I Numeri sacri e il loro simbolismo (Seconda Parte). Il sette.
I Numeri sacri e il loro simbolismo (Prima Parte)
Nel libro di Giobbe, sette erano i suoi figli
maschi, che vengono uccisi per soddisfare l’ego del Signore
(Giobbe,1,1-18) e Giobbe aveva
settemila pecore, che vengono
sacrificate sullo stesso altare: mille per ogni figlio: «Un fuoco
divino è caduto dal cielo: si è attaccato alle pecore e
ai guardiani e li ha divorati» (Giobbe
1, 16). In ogni
sacrificio la vittima viene messa sull’altare e l’implicazione
è che il dio la venga a prendere.
Gli amici che vanno a trovare Giobbe
«sedettero accanto a lui in terra, per sette giorni e sette
notti, e nessuno gli rivolse la parola, perché vedevano che
molto grande era il suo dolore» (Giobbe
2,13).
Ancora oggi, quando avviene una morte in
famiglia, gli Ebrei per sette giorni stanno in casa, e tutti i
conoscenti vanno a trovarli in segno di consolazione. Sette
giorni sette notti sono necessari per riprendere forze dopo che
un lutto ha stordito e risucchiato le forze dal corpo.
Nel secondo Libro dei Maccabei, che gli Ebrei
considerano letteratura apocrifa, mentre i Cattolici includono nel
Canone, parla di sette fratelli, che furono presi insieme alla loro
madre e torturati a morte per indurli ad abiurare la fede dei Padri
(Maccabei 2, 7,1-41).
Sette fratelli, come i sette fratelli figli di
Giobbe, e di questo ci ricorderemo in seguito, passano torture che
ricordano molto i tormenti che, anche tra gli Indiani d’America, gli
iniziati erano obbligati a passare durante i crudeli riti d’iniziazione.
Nella mitologia babilonese, Eabani, il primo
uomo, viene sedotto da una prostituta sacra, Ukhat, e per sei giorni e
sette notti gode del suo amore .
Nella letteratura accadico-sumera si accenna a
sette demoni che sono raffigurati da sette punti e si manifestano nella
costellazione delle Pleiadi .
Infine, la settima lettera dell’alfabeto
ebraico, e in ebraico le lettere fungevano anche da numeri a seconda
del loro posto nell’alfabeto, è la zain. Zain
significa sette, ma anche «arma», e il suo simbolismo
fallico è confermato dall’uso corrente che fanno i monelli per
le strade di Tel Aviv di questa parola per indicare il proprio membro
virile.
Nel Vangelo: «Allora Pietro gli si
avvicinò e gli disse»: Signore, quante volte dovrò
perdonare al mio fratello, se pecca contro di me? Fino a sette
volte?». E Gesù gli rispose: «Non ti dico fino a
sette, ma fino a settanta volte sette.» (Matteo 18,21).
«Ora c’erano tra noi sette fratelli; il
primo appena sposato morì e, non avendo discendenza,
lasciò la moglie a suo fratello. Così anche il secondo, e
il terzo, fino al settimo» (Matt.
22,25).
«C’era anche una profetessa, Anna, figlia
di Fanuele, della tribù di Aser. Era molto avanzata in
età, aveva vissuto col marito sette anni dal tempo in cui era
ragazza...» (Luca 2,36).
Nell’Apocalisse di Giovanni il sette è un
elemento dominante: sette chiese (1,4), sette candelabri d’oro (1,12),
sette stelle (1,16), che lui stesso spiega: «Le sette stelle sono
gli angeli delle sette chiese e le sette lampade sono le sette
chiese» (1,20) e sette sigilli (5,1). Poi un agnello che
«aveva sette corna e sette occhi, simbolo dei sette spiriti di
Dio mandati su tutta la terra» (5,6). Poi l’Agnello apre il
settimo sigillo e sette angeli suonano sette trombe (8,1-2).
La nostra impressione è che il sette
così ostentato dell’Apocalisse di Giovanni sia piuttosto
forzato. Sembra che abbia preso in prestito gli agnelli, le corna e le
trombe bibliche e gli abbia concentrati tutti insieme per creare il
ritmo mistico della fine del mondo.
Il fatto stesso che il testo spieghi apertamente
questi simboli (1,20) induce al sospetto che questa sia una
sceneggiatura preparata con degli scopi ben precisi, e non tracce
mnestiche di qualcosa di rimosso. Il simbolo ha una giustificazione
solo se contiene un significato rimosso: un contenuto esplicito non ha
bisogno di essere trasfigurato in simbolo.
Come se volesse ostentare l’ebraicità del
messaggio che, invece, a nostro parere, fa parte della sfera della
cultura occidentale, di cui anche i Vangeli fanno parte . Molto
più sinceri e nel loro contesto ci paiono «l’aquila dei
tre guai» e gli squilli di tromba che i tre angeli stanno per
suonare (8,13). Esattamente come la Santa Trinità fa parte dello
stesso contesto culturale.
Esistono fiabe persiane e arabe che parlano di
sette principesse che ballavano tutta la notte con sette principi e
questo numero ricorre casualmente nei racconti di «Mille e una
notte».
Anche nell’Oriente non semitico appare
sporadicamente questo numero, ma mai in maniera così costante
come nella Bibbia ebraica.
Uno dei poemi più importanti della
letteratura mediorientale fu scritto nel 1197 dal poeta persiano Nezami
di Ganje e tratta dell’epopea del re sasanide Bahram V (421-439), che
dopo un ciclo di grandi vittorie si riposò, sposò sette
principesse, una per ognuno dei sette continenti, che fece dimorare in
sette padiglioni, e dove si reca in ciascuno dei sette giorni della
settimana, vestito come le sette principesse, ciascun giorno del colore
astrologico riferito al pianeta che lo domina.
Nel Parsismo dell’antica Persia si veneravano
sette «santi immortali», sette spiriti superiori .
In Cina esprimeva l’ordinamento degli anni di
vita della donna: dopo un primo periodo formato da due volte sette ha
inizio la «via dello yin» (prima mestruazione) e, dopo un
periodo di sette volte sette anni, tale via ha termine (climaterio) .
Interessante notare che in Cina, come nella
Bibbia, il numero sette viene associato al ciclo mestruale (Lev. 12,2 e
15,19).
Sempre in Cina, la ripetizione per sette volte
di sette giorni era altresì importante nel culto dei defunti ,
come nella Bibbia il tabù dei morti era stato legato al numero
sette (Nm.19,11).
Il settimo giorno del settimo mese si teneva
anche una grande festa in onore delle giovani donne e delle ragazze.
