Prima
Parte
Al di
fuori dell’Europa troviamo il tre in India. Abbiamo visto come il Dioniso dei miti orfici,
sbranato dai Titani e risorto, colui che aveva lasciato in dono
all’umanita’ il suo sangue come vino e il cui corpo era stato
ricomposto da Demetra, dea delle messi e del pane, sia stato quello
che, con il crollo del mondo antico, sarebbe stato il nuovo dio
occidentale. Il suo simbolo era il tre, Trigonos, tre volte
nato: una volta da Persefone, una volta da Semele e una volta dalla
coscia di Zeus. Crediamo
a questo punto di aver decodificato i contenuti condensati del tre di
Dioniso e del sette di Apollo.
La Trimurti, rappresentazione complessiva di
Brahma, Shiva e Vishnu si può paragonare alla trinità
cristiana.
La concezione buddista della conoscenza come
triplice corpo è composta di dharrmakaya (vero essere),
nirmanakaya (formazione storica, Gautama Buddha) e sambhogakaya (il
benefico effetto della comunità) .
Da qui anche l’immagine simbolica dei «tre
gioielli» (triratna): legge, Buddha e comunità .
Sembra che il tre, come simbolo fallico, sia una
produzione della psiche indoeuropea.
Forse è emigrato dall’India all’Occidente
insieme alle migrazioni che dal subcontinente indiano hanno portato i
progenitori dei greco-romani nei loro territori d’insediamento finali,
come insieme a loro è emigrato il sanscrito, padre delle lingue
occidentali.
Comunque, almeno per quanto possiamo risalire a
ritroso, pare che il tre, come numero sacro e simbolo fallico, sia
delimitato ai popoli indoeuropei.
Il sette, pur non essendo esclusivo dei popoli
semiti, pare molto raro in Europa prima del Cristianesimo, e solo dopo
il crollo del mondo antico assume una certa importanza.
Nel mito greco, questo
numero appare raramente: tranne che nei miti orfici e nella tragedia
eschilea è più cospicuo
per la sua assenza che per la sua presenza.
La storia romana comincia con i sette re di Roma
e i sette colli su cui la città fu fondata, ma questo è
un episodio isolato, che cercheremo di trattare in queste pagine, che
non solo non è peculiare della tradizione greco-romana,
bensì è persino antitetico, ovvero è una
rappresentazione che va controcorrente.
Nella liturgia greco-romana questo numero
è non solo assente, bensì evitato.
Ma una città viene fondata, su sette
colli, da elementi senza patria e senza leggi.
I sette re di Roma regneranno su questa
città.
I tempi sono l’VIII sec. A.C. Dunque prima che
l’Occidente si strutturi definitivamente a polis e a Stato.
I Romani che fondarono la città, che
sarebbe diventata in seguito sinonimo di Sovranità e di Stato,
erano una banda di sbandati, di emarginati.
La leggenda italica ci racconta come questi
gruppi di sbandati e di fuorilegge passarono, da tali, a una struttura
che diventerà sinonimo di ordine e di legalità.
Sette re ricordano sette fratelli, il nucleo di
un clan, una banda di giovani.
I primi Romani, che si raggrupparono ai margini
dei villaggi organizzati politicamente di allora, al di fuori della
città di Alba, ricordano i giovani novizi che vengono
emarginati al di fuori dell’habitat
regolare, per passare i propri riti
di passaggio.
Quindi la leggenda di una città fondata
su sette colli, da gruppi di giovani sbandati, e governati da sette re,
cioè da loro stessi, nella rappresentazione di un numero che,
come abbiamo visto, nell’Oriente semitico era chiaramente un simbolo
fallico legato ai riti della pubertà, ci ricorda in tutto e per
tutto il rito d’iniziazione di una società che sta per superare
la propria struttura tribale, per evolversi a Stato.
Anche le prime gesta di questi giovani, dopo
aver fondato la propria città, ovvero dopo aver compiuto l’atto
eroico associato ai riti iniziatici, sono il ratto delle Sabine, ovvero
il rapporto eterosessuale che si sussegue a catena.
