Iakov Levi e Luigi Previdi



I Numeri sacri e il loro simbolismo (Seconda Parte). Il sette.



I Numeri sacri e il loro simbolismo (Prima Parte)



IL SETTE


Un campo non sondato

Nell’Oriente semitico il numero tre, che ritorna in una ripetizione ossessiva nella liturgia occidentale, è invece molto raro.
Abramo viene comandato di sacrificare al Signore «una giovenca di tre anni, una capra di tre anni, un ariete di tre anni» (Gn.15,9). Ma poi questo numero ritorna molto raramente, quasi sempre come lasso di tempo. Anche per i sacrifici nel tempio di Gerusalemme si prendevano generalmente animali di un anno o due anni.
Questo numero nella mitologia semitica  è più cospicuo per la sua assenza che per la sua presenza.
Il numero sacro degli Ebrei, che ricorre senza fine, è il numero sette.
Si comincia dalla cosmogonia, in cui Dio completa la sua creazione in sette giorni.
Poi Noè vene comandato di portare nell’arca sette paia di ogni animale mondo e sette paia di ogni uccello mondo, «perché tra sette giorni farò piovere sulla terra... e dopo sette giorni le acque del diluvio furono sopra la terra.» (Gn.7, 2-10).
Tra la prima volta che Noè manda fuori dell’arca la colomba al secondo tentativo passarono sette giorni, e così tra il secondo tentativo e il terzo (Gn.8, 10).
Quando Abramo conclude un patto con Abimelech: «Abramo mise in disparte sette agnelle del gregge, Abimelech disse ad Abramo: «Che significano quelle sette agnelle che hai messo in disparte?. Rispose: «Tu accetterai queste sette agnelle dalla mia mano, perché ciò mi valga da testimonianza...» (Gn.21,28-30).
E nel contesto dello stesso racconto: “Per questo quel luogo si chiamò Bersabea (Beersheva), perché là fecero giuramento tutti e due” (21,31).
In ebraico Beer vuol dire pozzo e Sheva' vuol dire sette, e la stessa radice sh-v-a' significa giuramento (Shvua'), quindi sette e giuramento sono la stessa parola.
In un contesto simile alla sacralità connessa al patto e al giuramento, associati al numero sette: “Balaam disse a Balak: “Costruiscimi qui sette altari e preparami qui sette giovenchi e sette arieti” (Num.23,1). Balaam spera di riuscire a maledire i figli d’Israele esorcizzando la loro potenza attraverso la forza magica del numero sette.
A proposito del sette, in associazione con un patto, Erodoto ci racconta:

Gli Arabi rispettano i patti più di qualsiasi altro popolo e li stipulano nel modo seguente. Quando due vogliono stringere un accordo, un terzo, che se ne sta ritto in piedi in mezzo a loro, con una pietra aguzza fa un’incisione all’interno delle mani, presso i pollici dei contraenti: poi, prendendo dal vestito di ambedue un bioccolo di lana, bagna col sangue sette pietre che si trovano in mezzo (Hist., III,8) (Cfr. Una storia di sassi. Dalla teoria cloacale al parricidio primordiale).

Giacobbe lavorò sette anni per Lia e altri sette per Rachele (GN.29,18-20; 29,27).
Sette giorni dura la settimana nuziale (Gn.29,28).
Labano insegue Giacobbe «per sette giorni di cammino» (Gn.31,23) da Carran fino al Galaad, e quest’ultimo si prostra sette volte fino a terra, nel suo incontro con il fratello (Gn.33,3).
Il Faraone sogna sette vacche grasse e sette vacche magre, sette spighe piene e sette spighe vuote (Gn.41, 17-24).
Il sacerdote di Madian aveva sette figlie e Mosè ne sceglie una in moglie (Ex.2,16-21).
La Pasqua durerà sette giorni: «Per sette giorni mangerete azzimi» (Ex.11,15).
Dal secondo giorno di Pasqua: «Conterete sette settimane complete. Conterete cinquanta giorni fino all’indomani del settimo sabato e offrirete al Signore la nuova oblazione...Oltre quei pani offrirete sette agnelli dell’anno...» (Lev,23, 15-18).
Sette settimane dopo la Pasqua sarà la Pentecoste, la festa d’iniziazione sul monte Sinai , per ricevere la Torà. In questa festa saranno sacrificati sette agnelli, come quelli messi da parte da Abramo per sancire il suo patto con Abimelech.
La festa delle Capanne sarà festeggiata il settimo mese e durerà sette giorni (Lev.23,33-6).
Il settimo anno è l’anno sabbatico, al pari del Sabato: «Per sei anni seminerai la tua terra e ne raccoglierai il prodotto, ma nel settimo anno non la sfrutterai e la lascerai incolta «(Ex.23,10-12).
Mosè attese sei giorni sul monte e il settimo il Signore gli si rivelò: «La gloria del Signore venne a dimorare sul monte Sinai e la nube lo coprì per sei giorni. Al settimo giorno il Signore chiamò Mosè dalla nube» (Ex.24,16).
Per la lampada a sette bracci, la Menorà che diventerà il simbolo della sovran
ità ebraica: «Farai le sette lampade del candelabro e le collocherai sopra in modo in modo da illuminare lo spazio davanti a esso» (Ex.25,37)
L’investitura dei sacerdoti durerà sette giorni, «Per sette giorni farai il sacrificio espiatorio per l’altare e lo consacrerai. Diverrà allora una cosa santissima e quando toccherà l’altare sarà santo» (Ex.29,37). E negli stessi riti va fatta sette volte l’aspersione dell’altare (Lev. 8,11).
Nei riti di purificazione il lasso di tempo di sette giorni è essenziale. Sette giorni purificano dal tabù dell’intoccabilità: «...Quando una donna sarà rimasta incinta e darà alla luce un maschio, sarà immonda per sette giorni; sarà immonda come nel tempo delle sue regole. L’ottavo giorno si circonciderà il bambino» (Lev.12,2-3).
Ugualmente per quello che riguarda il lebbroso che sia guarito:

il sacerdote isolerà per sette giorni colui che ha la piaga. Al settimo giorno il sacerdote l’esaminerà ancora; se gli parrà che la piaga si sia fermata senza allargarsi sulla pelle, il sacerdote lo isolerà per altri sette giorni. Il sacerdote il settimo giorno lo esaminerà di nuovo; se vedrà che la piaga non è più bianca e non si è allargata sulla pelle, dichiarerà quell’uomo mondo (Lev.13,5-6).

Il tabù mestruale dura sette giorni dall’ultimo flusso di sangue: «Quando una donna abbia flusso di sangue, cioè il flusso del suo corpo, la sua immondezza durerà sette giorni» (Lev.15,19).
I capitoli 14 e 15 del Levitico descrivono i vari gradi di impurità. Per quelli più lievi l’uomo è dichiarato immondo fino a sera e per quelli più gravi fino al settimo giorno.
E lo stesso per il tabù dei morti: «Chi avrà toccato un cadavere umano sarà immondo per sette giorni» (Nm.19,11).
Il Giubileo scadrà dopo sette volte sette anni, il settimo mese, il giorno stesso del Kippur:

Conterai sette settimane di anni, cioè sette volte sette anni; queste sette settimane di anni faranno un periodo di quarantanove anni. Al decimo giorno del settimo mese ( Kippur) farai squillare la tromba dell’acclamazione ( Lo Shofar); nel giorno della espiazione farete squillare la tromba per tutto il paese. Dichiarerete santo il cinquantesimo anno e proclamerete la liberazione nel paese per tutti i suoi abitanti (Lev.25,8-10).

Nel Libro di Giosuè i figli d’Israele passano il Giordano, vengono circoncisi in quello che è un rito d’iniziazione collettivo (5,2-6), e poi catturano Gerico:

Sette sacerdoti porteranno sette trombe di corno d’ariete (shofar) davanti all’arca; il settimo giorno poi girerete intorno alla città per sette volte e i sacerdoti suoneranno le trombe. Quando si suonerà il corno d’ariete, appena voi sentirete il suono della tromba, tutto il popolo proromperà in un grande grido di guerra; allora il popolo entrerà, ciascuno diritto davanti a sé (Giosuè, 6,4-5).

Quando Davide chiede ai Gabaoniti cosa possa fare per raddrizzare il torto fatto loro da Saul questi gli risposero:

Di quell’uomo che ci ha distrutti e aveva fatto il piano di sterminarci, perché più non sopravvivessimo in nessuna parte d’Israele, ci siano consegnati sette uomini tra i suoi figli e noi li impiccheremo davanti al Signore in Gabaon, sul monte del Signore (2,Sam.21,5).

Davide consegnò loro sette nipoti di Saul, questi furono impiccati, l’ira del Signore fu così placata e la faida di sangue arrivò a una soluzione.
Dopo molti secoli, nei proverbi attribuiti al re Salomone si legge:

“Sei cose odia il Signore, anzi sette gli sono in abominio: occhi alteri, lingua bugiarda, mani che versano sangue innocente, cuore che trama iniqui progetti, piedi che corrono verso il male, falso testimone che diffonde menzogne e chi provoca litigi tra fratelli (Prov.6,16-19).
“Non si disapprova un ladro se ruba per soddisfare l’appetito quando ha fame; eppure se è preso, dovrà restituire sette volte…”(Prov.6,30-1)
“Chi odia si maschera con le labbra, ma nel suo intimo cova il tradimento; anche se usa espressioni melliflue, non ti fidare, prché egli ha sette abomini nel cuore.” (Prov.26,25).