Questo concetto del sette, ossessivo tra gli
Ebrei, è presente, in maniera molto più diluita, quasi
come la traccia mnestica di qualcosa di molto arcaico, anche nel mito
greco e romano, ma non dopo il V secolo a.C. e non prima dell'era
cristiana, lasciando un gap di più di quattro secoli, in
cui questo numero non appare:
I Titani arrivarono come morti dagli Inferi, dove Zeus li aveva relegati, colsero di sorpresa il bambino che giocava, lo lacerarono, lo tagliarono in sette pezzi e li gettarono in una caldaia che stava in un tripode. Quando la carne fu cotta, essi incominciarono ad arrostirla su sette piedi (Apollodorus Mythogrphus 2, 5, 12).Migliaia di anni sono passati, e un canto nostalgico degli Alpini della val Camonica: “Il Testamento del Capitano”, ci racconta di un Alpino che vuole che il suo corpo sia tagliato in sette pezzi e distribuito alla sua mamma, alla sua bella, al re d’Italia, alle sue montagne ...
Sette erano i re di Roma e la
città fu fondata su sette colli. Appare nei miti
orfici, che celano tracce mnestiche degli
arcaici riti greci della pubertà, ed Eschilo dice che Apollo era
il dio del sette, come vedremo in seguito.
Nella tragedia di Eschilo, I sette contro Tebe, sette eroi
difendono le sette porte di Tebe, e Apollo è il dio del
sette (I Sette contro Tebe,
vv. 797-802).
Come nella storia di Gerico, dove sette
sacerdoti le giravano intorno con sette simboli fallici (shofarot),
sette re e sette eroi sono associati a una città, in un caso per
farla cadere, in un altro per fondarla, in un terzo per difenderla.
La tensione erotica del corteggiamento e della
penetrazione è lì, presente in tutti i casi.
Dopo, per molti secoli, questo numero sembra
sparire dalla cultura occidentale e riappare nuovamente nel Medioevo
con rinnovato vigore: sette erano infatti i doni dello Spirito Santo,
rappresentati dall’arte gotica da sette colombe, sette le virtù,
sette i sacramenti, sette le età dell’uomo, sette i peccati
capitali, sette le richieste espresse nel Padrenostro, e sette i dolori
di Maria.
E in numerose fiabe, soprattutto nordiche,
raccolte dai fratelli Grimm, come «Biancaneve e i sette
nani», «I dodici fratelli», in cui la sorella deve
rimanere muta per sette anni per poter salvare i suoi fratelli, i
«Sei cigni», che con la sorella fanno sette, «I sette
viaggi di Sinbad», « I sette corvi», «Il lupo e
i sette agnelli», e «Il brutto anatroccolo» dove egli
è il settimo di una nidiata.
Negli anni sessanta, Hollywood ci racconta dei
«Magnifici Sette» e di «Sette Spose per Sette
Fratelli».
Sembra che con la crisi del mondo antico, il
cristianesimo e la regressione mentale della cultura occidentale agli
arcaici riti tribali del pasto totemico, come questi si rispecchiano
nel simbolismo dell’Eucarestia, ci sia stato anche un riemergere
prepotente del numero sette, dopo che questo era stato pressoché
ignorato dalla cultura classica.
Dalla crisi del mondo antico in poi, il sette
non scalzerà il tre dalla sua predominanza, ma gli si
affiancherà per tutto il Medioevo.
Questo spiegherebbe anche il riapparire,
improvviso e onnipresente di questo numero nell’Apocalisse di Giovanni.
Questo era stato il «certificato di riammissione» della
decaduta cultura greco-romana ai suoi rimossi riti tribali arcaici.
IL TABÙ
Pare proprio che il materiale sia
vastissimo e svariato.
Sette è sia un lasso di tempo, sia il
numero degli agnelli da sacrificare, sia un esplicito simbolo fallico,
sia il numero di un gruppo di figli o di fratelli.
Come riusciremo a mettervi un po’ d’ordine?
Cominciamo ad esaminare questo numero dalla
gravità che la tradizione ebraica attribuisce alla trasgressione
legata al numero sette.
L’osservanza del Sabato, il settimo giorno della
settimana, acquista una rilevanza particolare, tanto da entrare a far
parte del Decalogo (Ex.20,8-11),
prima ancora di «Onora il
padre e la madre» e prima del “Non Uccidere”. Ed è
ripetuto nuovamente nel capitolo 35 dell’Esodo, con l’esplicita
punizione di morte come pena per la trasgressione.
Nei Numeri si racconta:
Mentre gli Israeliti erano nel deserto, trovarono un uomo che raccoglieva legna in giorno di Sabato. Quelli che l’avevano trovato a raccogliere legna, lo condussero a Mosè, ad Aronne e a tutta la comunità. Lo misero sotto sorveglianza, perché non era stato ancora stabilito che cosa gli si dovesse fare. Il Signore disse a Mosè: “Quell’uomo deve essere messo a morte; tutta la comunità lo lapiderà fuori dell’accampamento” (Nm.15,32-5).«Tutta la comunità lo lapiderà fuori dell’accampamento» quindi vuol dire che quell’uomo ha trasgredito uno dei tabù più vitali della collettività. Il suo peccato è un peccato che rischia di ricadere su tutta la tribù, perciò i fratelli, tutti insieme, dovranno estirpare il male affinché non si ritorca su di loro.
Quando una donna sarà rimasta incinta e darà alla luce un maschio, sarà immonda per sette giorni; sarà immonda come nel tempo delle sue regole. L’ottavo giorno si circonciderà il bambino» (Lev.12,2-3)ci racconta implicitamente come, ai tempi degli antichi riti della pubertà, questa cerimonia veniva eseguita all’ottavo giorno, dopo sette giorni di preparazione, o un periodo parallelo corrispondente al numero sette, poiché è il testo stesso che produce la libera associazione tra i sette giorni del tabù mestruale, la nascita del maschio e la circoncisione che avviene all’ottavo.
In quel giorno non farete alcun lavoro; poiché è il giorno dell’espiazione, per espiare per voi davanti al Signore, vostro Dio. Ogni persona che non si mortificherà in quel giorno, sarà eliminata dal suo popolo. Sarà per voi un Sabato di assoluto riposo e dovrete mortificarvi: il nono giorno del mese, dalla sera alla sera dopo, celebrerete il vostro Sabato (Lev.23,32).Attraverso queste associazioni, il genitale maschile, il rito iniziatico e la circoncisione vengono legate al Kippur, al Sabato dei Sabati, al digiuno e all’Espiazione e, quindi, al pasto totemico, in cui si celebrano l’atto cannibalistico e l’astinenza da questo in un’unica condensazione.