Solo dopo saranno considerati adulti e
entreranno nella legalità.
Come abbiamo visto sopra, presso
alcune tribù selvagge dell’Australia esiste persino la credenza
che se l’atto eterosessuale non verrà consumato immediatamente
dopo il rito della pubertà, il novizio morirà.
Torniamo per un momento, a questo proposito, al
versetto del Vangelo che abbiamo già citato: «Ora
c’erano tra noi sette fratelli; il primo appena sposato morì e,
non avendo discendenza, lasciò la moglie a suo fratello.
Così anche il secondo, e il terzo, fino al settimo»
(Matteo 22,25).
Qui ci viene raccontato di sette fratelli che
muoiono, uno dopo l’altro, appena sposati.
Questa non è altro che la descrizione di
un rito d’iniziazione mancato. I giovani novizi non sono riusciti a
completare in maniera soddisfacente il rito e quindi muoiono al primo
rapporto sessuale.
Anche l’espressione: «Ora c’erano tra noi
sette fratelli» sembra l’inizio di una storia che suoni ad
ammonimento: «Così successe a quei novizi, tra noi,
ovvero, parte della tribù, che mancarono di adeguarsi al
rito».
Lo stesso concetto, anche se esposto in maniera
diversa, ritorna in Luca:
C’era anche una profetessa, Anna, figlia di Fanuele,
della tribù di Aser. Era molto avanzata in età, aveva
vissuto col marito sette anni dal tempo in cui era ragazza (Luca 2,36)
Il periodo di sette
anni, che come abbiamo visto rappresenta simbolicamente il lasso di
tempo in cui dura il rito iniziatico, si conclude con la morte del
marito, invece che con la fecondazione della donna. Infatti ella parla
del Bambino che dovrà venire, ma lei di bambini non ne ha (Luca
2,38).
Come la Vergine Maria riceverà in dono un
bambino a compensazione del pene maritale mancato, così la
profetessa Anna si aspettava lo stesso indennizzo simbolico.
Sia nel caso descritto da Matteo che in quello
riportato da Luca o il rapporto eterosessuale non era avvenuto in
susseguenza immediata al rito di passaggio, e quindi aveva portato alla
morte dei novizi, o era avvenuto senza aver completato gli esorcismi
del caso, e diventò quindi sacrilegio, tabù, e il
risultato
fu lo stesso: la morte.
Contrariamente ai giovani romani, che avevano
rapito le Sabine ed erano diventati uomini, i sette fratelli e il
marito di Anna, descritti dal Vangelo, morirono senza aver varcato la
soglia della virilità.
I sette re di Roma, che gli allievi delle scuole
elementari sono obbligati dalla maestra a imparare a memoria e ad
enumerare, uno dopo l’altro, sono, quindi, la traccia mnestica di un
antico rito iniziatico delle tribù italiche, prima di prendere
la strada della civilizzazione.
Freud, citando Frazer, riporta la supposizione
che i primi re delle tribù latine fossero stranieri che
ricoprivano il ruolo di una divinità e che, in questo ruolo,
venissero giustiziati solennemente in una festività definita. In
questo contesto ci diventa più chiaro il significato della
leggenda che i primi Romani fossero sbandati, emarginati, cioè
stranieri alle altre città latine. Il sette condensa qui sia il
numero degli iniziati che il loro ruolo come agnelli sacrificali. Sette
re. Come i sette agnelli che Abramo mette da parte per il suo patto con
Abimelech. Come I sette altari costruiti da Balak per sacrificare sette
giovenchi e sette arieti. Come le sette pietre che gli Arabi,
descritti da Erodoto, mettono tra di loro a testimonianza e cospargono
di sangue (come abbiamo visto le sette pietre rappresentano il dio e il
loro spargimento di sangue condensa il sacrificio che viene fatto al
dio e del dio stesso. Come i sette agnelli che nella festa delle
settimane (Shavùot) vanno sacrificati al Signore. Come i
sette figli di Giobbe e le sue settemila pecore, che vengono
sacrificate insieme a loro. Come i sette fratelli del libro dei
Maccabei.