Nel libro di Giobbe, sette erano i suoi figli maschi, che vengono uccisi per soddisfare l’ego del Signore (Giobbe,1,1-18) e Giobbe aveva settemila pecore, che vengono sacrificate sullo stesso altare: mille per ogni figlio: «Un fuoco divino è caduto dal cielo: si è attaccato alle pecore e ai guardiani e li ha divorati» (Giobbe 1, 16). In ogni sacrificio  la vittima viene messa sull’altare e l’implicazione è che il dio la venga a prendere.
Gli amici che vanno a trovare Giobbe «sedettero accanto a lui in terra, per sette giorni e sette notti, e nessuno gli rivolse la parola, perché vedevano che molto grande era il suo dolore» (Giobbe 2,13).
Ancora oggi, quando avviene una morte in famiglia, gli Ebrei per sette giorni stanno in casa, e tutti i conoscenti vanno a trovarli in segno di consolazione. Sette giorni  sette notti sono necessari per riprendere forze dopo che un lutto ha stordito e risucchiato le forze dal corpo.
Nel secondo Libro dei Maccabei, che gli Ebrei considerano letteratura apocrifa, mentre i Cattolici includono nel Canone, parla di sette fratelli, che furono presi insieme alla loro madre e torturati a morte per indurli ad abiurare la fede dei Padri (Maccabei 2, 7,1-41).
Sette fratelli, come i sette fratelli figli di Giobbe, e di questo ci ricorderemo in seguito, passano torture che ricordano molto i tormenti che, anche tra gli Indiani d’America, gli iniziati erano obbligati a passare durante i crudeli riti d’iniziazione.
Nella mitologia babilonese, Eabani, il primo uomo, viene sedotto da una prostituta sacra, Ukhat, e per sei giorni e sette notti gode del suo amore .
Nella letteratura accadico-sumera si accenna a sette demoni che sono raffigurati da sette punti e si manifestano nella costellazione delle Pleiadi .
Infine, la settima lettera dell’alfabeto ebraico, e in ebraico le lettere fungevano anche da numeri a seconda del loro posto nell’alfabeto, è la zain. Zain significa sette, ma anche «arma», e il suo simbolismo fallico è confermato dall’uso corrente che fanno i monelli per le strade di Tel Aviv di questa parola per indicare il proprio membro virile.
Nel Vangelo: «Allora Pietro gli si avvicinò e gli disse»: Signore, quante volte dovrò perdonare al mio fratello, se pecca contro di me? Fino a sette volte?». E Gesù gli rispose: «Non ti dico fino a sette, ma fino a settanta volte sette.» (Matteo 18,21).
«Ora c’erano tra noi sette fratelli; il primo appena sposato morì e, non avendo discendenza, lasciò la moglie a suo fratello. Così anche il secondo, e il terzo, fino al settimo» (Matt. 22,25).
«C’era anche una profetessa, Anna, figlia di Fanuele, della tribù di Aser. Era molto avanzata in età, aveva vissuto col marito sette anni dal tempo in cui era ragazza...» (Luca 2,36).
Nell’Apocalisse di Giovanni il sette è un elemento dominante: sette chiese (1,4), sette candelabri d’oro (1,12), sette stelle (1,16), che lui stesso spiega: «Le sette stelle sono gli angeli delle sette chiese e le sette lampade sono le sette chiese» (1,20) e sette sigilli (5,1). Poi un agnello che «aveva sette corna e sette occhi, simbolo dei sette spiriti di Dio mandati su tutta la terra» (5,6). Poi l’Agnello apre il settimo sigillo e sette angeli suonano sette trombe (8,1-2).
La nostra impressione è che il sette così ostentato dell’Apocalisse di Giovanni sia piuttosto forzato. Sembra che abbia preso in prestito gli agnelli, le corna e le trombe bibliche e gli abbia concentrati tutti insieme per creare il ritmo mistico della fine del mondo.
Il fatto stesso che il testo spieghi apertamente questi simboli (1,20) induce al sospetto che questa sia una sceneggiatura preparata con degli scopi ben precisi, e non tracce mnestiche di qualcosa di rimosso. Il simbolo ha una giustificazione solo se contiene un significato rimosso: un contenuto esplicito non ha bisogno di essere trasfigurato in simbolo.
Come se volesse ostentare l’ebraicità del messaggio che, invece, a nostro parere, fa parte della sfera della cultura occidentale, di cui anche i Vangeli fanno parte . Molto più sinceri e nel loro contesto ci paiono «l’aquila dei tre guai» e gli squilli di tromba che i tre angeli stanno per suonare (8,13). Esattamente come la Santa Trinità fa parte dello stesso contesto culturale.
Esistono fiabe persiane e arabe che parlano di sette principesse che ballavano tutta la notte con sette principi e questo numero ricorre casualmente nei racconti di «Mille e una notte».
Anche nell’Oriente non semitico appare sporadicamente questo numero, ma mai in maniera così costante come nella Bibbia ebraica.
Uno dei poemi più importanti della letteratura mediorientale fu scritto nel 1197 dal poeta persiano Nezami di Ganje e tratta dell’epopea del re sasanide Bahram V (421-439), che dopo un ciclo di grandi vittorie si riposò, sposò sette principesse, una per ognuno dei sette continenti, che fece dimorare in sette padiglioni, e dove si reca in ciascuno dei sette giorni della settimana, vestito come le sette principesse, ciascun giorno del colore astrologico riferito al pianeta che lo domina.
Nel Parsismo dell’antica Persia si veneravano sette «santi immortali», sette spiriti superiori .
In Cina esprimeva l’ordinamento degli anni di vita della donna: dopo un primo periodo formato da due volte sette ha inizio la «via dello yin» (prima mestruazione) e, dopo un periodo di sette volte sette anni, tale via ha termine (climaterio) .
Interessante notare che in Cina, come nella Bibbia, il numero sette viene associato al ciclo mestruale (Lev. 12,2 e 15,19).
Sempre in Cina, la ripetizione per sette volte di sette giorni era altresì importante nel culto dei defunti , come nella Bibbia il tabù dei morti era stato legato al numero sette (Nm.19,11).
Il settimo giorno del settimo mese si teneva anche una grande festa in onore delle giovani donne e delle ragazze.
Questo concetto del sette, ossessivo tra gli Ebrei, è presente, in maniera molto più diluita, quasi come la traccia mnestica di qualcosa di molto arcaico, anche nel mito greco e romano, ma non dopo il V secolo a.C. e non prima dell'era cristiana, lasciando un gap di più di quattro secoli, in cui questo numero non appare:

I Titani arrivarono come morti dagli Inferi, dove Zeus li aveva relegati, colsero di sorpresa il bambino che giocava, lo lacerarono, lo tagliarono in sette pezzi e li gettarono in una caldaia che stava in un tripode. Quando la carne fu cotta, essi incominciarono ad arrostirla su sette piedi (Apollodorus Mythogrphus 2, 5, 12).
Migliaia di anni sono passati, e un canto nostalgico degli Alpini della val Camonica: “Il Testamento del Capitano”, ci racconta di un Alpino che vuole che il suo corpo sia tagliato in sette pezzi e distribuito alla sua mamma, alla sua bella, al re d’Italia, alle sue montagne ...

Sette erano i re di Roma e la città fu fondata su sette colli. Appare nei miti  orfici, che celano tracce mnestiche degli arcaici riti greci della pubertà, ed Eschilo dice che Apollo era il dio del sette, come vedremo in seguito.
Nella tragedia di Eschilo, I sette contro Tebe, sette eroi difendono le sette porte di Tebe,  e Apollo è il dio del sette (I Sette contro Tebe, vv. 797-802).
Come nella storia di Gerico, dove sette sacerdoti le giravano intorno con sette simboli fallici (shofarot), sette re e sette eroi sono associati a una città, in un caso per farla cadere, in un altro per fondarla, in un terzo per difenderla.
La tensione erotica del corteggiamento e della penetrazione è lì, presente in tutti i casi.
Dopo, per molti secoli, questo numero sembra sparire dalla cultura occidentale e riappare nuovamente nel Medioevo con rinnovato vigore: sette erano infatti i doni dello Spirito Santo, rappresentati dall’arte gotica da sette colombe, sette le virtù, sette i sacramenti, sette le età dell’uomo, sette i peccati capitali, sette le richieste espresse nel Padrenostro, e sette i dolori di Maria.
E in numerose fiabe, soprattutto nordiche, raccolte dai fratelli Grimm, come «Biancaneve e i sette nani», «I dodici fratelli», in cui la sorella deve rimanere muta per sette anni per poter salvare i suoi fratelli, i «Sei cigni», che con la sorella fanno sette, «I sette viaggi di Sinbad», « I sette corvi», «Il lupo e i sette agnelli», e «Il brutto anatroccolo» dove egli è il settimo di una nidiata.
Negli anni sessanta, Hollywood ci racconta dei «Magnifici Sette» e di «Sette Spose per Sette Fratelli».
Sembra che con la crisi del mondo antico, il cristianesimo e la regressione mentale della cultura occidentale agli arcaici riti tribali del pasto totemico, come questi si rispecchiano nel simbolismo dell’Eucarestia, ci sia stato anche un riemergere prepotente del numero sette, dopo che questo era stato pressoché ignorato dalla cultura classica.
Dalla crisi del mondo antico in poi, il sette non scalzerà il tre dalla sua predominanza, ma gli si affiancherà per tutto il Medioevo.
Questo spiegherebbe anche il riapparire, improvviso e onnipresente di questo numero nell’Apocalisse di Giovanni. Questo era stato il «certificato di riammissione» della decaduta cultura greco-romana ai suoi rimossi riti tribali arcaici.


IL  TABÙ

Pare proprio che il materiale sia vastissimo e svariato.
Sette è sia un lasso di tempo, sia il numero degli agnelli da sacrificare, sia un esplicito simbolo fallico, sia il numero di un gruppo di figli o di fratelli.
Come riusciremo a mettervi un po’ d’ordine?
Cominciamo ad esaminare questo numero dalla gravità che la tradizione ebraica attribuisce alla trasgressione legata al numero sette.
L’osservanza del Sabato, il settimo giorno della settimana, acquista una rilevanza particolare, tanto da entrare a far parte del Decalogo (Ex.20,8-11),  prima ancora di «Onora il padre e la madre» e prima del “Non Uccidere”. Ed è ripetuto nuovamente nel capitolo 35 dell’Esodo, con l’esplicita punizione di morte come pena per la trasgressione.
Nei Numeri si racconta:

Mentre gli Israeliti erano nel deserto, trovarono un uomo che raccoglieva legna in giorno di Sabato. Quelli che l’avevano trovato a raccogliere legna, lo condussero a Mosè, ad Aronne e a tutta la comunità. Lo misero sotto sorveglianza, perché non era stato ancora stabilito che cosa gli si dovesse fare. Il Signore disse a Mosè: “Quell’uomo deve essere messo a morte; tutta la comunità lo lapiderà fuori dell’accampamento” (Nm.15,32-5).
«Tutta la comunità lo lapiderà fuori dell’accampamento» quindi vuol dire che quell’uomo ha trasgredito uno dei tabù più vitali della collettività. Il suo peccato è un peccato che rischia di ricadere su tutta la tribù, perciò i fratelli, tutti insieme, dovranno estirpare il male affinché non si ritorca su di loro.
L’osservanza del riposo sabbatico ha, per la legge ebraica, più importanza del «Non uccidere», ed è secondo solo al «Non avrai altri dei», del «Non ti farai idolo o immagine alcuna” e “Non pronunzierai invano il nome del Signore Dio tuo”.
La tradizione ebraica stabilisce che i primi cinque comandamenti del decalogo appartengono alla sfera della sacralità dei precetti tra l’uomo e Dio, mentre gli ultimi cinque appartengono alla sfera dei precetti tra uomo e uomo. Quindi mentre il “non rubare” e il  “non commettere adulterio” sono comandamenti che stabiliscono i rapporti basilari tra gli uomini, l’osservanza del Sabato appartiene ai precetti la cui profanazione è diretta contro Dio stesso, insieme al “Onora il padre e la madre”, il quinto comandamento, l’ultimo che riguarda  la profanazione del sacer.
Il settimo giorno assume dunque la connotazione terribile del tabù, prima dell’omicidio, dell’incesto, dell’adulterio e del furto delle cose altrui.
La morte, infatti, nelle tribù primitive è la pena per chi trasgredisce ai tabù.
Fino al periodo delle guerre dei Maccabei nel secondo secolo A.C., gli Ebrei preferivano morire piuttosto che difendersi durante il riposo sabbatico.
Solo dopo furono codificate delle regole, che permettono di usare le armi per difendersi anche in questo giorno (Maccabei II,2, 40-41).
Pari per gravità, e forse ancora maggiore, è la trasgressione della Pasqua:
«Per sette giorni voi mangerete azzimi. Già dal primo giorno farete sparire il lievito dalle vostre case, perché chiunque mangerà del lievitato dal giorno primo al giorno settimo, quella persona sarà eliminata da Israele»(Ex.12,15)
Nei Numeri ritorna l’avvertimento: «Ma chi è mondo e non è in viaggio, se si astiene dal celebrare la Pasqua, sarà eliminato dal suo popolo; perché non ha presentato l’offerta al Signore nel tempo stabilito, quell’uomo porterà la pena del suo peccato»(Nm.9,13).
Sembra che il tabù originale fosse ristretto a quello del sacrificio pasquale, dove tutti i membri della tribù devono partecipare all’atto cannibalistico, nel suo sostituto che è il sacrificio dell’agnello. I Numeri non menzionano il cibo lievitato, e forse solo posteriormente il tabù è stato allargato anche a quest’ultimo. L’interdizione del cibo lievitato e l’obbligo di cibarsi di solo pane azzimo è equivalente all’obbligo del sacrificio pasquale o una sovrapposizione posteriore, ma il significato è lo stesso. Interdire di mangiare una cosa (il pane lievitato) e obbligare contemporaneamente a mangiare la sua antitesi (il pane azzimo) è una condensazione sia dell’obbligo di cibarsi in comune della carne del Padre ucciso, che del tabù di avvicinarsi a questa.
L’associazione pane-corpo umano, e in senso traslato "corpo del Signore", non è stata un’innovazione del cristianesimo.  In ebraico pane si dice lehem, ma in arabo la stessa parola indica “carne”, e l’allusione è che nella lingua proto-semitica dalla quale sono provenute sia l’arabo che l’ebraico la radice originale stava per carne, che come nutrimento dell’uomo ha anticipato di centinaia di millenni il pane, che può risalire solo all’introduzione dell’agricoltura, non prima del decimo millennio e probabilmente molto dopo. Il significato originale di Betlemme (Beit-lehem), "casa del pane", era originalmente "casa della carne".
Le tracce si possono trovare anche nel versetto della Genesi: “Poi sedettero per prendere cibo” (Gen. 37, 25), ma questa è una traduzione completamente arbitraria. In ebraico è scritto: “e si sedettero e mangiarono pane”. I fratelli di Giuseppe dopo averlo gettato nella cisterna e aver deciso di ucciderlo, in un’unica associazione si siedono a mangiare pane. Questo versetto è messo proprio in mezzo, tra quando lo aggrediscono a quando decidono di venderlo agli Ismaeliti. Ovviamente la saga originale ci raccontava di un fratricidio e di un atto di cannibalismo che fu poi ricucita e unita insiema a quella della storia del giovane Giuseppe che sarebbe diventato viceré d’Egitto.
Avevano già deciso di ucciderlo, si siedono a mangiare pane e poi improvvisamente alzano gli occhi e vedono una carovana di Ismaeliti, e poi il racconto continua e dice che in realtà lo avevano venduto ai Madianiti. Il fratricidio è stato nascosto e rimosso.
Uccisero e si cibarono delle sue carni. Come in tutte le società sia selvagge che civili, dopo una morte i congiunti si mettono a mangiare, spostamento della pulsione cannibalistica a un oggetto che questa volta è diventato “pane”. Non sappiamo se la saga biblica originale raccontasse solo di un fratricidio, dopo del quale, come dopo ogni morte ci si metta a mangiare, o implicasse anche un atto di cannibalismo reale. Siccome qui la storia ci racconta di qualcosa avvenuta all’inizio del secondo millennio possiamo assolvere i fratelli di Giuseppe dell’imputazione di cannibalismo e accontentarci di quella di omicidio. Se anche il cannibalismo non fu reale, fu certamente simbolico, come lo è anche oggigiorno nelle società più civili.

