, op.cit.
pp.192-3)
I miti orfici ci raccontano
della
venerazione di una triade, di un culto di Zeus come dio del cielo
(Hypsistos), come dio degli Inferi (Chthonios) e come dio senza
appellativo. Questa parte vacante fu poi riempita da Poseidone, dio del
mare, il cui simbolo fallico è il tridente. Questi tre aspetti
dello Zeus dei miti orfici si svolsero e ricevettero la loro epifania
nei tre dei olimpici: Zeus, dio del cielo, di cui Ovidio dice: «cui
dextra trisulcis ignibus armata est» (Metam. II,845),
Poseidone, dio del mare, con in mano il tridente, equivalente dei
fulmini a tre punte di Zeus, e Ades, dio degli Inferi.
Inoltre Dioniso appare come bambino e come
secondo
Zeus, con le parole di Kerenyi:
In altre storie egli (Dioniso) figurava come figlio di Persefone e veniva indicato con l’epiteto di Chtonio come Zeus...Il padre del bambino viene anche chiamato Ades...Il nome stesso Ades esprimeva solo qualcosa di negativo e indicava uno solo degli aspetti di un grande dio. Ma si sa che allo sposo di Persefone spettava anche il nome di Zeus Katachtonios, «Zeus sotterraneo». Quale Katachthonio, Zeus era il padre del Dioniso sotterraneo. Nella stessa qualità egli si chiamava anche Zagreo, «il grande cacciatore», e così si chiamava anche suo figlio. Tale identità è già stata menzionata a proposito di Zeus... Nella maggior parte dei racconti Dioniso ha la parte del tenero fanciullo...Si riconoscono i due volti che anche Zeus mostrava: il volto del padre e dello sposo da un lato, quello del figlio e del bambino dall’altro. Non solo Zeus e Dioniso avevano questo doppio volto nella nostra mitologia, ma nessun altro dio sembrava quanto Dioniso un secondo Zeus (K.Kerenyi, Gli Dei della Grecia, Il Saggiatore, Milano 1962, pp.207-8).Vediamo qui, in maniera molto chiara, come Zeus appaia nei miti orfici come la sintesi di una triplice divinità di cui anche il bambino, Dioniso, faceva parte, come bambino e come re del mondo, in alternazione con Zeus-Dio Padre. Zeus, come dio dei cieli, nel cristianesimo si trasfigurerà nella figura del Padre, in un’unica consustanzialità con Dioniso, dio-figlio.
I Titani arrivarono come morti dagli Inferi, dove Zeus li aveva relegati, colsero di sorpresa il bambino che giocava, lo lacerarono, lo tagliarono in sette pezzi e li gettarono in una caldaia che stava in un tripode. Quando la carne fu cotta, essi incominciarono ad arrostirla su sette piedi. Secondo una delle versioni le membra cotte del dio furono sepolte e da esse nacque la vite. Anche i seguaci di Orfeo dicevano che l’ultimo dono di Dioniso sarebbe stato il vino e chiamavano lui stesso Eno, “vino” (ibidem).La liturgia cristiana si ricollega direttamente ai miti orfici, dopo che erano stati superati da molti secoli e semi-rimossi, in una regressione esistenziale che riportò l’Occidente, per quello che riguarda il nucleo essenziale del rito, al pasto totemico di un Dioniso sempre divorato e sempre risorto. La Pasqua è la celebrazione della rinnovata unione dei tre elementi della Santa Trinità in uno solo, e questo è possibile solo attraverso la Passione, ovvero l’espiazione dei peccati dell’umanità, che il Redentore è venuto a riscattare, poiché dopo la sua morte il Cristo va a raggiungere Dio-Padre e siede alla sua destra.
Dal tre di Dioniso alla filosofia aristotelica
Il tre, che in Occidente è
simbolo di completezza, divenne il punto di riferimento dell’astrazione
in tutte le sue forme, dal sentimento religioso in tutta la
poliedricità delle sue manifestazioni, alle speculazioni
metafisiche.
La filosofia, che nacque in Occidente come
strumento di razionalizzazione per dare alla società una nuova
visione del mondo, al posto di quella superata della struttura tribale
e della fedeltà al clan, approdò alla fine a questo
simbolo come chiave di sistemazione dell’ordine cosmico.