Nei miti orfici , che contengono le storie
condensate degli antichi riti iniziatici delle tribù greche, il
sette appare nei sette mesi durante i quali Orfeo deve rimanere in una
caverna sotto un’enorme rupe, dopo aver passato sette giorni senza
assumere cibo presso il fiume degli Inferi, in una caverna, parallelo
del ventre materno, da cui poi rinascerà.
In questo periodo si tenne lontano dalle donne e
si recavano da lui i selvaggi abitanti del bosco, satiri e giovani
ragazzi. Orfeo li educava all’astinenza dalla carne, cantava loro
l’origine delle cose e degli dei, e li iniziava ai misteri che aveva
appreso dalla regina degli Inferi durante la sua visita nell’al di
là.
Qui il processo iniziatico, con le sue
astinenze, la rinascita e le sue istruzioni appare in maniera esplicita.
Arturo Martini: Orfeo
Eschilo ha ancora lo sguardo rivolto verso le
antiche tradizioni come, prima di lui, Omero. In loro le tracce del
rito iniziatico continuano ad emergere vitali.
Ed ecco che I
Sette contro Tebe ci
parla ancora di sette eroi, come i sette re di Roma, e il loro rapporto
erotico-aggressivo verso la città di Tebe: condensazione dello
strumento fallico apotropaico di questa, come lo saranno i sette nani
per Biancaneve, e della pulsione genitale eterosessuale dei sette corni
di montone intorno Gerico.
Gli Eroi difendono le sette porte di Tebe, uno
per ogni orifizio, e fanno, così, da strumento apotropaico.
La connessione tra la città e l’atto
iniziatico diventa ancora più esplicita quando il messaggero
riporta al Coro delle donne il risultato della battaglia:
L’esito è buono, in complesso, alle prime sei
porte. La settima fu scelta esclusiva del santo principe, patrono del
sette, di Apollo: così si concretava - rovina al ceppo di Edipo
- il delirio antico di Laio» (I
Sette contro Tebe, vv. 797-802)
Eschilo ci dice esplicitamente:
«...patrono del sette di Apollo».
E la nascita di Apollo veniva celebrata il sette
di ogni mese (Callimachus, Hymnus in Dianam, 22.).
Come il tre era stato il numero di Dioniso,
l'agnello ucciso, così il sette è il numero associato ad
Apollo e al suo volto minaccioso.
Il dio che, come abbiamo visto sopra, era il dio
iniziatico, aveva come simbolo fallico il sette, esattamente come
Jahvè.
Ed entrambi sono collegati al Diluvio
Universale. L’equazione diventa chiara: Apollo- arco e frecce - sette =
Jahvè - la sua ira - sette.
Le antiche tribù ebraiche e quelle greche
venivano iniziate entrambe sotto l’ombra minacciosa di questo numero.
Gli Israeliti avevano passato il Giordano,
ovvero erano rinati simbolicamente emergendo dalle acque, erano stati
circoncisi, e solo dopo poterono prendere possesso della città.
Il rito era stato completato con successo e Jahvè aveva
accordato loro la sua paterna benedizione.
Nella tragedia eschilea Tebe, a differenza di
Gerico, non cade. A differenza di Roma, non viene posseduta dal gruppo
dei sette re, e i sette cavalieri che la difendono rimarranno il suo
strumento apotropaico, come la spada del Cherubino che difende
l’entrata al Giardino dell’Eden.
Abbiamo qui la condensazione, sia della pulsione
genitale che conduce alla penetrazione, sia del controinvestimento
pulsionale inteso a frustrarla.
Le sue porte, gli orifizi, vengono difesi.
Eteocle, il difensore della settima porta, l’orifizio principale
attraverso il quale sarebbe dovuta avvenire la penetrazione
eterosessuale, muore. Ma muore anche Polinice, l’attaccante.
«Così si concretava - rovina al
ceppo di Edipo - il delirio antico di Laio».