Per chi non si ciba dell’agnello pasquale, o si ciba di pane lievitato, l’anatema è terribile, poiché «essere eliminati dal popolo» è il Karet, che è un castigo peggiore della morte. Chi commette questa trasgressione diventa lui stesso tabù, e non può venire toccato. Solo Dio stesso può punirlo.
Questo anatema colpisce solo altre due categorie di trasgressori: i non circoncisi e coloro che trasgrediscono al digiuno del Kippur.
Dunque chi si astiene dal rito pasquale è allo stesso livello di coloro che non si identificano con il resto del popolo nel suo giorno di penitenza e dei non circoncisi, che non portano nella carne il marchio dell’identità del clan
La circoncisione è il più esplicito segno di questa auto-identità, sotto la cappa del senso di colpa per il parricidio commesso in comune, ed è anche il segno attraverso il quale gli iniziati insieme si considerano fratelli di sangue. Come dice Tacito: «I Giudei hanno istituito l’usanza della circoncisione, per riconoscersi tra di loro da questo segno distintivo» (Hist. V,5). E anche qui c’è un legame con il sette, poiché, come abbiamo visto, una donna che avrà partorito un maschio «sarà immonda per sette giorni; sarà immonda come nel tempo delle sue regole. L’Ottavo giorno si circonciderà il bambino» (Lev.12,2-3).
Dunque esiste un’associazione diretta tra i sette giorni del tabù, dell’intoccabilità, e la circoncisione che avviene l’ottavo giorno.
La Torà ammonisce dal tabù mestruale (Lev. 15,19), che dura sette giorni.
Lo stesso fanno nella tribù africana degli Yao. E lo fanno nei giorni in cui i novizi sono relegati nella foresta e imparano dagli adulti le leggi della tribù, mentre stanno ancora soffrendo dei dolori della circoncisione .
La circoncisione, che è la mutilazione inferta nel rito d’iniziazione, risolve il tabù, l’impurità in cui i giovani si trovavano fino a quel momento.
Circoncisione è infatti simbolo di purificazione e in tutta la Bibbia questa associazione si ripete. Il cuore “non circonciso” è un cuore impuro, ovvero ancora immerso nelle fantasie incestuose e parricide. Dal senso crudo del rito viene anche l’astrazione allegorica.
Chi non è circonciso non si autoidentifica con la tribù dei fratelli, complici del misfatto primigenio: «Il maschio non circonciso, di cui cioè non sarà stata circoncisa la carne del membro, sia eliminato dal suo popolo: ha violato la mia alleanza» (Gn.17,14). «Sia eliminato dal suo popolo», esattamente come che si astiene dal sacrificio pasquale e dall’Espiazione del Kippur.
È proibito toccarlo, è proibito ucciderlo, non fa più parte della tribù.
Gli Ebrei avevano conservato questo segno del rito d’iniziazione di quando erano a uno stadio di sviluppo più arcaico, ma avevano spostato la data della circoncisione dal periodo della pubertà, a cui appartiene, all’ottavo giorno dopo la nascita.
Ma niente è casuale, certamente non nel rituale primitivo.
Quindi il testo, dicendoci:
Quando una donna sarà rimasta incinta e darà alla luce un maschio, sarà immonda per sette giorni; sarà immonda come nel tempo delle sue regole. L’ottavo giorno si circonciderà il bambino» (Lev.12,2-3)
ci racconta implicitamente come, ai tempi degli antichi riti della pubertà, questa cerimonia veniva eseguita all’ottavo giorno, dopo sette giorni di preparazione, o un periodo parallelo corrispondente al numero sette, poiché è il testo stesso che produce la libera associazione tra i sette giorni del tabù mestruale, la nascita del maschio e la circoncisione che avviene all’ottavo.
E da qui il sette come simbolo fallico.
Non solo ma, associando la nascita del maschio con la circoncisione, tradisce la traccia mnestica dei riti di morte e rinascita simbolica, che fanno parte essenziale di questi riti di passaggio, e che sono concomitanti alla circoncisione.
Vediamo ora come il numero sette si ricolleghi al simbolo del genitale maschile anche in un altro contesto.
Furono gli Ebrei a inventare l’alfabeto, intorno al XV sec. A.C.  e ogni lettera rappresentava la stilizzazione di un oggetto. La prima lettera Alef, foneticamente A, era rappresentata dalla stilizzazione della testa di un toro (Aluf = toro) ed era anche il numero 1. La seconda Beit, foneticamente B , dalla stilizzazione della figura di una casa (Bait = casa) ed era il numero 2, la terza Gimmel, foneticamente G, da un cammello (Gamal = cammello) ed era il numero 3, e così via fino alla settima lettera la Zain, foneticamente Z che è il numero sette, significa arma ed era rappresentata con un disegno che ricorda in tutto il genitale maschile, ed è su questo organo, ovvero su questo numero-lettera, che veniva eseguita la circoncisione, marchio del rito iniziatico.
E, nuovamente, dal crudo contesto concreto si arriva alla sua trasfigurazione simbolica.
Il Kippur, oltre a essere il giorno dell’Espiazione collettivo per l’atto di aggressione e di cannibalismo primigenio verso il corpo di Dio-Padre (
Theodor Reik, «Il Kol Nidre», in Il Rito Religioso, Boringhieri, Torino 1969., pp. 199-200. Per il Kippur come ripetizione dall’atto cannibalistico e la sua espiazione, vedi anche: Karl Abraham, «Il Giorno dell’Espiazione: osservazioni a «Il rito religioso: studi psicoanalitici» di Theodeor Reik», in Opere, B.Boringhieri, Torino 1977, vol. 2, pp. 710-721) , è legato al numero sette, in quanto viene celebrato il settimo mese e nella tradizione ebraica è chiamato il Sabato dei Sabati, ed è l’unico giorno più sacro del Sabato.
Del Kippur la Torà dice:
In quel giorno non farete alcun lavoro; poiché è il giorno dell’espiazione, per espiare per voi davanti al Signore, vostro Dio. Ogni persona che non si mortificherà in quel giorno, sarà eliminata dal suo popolo. Sarà per voi un Sabato di assoluto riposo e dovrete mortificarvi: il nono giorno del mese, dalla sera alla sera dopo, celebrerete il vostro Sabato (Lev.23,32).
Attraverso queste associazioni, il genitale maschile, il rito iniziatico e la circoncisione vengono legate al Kippur, al Sabato dei Sabati, al digiuno e all’Espiazione e, quindi, al pasto totemico, in cui si celebrano l’atto cannibalistico e l’astinenza da questo in un’unica condensazione.
Tutto il cerimoniale di questo giorno è la ripetizione del pasto totemico, della sua espiazione e della conciliazione finale con il Dio-Padre.
E infatti termina con la dichiarazione solenne, fatta sette volte, ad alta voce, da tutta la congregazione: «Il Signore è l’unico Dio». Subito dopo viene suonato lo Shofar, ovvero, viene fatta sentire ad alte note la voce dell'ariete, il muggito del Dio, a segno della riconciliazione avvenuta (Cfr. T.Reik, op.cit.)
La festa delle Capanne, Sukkoth, viene celebrata il settimo mese, subito dopo il Kippur e a catena con questo, come se fosse un’unica festa, al punto che i rabbini raccomandano di cominciare a costruire la capanna subito dopo il suono del corno di montone (shofar), che annuncia la fine del digiuno.
Per sette volte, dunque, ancora oggi viene annunziata, nelle sinagoghe ai quattro angoli della terra, la validità del patto tra Jahvè e i suoi figli, come con sette agnelli era stato sancito il patto tra Abramo e Abimelech e come sette pietre avevano fatto da testimonianza al patto tra gli Arabi, menzionato da Erodoto (
Hist., III,8 - Cfr. Supra).
La Festa delle Capanne (Sukkoth) dura sette giorni e l’ultimo grande giorno di festa è l’ottavo (Simhat Torà), «la gioia della Legge», come i sette giorni del tabù della nascita si concludono con l’ottavo, che è la circoncisione.
Questa festività è di particolare interesse. Reik  ha esaminato da vicino questa ricorrenza e ha trovato che la festa delle Capanne, in cui gli Ebrei devono dimorare per sette giorni, è la traccia mnestica dei riti d’iniziazione delle antiche tribù ebraiche (
T. Reik, «A Home Away from Home», in Pagan Rites in Judaism, Farrar & Straus, New York 1964, pp.3-26). In questi riti i giovani vengono relegati al di là dell’accampamento di tutta la comunità per un lasso di tempo, in cui vengono terrorizzati dagli adulti e istruiti sui segreti della tribù.
Le Capanne, che ancora oggi gli Ebrei abitano in questa festa per sette giorni, sono dunque quelle dei giovani novizi, lontano dalle loro abitazioni abituali, e il popolo si autoidentifica con loro. Diventa tutto un popolo di iniziati. Jahvè è l’iniziatore.
Ed ecco perché la grande festa, che conclude il ciclo di sette giorni d’isolamento nelle Capanne, si celebra l’ottavo.
Come abbiamo visto, nella Torà il numero sette è legato ai riti più importanti della tribù, la cui profanazione produce l’anatema, il tabù.
Dopo il Diluvio, questa estrema espressione dell’ira di Jahvè, l’iniziatore, rappresentante della generazione degli adulti, Noè, il novizio, manda una colomba e aspetta sette giorni.
Abramo mette de parte sette agnelle per stringere un patto con Abimelech. Stringere un patto vuol dire coabitare con lo stesso totem, diventare fratelli per totem. Chi profana il totem-patto tra i fratelli è colpito da tabù (
S.Freud,  Totem e Tabù, IV,5).
Il montone era l’antico Totem delle tribù ebraiche e il sacrificio pasquale è appunto un agnello. Si diventa fratelli uccidendo e mangiando lo stesso totem, identificandosi con esso , e sopportando le pene del rito d’iniziazione comune, che si conclude con la circoncisione, il marchio.
Giacobbe lavora sette anni per Lia e altri sette anni per Rachele, che in ebraico vuol dire «la pecora preferita», e sette sono i giorni della celebrazione nuziale, come sette sono i giorni del tabù mestruale e del tabù della nascita, che viene riscattato solo dalla circoncisione.
Il matrimonio di Giacobbe, ovvero il suo primo rapporto eterosessuale, è la conclusione di un ciclo di fatiche (lavoro), che dura sette anni, come il primo rapporto eterosessuale dei giovani iniziati si sussegue a catena al rito della pubertà concluso (
Su come presso alcune tribù selvagge dell’Australia esiste persino la credenza che se l’atto eterosessuale non verrà consumato immediatamente dopo il rito della pubertà, l’iniziato morirà vedi: T.Reik, « I Riti della Pubertà», in  Il Rito Religioso, cit. p. 140) .
Mosè, dopo aver ucciso l’Egiziano che stava percuotendo un Israelita (Ex.2,12) e aver salvato le sette figlie del sacerdote di Madian dai pastori (Ex.2,16-17), ne riceve una in moglie (Ex.2,21). Anche in questo caso la fatica inziatica e l’atto eroico sono seguite a catena dal rapporto eterosessuale.
Mosè che uccide l’Egiziano è un illuminante parallelismo ai riti iniziatici presse certe tribù selvagge dove, come parte del rito, il giovane deve uccidere un nemico (T.Reik,
« I Riti della Pubertà»,  op.cit. p.122).
Subito dopo avrà la donna. Il nostro sette, con il suo nesso all’impresa eroica di Mosè emerge nel numero delle figlie del sacerdote madianita, di cui  ne riceve una: se il Paride greco aveva scelto una fra tre donne, Mosè, l’eroe della saga ebraica, ne sceglie una su sette.
Questo numero continua a scandire, come la cadenza del rullo di un tamburo, il ritmo serrato di tutta la saga biblica.
Giosuè, passato il Giordano, circoncide i figli d’Israele in un rito d’iniziazione collettivo. Dopo il passaggio del Giordano, ovvero dopo la «rinascita», simboleggiata dall’uscita dall’acqua  gli iniziati subiscono la mutilazione dell’evirazione simbolica (
Sull’acqua come simbolo della madre e di nascita, vedi  S.Freud, «Simbolismo nel Sogno», in op. cit., Vol. 8, p.325).
Subito dopo avviene «l’impresa eroica», come quella che devono compiere gli iniziati delle tribù selvagge, che nella presa di Gerico si condensa all’atto eterosessuale. La presa della città di Gerico infatti, comparabile alla presa di Troia da parte delle tribù achee, è l’atto eterosessuale che gli iniziati compiono per la prima volta dopo il rito.
Con sette trombe di corno di montone, simbolo fallico del Dio d’Israele, il dio-ariete, l’orda israelita perpetra l’incesto. Dopo aver girato intorno alle sue mura impenetrabili per sette volte, la città che « che era saldamente sbarrata dinanzi agli Israeliti; nessuno usciva e nessuno entrava» (Giosuè 6,1), cede la sua verginità ai giovani novizi.