Aristotele è stato considerato il
fondatore della logica occidentale, o per lo meno, il primo studioso
che ne elaborò una versione sistematica. La logica aristotelica è però cosa
ben diversa dalla logica, intesa come disciplina scientifica, come
è stata sviluppata dai pensatori matematici.
I matematici infatti vedono nella logica una
teoria matematica dell’inferenza logica, che studia cioè le
regole del ragionamento scientifico, da un livello molto generale, ma
pur sempre legato alla sostanza del discorso matematico e scientifico.
Per Aristotele la logica era una parte, non
secondaria, della propria filosofia.
Precisamente, egli considerava la logica come
uno strumento, di carattere universale, per determinare le regole che
permettono di capire e studiare la realtà. Come scrive F. Adorno:
Aristotele, più che una descrittiva della realtà, si propone metodologicamente di determinare le condizioni che permettono di dire la realtà…cioè i modi che permettono corretti discorsi o relativamente all’essere in quanto tale (filosofia prima o teologia), o all’essere nel suo esistere (filosofia seconda o fisica), o alla possibilità di discorrere della realtà traducendola in astratte numerazioni (matematica);…Di qui, è noto, l’importanza data da Aristotele allo studio dei “luoghi (topoi) argomentativi”, mediante cui determinare le forme dei vari tipi di discorsi corretti, ossia i vari tipi di “discorsi” validi scientificamente, rintracciando per ogni oggetto d’indagine (per ogni scienza) e le condizioni prime e le condizioni proprie a ciascun contenuto di ricerca (a ciascuna scienza); sotto questo aspetto è chiaro perché per Aristotele la logica non è una scienza, ma uno strumento (organo) di controllo dei vari e diversi tipi di “discorso” (“Temi platonici e aristotelici ripresi e discussi. L’Accademia e il Peripato”, in: Storia e civiltà dei greci, a cura di R. Bianchi Bandinelli vol. 9: La cultura ellenistica, p. 23, Bompiani, Milano, 1996) .Dunque un discorso sulla forma: i discorsi di cui essa parla non sono altro che applicazioni di quel Logos che caratterizza come un marchio di fabbrica il pensiero occidentale; la logica aristotelica è quindi un discorso sul logos, sulla possibilità per il pensiero di produrre discorsi e razionalizzazioni, e quindi, di abbracciare con la ragione tutta quanta la realtà.
Tre giorni e tre volte
Tre come lasso di tempo breve appare
numerose volte nel Vangelo: “Come infatti Giona rimase tre giorni e tre
notti nel ventre del pesce, così il Figlio dell’uomo
resterà
tre giorni e tre notti nel cuore della terra ” (Matteo 12,40).
Per tre giorni la folla va dietro a Gesù (Matt. 15,32) e si parla di
ricostruire il tempio in tre giorni (Matt.26,61).
Gesù resusciterà dopo tre giorni (Matt.20,19) e “Da mezzogiorno alle
tre si fece buio in tutta la terra” (Matt.27,45-6).
Come vedremo in seguito, mentre il tre come
simbolo di perfezione e di equilibrio cosmico è peculiare della
cultura occidentale, come lasso di tempo breve appare anche nella
Bibbia ebraica e nel contesto mediorientale.
Anche come numero di volte lo troviamo
già in Egitto e nell’oriente semitico.
Come simbolo del “più di uno” appare in
Egitto dove il geroglifico di questo numero era il simbolo della
pluralità, in contrasto alla specificità del numero uno.
Come tale lo troviamo nei tre angeli che vanno a
trovare Abramo (Gn.18,2), ma
che diventano subito due (Gn.19,2),
quindi anche qui come più di uno e non come simbolo di
completezza.
«Tre volte l’anno farai festa in mio
onore…» (Ex.23,14),
ovvero non ti accontenterai di una volta sola, ma tre volte.
La ripetizione nel “tre volte”, sta per
affermazione.
Negli altri casi si tratta sempre di un lasso di
tempo di tre giorni.