Edipo, il parricida, è colui che non
aveva superato il rito iniziatico, attraverso il quale la generazione
dei figli cementa la propria identificazione e il proprio patto di
sangue con la generazione dei padri, e, infatti, invece di rimuovere le
proprie pulsioni parricide, le aveva concretizzate in un sacrilego acting
out.
Senza gli esorcismi magici dell’atto iniziatico
completato, e senza la rimozione che ne consegue, il tentativo di
penetrare la città si conclude con un disastro.
Come per i sette fratelli, descritti nel Vangelo
di Matteo, e come per il marito di Anna, figlia di Fanuele, descritto
da Luca.
Vediamo come, sia la tragedia Eschilea, sia il
Vangelo ci presentino delle istantanee, scattate in un angolo
dimenticato del bosco. Un po’ scostato dall’epicentro della cerimonia
principale, e dove si sta consumando la tragedia del rito
iniziatico mancato.
E infatti di tragedia si sta parlando, ovvero
della pulsione uscita di controllo, non esorcizzata e non rimossa.
Questo è l’ammonimento alle generazioni
future.
Invece della benedizione della generazione dei
padri sulla generazione dei figli: «... rovina al ceppo di Edipo
- il delirio antico di Laio». La malledizione del Padre.
Dopo Eschilo avviene la rottura definitiva dalla
forma mentis arcaica, e
Sofocle e il suo Edipo ci parleranno non
più di sette ma di tre: le tre età dell’uomo usate per
decodificare l’enigma e prendere la città.
Non è un caso che in entrambi le tragedie
si parli della città di Tebe.
Nella psiche greca, dopo Omero, questa era
diventata sinonimo di città-corpo della madre e della donna.
La società greco-romana, una volta
superati i riti tribali e imboccata la strada della fedeltà alla
polis e allo stato, al posto di quella al clan e al padre tribale, non
avrà più bisogno del numero sette.
Dopo cinque secoli, con la crisi del mondo
antico, che troverà la sua espressione nel cristianesimo,
riemergerà nuovamente, come risultato della regressione
esistenziale della società occidentale e il suo venir
risucchiata all’indietro, verso gli arcaici riti tribali rimossi.
Questo numero continuerà a riaffiorare
anche dove la fedeltà al clan non era mai stata superata e, come
prodotto della quale, continui a riemergere la traccia e la nostalgia
dei riti tribali abbandonati.
Le tribù germaniche e nordiche
continueranno a raccontare di sette nani, di sette principi, di sette
fratelli, di sette corvi, di sette agnelli, di sette spose per sette
fratelli.
Tutto il Medioevo barbaro-cristiano
continuerà a rispolverare dai suoi archivi mnestici il numero
sette.
Sotto l’influenza del mondo apollineo della
cultura greco-romana, queste tribù europee adotteranno anche il
numero tre, simbolo fallico dell’Occidente, adottando le tre streghe di
Macbeth e le tre inviate della Regina della Notte del mito nordico del
Flauto Magico, parallele ai mostri greci arcaici e simbolo di un mondo
preolimpico, le tre figlie di re Lear e Cenerentola e le sue due
sorelle, parallele alla triade olimpica e, alla fine, sebbene, forse, a
malincuore, la Santa Trinità.
Ma il sette continua a riaffiorare, proprio dove
trova più espressione il rusticus, il popolare, in
contrasto all’aulico, l’ufficiale.
In Shakespeare torna di più il simbolismo
del numero tre, ma pur appartenendo alla sfera culturale occidentale,
non è esente da tracce mnestiche di un’antica fedeltà di
sangue, che si riflettono nel numero sette: gli Inglesi, dopotutto,
discendono dalle tribù sassoni e normanne .
Se l’Edipo apollineo parlava di tre età
dell’uomo, ecco Shakespeare che parla di sette età dell’uomo (in
As you like it, II, vii, 140-166).
Come il periodo di preparazione del rito
iniziatico si conclude con la circoncisione che, come ci ha
insegnato Freud, è un sostituto simbolico della castrazione ,
così le sette età dell’uomo di Shakespeare si concludono
con la perdita dei denti e degli occhi (...Sans teeth, sans eyes,
sans taste, sans everything), ugualmente simbolo di evirazione.