È legato al Diluvio e all’ira del Signore.
È legato al patto tribale e al giuramento.
E’ legato alla vendetta di sangue.
È legato all’intoccabilità, al tabù, e ai riti che purificano.
È legato alla donna, al matrimonio e alla settimana nuziale.
È legato a un gruppo di giovani, di fratelli.
È legato ai riti d’iniziazione.
Dopo che gli Ebrei diventarono un popolo di agricoltori questo numero di iniziazione tribale diventò iniziazione della terra e fu collegato ai cicli agricoli. Ed ecco che al settimo anno la terra deve riposare, come aveva riposato Jahvè, dalle fatiche della creazione del mondo.
Ed eccoci ritornati all’inizio.

CREAZIONE  E  DISTRUZIONE

Jahvè crea il mondo in sei giorni e al settimo, a completamento del ciclo, si riposa.
La cosmogonia biblica ricalca luoghi comuni della mitologia sumerica e babilonese ed è stato già scritto molto su quest’argomento.
Anche il concetto di un mondo creato come il risultato dell’amplesso tra un dio maschile che sta sopra e una dea femminile che sta sotto, come dall’amplesso tra Urano e Gea, ha lasciato le sue tracce nel versetto: «...e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque» (Gn.1,1,).
Quello che è peculiare del mito biblico è la presenza di un Dio-Padre che fa tutto da solo, senza l’ausilio di nessuna divinità femminile e dal nulla, mentre nella cosmogonia degli altri popoli c’è sempre qualche materia primordiale, che c’era anche prima, e solo dalla quale emerse un dio Padre o un eroe creatore.
L’assenza di una dea femminile è facilmente spiegabile dalla serrata struttura patriarcale delle tribù ebraiche al tempo in cui adottarono queste saghe.
Nel mito sumerico il mare primordiale (abzu) esisteva prima e il cielo e la terra furono formati da esso  .
Questa versione corrisponde a quella di Omero , che dice che l’Oceano era «l’origine degli dei» e «l’origine di tutto». Da Oceano venne Teti, che veniva chiamata Madre.
Una versione orfica diceva , invece, che

all’inizio esisteva la Notte. Essa aveva l’aspetto di un uccello dalle ali nere. Fecondata dal vento, la Notte depose il suo uovo d’argento nell’immenso grembo dell’oscurità e da quest’uovo balzò fuori Eros, denominato Protogonos, il primogenito di tutti gli dei. Lo spazio cavo dell’uovo era il chaos. Nella parte inferiore dell’uovo c’era il Cielo e la Terra che si accoppiavano. Eros li spinse a questa unione e da essa nacquero Oceano e Teti. (K.Kerenyi, op.cit. pp.26 - 7)
Un poema di Orfeo diceva: «Il primo fu Oceano, dal bel corso, che incominciò l’accoppiamento: egli prese in isposa la sorella Teti, nata dalla stessa madre», ovvero la Notte .
La terza versione è quella di Esiodo , che ci racconta che
prima di tutto c’era il Chaos, poi Gea, dall’ampio seno, sede di tutte le divinità. Dal Chaos discendono Erebo (il buio) e la Notte, che unitasi a questi, partorì la luce del cielo (Etere) e il giorno (Emera). Gea invece, prima di ogni altra cosa partorì come suo simile Urano. Essa partorì le montagne e Ponto, il Mare deserto, in un parto ortogenico. Con Urano invece si accoppiò e partorì i Titani. Tra i quali anche Oceano e Teti. 


Tutti questi elementi, che esistevano nella cosmogonia degli altri popoli, prima di un dio-Padre, furono condensati e rimossi nel racconto biblico, per non dare addito a nessuna speculazione che ci fosse qualcosa prima di Dio e al di fuori di lui.
Ma le tracce della rimozione rimasero.
E infatti il secondo giorno «Dio disse: «Sia il firmamento in mezzo alle acque per separare le acque dalle acque» » (Gn.1,6). Ma le acque non erano mai state create, poiché nel primo giorno Dio aveva creato solo il cielo, la terra e la luce.
Generazioni dopo generazioni di rabbini si chiesero a vicenda dov’erano mai le acque prima che Dio iniziasse la creazione .
Nelle tradizioni posteriori, la sensazione che qualcosa sia stato censurato dai testi e nascosto cominciò a premere per un riconoscimento.
Una leggenda ebraica dice:

tre elementi esistevano prima della creazione: l’acqua (la parola acqua in ebraico è sempre al plurale = le acque), lo spirito (in ebraico la stessa parola, ruah, significa anche vento, ed ecco qui il Vento della tradizione orfica, quello che aveva fecondato la Notte, che riemerge dalla rimozione) e il fuoco. L’acqua entrò incinta e partorì le tenebre, il fuoco entrò incinta  e partorì la luce, lo spirito entrò in cinta e partorì la sapienza (Sefer Haggad�, Devir Pubblishing, Tel Aviv 1948, p.13).
Ecco che la concezione di elementi primordiali che precedono la creazione e quindi, implicitamente, anche il Creatore, come nella cosmogonie babilonese e greca, emergono nelle leggende ebraiche che non furono incluse nel Canone.
Ancora più esplicita è la Kabbalà, che nel libro dello Zohar ci dice che il Signore aveva una moglie, Matronit (3,69).
Naturalmente tutto viene raccontato dietro il velo della rappresentazione simbolica, ma i simboli sono la condensazione di tracce mnestiche che emergono dalla rimozione. I rabbini della Kabbalà non avrebbero avuto questa “idea” se non per la percezione rimossa che c’è qualcosa nella cosmogonia ebraica come viene rappresentata nel Canone che non convince: qualcosa era stato omesso.
Ma per noi la cosa più importante è che l’immagine finale che emerge è quella di un dio maschio, da solo, che crea tutto il mondo in un periodo di tempo ben definito, secondo un ritmo prestabilito e questo è rappresentato dal numero sette.
Perché mai il Dio onnipotente, partorito dalla fantasia ebraica in una proiezione così possente e sublimata dell’immagine del proprio Padre, non crea tutto il mondo di colpo, con un magico fiat, come ha fatto con la luce?
Il Dio che ci presenta la Bibbia crea il mondo un po’ alla volta, in numerosi atti, mandato ripetutamente in missione. Ogni giorno commette un’impresa, un fatto miracoloso, e dopo si congratula con se stesso dicendosi: «E Dio vide che era cosa buona».
 Le sue fatiche ricordano quelle di Ercole, il semidio, dio figlio che viene mandato a compiere numerose imprese=atti eroici, come a compimento di un doloroso rito d’iniziazione. E, come per mettere l’accento sulla fatica, una volta finito, si riposò
La seconda cosa strabiliante è che Dio crea la donna, non come parte del resto della creazione, ma dopo che il suo ciclo di fatiche era già terminato.
Come i giovani iniziati delle tribù selvagge che debbono avere subito un rapporto sessuale a compimento finale del rito, altrimenti rischiano la morte (nota 65).
Per il momento lasciamolo solo, questo dio-faber, mentre sta forgiando la sua creazione con le proprie mani.
Riesaminiamo nuovamente qual è l’immagine di questo Dio subito dopo.
Se prescindiamo dalla Creazione, la prima cosa importante che fa è distruggere il mondo.
Come la mitologia greca ci racconta di Giganti e di Titani e di lotte spaventose e distruzioni agli albori dell’umanità, cosi’ la Bibbia ci racconta: «C’erano sulla terra i giganti a quei tempi - e anche dopo - quando i figli di Dio si univano alle figlie degli uomini e queste partorivano loro dei figli: sono questi gli eroi dell’antichità, uomini famosi» (Gn.6,4).
Tutti i racconti di dei che si univano a mortali e di dee che partorivano giovani Eroi da uomini, così dettagliatamente raffigurati in una multiforme rappresentazione scenica nella mitologia greca, vengono condensati e compressi in questo unico versetto.
Il Redattore deve essersi pentito amaramente di essersi lasciato scappare questo lapsus calami!
Ma, in associazione diretta con i figli di Dio che si univano alle figlie degli uomini e con gli eroi dell’antichità, appare l’ira di Dio e il diluvio universale.
Con la furia di un Gigante o di un Titano, Iddio si getta sulla terra per distruggerla.
Come la mitologia greca ci descrive Apollo, in uno dei suoi aspetti, come “colui che colpisce da lontano” (Iliade 1,1), con il suo terribile arco, e «colui che distrugge totalmente» , così appare il dio della Genesi, nel suo aspetto terribile e minaccioso.
Gli Achei, intorno alle mura di Troia, erano l’orda dei fratelli coalizzati per penetrare la città e rapirne la regina, e sul loro campo piomba Apollo con il suo terribile arco e ne fa strage, come gli adulti o lo stregone della tribù terrorizzano, con i propri simboli fallici , il campo dei giovani iniziati, e minacciano di ucciderli.
E Apollo è il dio protettore dei ragazzi e dei fanciulli.
Infatti, durante i riti della pubertà gli adulti prima spaventano a morte gli iniziati, e poi istruendoli sui segreti della tribù, inducono i giovani ad identificarsi con loro e diventano loro protettori e «padri» nel senso ideale della parola.
Jahvè piomba sulla terra «perché tra sette giorni farò piovere sulla terra...e dopo sette giorni le acque del diluvio furono sopra la terra».
Il Dio-Padre ostenta davanti a Noè, l’Eroe, l’iniziato, il proprio simbolo fallico, il numero sette, esattamente come Apollo colpiva con il proprio simbolo fallico, l’arco e le frecce.
Il numero sette, che, come abbiamo visto, in ebraico significa arma (p.18), colpirà l’uomo e lo ucciderà. Noè, l’iniziato, riesce a superare la prova e il numero sette, che aveva distrutto gli indegni, sarà la sua salvezza, la vita: «D’ogni animale mondo prendine con te sette paia...Anche degli uccelli mondi del cielo sette paia, maschio e femmina, per conservarne in vita la razza su tutta la terra» (Gn.7,2-3), «Attese altri sette giorni e di nuovo fece uscire la colomba dall’arca  e la colomba tornò da lui sul far della sera; ecco essa aveva nel becco un ramoscello d’ulivo» (Gn.8,10).
Il sette, il simbolo fallico del dio-Padre, che era stato strumento di morte, diventa strumento di salvezza . Esattamente come l’arco e le frecce, il simbolo fallico di Apollo, che aveva portato la morte nel campo degli Achei, salva da morte tutta l’umanità, dopo un diluvio esattamente come quello biblico, uccidendo il terribile pitone.
In entrambi i casi, nel racconto del diluvio biblico come in quello di Ovidio, l’umanità risorge dopo essere stata immersa nelle acque.
L’acqua  è il simbolo della madre e della nascita. Inoltre, come ha rilevato Reik, nelle tribù primitive l’immersione nell’acqua o l’essere spruzzati con acqua è parte essenziale dei riti di pubertà, in cui l’iniziato è considerato rinato attraverso questo rito .
Come abbiamo visto Apollo rappresenta la condensazione sia del padre iniziatore, quando terrorizza gli Achei sotto le mura di Troia, sia del giovane novizio, quando uccide il Pitone, il mostro fallico emerso dalla Madre Terra dopo il diluvio. Ma Ovidio ci racconta ancora qualcosa: a coronamento della sua impresa iniziatica istituisce i giochi pitici i cui vincitori vengono coronati dall’alloro. Questa pianta, data in premio a tutti i giovani che risultano meritevoli, diventa così il simbolo della riconciliazione della generazione dei padri con quella dei figli, che è esattamente la meta finale di tutti i riti della pubertà iniziatici.
Nel mito biblico invece dell’alloro appare l’ulivo. La colomba torna nell’arca e porge a Noe’ il simbolo della riconciliazione tra l’umanita’ e Dio-Padre. Per i Greci questa riconciliazione si traduce in gloria per la generazione dei figli, la corona di alloro, come il rito iniziatico rappresentato dalla Crocifissione  si tradurrà in gloria per il Dio-Figlio che ascenderà al Regno dei Cieli per sedersi a fianco del Padre condividendone la gloria, implicitamente spodestandolo. Nel mito ebraico l’Eroe, Noé, che nella mitologia babilonese dalla quale deriva questo mito era certamente stato un semi-dio, viene degradato a mortale e, come tutti gli Eroi ebrei accetta, nell’interpretazione biblica, la sovranità assoluta del Padre.
Per gli Ebrei, asseragliati in una struttura sociale e mentale patriarcale, la conciliazione può avvenire solo quando i figli accettano gli insegnamenti e la morale paterna e rinunciano a qualsiasi ribellione.
Se accettiamo questa interpretazione, e ci pare che sia la piu’ articolata e coerente di quelle che siano mai state date fin’ora, esentandoci così dalle stiracchiate interpretazioni allegoriche e razionalizzanti, che sovrappongono alla cruda realtà concreta descritta dalla Bibbia interpretazioni metafisiche estranee al modus esistenziale arcaico, ci diventa chiara anche un’altra “stranezza” dei racconti della Genesi: la longevità dei patriarchi.
Adamo visse novecentotrenta anni, Set novecentododici, Enosh novecentocinque, Kenan novecentodieci, Maalalel ottocentonovantacinque, Iared novecentosessantadue, Enoch “solo” trecentosessantacinque perché “Dio lo aveva preso”, forse come Zeus aveva rapito Ganimede ancora fanciullo, Matusalemme novecentosessantanove, Lamech settecentosessantasette (Gn. 5, 1-28) e Noè novecentocinquanta (Gn, 9,29).
Dopo il diluvio le cose si ridemensionano ma siamo ancora in alta mitologia: Abramo visse centosettantacinque anni (Gn.,25,7), Isacco cent’ottantanta. Di Giacobbe non sappiamo niente, forse perche’ fu la prima figura veramente storica raccontata dalla Bibbia. Il suo nome appare infatti anche in documenti epigrafici esteriori alla Bibbia, come un capo tribu’ famoso nel medio Oriente antico. Giuseppe visse centodieci anni, e qui almeno siamo rientrati nella dimensione della realtà.
La risposta è semplice: questi erano dei e quindi immortali.
Quando il Redattore della Bibbia si trovò davanti tutte queste antiche saghe ebraiche, non poteva naturalmente trascriverle come le descrivevano le leggende orali tramandate da padre in figlio. Gli dei diventarono uomini, ma la traccia mnestica che una volta erano stati dei è rimasta nella loro straordinaria longevità. Diventarono quasi-immortali, poiché come altro si può definire un uomo che vive quasi mille anni?  Come ha detto Freud, gli uomini non sono fatti per tenere segreti, e questi emergono sempre o come lapsus calami o come deformazioni dei testi che non hanno un senso.

Link to Sapere e conoscenza. Dai riti iniziatici alla filosofia platonica


IL  POPOLO  ELETTO

Abbiamo visto come le tribù ebraiche, che come per tutte le tribù primitive i riti d’iniziazione erano i riti principali della vita collettiva, abbiano fatto una proiezione a livello cosmologico di quella che era la loro realtà esistenziale tribale.
I Sumeri, i Babilonesi e, dopo di loro, i Greci si erano sviluppati a civiltà. Erano passati da una fedeltà tribale a una fedeltà di tipo nuovo.
Sumeri, Babilonesi e Greci si organizzarono a società politiche, e superarono i riti d’iniziazione tribale, conservandone solo tracce mnestiche rimosse.
Nella mitologia greca queste tracce sono rimaste nelle imprese eroiche, che l’iniziato deve compiere, a coronamento del suo passaggio iniziatico.
Per gli Ebrei fu più difficile. Pur sviluppando una cultura altamente sofisticata, non si staccarono mai da quel tipo d’identità che preferisce i legami del clan a quelli della polis.
Le tracce degli antichi riti d’iniziazione tribale continuarono, così, a emergere in tutta la liturgia ebraica .
Il Padre primigenio, dio esclusivo della tribù, anche se proiettato ad altezze nuove, rimase pur sempre il Padre del suo popolo, che diventò, così, popolo eletto, inversione dell’attaccamento del popolo al suo dio esclusivo.
Quando questo Dio pretende da lui di essere un «popolo sacro»  , «Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa» (Ex.19,6), «Santificatevi dunque e siate santi» (Lev.11,44), e nuovamente in (Lev.19,2) e (Lev.20,7), in realtà pretende da lui di rimanere un popolo di iniziati, perennemente immerso nella sacralità, nel tabù e nella sua esorcizzazione, un popolo di figli, eternamente terrorizzati da una generazione di adulti che spaventano i propri giovani, nascosti dietro delle maschere spaventose.
Così, se il diluvio universale era stato la proiezione del proprio rito iniziatico su tutta l’umanità, tracce di questi stessi riti erano rimaste anche tra i Sumeri, i Babilonesi e i Greci, e anch’essi avevano innescato lo stesso processo di proiezione all’esterno.
E infatti anch’essi conservano memorie di uno spaventoso diluvio, nel quale l’umanità era morta e rinata.
Ma la differenza consiste nel fatto che questi popoli, abbandonata completamente la struttura tribale, avevano rimosso questi riti e li avevano conservati solo come tracce mnestiche, che si riflettono appunto nella mitologia del diluvio e nelle imprese degli Eroi.
Gli Ebrei, invece, continuarono a vivere la loro realtà onnipresente di eterni novizi e, dopo il diluvio, l’eterno rito d’iniziazione continua a ripetersi in tutte le feste ebraiche, e il numero sette, questo terrificante simbolo fallico del dio iniziatico, continua a venire presentato loro davanti, come una minaccia onnipresente.
I sette giorni della Pasqua, in cui viene sacrificato e mangiato il corpo del Padre tribale, montone-agnello , prima in sintesi, poi sostituito, dal pane azzimo , in una notte in cui tutti sono asserragliati in casa, mentre l’angelo della morte compie, fuori, la sua strage (Ex12,21-7).
Dopo sette settimane dal rito pasquale, ecco il Shavùot, la «festa delle settimane», ai piedi del monte Sinai e Jahvè, il dio iniziatico, di nuovo terrorizza il suo popolo tra tuoni e fulmini, al punto che gli Israeliti non vogliono più né vedere né ascoltare, poiché hanno paura di morire :

Tutto il popolo percepiva i tuoni e i lampi, il suono del corno e il monte fumante. Il popolo vide, fu preso da tremore e si tenne lontano. Allora dissero a Mosè: «Parla tu a noi e noi ascolteremo, ma non ci parli Dio, altrimenti moriremo...Il popolo si tenne dunque lontano mentre Mosè avanzò verso la nube oscura, nella quale era Dio (Ex.20,19-21).
E Mosè attese sei giorni e solo il settimo il Signore gli si rivelò (Ex.24,16).
Il settimo mese, il decimo giorno del mese, il Kippur, il Sabato dei Sabati, il giorno in cui gli Ebrei espiano, attraverso il digiuno, il loro peccato di cannibalismo primigenio.
E il settimo mese, quattro giorni dopo, a catena e nella sintesi di un’unica festa, la festa delle Capanne, che dura sette giorni, dove gli iniziati vengono relegati al di fuori del campo.
Come abbiamo visto (p.24), i Rabbini raccomandano di cominciare a costruire subito la capanna la sera stessa in cui finisce il Kippur, affinché non ci sia nessun intervallo tra una festa e l’altra.
Siamo arrivati addirittura a una condizione di horror vacui, tra una manifestazione del rito d’iniziazione all’altra.