È legato al Diluvio e all’ira
del Signore.
È legato al patto tribale e al giuramento.
E’ legato alla vendetta di sangue.
È legato all’intoccabilità, al
tabù, e ai riti che purificano.
È legato alla donna, al matrimonio e alla
settimana nuziale.
È legato a un gruppo di giovani, di
fratelli.
È legato ai riti d’iniziazione.
Dopo che gli Ebrei diventarono un popolo di
agricoltori questo numero di iniziazione tribale diventò
iniziazione della terra e fu collegato ai cicli agricoli. Ed ecco che
al settimo anno la terra deve riposare, come aveva riposato
Jahvè, dalle fatiche della creazione del mondo.
Ed eccoci ritornati all’inizio.
Jahvè crea il mondo in sei
giorni e al settimo, a completamento del ciclo, si riposa.
La cosmogonia biblica ricalca luoghi comuni
della mitologia sumerica e babilonese ed è stato già
scritto molto su quest’argomento.
Anche il concetto di un mondo creato come il
risultato dell’amplesso tra un dio maschile che sta sopra e una dea
femminile che sta sotto, come dall’amplesso tra Urano e Gea, ha
lasciato le sue tracce nel versetto: «...e lo spirito di Dio
aleggiava sulle acque» (Gn.1,1,).
Quello che è peculiare del mito biblico
è la presenza di un Dio-Padre che fa tutto da solo, senza
l’ausilio di nessuna divinità femminile e dal nulla, mentre
nella cosmogonia degli altri popoli c’è sempre qualche materia
primordiale, che c’era anche prima, e solo dalla quale emerse un dio
Padre o un eroe creatore.
L’assenza di una dea femminile è
facilmente spiegabile dalla serrata struttura patriarcale delle
tribù ebraiche al tempo in cui adottarono queste saghe.
Nel mito sumerico il mare primordiale (abzu)
esisteva prima e il cielo e la terra furono formati da esso .
Questa versione corrisponde a quella di Omero ,
che dice che l’Oceano era «l’origine degli dei» e
«l’origine di tutto». Da Oceano venne Teti, che veniva
chiamata Madre.
Una versione orfica diceva , invece, che
all’inizio esisteva la Notte. Essa aveva l’aspetto di un uccello dalle ali nere. Fecondata dal vento, la Notte depose il suo uovo d’argento nell’immenso grembo dell’oscurità e da quest’uovo balzò fuori Eros, denominato Protogonos, il primogenito di tutti gli dei. Lo spazio cavo dell’uovo era il chaos. Nella parte inferiore dell’uovo c’era il Cielo e la Terra che si accoppiavano. Eros li spinse a questa unione e da essa nacquero Oceano e Teti. (K.Kerenyi, op.cit. pp.26 - 7)Un poema di Orfeo diceva: «Il primo fu Oceano, dal bel corso, che incominciò l’accoppiamento: egli prese in isposa la sorella Teti, nata dalla stessa madre», ovvero la Notte .
prima di tutto c’era il Chaos, poi Gea, dall’ampio seno, sede di tutte le divinità. Dal Chaos discendono Erebo (il buio) e la Notte, che unitasi a questi, partorì la luce del cielo (Etere) e il giorno (Emera). Gea invece, prima di ogni altra cosa partorì come suo simile Urano. Essa partorì le montagne e Ponto, il Mare deserto, in un parto ortogenico. Con Urano invece si accoppiò e partorì i Titani. Tra i quali anche Oceano e Teti.
Tutti questi elementi, che esistevano nella
cosmogonia degli altri popoli, prima di un dio-Padre, furono condensati
e rimossi nel racconto biblico, per non dare addito a nessuna
speculazione che ci fosse qualcosa prima di Dio e al di fuori di lui.
Ma le tracce della rimozione rimasero.
E infatti il secondo giorno «Dio disse:
«Sia il firmamento in mezzo alle acque per separare le acque
dalle acque» » (Gn.1,6). Ma le acque non erano mai state
create, poiché nel primo giorno Dio aveva creato solo il cielo,
la terra e la luce.
Generazioni dopo generazioni di rabbini si
chiesero a vicenda dov’erano mai le acque prima che Dio iniziasse la
creazione .
Nelle tradizioni posteriori, la sensazione che
qualcosa sia stato censurato dai testi e nascosto cominciò a
premere per un riconoscimento.
Una leggenda ebraica dice:
tre elementi esistevano prima della creazione: l’acqua (la parola acqua in ebraico è sempre al plurale = le acque), lo spirito (in ebraico la stessa parola, ruah, significa anche vento, ed ecco qui il Vento della tradizione orfica, quello che aveva fecondato la Notte, che riemerge dalla rimozione) e il fuoco. L’acqua entrò incinta e partorì le tenebre, il fuoco entrò incinta e partorì la luce, lo spirito entrò in cinta e partorì la sapienza (Sefer Haggad�, Devir Pubblishing, Tel Aviv 1948, p.13).Ecco che la concezione di elementi primordiali che precedono la creazione e quindi, implicitamente, anche il Creatore, come nella cosmogonie babilonese e greca, emergono nelle leggende ebraiche che non furono incluse nel Canone.
IL POPOLO ELETTO
Abbiamo visto come le tribù
ebraiche, che come per tutte le tribù primitive i riti
d’iniziazione erano i riti principali della vita collettiva, abbiano
fatto una proiezione a livello cosmologico di quella che era la loro
realtà esistenziale tribale.
I Sumeri, i Babilonesi e, dopo di loro, i Greci
si erano sviluppati a civiltà. Erano passati da una
fedeltà tribale a una fedeltà di tipo nuovo.
Sumeri, Babilonesi e Greci si organizzarono a
società politiche, e superarono i riti d’iniziazione tribale,
conservandone solo tracce mnestiche rimosse.
Nella mitologia greca queste tracce sono rimaste
nelle imprese eroiche, che l’iniziato deve compiere, a coronamento del
suo passaggio iniziatico.
Per gli Ebrei fu più difficile. Pur
sviluppando una cultura altamente sofisticata, non si staccarono mai da
quel tipo d’identità che preferisce i legami del clan a quelli
della polis.
Le tracce degli antichi riti d’iniziazione
tribale continuarono, così, a emergere in tutta la liturgia
ebraica .
Il Padre primigenio, dio esclusivo della
tribù, anche se proiettato ad altezze nuove, rimase pur sempre
il Padre del suo popolo, che diventò, così, popolo
eletto, inversione dell’attaccamento del popolo al suo dio esclusivo.