Forse la sua grandezza deriva proprio dal fatto
che ha saputo arruolare arcaiche tracce mnestiche tribali, con la loro
carica energetica, alla causa della cultura occidentale.
Ed ecco che nella sua opera tre donne, di cui
una sola obbedisce al marito, (La Bisbetica Domata), tre streghe
(Macbeth), tre scrigni (il Mercante di Venezia) e tre sorelle (Re Lear)
si fondono con le sette età dell’uomo (Così è, se
vi pare), senza nessuna contraddizione.
Pare proprio che i Germani, i Danesi e gli
Scandinavi, si siano trincerati nella loro struttura psichica tribale
molto più degli Inglesi, che hanno saputo fare una sintesi
più armonizzata tra tribù e polis, tra Stato e
fedeltà di sangue, tra cultura occidentale e arcaiche tracce
mnestiche di fedeltà al clan.
Per Tedeschi e Scandinavi il sette risuona ad
alte note, un richiamo della giungla che emerge prepotente in tutte le
loro fiabe e le loro saghe.
I nani di Biancaneve sono sette, sette volte
nano, piccolo, simbolo fallico del pene, moltiplicato per sette, come
sette erano i corni di montone che fecero cadere le mura di Gerico.
Sette simboli fallici intorno a Biancaneve, come
sette simboli fallici intorno a Gerico, per farla cadere e penetrarla,
come sette i giorni della sua intoccabilità, del suo tabù,
che può venire esorcizzato solo
dall’ottavo, con la circoncisione.
La rappresentazione scenica dei sette nani,
intorno a Biancaneve, corrisponde all’istantanea dei sette corni di
montone intorno a Gerico che, come la vergine Biancaneve, «era
saldamente sbarrata di fronte agli Israeliti, nessuno usciva e nessuno
entrava» (Giosuè
6,1).
Sette re di Roma, la città
fondata su sette colli, ovvero posseduta, dal numero magico degli
iniziati e del loro simbolo fallico.
Sette re. Sette eroi, Sette novizi. Sette nani.
Sette Samurai (I Magnifici Sette) e "Sette spose per sette Fratelli".
Sotto il simbolismo magico di questo numero, il
rito iniziatico si sussegue a catena, una scena dopo l’altra, dall’atto
eroico a quello eterosessuale.
Dio creò il mondo in sei giorni, il
settimo si riposò, e solo dopo crea la donna. Solo dopo, al
termine del rito iniziatico, appare la donna, come premio dell’impresa
eroica e della sua fatica.
Nella storia di Giuseppe, che decodifica il
sogno del Faraone, i contenuti
sono gli stessi. Sette sono le vacche grasse e sette le vacche magre,
sette le spighe piene e sette le spighe vuote. Attraverso il simbolismo
del sette Giuseppe penetra il significato del sogno e così salva
se stesso e l’Egitto e avrà l’Egitto stesso in premio,
come Edipo, che decodifica l’enigma della Sfinge e avrà Tebe e
la sua regina.
Al posto dell’atto eroico, che nello strato
più arcaico della leggenda di Edipo era rappresentato
dall’uccisione del mostro , sia per Edipo che per Giuseppe si
sostituisce la decodificazione dell’enigma, del mistero. La
decodificazione dell’enigma condensa sia l’atto eroico che un aspetto
dell’atto sessuale stesso, poiché decifrare è penetrare.
E qui ci ricolleghiamo al sapere biblico, alla conoscenza e la sua
connotazione genitale (p.6). Come già aveva intuito Nietzsche il
desiderio di avvicinarsi alla verità è associato al
bisogno di accostarsi alla donna e i sapienti, i nuovi iniziati,
avranno lei in premio .
La verità, per gli Egiziani, era
rappresentata come una dea, Maat. Per i Greci la saggezza era
personificata dalla vergine Atena, e in greco saggezza è
“Sophia”. In ebraico Emet (Verità), Chochmà (Saggezza),
Da't (Conoscenza), Binà (Sapienza), Hidà
(Enigma-indovinello), sono tutti concetti che vengono espressi al
femminile e così anche nella maggior parte delle lingue
indoeuropee.