Il sogno del coppiere del faraone: i tre tralci
di vite (Gn.40,10), e i tre
canestri di pane bianco del sogno del panettiere del faraone,
interpretati da Giuseppe come tre giorni. (Gn. 40,18),
Mosè dice al faraone: «...Ci sia
dunque concesso di partire per un viaggio di tre giorni nel deserto e
celebrare un sacrificio al Signore...(Ex.5,3).
« Al terzo mese dall’uscita degli
Israeliti dal paese di Egitto, proprio in quel giorno, essi arrivarono
al deserto del Sinai.» (Ex,19-1).
«Si tengano pronti per il terzo
giorno...Siate pronti in questi tre giorni: non unitevi a una
donna» (Ex.19,10; 19,14).
Giona sta nel ventre della balena per tre giorni
e tre notti (2,1)
Cerbero aveva tre teste (tergeminus
Cerbero).
E, moltiplicazione del tre, in un ciclo che
comprende quattro volte tre, le dodici fatiche di Ercole.
Per i Romani, e come abbiamo visto anche nel
cristianesimo, il numero tre assunse una consistenza ripetitiva, ancor
maggiore che per i Greci, e lo adottarono come punto di riferimento
anche per tutte le loro istituzioni, religiose e politiche.
I due grandi sacerdoti di Marte (Flamen
Martialis e Flamen Quirinalis) si unirono a quello di Giove
(Flamen Dialis) e formarono la sacra trinità pontificale,
il nucleo di tutte le istituzioni sacre romane, ed erano denominati Flamines Maiores.
Il Triatrus
era la festa del terzo giorno
dopo le Idi.
I Romani, specialmente in affari politici e
giuridici, invece delle parole spartire e parte, dicevano regolarmente
dividere in tre (tribuere) e terzo (tribus).
La parola stessa tribù viene dal latino
tribus, una delle tre stirpi originarie (Ramnes, Tities, Luceres) dei
liberi cittadini romani. E fino ai tempi di Servio Tullio, quelli che
poi si chiamarono quartieri, erano tribus urbanae, a testimonianza
della primaria fusione di tre distretti, come nucleo della città
di Roma .
Le tre più alte cariche erano dette Tergemini Honores ed erano edilità,
pretura e consolato .
Il triens è la terza parte
d’un asse o di un tutto diviso in dodici parti. Nel tardo impero
è una moneta d’oro= 1,3 dell’aureus. È la terza parte di
un’eredità e anche un mezzo di misura.
Poi vi erano i tri-buni, i tri- bunali, i
tri-buti e da qui la parola attribuire.
La legione romana originaria era costituita da
una falange di tremila uomini, suddivise in sei file. E i triarii erano
i più anziani e provetti soldati delle legioni.
Poi abbiamo le triremi, il tribulus, una specie
di mina anticavalleria che posava su tre raggi acuminati, e il trifax,
un lungo proiettile.
Pare proprio che le parole e i concetti,
derivati dalla radice del numero tre, formino il gruppo più
numeroso in latino e nelle sue lingue derivate.
Questo numero appare anche nella sua
moltiplicazione. Nella leggenda infatti Remo vede sei uccelli e Romolo
ne vede dodici. Dodici i re di Alba da Enea fino a Romolo.
Dodici giovani saltatori (Salii) a Marzo
eseguivano la danza delle armi in onore di Marte e cantavano .
Una delle confraternite a cui era affidato di
invocare la dea creatrice a favore delle sementi, nel mese di Maggio,
era quella dei dodici fratelli oratori (Fratres Arvales) .
Ma il culto che era considerato più sacro
dai Romani e fu quello che di fronte all’avanzare del cristianesimo
scomparve per ultimo, era quello delle vestali: sei caste vergini, come
figlie della famiglia comune del popolo romano, provvedevano al
servizio di Vesta, e dovevano conservare sempre acceso il fuoco del
comune focolare, ad esempio e monito dei cittadini .
Sei vergini. Tre per due. Sacerdotesse di Vesta,
l’Estia della triade verginale olimpica.
I Romani tradussero il concetto della
completezza del genitale e della verginità in completezza e
inviolabilità della famiglia monogama e dello Stato, che
diventò il punto di riferimento e il simbolo della cosa sacra.