Quando questo Dio pretende da lui di essere un
«popolo sacro» , «Voi sarete per me un regno di
sacerdoti e una nazione santa» (Ex.19,6), «Santificatevi
dunque e siate santi» (Lev.11,44), e nuovamente in (Lev.19,2) e
(Lev.20,7), in realtà pretende da lui di rimanere un popolo di
iniziati, perennemente immerso nella sacralità, nel tabù
e nella sua esorcizzazione, un popolo di figli, eternamente
terrorizzati da una generazione di adulti che spaventano i propri
giovani, nascosti dietro delle maschere spaventose.
Così, se il diluvio universale era stato
la proiezione del proprio rito iniziatico su tutta l’umanità,
tracce di questi stessi riti erano rimaste anche tra i Sumeri, i
Babilonesi e i Greci, e anch’essi avevano innescato lo stesso processo
di proiezione all’esterno.
E infatti anch’essi conservano memorie di uno
spaventoso diluvio, nel quale l’umanità era morta e rinata.
Ma la differenza consiste nel fatto che questi
popoli, abbandonata completamente la struttura tribale, avevano rimosso
questi riti e li avevano conservati solo come tracce mnestiche, che si
riflettono appunto nella mitologia del diluvio e nelle imprese degli
Eroi.
Gli Ebrei, invece, continuarono a vivere la loro
realtà onnipresente di eterni novizi e, dopo il diluvio,
l’eterno rito d’iniziazione continua a ripetersi in tutte le feste
ebraiche, e il numero sette, questo terrificante simbolo fallico del
dio iniziatico, continua a venire presentato loro davanti, come una
minaccia onnipresente.
I sette giorni della Pasqua, in cui viene
sacrificato e mangiato il corpo del Padre tribale, montone-agnello ,
prima in sintesi, poi sostituito, dal pane azzimo , in una notte in cui
tutti sono asserragliati in casa, mentre l’angelo della morte compie,
fuori, la sua strage (Ex12,21-7).
Dopo sette settimane dal rito pasquale, ecco il
Shavùot, la «festa delle settimane», ai piedi del
monte Sinai e Jahvè, il dio iniziatico, di nuovo terrorizza il
suo popolo tra tuoni e fulmini, al punto che gli Israeliti non vogliono
più né vedere né ascoltare, poiché hanno
paura di morire :
Tutto il popolo percepiva i tuoni e i lampi, il suono del corno e il monte fumante. Il popolo vide, fu preso da tremore e si tenne lontano. Allora dissero a Mosè: «Parla tu a noi e noi ascolteremo, ma non ci parli Dio, altrimenti moriremo...Il popolo si tenne dunque lontano mentre Mosè avanzò verso la nube oscura, nella quale era Dio (Ex.20,19-21).E Mosè attese sei giorni e solo il settimo il Signore gli si rivelò (Ex.24,16).
DA INIZIATORE A INIZIATO
E dopo questa lungo giro, eccoci
arrivati nuovamente al punto di partenza, alla Creazione del mondo.
Dio crea il mondo in sei giorni e il settimo si
riposò.
Abbiamo visto finora come Jahvè, il dio
d’Israele, sia stato un dio iniziatico.
Dal Diluvio universale, alla Pasqua, ai riti
sulle falde del monte Sinai, alla relegazione dei suoi figli per sette
giorni alle capanne, era apparso nel campo degli Israeliti, da dietro
la sua maschera (e infatti è proibito guardare e vedere
l’immagine del Signore), dio terribile e vendicativo, come Apollo che
fa strage nel campo degli Achei con il suo arco e la sua faretra,
ostentando il suo sette, il suo simbolo fallico minaccioso.
Secondo la versione della Genesi, Dio crea il
mondo dal nulla, ma già nei primi versetti si contraddice
poiché ci rivela che in realtà le acque preesistevano
alla creazione, come nella versione sumerica e greca della cosmogonia.
Nel secondo versetto «aleggiava sulle acque» e nel settimo
«separò le acque, che sono sotto il firmamento, dalle
acque, che sono sopra il firmamento». Quindi una dea-madre
simboleggiata dall’acqua esisteva già prima che Dio cominciasse
la creazione.
La leggenda ebraica, come abbiamo visto sopra,
aveva conservato tracce esplicite dei miti cosmologici originali: "tre
elementi esistevano prima della creazione: l’acqua, lo spirito e il
fuoco. L’acqua entrò incinta e partorì le tenebre, il
fuoco entrò incinta e partorì la luce, lo spirito
entrò in cinta e partorì la sapienza"
Questo dio poteva solo essere un dio-marito o un
dio-figlio, ma non un dio, che veniva prima dell’acqua e che ne era il
padre.
Reik, discutendo del problema del doppio sesso
di Adamo dice:
Secondo la mia opinione, è molto probabile che il mito del primo uomo che aveva due sessi, sia una teoria sviluppatasi più tardi e, come tale, una versione molto alterata e distorta di una saga più antica in cui una coppia divina, dio e dea, viene sorpresa durante il rapporto sessuale e separata con la violenza da un figlio- dio. Iahvè divise il primo essere umano in due metà. Modellandogli due volti e due dorsi. Mi sembra che vi sia qui una variante della situazione originale nella quale la coppia divina si è fusa in un sol corpo mediante il rapporto sessuale ("La Creazione della Donna", in Psicoanalisi della Bibbia, Sugar Editore, Milano 1968, p.30.Secondo Reik, dunque, il dio che separa Adamo da Eva è un dio-figlio e non un dio-padre.
Vi sono forse due poteri al mondo?» Il Signore allora ridusse la statura di Adamo, statura che aveva precedentemente riempito l’intero universo, a mille cubiti (Amot) (Batei Midrashot, parte seconda, Midrash otiot Rabbi Akiva nusah beit.La leggenda di Rabbi Akiva parla di mille cubiti, che sono circa quattrocento metri, e non di un cubito come riporta erroneamente Reik, in op. cit., p.37). Se una Ama sono circa quaranta centimetri si ricava un’altezza di quattrocento metri, e questo dopo che era stato ridotto.
Quando creò il Signore il primo uomo gli angeli del cielo si sbagliavano e santificavano il nome di Adamo. Cosa fece il Signore, benedetto egli sia,? Lo fece addormentare e così tutti seppero che era uomo (Bereshit Raba, 8,10).
Il sonno è sinonimo di Morte e
Jahvè, che fa addormentare Adamo, rispecchia i desideri di
morte-evirazione, inconsci, del figlio verso il padre.
Anche Noè, mentre dormiva, fu evirato dal
figlio.