Trovare la chiave dell’enigma corrisponde ad
aprire e quindi Giuseppe, usando il numero sette, compie sia l’atto
eroico che quello eterosessuale. La chiave per l’enigma diventa anche
la chiave per il possesso dell’Egitto.
Nella Bibbia, come avverrà molto
più tardi in Grecia, la saggezza sostituisce la forza come
atto eroico e come simbolo sessuale di penetrazione, in un’unica
condensazione. Qui abbiamo esattamente il punto di cucitura, dove
questo avvenne.
Il rito iniziatico di Giacobbe fu consumato
attraverso la sua lotta con l’angelo e subito dopo gli viene cambiato
nome: «Non ti chiamerai più Giacobbe, ma Israele
perché hai combattuto con gli uomini e con Dio e hai
vinto» (Gn.32,25-30), come si cambia nome agli iniziati, dopo che
hanno consumato il rito .
Come nel prodotto onirico lo stesso concetto si
ripete più volte nello stesso sogno, e ritroveremo la stessa
cosa nel sogno del faraone («Allora Giuseppe disse al faraone:
«Il sogno del faraone è uno solo»(Gn.41,25)), anche
la Bibbia ci dà due versioni dell’iniziazione di Giacobbe,
ripetendo lo stesso concetto. Prima la fatica iniziatica e il rapporto
eterosessuale e dopo la lotta con l’angelo e il cambiamento del nome.
Nella prima versione il numero sette emerge due
volte: nel numero degli anni che deve lavorare per Rachele (Gn. 29,18)
e nel numero dei giorni del banchetto nuziale (Gn. 29,27-28).
Nella seconda versione, il numero magico ritorna
nuovamente due volte: Labano «lo inseguì per sette giorni
di cammino e lo raggiunse sulle montagne di Galaad» (Gn.31,23) e,
al suo incontro con Esaù: «si prostrò sette volte
fino a terra, mentre andava avvicinandosi al fratello» (Gn.33,3).
Il contesto iniziatico del numero sette diventa
particolarmente chiaro quando si esamina da vicino i sette giorni di
cammino che ci vogliono a Labano per raggiungere Giacobbe. La distanza
tra Carran, in Mesopotamia, e Galaad, nel nord della Palestina è
di centinaia di chilometri e ci sarebbero voluti ben altro che sette
giorni di cammino per percorrerli. Quindi questo non è il lasso
di tempo reale che ci vuole per percorrere una distanza, bensì
un periodo simbolico, come quello che passa da quando inizia il rito
iniziatico al momento della circoncisione. E infatti la lotta di
Giacobbe con l’angelo e la sua mutilazione simbolica avvengono in
immediata susseguenza associativa alla fuga di Giacobbe dallo zio che
minacciava di ucciderlo. Come la generazione degli adulti minaccia, in
questi riti, i giovani di morte.
Le sette prostrazioni di Giacobbe, subito dopo,
di fronte al fratello che voleva ucciderlo sono una ripetizione dello
stesso concetto.
In entrambi i casi il sette, prima quello
collegato alla fuga da Labano e poi quello delle prostrazioni di
Giacobbe davanti a Esaù, si concludono con un patto sancito
solennemente, prima con lo zio e poi con il fratello. Come ogni rito
della pubertà viene sancito da un patto di sangue con la
generazione dei padri e quella dei fratelli .
Giuseppe, invece di lottare con un angelo, come
il padre, risolve l’enigma e il Faraone gli cambia nome e
«chiamò Giuseppe «Zafnat-Paneach» e gli diede
in moglie Asenat, figlia di Potifera, sacerdote di On».
(Gn.41,45).
Il giovane Eroe, con il suo numero sette,
penetra il segreto, decodifica l’enigma e ha subito un rapporto
eterosessuale. L’Egitto, che gli viene affidato e messo in suo potere,
è la sua ripetizione. Come Tebe, che viene data in premio a
Edipo è la ripetizione della sua regina. Come Troia, il premio
degli Achei, è la ripetizione di Elena. Come Gerico, il premio
degli Israeliti, è la ripetizione di Raab, la prostituta sacra
che dimora dentro le sue mura (Giosuè 2,1).