DA INIZIATORE  A  INIZIATO

E dopo questa lungo giro, eccoci arrivati nuovamente al punto di partenza, alla Creazione del mondo.
Dio crea il mondo in sei giorni e il settimo si riposò.
Abbiamo visto finora come Jahvè, il dio d’Israele, sia stato un dio iniziatico.
Dal Diluvio universale, alla Pasqua, ai riti sulle falde del monte Sinai, alla relegazione dei suoi figli per sette giorni alle capanne, era apparso nel campo degli Israeliti, da dietro la sua maschera (e infatti è proibito guardare e vedere l’immagine del Signore), dio terribile e vendicativo, come Apollo che fa strage nel campo degli Achei con il suo arco e la sua faretra, ostentando il suo sette, il suo simbolo fallico minaccioso.
Secondo la versione della Genesi, Dio crea il mondo dal nulla, ma già nei primi versetti si contraddice poiché ci rivela che in realtà le acque preesistevano alla creazione, come nella versione sumerica e greca della cosmogonia. Nel secondo versetto «aleggiava sulle acque» e nel settimo «separò le acque, che sono sotto il firmamento, dalle acque, che sono sopra il firmamento». Quindi una dea-madre simboleggiata dall’acqua esisteva già prima che Dio cominciasse la creazione.
La leggenda ebraica, come abbiamo visto sopra, aveva conservato tracce esplicite dei miti cosmologici originali: "tre elementi esistevano prima della creazione: l’acqua, lo spirito e il fuoco. L’acqua entrò incinta e partorì le tenebre, il fuoco entrò incinta  e partorì la luce, lo spirito entrò in cinta e partorì la sapienza"
Questo dio poteva solo essere un dio-marito o un dio-figlio, ma non un dio, che veniva prima dell’acqua e che ne era il padre.
Reik, discutendo del problema del doppio sesso di Adamo dice:

Secondo la mia opinione, è molto probabile che il mito del primo uomo che aveva due sessi, sia una teoria sviluppatasi più tardi e, come tale, una versione molto alterata e distorta di una saga più antica in cui una coppia divina, dio e dea, viene sorpresa durante il rapporto sessuale e separata con la violenza da un figlio- dio. Iahvè divise il primo essere umano in due metà. Modellandogli due volti e due dorsi. Mi sembra che vi sia qui una variante della situazione originale nella quale la coppia divina si è fusa in un sol corpo mediante il rapporto sessuale ("La Creazione della Donna", in Psicoanalisi della Bibbia, Sugar Editore, Milano 1968, p.30.
Secondo Reik, dunque, il dio che separa Adamo da Eva è un dio-figlio e non un dio-padre.
Nel mito sumero, Nammu, regina dell’abisso, crea Enki, primo dio- figlio dall’abzu, le acque primordiali, e gli insegna come creare il primo uomo dalla terra
Secondo un’altra versione lei stessa lo crea dalla terra, chinandosi su questa. Enki è così il primo dio-figlio, padre degli uomini.
Secondo la cosmogonia babilonese  il primo uomo, Eabani, fu creato dalla terra da una dea, Aararu, e non da un dio maschio, e i riferimenti ai miti mesopotamici è particolarmente significativa, poiché gli Ebrei emersero dal conglomerato di popoli che, nel secondo millennio, si muovevano lungo la «mezza luna fertile» dalla Mesopotamia verso la Palestina.
Come abbiamo visto sopra, secondo la versione di Esiodo, Gea, la Terra partorisce da sé stessa, in un parto ortogenetico, Urano, il cielo, affinché questi l’abbracci interamente in un amplesso eterosessuale e procrei con lei tutti gli altri dei. Così Urano è un dio- figlio della Terra, che diviene dio Padre di tutti gli altri dei, e viene evirato da Crono, uno dei suoi figli.
Le possibilità che ci offrono i miti degli altri popoli vanno dalla creazione, come espansione di una materia primordiale, le acque, gli abissi, la Notte , alla generazione ortogenetica da una dea-Madre e, solo in un secondo stadio, la prolificazione come risultato di un amplesso eterosessuale.
Solo il mito biblico ci presenta un dio-Padre che fa tutto da solo, e dal momento che il mito ebraico presenta numerose somiglianze con i miti mesopotamici, e certamente deriva da questi, dobbiamo arrivare alla conclusione che la versione originale parlasse di una dea, che aveva creato un dio-figlio, e non viceversa.
Nel Giardino dell’Eden abbiamo, a un certo punto, una scena, come un’istantanea fotografata da un paparazzo troppo curioso, in cui appaiono una coppia, uomo e donna, e un intruso, che cammina, non chiamato, nel Giardino, come un dio-figlio che cerchi di disturbare i rapporto sessuale tra i genitori (Gn. 3,8).
La leggenda ebraica racconta come gli angeli, notando la grande somiglianza di Adamo con il Signore, chiesero:
Vi sono forse due poteri al mondo?» Il Signore allora ridusse la statura di Adamo, statura che aveva precedentemente riempito l’intero universo, a mille cubiti (Amot) (Batei Midrashot, parte seconda, Midrash otiot Rabbi Akiva nusah beit.
La leggenda di Rabbi Akiva parla di mille cubiti, che sono circa quattrocento metri, e non di un cubito come riporta erroneamente Reik, in op. cit., p.37). Se una Ama sono circa quaranta centimetri si ricava un’altezza di quattrocento metri, e questo dopo che era stato ridotto.
Si può facilmente riconoscere nella riduzione della statura di Adamo un simbolo sostitutivo della castrazione.
Nella letteratura talmudica viene dato per scontato che Adamo fosse di una grandezza enorme, Rabbi Meir dice duecento Amot (Sinhedrin, 90a), che sono “solo” ottanta metri. Quindi nei duecento anni che vanno da Rabbi Akiva a Rabbi Meir, Adamo rimpicciolisce ancora sostanzialmente.
Nella leggenda posteriore si dice che quando Adamo si nascose dal Signore che camminava nel Giardino, solo allora la sua altezza fu ridotta a cento cubiti (Bereshit Raba, 12,6) .
In un altra leggenda si dice:
Quando creò il Signore il primo uomo gli angeli del cielo si sbagliavano e santificavano il nome di Adamo. Cosa fece il Signore, benedetto egli sia,? Lo fece addormentare e così tutti seppero che era uomo (Bereshit Raba, 8,10).


Il sonno è sinonimo di Morte e Jahvè, che fa addormentare Adamo, rispecchia i desideri di morte-evirazione, inconsci, del figlio verso il padre.
Anche Noè, mentre dormiva, fu evirato dal figlio.
La Bibbia è molto velata e dice: «Vide il padre scoperto» (Gn.9,22), ma i rabbini percepirono subito che la maledizione di Noè, sul figlio e tutti i suoi discendenti, non dipendeva solo da un peccato involontario di voyerismo. Infatti Rashi   interpreta il suddetto versetto come un atto esplicito di evirazione.
Anche se Rashi non conosceva la psicanalisi, aveva un metodo di procedere molto simile alle libere associazioni di Freud.
Anche in questa scena, dunque, Jahvè appare non come un dio-Padre, bensì come un dio-figlio, che tenta di «ridurre», addormentare, ovvero, evirare, il proprio dio-Padre, dopo aver tentato di separare l’amplesso parentale, separando, prima le acque, come ci viene descritto fin dai primi versetti della Genesi, e dopo Adamo ed Eva.
Lavorando per associazioni, non possiamo che approdare alla cosmogonia greca dove Crono, un dio-figlio, evira Urano, dopo che questo si era unito alla Terra, in un divino amplesso.
Ma la similitudine tra Jahvè e Crono si spinge anche oltre.
Crono significa tempo, e lo scorrere del tempo è misurato e scandito dal movimento degli astri celesti, che sono tra le prime cose che crea Dio nella sua opera.
Jahvè immette nel mondo la dimensione del tempo che, come allude il mito greco, era stato fatto da Crono, dio-figlio, che dopo diventa dio-padre a sua volta.
Quindi il mito originale della cosmogonia ebraica era il seguente:

1) Una dea Madre, rappresentata dall’acqua o dalla terra era all’inizio di tutto, sulla scia della cosmogonia mesopotamica.
2) Da questa dea-acqua-materia primordiale si forma il primo uomo, probabilmente come mistura di acqua e terra, che è anche il primo dio, Adamo, la cui etimologia è «che viene dalla terra», come Nammu, la dea degli abissi sumerica, crea Enki piegandosi sulla terra e da essa.
3) A questo punto una dea madre, Eva, «che è madre di tutti i viventi» (Gn.3,20), vive in coppia e in simbiosi con il dio, che lei stessa ha creato e generato da lei. In questa versione scenica Adamo ed Eva corrispondono a Urano e Gea.
4) Un dio-figlio, Iahvè, cerca di separare l’amplesso divino e di evirare il Padre..