La Bibbia è molto velata e dice:
«Vide il padre scoperto» (Gn.9,22), ma i rabbini
percepirono subito che la maledizione di Noè, sul figlio e tutti
i suoi discendenti, non dipendeva solo da un peccato involontario di
voyerismo. Infatti Rashi interpreta il suddetto versetto
come un atto esplicito di evirazione.
Anche se Rashi non conosceva la psicanalisi,
aveva un metodo di procedere molto simile alle libere associazioni di
Freud.
Anche in questa scena, dunque, Jahvè
appare non come un dio-Padre, bensì come un dio-figlio, che
tenta di «ridurre», addormentare, ovvero, evirare, il
proprio dio-Padre, dopo aver tentato di separare l’amplesso parentale,
separando, prima le acque, come ci viene descritto fin dai primi
versetti della Genesi, e dopo Adamo ed Eva.
Lavorando per associazioni, non possiamo che
approdare alla cosmogonia greca dove Crono, un dio-figlio, evira Urano,
dopo che questo si era unito alla Terra, in un divino amplesso.
Ma la similitudine tra Jahvè e Crono si
spinge anche oltre.
Crono significa tempo, e lo scorrere del tempo
è misurato e scandito dal movimento degli astri celesti, che
sono tra le prime cose che crea Dio nella sua opera.
Jahvè immette nel mondo la dimensione del
tempo che, come allude il mito greco, era stato fatto da Crono,
dio-figlio, che dopo diventa dio-padre a sua volta.
Quindi il mito originale della cosmogonia
ebraica era il seguente:
1) Una dea Madre, rappresentata
dall’acqua o dalla terra era all’inizio di tutto, sulla scia della
cosmogonia mesopotamica.
2) Da questa dea-acqua-materia primordiale si
forma il primo uomo, probabilmente come mistura di acqua e terra, che
è anche il primo dio, Adamo, la cui etimologia è
«che viene dalla terra», come Nammu, la dea degli abissi
sumerica, crea Enki piegandosi sulla terra e da essa.
3) A questo punto una dea madre, Eva, «che
è madre di tutti i viventi» (Gn.3,20), vive in coppia e in
simbiosi con il dio, che lei stessa ha creato e generato da lei. In
questa versione scenica Adamo ed Eva corrispondono a Urano e Gea.
4) Un dio-figlio, Iahvè, cerca di
separare l’amplesso divino e di evirare il Padre..
Questa deve essere stata la prima
versione della cosmogonia biblica, sulla scia di tradizioni
mesopotamiche, che le tribù ebraiche si portarono appresso nel
loro peregrinare attraverso i percorsi della mezzaluna fertile ai
margini del seminato.
Abramo, il primo ebreo, veniva da Ur, antica
citta’-stato all’estremo sud della Mesopotamia e da lì era
arrivato fino all’Egitto.
A questa si sovrapposero tutte le altre, e si
fusero nel racconto biblico che abbiamo davanti.
Perché per noi è stato così
importante risalire alle tracce di questa prima versione?
Perché solo così potremo ora
capire il vero significato della cosmogonia biblica, di un dio maschio
che, da solo, crea il mondo in sei giorni e al settimo si riposò.
A differenza dei Sumeri, i Babilonesi e i Greci,
gli Ebrei si asserragliarono in una stretta struttura patriarcale,
sotto la cappa di un dio-Padre esclusivo, che non lasciava addito a
nessuna essenza divina al di fuori di Lui. Così rimossero tutto:
le acque primordiali, la dea Terra, i dei figli-Eroi, e rimasero nel
testo solo tracce sporadiche ma illuminanti.
Tutto fu attribuito a un dio-Padre onnipotente.
Ma quello che è particolarmente
interessante non è quello che non appare, come chiaro risultato
della rimozione, bensì quello che appare nella cosmologia
ebraica e non appare in quella degli altri popoli, che rilassarono la
stretta della fedeltà tribale e la superarono.
La cosmogonia degli altri popoli non ci racconta
delle fatiche di un dio padre nel creare il mondo in un ciclo
specifico, che la Genesi ci rappresenta con il numero sette.
Presso gli altri popoli le fatiche spettano agli
dei-figli, agli Eroi.
E queste sono tracce delle prove iniziatiche.
Mentre nelle cosmogonie parallele la creazione
del mondo è il prodotto delle creature divine primordiali, e gli
atti eroici spettano ai dei figli, ecco che la mitologia ebraica, nella
stretta del suo esclusivismo, condensa i due cicli in uno, e la parte
più preminente diventa proprio quella della fatica iniziatica.
Il numero sette, che come abbiamo visto è
il simbolo fallico del dio-Padre, nella condensazione dell’atto
iniziatico, diventa il simbolo fallico del dio-figlio, che se ne
impadronisce e compie la sua missione con questo.
L’arco di Apollo era il simbolo fallico del dio
iniziatico, per mezzo del quale minaccia la tribù dei figli,
accampati intorno alle mura di Troia, ma che poi diventa lo strumento
che adopera Apollo, nella sua trasfigurazione in dio-figlio ed Eroe,
per uccidere il mostro. Apollo dio-figlio si impadronisce del simbolo
fallico di Apollo, dio iniziatico e rappresentante della generazione
dei padri, e compie la missione: uccide il Pitone.
Jahvè, dio-figlio, adopera il numero
sette, strumento del terrore di Jahvè, dio-Padre, per concludere
la sua missione e crea il mondo.
Adesso finalmente ci è chiaro l’accento
dato dalla Bibbia all’enumerazione dei giorni, uno dopo l’altro. Lo
scandire dei tempi fino a che si forma il numero magico.
Avrebbe potuto benissimo riassumere e dire
«Iddio creò il mondo in sei giorni e il settimo si
riposò» ed enumerare tutti gli atti della creazione o
subito prima o subito dopo.
L’accento è sul numero dei giorni. Questo
numero, sì, esisteva prima.
Sei le fatiche iniziatiche e il settimo la
conclusione e il riposo, il Sabato. Il settimo giorno è quello
della purificazione, dell’esorcismo del tabù, la chiave e la
soluzione.
In questa condensazione, del racconto della
creazione con quello dell’atto iniziatico primordiale, il dio-figlio,
rimosso dalla mitologia ebraica, non solo preme per un riconoscimento,
ma riesce ad avere la preminenza e scalza completamente la figura del
Padre, lo detronizza, dall’atto della creazione.
«Dio vide che la luce era cosa
buona» (Gn.1,4), «Dio vide che era cosa buona»
(Gn.1,12), (Gn.1,18) (Gn.1,21), (Gn.1,25) ««Dio vide quanto
aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona (Gn.1,31). Questa
ripetizione, ogni volta, della propria soddisfazione narcisista
è la grande rivincita dell’orda dei figli che, attraverso l’atto
eroico, prendono il simbolo fallico del Padre e il suo posto e si
congratulano con loro stessi per la propria prodezza .