Lo Stato stesso era la loro Santa
Trinità, rappresentazione di sovranità e di completezza,
e oggetto sacro al disopra dell’imperfezione umana.
Tutti gli interessi privati andavano sacrificati
sul suo altare.
E infine, per ultima e in un contesto
cronologico differente, ma forse non ultima per importanza, la
scala cromatica, che è composta da dodici note.
Non sappiamo per ora come collocare questa
associazione, ma forse qualche esperto di storia della musica
potrà venirci in aiuto. Certamente non è un caso.
Tre e sovranità
Come abbiamo visto nei
paragrafi precedenti, il numero tre corrisponde alla completezza e al
tutto. È un numero sacro in quanto completo. Fare un undoing
di questa completezza, l’evirazione, diventa un atto sacrilego.
Per gli antichi il
sacer
era tale in quanto inavvicinabile.
La formula diventa: evirazione =
profanazione = sacrilegio.
Ed ecco che ora ci è chiaro il motivo per
cui questo simbolo, il tre, appaia negli stemmi araldici e nelle
bandiere: poiché esso è il simbolo della sovranità
e dell’inviolabilità. Per questo funge anche da strumento
apotropaico e da ammonimento: «Guardate il nostro simbolo fallico
è completo, inviolato e quindi intoccabile = sacro».
Quando il giglio francese fu sostituito
dal tricolore, sostituirono un simbolo fallico con un altro, ma non
esattamente equivalente.
Il tre del tricolore ha, infatti, anche un
significato in più, poiché, salendo di un gradino nella
scala dell’astrazione, lo si è reso più generale.
Alla stilizzazione del genitale veniva
attribuito anche un significato di minaccia di un padre sovrano e
tiranno, che ostenta davanti all’orda terrorizzata dei figli il proprio
simbolo fallico per esorcizzarli in un’obbedienza cieca.
E infatti il simbolo stilizzato del genitale,
come il giglio francese, o la rappresentazione simbolica di questo
nella figura di uccello, come l’aquila imperiale absburgica o russa,
è un simbolo apotropaico non solo verso il nemico, ma
bensì verso il popolo stesso.
Questi erano infatti i simboli fallici dei
sovrani assoluti, padri dei loro popoli.
Quando i fratelli coalizzati si ribellarono,
proclamando libertà, fraternità, uguaglianza,
detronizzarono i propri sovrani, evirarono dalle proprie bandiere i
loro simboli fallici, e li sostituirono con i loro: un tricolore, in
cui il numero tre assunse il significato generale, oltre che di
sovranità, anche di libertà, d’indipendenza e di
uguaglianza tra tutti i fratelli, coalizzati contro la tirannia del
Padre.
Non è quindi strano che numerosi paesi
occidentali abbiano il tricolore come proprio simbolo fallico
nazionale, e questo è anche il simbolo della libertà e
dell’uguaglianza.
La sovranità, rappresentata dal
tricolore, non è infatti intesa solo come sovranità in
rapporto alle altre nazioni ma, prima di tutto, come sovranità
del popolo vis à vis i
propri sovrani detronizzati.
Le monarchie costituzionali si astennero,
infatti, dall’esporre stilizzazioni del genitale o simboli fallici
sulle proprie bandiere, e questi rimasero l’emblema delle monarchie
assolute.
Gli Inglesi hanno sempre preferito esporre dei
colori in simbiosi con le triplici strisce, come simbolo nazionale,
sintesi di una collaborazione tra le varie classi.
I Savoia, che furono i primi sovrani
costituzionali dell’Europa continentale, adottarono il tricolore e vi
aggiunsero sopra il proprio emblema, simbolo di un regime di
collaborazione tra Padre e Figli.
I movimenti di liberazione nazionale e
l’istituzione di repubbliche, al posto dei vecchi imperi, di questi
ultimi centocinquant’anni, vanno interpretati non solo in senso
ristretto, ma anche come espressione di un movimento generale di
rivolta contro l’autorità del Padre, che risucchia le sue
energie e ha le sue radici nella ribellione dell’orda primordiale
contro il padre primigenio: uno sviluppo storico che ha il suo
precedente nella lontana preistoria dell’umanità.