Questa deve essere stata la prima versione della cosmogonia biblica, sulla scia di tradizioni mesopotamiche, che le tribù ebraiche si portarono appresso nel loro peregrinare attraverso i percorsi della mezzaluna fertile ai margini del seminato.
Abramo, il primo ebreo, veniva da Ur, antica citta’-stato all’estremo sud della Mesopotamia e da lì era arrivato fino all’Egitto.
A questa si sovrapposero tutte le altre, e si fusero nel racconto biblico che abbiamo davanti.
Perché per noi è stato così importante risalire alle tracce di questa prima versione?
Perché solo così potremo ora capire il vero significato della cosmogonia biblica, di un dio maschio che, da solo, crea il mondo in sei giorni e al settimo si riposò.
A differenza dei Sumeri, i Babilonesi e i Greci, gli Ebrei si asserragliarono in una stretta struttura patriarcale, sotto la cappa di un dio-Padre esclusivo, che non lasciava addito a nessuna essenza divina al di fuori di Lui. Così rimossero tutto: le acque primordiali, la dea Terra, i dei figli-Eroi, e rimasero nel testo solo tracce sporadiche ma illuminanti.
Tutto fu attribuito a un dio-Padre onnipotente.
Ma quello che è particolarmente interessante non è quello che non appare, come chiaro risultato della rimozione, bensì quello che appare nella cosmologia ebraica e non appare in quella degli altri popoli, che rilassarono la stretta della fedeltà tribale e la superarono.
La cosmogonia degli altri popoli non ci racconta delle fatiche di un dio padre nel creare il mondo in un ciclo specifico, che la Genesi ci rappresenta con il numero sette.
Presso gli altri popoli le fatiche spettano agli dei-figli, agli Eroi.
E queste sono tracce delle prove iniziatiche.
Mentre nelle cosmogonie parallele la creazione del mondo è il prodotto delle creature divine primordiali, e gli atti eroici spettano ai dei figli, ecco che la mitologia ebraica, nella stretta del suo esclusivismo, condensa i due cicli in uno, e la parte più preminente diventa proprio quella della fatica iniziatica.
Il numero sette, che come abbiamo visto è il simbolo fallico del dio-Padre, nella condensazione dell’atto iniziatico, diventa il simbolo fallico del dio-figlio, che se ne impadronisce e compie la sua missione con questo.
L’arco di Apollo era il simbolo fallico del dio iniziatico, per mezzo del quale minaccia la tribù dei figli, accampati intorno alle mura di Troia, ma che poi diventa lo strumento che adopera Apollo, nella sua trasfigurazione in dio-figlio ed Eroe, per uccidere il mostro. Apollo dio-figlio si impadronisce del simbolo fallico di Apollo, dio iniziatico e rappresentante della generazione dei padri, e compie la missione: uccide il Pitone.
Jahvè, dio-figlio, adopera il numero sette, strumento del terrore di Jahvè, dio-Padre, per concludere la sua missione e crea il mondo.
Adesso finalmente ci è chiaro l’accento dato dalla Bibbia all’enumerazione dei giorni, uno dopo l’altro. Lo scandire dei tempi fino a che si forma il numero magico.
Avrebbe potuto benissimo riassumere e dire «Iddio creò il mondo in sei giorni e il settimo si riposò» ed enumerare tutti gli atti della creazione o subito prima o subito dopo.
L’accento è sul numero dei giorni. Questo numero, sì, esisteva prima.
Sei le fatiche iniziatiche e il settimo la conclusione e il riposo, il Sabato. Il settimo giorno è quello della purificazione, dell’esorcismo del tabù, la chiave e la soluzione.
In questa condensazione, del racconto della creazione con quello dell’atto iniziatico primordiale, il dio-figlio, rimosso dalla mitologia ebraica, non solo preme per un riconoscimento, ma riesce ad avere la preminenza e scalza completamente la figura del Padre, lo detronizza, dall’atto della creazione.
«Dio vide che la luce era cosa buona» (Gn.1,4), «Dio vide che era cosa buona» (Gn.1,12), (Gn.1,18) (Gn.1,21), (Gn.1,25) ««Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona (Gn.1,31). Questa ripetizione, ogni volta, della propria soddisfazione narcisista è la grande rivincita dell’orda dei figli che, attraverso l’atto eroico, prendono il simbolo fallico del Padre e il suo posto e si congratulano con loro stessi per la propria prodezza .
Subito dopo tutto affonderà nella rimozione.
Questa nostra ricostruzione della stratigrafia del mito biblico coincide con quello che ha detto Freud della genealogia del mito in generale:

Forse l’Eroe divinizzato fu anteriore al Dio-Padre, fu il precursore del ritorno del padre primordiale sotto forma di divinità. La successione degli dei sarebbe quindi cronologicamente questa: dea madre, eroe, dio padre. Solo con l’elevazione del non mai dimenticato padre primordiale la divinità acquisì però le caratteristiche che ancora oggi le conosciamo ("Psicologia delle Masse”, in op.cit., Vol 9, p. 324
E dinuovo ci conferma, dopo più di quindici anni, nel suo “Uomo Mose’” lo stesso concetto: “Le divinita’ maschili apparvero dapprima come figli accanto alle grandi madri e solo dopo assunsero nettamente i tratti di figura paterna”
Iahvè, nell’aspetto di dio figlio, come Eroe, nella condensazione messa in atto dal mito, aveva anteceduto infatti il Dio-Padre.
Nella versione canonizzata il dio figlio che aveva creato il mondo come atto iniziatico eroico viene rimosso e si trasfigura in padre e creatore e in atto di espiazione e sottomissione delega a questi il merito della creazione, rinunciando all’atto di sfida per ritirarsi dietro alle quinte.
Adesso ci diventa chiaro anche un altro simbolo: la Menorà, la lampada a sette bracci, che nei tempi antichi era il simbolo del tempio di Gerusalemme e della sovranità ebraica e che oggi è il simbolo dello stato d’Israele. Nell’arco di Tito a Roma, è il simbolo della sconfitta della sovranità giudaica, della perdita dell’indipendenza.
La lampada a sette bracci è il simbolo fallico paterno, conquistato dai figli attraverso l’atto iniziatico, ed elevato a proprio simbolo fallico, simbolo di virilità e di indipendenza.
Ed ecco perché questo simbolo troneggia nella Keneseth, il nuovo parlamento israeliano e dietro ogni giudice in ogni tribunale del rinnovato stato d’Israele.
La Menorà, come simbolo dello stato sovrano d’Israele, è, dunque, più che il giglio francese tripartito e il triscele della Sicilia e dell’isola di Mann, di cui parla Freud (Cfr. p.1, Supra), il tricolore, simbolo della rinnovata indipendenza dell’orda dei fratelli e il loro simbolo fallico, carpito al padre onnipotente.

IL RIPOSO SETTIMANALE

E adesso, dopo questo lungo giro, ci appare chiaro anche il motivo dell’importanza del riposo sabbatico e della sua sacralità.
I sei giorni della creazione rappresentano le prove iniziatiche, gli atti eroici attraverso i quali il giovane si identifica con la generazione degli adulti e soppianta il padre dalla sua posizione di preminenza poiché si identifica con lui e contemporaneamente lo detronizza.
Questi atti di bravura e la soddisfazione narcisistica che ne segue, questo appropriarsi del simbolo fallico paterno e usarlo come strumento per detronizzare il padre e “agire” al suo posto, rappresentano anche un atto di sfida e di profanazione.
Ne consegue una sedimentazione di un senso di colpa che esige una qualche formula magica che funga da undoing della profanazione.
Questo esorcismo è rappresentato dal Sabato, e da qui la grande sacralità di questo giorno e il grave castigo per chi lo profani.
Dopo le “grandi azioni” della Creazione, ecco il grande riposo del Sabato.
Il Sabato, la grande “inazione”, fa un undoing simbolico della grande azione, degli atti di sfida della creazione.
Il figlio proclama così: “ è vero, mi sono sostituito al padre, ho preso la sua forza per compiere tutte le fatiche della creazione, ma adesso faccio il contrario, e il grande sacro riposo sarà così l’antitesi della profanazione dell’azione".
Il sabato è quindi un controinvestimento energetico il cui scopo è incontrare la pulsione emergente dall’Es del fare, il doing, e controbilanciarla, annullarla per esorcizzare il senso di colpa annullando la pulsione stessa.
Nei sintomi della nevrosi ossessiva il controinvestimento pulsionale dell’Io neutralizza la pulsione peccaminosa dell’Es attraverso una rappresentazione antitetica che dichiara un altisonante “no” alla pulsione censurata: il risultato è sempre una formazione di compromesso.
Nel nostro caso, come nei sintomi della nevrosi ossessiva, l’azione si svolge in due tempi: doing e undoing
Prima l’azione, la creazione del mondo, poi il suo contrario.
Jahvè, il dio-figlio rappresentante degli iniziati della tribù, dopo avere prevaricato, nel suo atto di sfida, deve adesso fare il contrario dell’azione sacrilega e riposarsi.
Questo spiega la più strana di tutte le storie bibliche: un dio onnipotente, che stanco come l’ultimo dei mortali, deve riposarsi.
Jahvè, il dio figlio, che aveva prevaricato nell’atto di sfida della creazione deve ora riposarsi, e il suo riposo diventa sacro, poiché sacrilego era stato l’atto della creazione.
Il riposo assoluto diventa l’esorcismo magico attraverso il quale l’azione della creazione viene depurata dall’aspetto peccaminoso.
Anche la parola stessa Shabbat, non significa riposo, questa è una sovrapposizione posteriore. La traduzione che più si avvicina al senso originale della parola ebraica è "inazione-paralisi". Questa radice esprime il momento stesso dell’arrestarsi dell’azione nella brusca paralisi di un movimento in atto. In ebraico moderno la stessa parole shvità è adoperata per sciopero. Sui giornali quando e’ in atto uno sciopero si legge il titolo: “Il paese paralizzato da una shvità”. Il contrario non è lavoro bensì azione, ma’asè, e infatti l’opera della creazione è chiamata ma’aseh berescit.
Questo spiega come mai furono proprio gli Ebrei a  introdurre il riposo settimanale.
C’è anche una apparente incongruenza che viene così appianata: se le fatiche iniziatiche erano sette il riposo settimanale avrebbe dovuto avvenire all’ottavo, come l’ottavo giorno è quello della circoncisione e della depurazione del periodo mestruale, Come l’ottavo giorno è Simha Torà, l’atto finale dei sette giorni in cui viene celebrato il Succoth e la permanenza per sette giorni nelle capanne.
Invece il giorno del Gran Riposo è il settimo e non l’ottavo.
Il motivo è semplice: come il sintomo della nevrosi ossessiva è una soluzione di compromesso tra pulsione e controinvestimento energetico che emerge come sintesi che comprende entrambi, così il grande undoing che depura il sacrilegio è incluso all’interno del numero sette che descrive le fatiche iniziatiche, in un’unica sintesi, e non al di fuori di esse.
L’azione coatta in due tempi, doing e undoing, diventano un’unica condensazione e nello stesso numero, sette, viene inclusa sia l’azione che il suo contrario, il grande riposo.
Così mentre la permanenza nelle capanne nei sette giorni del Succoth si conclude con l’ottavo giorno, la fine del rito iniziatico, e la circoncisione conclude nell’ottavo giorno lo stesso rito, il sabato, che è non una conclusione ma un’azione coatta antitetica alla pulsione, il cui scopo è annullarla simbolicamente, si unisce a questa in un’unica sintesi.
Vi è un’altra associazione che ci conduce come un filo alla stessa meta. Quando gli Ebrei, raccolti in sinagoga, si apprestano dopo il tramonto del Venerdì a ricevere il Sabato, si rivolgono verso occidente e cantano: “vieni o sposa, vieni o sposa”. Il Sabato è la sposa e viene presentata a Israele il suo sposo, come premio per le fatiche iniziatiche superate. La comunità di tutto Israele, vestiti a festa, la tribù dei fratelli che attraverso il loro vicario, Jahvé il dio figlio, hanno perpetrato la fatica della creazione e si preparano al ben meritato riposo, portano sotto il baldacchino nuziale la sposa che entra dall’occidente nell’epifania del Santo Sabato. Come Eva che viene creata alla fine della fatica iniziatica, come nelle tribù arcaiche il rapporto eterosessuale avviene solo con la conclusione delle fatiche del rito. Iahvé “crea” la sposa a coronamento della sua fatica, il meritato premio.
I Greci e i Romani, quando vennero a contatto con gli Ebrei, non capirono questo strano rito e lo considerarono un’usanza barbarica come tutti gli altri riti ebraici, poiché percepirono inconsciamente il sottofondo tribale che ne era all’origine .
Il cristianesimo, adottò quest’usanza in forma diluita, come adottò il numero sette, nel contesto della sua regressione esistenziale .
Ma l’Occidente fece di questo giorno un giorno di riposo nel senso di svago, non certo di inazione forzata e di paralisi, come rimase per gli Ebrei.
Il senso di tabù fu sterilizzato e la domenica divenne il “giorno del Signore” conservando solo la traccia mnestica che questo era, invero, il giorno di un Dio- Figlio.
Gli Ebrei, invece, si asserragliarono nel senso originale del giorno sacro, del tabù, dell’undoing di un atto peccaminoso di ribellione contro il dio padre, messo in atto attraverso l’azione, lo sforzo motorio, l’attività muscolare.
La sacralità di questo giorno si rafforzò sempre di più durante i secoli e la paralisi di qualsiasi azione fu codificata ai suoi estremi al punto che oggi è proibito persino usare la luce elettrica, viaggiare in automobile, andare in bicicletta, toccare il denaro, e fare qualsiasi sport.
Solo una paralisi assoluta da qualsiasi sfogo motorio può esorcizzare il fare peccaminoso all’origine del precetto di “non fare”. È proibito scrivere, suonare, fare ginnastica, fare qualsiasi cosa che implichi una soddisfazione muscolare e motoria, poiché questo era stato il peccato della creazione: la gioia del fare. Come scrive Abraham, parlando di un’angoscia locomotoria:

sono dell’opinione che nei nevrotici che si ammalano di angoscia locomotoria, sia oiginariamente presente un piacere contituzionale sovraintenso dei movimenti; dalla non riuscita rimozione di questa tendenza derivarono inibizioni del movimento fisico. Il significato del piacere del movimento è stato posto in particolare rilievo da Sadger. Egli parla dell’”erotismo dei muscoli” come un fonte particolare di piacere sessuale e lo pone accanto a quelli che egli denomina “erotismo della pelle” ed “erotismo della mucosa”. Sadger dà prove interessanti riguardo al piacere positivo del movimento fisico.
(K.Abraham, “Una base constituzionale dell’angoscia locomotoria” in Opere, Bollati Boringhieri, Torino 1975 e 1997, vol.I, pp.64 -5 . IL corsivo è di Abraham).