Subito dopo tutto affonderà nella
rimozione.
Questa nostra ricostruzione della stratigrafia
del mito biblico coincide con quello che ha detto Freud della
genealogia del mito in generale:
Forse l’Eroe divinizzato fu anteriore al Dio-Padre, fu il precursore del ritorno del padre primordiale sotto forma di divinità. La successione degli dei sarebbe quindi cronologicamente questa: dea madre, eroe, dio padre. Solo con l’elevazione del non mai dimenticato padre primordiale la divinità acquisì però le caratteristiche che ancora oggi le conosciamo ("Psicologia delle Masse”, in op.cit., Vol 9, p. 324E dinuovo ci conferma, dopo più di quindici anni, nel suo “Uomo Mose’” lo stesso concetto: “Le divinita’ maschili apparvero dapprima come figli accanto alle grandi madri e solo dopo assunsero nettamente i tratti di figura paterna”
IL RIPOSO SETTIMANALE
E adesso, dopo questo lungo giro, ci
appare chiaro anche il motivo dell’importanza del riposo sabbatico e
della sua sacralità.
I sei giorni della creazione rappresentano le
prove iniziatiche, gli atti eroici attraverso i quali il giovane si
identifica con la generazione degli adulti e soppianta il padre dalla
sua posizione di preminenza poiché si identifica con lui e
contemporaneamente lo detronizza.
Questi atti di bravura e la soddisfazione
narcisistica che ne segue, questo appropriarsi del simbolo fallico
paterno e usarlo come strumento per detronizzare il padre e “agire” al
suo posto, rappresentano anche un atto di sfida e di profanazione.
Ne consegue una sedimentazione di un senso di
colpa che esige una qualche formula magica che funga da undoing della
profanazione.
Questo esorcismo è rappresentato dal
Sabato, e da qui la grande sacralità di questo giorno e il grave
castigo per chi lo profani.
Dopo le “grandi azioni” della Creazione, ecco il
grande riposo del Sabato.
Il Sabato, la grande “inazione”, fa un undoing
simbolico della grande azione, degli atti di sfida della creazione.
Il figlio proclama così: “ è vero,
mi sono sostituito al padre, ho preso la sua forza per compiere tutte
le fatiche della creazione, ma adesso faccio il contrario, e il grande
sacro riposo sarà così l’antitesi della profanazione
dell’azione".
Il sabato è quindi un controinvestimento
energetico il cui scopo è incontrare la pulsione emergente
dall’Es del fare, il doing, e controbilanciarla, annullarla per
esorcizzare il senso di colpa annullando la pulsione stessa.
Nei sintomi della nevrosi ossessiva il
controinvestimento pulsionale dell’Io neutralizza la pulsione
peccaminosa dell’Es attraverso una rappresentazione antitetica che
dichiara un altisonante “no” alla pulsione censurata: il risultato
è sempre una formazione di compromesso.
Nel nostro caso, come nei sintomi della nevrosi
ossessiva, l’azione si svolge in due tempi: doing e undoing
Prima l’azione, la creazione del mondo, poi il
suo contrario.
Jahvè, il dio-figlio rappresentante degli
iniziati della tribù, dopo avere prevaricato, nel suo atto di
sfida, deve adesso fare il contrario dell’azione sacrilega e riposarsi.
Questo spiega la più strana di tutte le
storie bibliche: un dio onnipotente, che stanco come l’ultimo dei
mortali, deve riposarsi.
Jahvè, il dio figlio, che aveva
prevaricato nell’atto di sfida della creazione deve ora riposarsi, e il
suo riposo diventa sacro, poiché sacrilego era stato l’atto
della creazione.
Il riposo assoluto diventa l’esorcismo magico
attraverso il quale l’azione della creazione viene depurata
dall’aspetto peccaminoso.
Anche la parola stessa Shabbat, non
significa riposo, questa è una sovrapposizione posteriore. La
traduzione che più si avvicina al senso originale della parola
ebraica è "inazione-paralisi". Questa radice esprime il momento
stesso dell’arrestarsi dell’azione nella brusca paralisi di un
movimento in atto. In ebraico moderno la stessa parole shvità
è adoperata per sciopero. Sui giornali quando e’ in atto uno
sciopero si legge il titolo: “Il paese paralizzato da una shvità”.
Il contrario non è lavoro bensì azione, ma’asè,
e infatti l’opera della creazione è chiamata ma’aseh berescit.
Questo spiega come mai furono proprio gli Ebrei
a introdurre il riposo settimanale.
C’è anche una apparente incongruenza che
viene così appianata: se le fatiche iniziatiche erano sette il
riposo settimanale avrebbe dovuto avvenire all’ottavo, come l’ottavo
giorno è quello della circoncisione e della depurazione del
periodo mestruale, Come l’ottavo giorno è Simha Torà,
l’atto finale dei sette giorni in cui viene celebrato il Succoth e la
permanenza per sette giorni nelle capanne.
Invece il giorno del Gran Riposo è il
settimo e non l’ottavo.
Il motivo è semplice: come il sintomo
della nevrosi ossessiva è una soluzione di compromesso tra
pulsione e controinvestimento energetico che emerge come sintesi che
comprende entrambi, così il grande undoing che depura il
sacrilegio è incluso all’interno del numero sette che descrive
le fatiche iniziatiche, in un’unica sintesi, e non al di fuori di esse.
L’azione coatta in due tempi, doing e undoing,
diventano un’unica condensazione e nello stesso numero, sette, viene
inclusa sia l’azione che il suo contrario, il grande riposo.
Così mentre la permanenza nelle capanne
nei sette giorni del Succoth si conclude con l’ottavo giorno, la fine
del rito iniziatico, e la circoncisione conclude nell’ottavo giorno lo
stesso rito, il sabato, che è non una conclusione ma un’azione
coatta antitetica alla pulsione, il cui scopo è annullarla
simbolicamente, si unisce a questa in un’unica sintesi.
Vi è un’altra associazione che ci conduce
come un filo alla stessa meta. Quando gli Ebrei, raccolti in sinagoga,
si apprestano dopo il tramonto del Venerdì a ricevere il Sabato,
si rivolgono verso occidente e cantano: “vieni o sposa, vieni o sposa”.
Il Sabato è la sposa e viene presentata a Israele il suo sposo,
come premio per le fatiche iniziatiche superate. La comunità di
tutto Israele, vestiti a festa, la tribù dei fratelli che
attraverso il loro vicario, Jahvé il dio figlio, hanno
perpetrato la fatica della creazione e si preparano al ben meritato
riposo, portano sotto il baldacchino nuziale la sposa che entra
dall’occidente nell’epifania del Santo Sabato. Come Eva che viene
creata alla fine della fatica iniziatica, come nelle tribù
arcaiche il rapporto eterosessuale avviene solo con la conclusione
delle fatiche del rito. Iahvé “crea” la sposa a coronamento
della sua fatica, il meritato premio.
I Greci e i Romani, quando vennero a contatto
con gli Ebrei, non capirono questo strano rito e lo considerarono
un’usanza barbarica come tutti gli altri riti ebraici, poiché
percepirono inconsciamente il sottofondo tribale che ne era all’origine
.
Il cristianesimo, adottò quest’usanza in
forma diluita, come adottò il numero sette, nel contesto della
sua regressione esistenziale .
Ma l’Occidente fece di questo giorno un giorno
di riposo nel senso di svago, non certo di inazione forzata e di
paralisi, come rimase per gli Ebrei.
Il senso di tabù fu sterilizzato e la
domenica divenne il “giorno del Signore” conservando solo la traccia
mnestica che questo era, invero, il giorno di un Dio- Figlio.
Gli Ebrei, invece, si asserragliarono nel senso
originale del giorno sacro, del tabù, dell’undoing di un atto
peccaminoso di ribellione contro il dio padre, messo in atto attraverso
l’azione, lo sforzo motorio, l’attività muscolare.
La sacralità di questo giorno si
rafforzò sempre di più durante i secoli e la paralisi di
qualsiasi azione fu codificata ai suoi estremi al punto che oggi
è proibito persino usare la luce elettrica, viaggiare in
automobile, andare in bicicletta, toccare il denaro, e fare qualsiasi
sport.
Solo una paralisi assoluta da qualsiasi sfogo
motorio può esorcizzare il fare peccaminoso all’origine del
precetto di “non fare”. È proibito scrivere, suonare, fare
ginnastica, fare qualsiasi cosa che implichi una soddisfazione
muscolare e motoria, poiché questo era stato il peccato della
creazione: la gioia del fare. Come scrive Abraham, parlando di
un’angoscia locomotoria:
sono dell’opinione che nei nevrotici che si ammalano di angoscia locomotoria, sia oiginariamente presente un piacere contituzionale sovraintenso dei movimenti; dalla non riuscita rimozione di questa tendenza derivarono inibizioni del movimento fisico. Il significato del piacere del movimento è stato posto in particolare rilievo da Sadger. Egli parla dell’”erotismo dei muscoli” come un fonte particolare di piacere sessuale e lo pone accanto a quelli che egli denomina “erotismo della pelle” ed “erotismo della mucosa”. Sadger dà prove interessanti riguardo al piacere positivo del movimento fisico.
(K.Abraham, “Una base constituzionale dell’angoscia locomotoria” in Opere, Bollati Boringhieri, Torino 1975 e 1997, vol.I, pp.64 -5 . IL corsivo è di Abraham).
Per l’Occidente, che aveva ripristinato
apertamente la sovranità del dio figlio, non fu necessario
conservare il tabù di questo giorno con i suoi significati
terribili e minacciosi. Anzi vide in questo rito il testardo
attaccamento del popolo d’Israele alla fedeltà assoluta al
Dio-Padre, in contrasto al nuovo concetto di un Dio-Figlio che con il
suo sacrificio aveva liberato l’umanità dal senso di colpa.
Quando Lutero mise in atto la sua riforma, con l’intenzione di tornare alle cosidette "radici bibliche" del cristianesimo, constatò con suo sgomento che alcune sette protestanti come i Sabbatari di Carlstad e gli Anabattisti avevano cominciato anche loro a celebrare la Domenica come giorno di inazione assoluta e intervenì decisamente per impedire quella che gli pareva una giudaizazzione “sacrilega” della Domenica ( Winton Solberg,: “Luther and Calvin on the Sabbath”, in Redeem the Time –The Puritan Sabbath in Early America, in http://www.grace-for-today.com/347.htm) .
Il Sabato ebraico divenne così
per i Cristiani il simbolo dell’empietà giudaica nel rinnegare
la vittoria del Figlio sul Padre, l’altro polo, e i riti satanici con
le orge delle streghe e i sacrifizi cultuali di bambini, che nel
Medioevo popolavano la fantasia cristiana, vennero definiti “Sabbath”.
Il satanico, legato all’immagine del Padre rimossa, in antitesi al
“sacro” del corpo del Figlio e la sua Ostia Sacra.
In questi riti infatti gli invasati satanici
venivano accusati di profanare l’Ostia Sacra e di adorare
il Diavolo, nella figura di un grande
capro, simbolo di Dioniso, il primo Padre della cultura
Occidentale.
Per gli Ebrei, che avevano invece
seppellito la ribellione dei figli sotto la rimozione più
profonda, e rinnegato un Dio-figlio che avesse preso su di sé la
colpa e la pena dell’atto d’insubordinazione, interdizioni si
aggiunsero a interdizioni come pietra sopra pietra per impedire il
riemergere dell’atto di sfida consumato attraverso l’azione.
Come ci dice implicitamente il testo, dunque,
non un magico fiat fu all’inizio di tutto, non il logos del
Vangelo di Giovanni creò il mondo e tutte le sue creature,
bensì, con le parole di Faust, “in principio era
l’Azione”.
Links:
Brutto
e Bello. La nascita di un concetto
Es e Io
nello specchio di Apollo e di Dioniso
LE SETTE PRINCIPESSE
Nel poema di Nezami (vd.p.18), si
fondono armoniosamente due mondi: quello iranico tradizionale e quello
islamico monoteistico, ma il tema è sempre quello. Il re Bahram,
l’eroe, è l’ultimo di una schiera di figli del re suo padre,
nessuno dei quali era sopravvissuto (come nella fiaba “Il lupo e i
sette agnelli”, e nel mito greco, dove Zeus è l’ultimo di una
serie di fratelli uccisi prima di lui).
Da infante viene allontanato dal padre, come
Sargon l’Agade, Mosè, Ciro, Romolo, Edipo , e numerosi altri.
“Il padre dunque, perché egli potesse
vivere, si allontanò, per amore, da lui…” . Lontano dal padre,
“l’onagro vagabondo era diventato valoroso leone” .
Dunque, al pari degli altri eroi, può
diventare tale solo lontano dal padre.
Una volta cresciuto il fanciullo, il re suo
padre adottivo, No’man, che era un tiranno dal cuore duro, scomparve
correndo “nel deserto, come un leone” .