Per l’Occidente, che aveva ripristinato apertamente la sovranità del dio figlio, non fu necessario conservare il tabù di questo giorno con i suoi significati terribili e minacciosi. Anzi vide in questo rito il testardo attaccamento del popolo d’Israele alla fedeltà assoluta al Dio-Padre, in contrasto al nuovo concetto di un Dio-Figlio che con il suo sacrificio  aveva liberato l’umanità dal senso di colpa.

Quando Lutero mise in atto la sua riforma, con l’intenzione di tornare alle cosidette "radici bibliche" del cristianesimo, constatò con suo sgomento che alcune sette protestanti come i Sabbatari di Carlstad e gli Anabattisti avevano cominciato anche loro a celebrare la Domenica come giorno di inazione assoluta e intervenì decisamente per impedire quella che gli pareva una giudaizazzione “sacrilega” della Domenica ( Winton Solberg,: “Luther and Calvin on the Sabbath”, in Redeem the Time –The Puritan Sabbath in Early America, in http://www.grace-for-today.com/347.htm) .

Il Sabato ebraico divenne così per i Cristiani il simbolo dell’empietà giudaica nel rinnegare la vittoria del Figlio sul Padre, l’altro polo, e i riti satanici con le orge delle streghe e i sacrifizi cultuali di bambini, che nel Medioevo popolavano la fantasia cristiana, vennero definiti “Sabbath”. Il satanico, legato all’immagine del Padre rimossa, in antitesi al “sacro” del corpo del Figlio e la sua Ostia Sacra.
In questi riti infatti gli invasati satanici venivano accusati di profanare l’Ostia Sacra e di adorare il Diavolo, nella figura di un grande capro, simbolo di Dioniso, il primo Padre della cultura Occidentale.
Per gli Ebrei, che avevano invece seppellito la ribellione dei figli sotto la rimozione più profonda, e rinnegato un Dio-figlio che avesse preso su di sé la colpa e la pena dell’atto d’insubordinazione, interdizioni si aggiunsero a interdizioni come pietra sopra pietra per impedire il riemergere dell’atto di sfida consumato attraverso l’azione.
Come ci dice implicitamente il testo, dunque, non un magico fiat fu all’inizio di tutto, non il logos del Vangelo di Giovanni creò il mondo e tutte le sue creature, bensì, con le parole di Faust, “in principio era l’Azione”.    



             



Links:
Brutto e Bello. La nascita di un concetto
Es e Io nello specchio di Apollo e di Dioniso


LE SETTE PRINCIPESSE

Nel poema di Nezami (vd.p.18), si fondono armoniosamente due mondi: quello iranico tradizionale e quello islamico monoteistico, ma il tema è sempre quello. Il re Bahram, l’eroe, è l’ultimo di una schiera di figli del re suo padre, nessuno dei quali era sopravvissuto (come nella fiaba “Il lupo e i sette agnelli”, e nel mito greco, dove Zeus è l’ultimo di una serie di fratelli uccisi prima di lui).
Da infante viene allontanato dal padre, come Sargon l’Agade, Mosè, Ciro, Romolo, Edipo , e numerosi altri.
“Il padre dunque, perché egli potesse vivere, si allontanò, per amore, da lui…” . Lontano dal padre, “l’onagro vagabondo era diventato valoroso leone” .
Dunque, al pari degli altri eroi, può diventare tale solo lontano dal padre.
Una volta cresciuto il fanciullo, il re suo padre adottivo, No’man, che era un tiranno dal cuore duro, scomparve correndo “nel deserto, come un leone” .
Ovvero, il padre – totem, associato al leone, scompare = viene ucciso.
Dopo la morte del padre adottivo, il tutore di Bahram mise fine alla tirannia e ristabilì la giustizia, riportò in sesto il regno” .
Il principe fu istruito da maghi e insegnanti, esattamente come i giovani iniziati vengono istruiti nel bosco dagli adulti, sinonimo del padre. Bahram imparò i segreti dei sette pianeti e di tutto il firmamento.
“Ogni anno che conosce quei misteri, se era prima terrestre, diviene celeste”  “e anche in questo divenne sì grande che strappava gli artigli ai leoni e strangolava i lupi” .
“Nel teatro del tiro a segno la freccia sua giocava con un capello; qualsiasi cosa fosse, pur anco lontana, la colpiva, fosse quella ombra o luce, e ciò che egli ancor non vedeva nel lancio la sua regale fortuna lo aiutava a colpire giustamente. I cacciatori custodi del recinto del gregge tutti vantavano lui come un leone: ora assaliva le tigri, ora gareggiava alla lotta con i leoni.”
Come Apollo, il dio iniziatico che scagliava le sue frecce sugli Achei, e Apollo il giovane iniziato che colpiva con il suo arco i caprioli e i cerbiatti e che come giovane adulto portò a compimento la sua impresa uccidendo il pitone.
Bahram, a coronamento della sua educazione iniziatica, uccide un leone e un onagro, in un colpo solo  ; uccide il drago e conquista il tesoro .
Compiuta la sua fatica iniziatica, “un giorno il principe era venuto dalla campagna… quando vide una stanza chiusa…Il principe non aveva mai messo piede in quella stanza, e così anche i suoi cortigiani e i tesorieri. Chiese: “Perché questa dimora è chiusa e serrata? Dov’è la chiave?” Venne il custode e consegnò la chiave al principe, il quale, aperta la serratura, che vide? Vide una dimora come scrigno di tesori…V’erano sette effigi splendidamente dipinte, ciascuna connessa con un continente del mondo. ”
Ad ogni effigie corrispondeva una principessa, ed ecco quindi che alla fatica iniziatica segue immediatamente l’immagine della donna.
Come nel mito biblico, in cui il dio – figlio, Jahvè, creò la donna dopo le fatiche della creazione.
“Ogni tanto, quando il principe si inebriava, si avvicinava a quella porta con la chiave in mano, apriva la porta e entrava in paradiso a contemplare quelle immagini dalla forma di huri, e, come assetato di fronte all’acqua, si addormentava pieno di desiderio”.
A quel primo desiderio, si susseguono altre fatiche iniziatiche, come ripetizione delle più arcaiche fantasie della prima infanzia proiettate nella pubertà, dopo il periodo di latenza, che segue quello che Freud ha chiamato “il tramonto del complesso edipico”
Ed ecco le guerre, le imprese, dopo le quali gli viene proposto il trono del padre .
Infine, diventato adulto dopo le prime fantasie infantili, il periodo di latenza e il ciclo delle fatiche iniziatiche adolescenziali, il nuovo re Bahram può dedicarsi al meritato riposo e al godimento delle sette principesse, per le quali costruirà sette padiglioni, nei quali si recherà ad ascoltare ogni notte una novella diversa da una delle principesse, e alla fine di ogni novella godrà del suo amore.
 

MISCELLANEA

Una volta trovata la chiave che apre gli scrigni, ci sarà anche facile decodificare una frase che ricorre giornalmente, senza che vi venga prestata particolare attenzione: “sudare sette camicie”.
Le tracce delle antiche fatiche iniziatiche, che emergono dagli strati più profondi della psiche, trovano la strada di un’immediata espressione popolare.
Se “nascere con la camicia” significa essere nati avvolti dall’amnio materno (l’involucro del feto) , espressione usata per indicare chi è fortunato in quanto rimane simbolicamente nell’utero materno, sudare sette camicie significa staccarsi dalle proprie fantasie incestuose infantili attraverso le fatiche iniziatiche dei riti della pubertà.
Ovvero: chi è nato con la camicia, dovrà poi sudare sette camicie per superare il desiderio di rimanere nell’amnio materno. Uscire dall’amnio (dalla camicia in cui si è nati), è esattamente quello che avviene nei riti della pubertà, in cui gli iniziati rinascono simbolicamente, questa volta come figli del padre invece che della madre.
Più complessa appare la soluzione di un’enigmatica frase di Nietzsche: “La solitudine di sette pelli” , ma forse la soluzione è più semplice di quanto non sembri.
Il significato esplicito è che l’uomo, negli strati più profondi, è solo: sette pelli, ovvero sette strati si sovrappongono tra lui e gli altri uomini: il sette funge da mezzo apotropaico tra la sua interiorità e il mondo esteriore, difendendolo, da un lato, isolandolo in una solitudine atroce, dall’altro. Sette qui sta per impenetrabile, il simbolo stesso della solitudine.
Ma sette pelli dovrebbero fare compagnia, senso di coesione, e non determinare la solitudine, perché se il sette è un numero iniziatico, esso richiama per associazione il gruppo, la collettività.
Quindi basta invertire la frase, come si fa spesso nell’interpretazione dei sogni, per decodificare il significato più profondo.
L’anima arcaica non conosce la solitudine: questa infatti è il prodotto dell’estraniazione del singolo dal gruppo, dal clan.
Sette pelli, quindi, formano coesione, collettività e non solitudine, ovvero, per usare una frase più comprensibile, “non esiste solitudine dove vi sia coesione sociale”.
In un unico aforisma, Nietzsche condensa le due situazioni: l’indistruttibilità degli affetti, cementati dalla coesione del gruppo, e l’atrocità della solitudine del singolo estraniato.
Il sette, simbolo della collettività e degli affetti legati a questa nelle comunità primitive, diventa il simbolo dell’estraniazione del singolo in una società che si è staccata dall’anima collettiva.
Nietzshe ci presenta anche un’altra immagine, nel suo Zaratustra:

“…Zarathustra crollò al suolo come un morto…tutto ciò gli durò sette giorni; …Infine, dopo sette giorni, Zarathustra si levò sul giaciglio, prese una mela in mano, la odorò, e ne trovò il profumo amabile.
Qui troviamo l’eroe del poema che muore, rimane nella sua condizione di morto per sette giorni, rinasce, e prende in mano la mela, simbolo del corpo della donna , e la trova “amabile”.
Il rito iniziatico si ripete in tutti i suoi stadi: morte simbolica, rinascita, e atto eterosessuale.


I Numeri sacri e il loro simbolismo (Terza Parte)

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