Ovvero, il padre – totem, associato al leone,
scompare = viene ucciso.
Dopo la morte del padre adottivo, il tutore di
Bahram mise fine alla tirannia e ristabilì la giustizia,
riportò in sesto il regno” .
Il principe fu istruito da maghi e insegnanti,
esattamente come i giovani iniziati vengono istruiti nel bosco dagli
adulti, sinonimo del padre. Bahram imparò i segreti dei sette
pianeti e di tutto il firmamento.
“Ogni anno che conosce quei misteri, se era
prima terrestre, diviene celeste” “e anche in questo divenne
sì grande che strappava gli artigli ai leoni e strangolava i
lupi” .
“Nel teatro del tiro a segno la freccia sua
giocava con un capello; qualsiasi cosa fosse, pur anco lontana, la
colpiva, fosse quella ombra o luce, e ciò che egli ancor non
vedeva nel lancio la sua regale fortuna lo aiutava a colpire
giustamente. I cacciatori custodi del recinto del gregge tutti
vantavano lui come un leone: ora assaliva le tigri, ora gareggiava alla
lotta con i leoni.”
Come Apollo, il dio iniziatico che scagliava le
sue frecce sugli Achei, e Apollo il giovane iniziato che colpiva con il
suo arco i caprioli e i cerbiatti e che come giovane adulto
portò a compimento la sua impresa uccidendo il pitone.
Bahram, a coronamento della sua educazione
iniziatica, uccide un leone e un onagro, in un colpo solo ;
uccide il drago e conquista il tesoro .
Compiuta la sua fatica iniziatica, “un giorno il
principe era venuto dalla campagna… quando vide una stanza chiusa…Il
principe non aveva mai messo piede in quella stanza, e così
anche i suoi cortigiani e i tesorieri. Chiese: “Perché questa
dimora è chiusa e serrata? Dov’è la chiave?” Venne il
custode e consegnò la chiave al principe, il quale, aperta la
serratura, che vide? Vide una dimora come scrigno di tesori…V’erano
sette effigi splendidamente dipinte, ciascuna connessa con un
continente del mondo. ”
Ad ogni effigie corrispondeva una principessa,
ed ecco quindi che alla fatica iniziatica segue immediatamente
l’immagine della donna.
Come nel mito biblico, in cui il dio – figlio,
Jahvè, creò la donna dopo le fatiche della creazione.
“Ogni tanto, quando il principe si inebriava, si
avvicinava a quella porta con la chiave in mano, apriva la porta e
entrava in paradiso a contemplare quelle immagini dalla forma di huri,
e, come assetato di fronte all’acqua, si addormentava pieno di
desiderio”.
A quel primo desiderio, si susseguono altre
fatiche iniziatiche, come ripetizione delle più arcaiche
fantasie della prima infanzia proiettate nella pubertà, dopo il
periodo di latenza, che segue quello che Freud ha chiamato “il tramonto
del complesso edipico”
Ed ecco le guerre, le imprese, dopo le quali gli
viene proposto il trono del padre .
Infine, diventato adulto dopo le prime fantasie
infantili, il periodo di latenza e il ciclo delle fatiche iniziatiche
adolescenziali, il nuovo re Bahram può dedicarsi al meritato
riposo e al godimento delle sette principesse, per le quali
costruirà sette padiglioni, nei quali si recherà ad
ascoltare ogni notte una novella diversa da una delle principesse, e
alla fine di ogni novella godrà del suo amore.
MISCELLANEA
Una volta trovata la chiave che apre
gli scrigni, ci sarà anche facile decodificare una frase che
ricorre giornalmente, senza che vi venga prestata particolare
attenzione: “sudare sette camicie”.
Le tracce delle antiche fatiche iniziatiche, che
emergono dagli strati più profondi della psiche, trovano la
strada di un’immediata espressione popolare.
Se “nascere con la camicia” significa essere
nati avvolti dall’amnio materno (l’involucro del feto) , espressione
usata per indicare chi è fortunato in quanto rimane
simbolicamente nell’utero materno, sudare sette camicie significa
staccarsi dalle proprie fantasie incestuose infantili attraverso le
fatiche iniziatiche dei riti della pubertà.
Ovvero: chi è nato con la camicia,
dovrà poi sudare sette camicie per superare il desiderio di
rimanere nell’amnio materno. Uscire dall’amnio (dalla camicia in cui si
è nati), è esattamente quello che avviene nei riti della
pubertà, in cui gli iniziati rinascono simbolicamente, questa
volta come figli del padre invece che della madre.
Più complessa appare la soluzione di
un’enigmatica frase di Nietzsche: “La solitudine di sette pelli” , ma
forse la soluzione è più semplice di quanto non sembri.
Il significato esplicito è che l’uomo,
negli strati più profondi, è solo: sette pelli, ovvero
sette strati si sovrappongono tra lui e gli altri uomini: il sette
funge da mezzo apotropaico tra la sua interiorità e il mondo
esteriore, difendendolo, da un lato, isolandolo in una solitudine
atroce, dall’altro. Sette qui sta per impenetrabile, il simbolo stesso
della solitudine.
Ma sette pelli dovrebbero fare compagnia, senso
di coesione, e non determinare la solitudine, perché se il sette
è un numero iniziatico, esso richiama per associazione il
gruppo, la collettività.
Quindi basta invertire la frase, come si fa
spesso nell’interpretazione dei sogni, per decodificare il significato
più profondo.
L’anima arcaica non conosce la solitudine:
questa infatti è il prodotto dell’estraniazione del singolo dal
gruppo, dal clan.
Sette pelli, quindi, formano coesione,
collettività e non solitudine, ovvero, per usare una frase
più comprensibile, “non esiste solitudine dove vi sia coesione
sociale”.
In un unico aforisma, Nietzsche condensa le due
situazioni: l’indistruttibilità degli affetti, cementati dalla
coesione del gruppo, e l’atrocità della solitudine del singolo
estraniato.
Il sette, simbolo della collettività e
degli affetti legati a questa nelle comunità primitive, diventa
il simbolo dell’estraniazione del singolo in una società che si
è staccata dall’anima collettiva.
Nietzshe ci presenta anche un’altra immagine,
nel suo Zaratustra:
“…Zarathustra crollò al suolo come un morto…tutto ciò gli durò sette giorni; …Infine, dopo sette giorni, Zarathustra si levò sul giaciglio, prese una mela in mano, la odorò, e ne trovò il profumo amabile.Qui troviamo l’eroe del poema che muore, rimane nella sua condizione di morto per sette giorni, rinasce, e prende in mano la mela, simbolo del corpo della donna , e la trova “amabile”.