Ma anche lo svolgimento del mito apollineo di
Edipo, in confronto a quello semita di Giuseppe, ci rivela una
differenza.
L’enigma di Edipo era stato:
C’è sulla terra un animale che può
avere quattro, due o anche tre gambe ed è sempre chiamato con lo
stesso nome. È il solo tra gli esseri viventi che si muovono in
terra, in cielo e in mare, che muti natura. Quando egli cammina
appoggiato a un maggior numero di piedi, la velocità delle sue
estremità è minore».
E la risposta dell’Eroe era stata:
«l’uomo, poiché queste sono le sue tre età. Da
infante cammina a quattro gambe, a mezzogiorno cammina sulle sue due
gambe, e in vecchiaia si appoggia sul suo bastone».
Le tre età dell’uomo sono la chiave della
soluzione dell’enigma.
Il protagonista della storia sofoclea, quando la
società greca era strutturata a polis e aveva rimosso qualsiasi
ricordo dell’antica fedeltà tribale e di suoi riti iniziatici,
risolve l’enigma attraverso il numero tre.
Giuseppe, l’Ebreo, figlio di una tribù di
pastori, risolve l’enigma attraverso il numero sette, e questo numero
è la chiave alla sua sapienza.
Anche la famosa traduzione della Bibbia
dall’ebraico al greco è la traduzione dei
«settanta», la Septuaginta, in cui, secondo la leggenda,
settanta sapienti vengono racchiusi in settanta stanze separate per
tradurre la Bibbia dall’ebraico al greco. Atto eroico collettivo, che
viene perpetrato attraverso la sapienza.
DIONISO - APOLLO
Il suo culto era associato ai misteri eleusini, ma l’iniziazione a
questi non era associato ai riti della pubertà, e infatti il suo
numero rimase tre, non diventò mai sette, il numero associato
all’educazione dei giovani: questo numero rimase quello di Apollo e di
Orfeo. L'unica traccia mnestica di un atto iniziatico mancato, come
abbiamo visto sopra, emerge nel mito orfico dove “ I Titani ... lo
tagliarono in sette pezzi e li gettarono in una caldaia che
stava in un tripode. Quando la carne fu cotta, essi incominciarono ad
arrostirla su sette piedi” (Apollodorus
Mythogrphus 2, 5, 12)
Il culto di Dioniso si limitava
al lutto orgiastico per la morte del dio bambino e non fu mai collegato
all’accettazione degli adolescenti alla comunità degli adulti..
Rimase il dio bambino, capro divino, sbranato
mentre giocava e fu così privato, nella rappresentazione del
mito, della possibilità di diventare adolescente e i riti della
pubertà gli furono preclusi. Solo in epoca ellenista
cominciò a essere rappresentato come un adolescente effemminato,
in simpatia con i culti della fertilità orientali in cui era un
dio adolescente che moriva e resuscitava: Osiris, Tammuz, Adonis, Attis.
Ricomposto da una dea madre, come bambino rimase
il dio che precede i riti puberali e la sua epifania rimase limitata al
pasto totemico e al suo sfogo orgiastico, apologia dell’Es ininibito,
come lo sono le pulsioni infantili prima della formazione di un Io
inibitore.
Freud spiega che il delitto viene perpetrato su
un dio giovane, in quanto condensazione del padre ucciso e del giovane
che aveva perpetrato il delitto, sul quale viene consumata
l’espiazione. Ma il dio sbranato dai Titani non e’ un dio giovane, e’
un dio bambino e se il mito avesse voluto solo condensare l’immagine
del delitto con la sua espiazione ci avrebbe presentato un dio
adolescente, come tutti i riti della fertilità orientali, dai
miti di Osirides e Tammuz a quelli di Adonis e Attis e fino alla
Crocefissione che ricalca gli stessi motivi.
Il dio bambino ci viene presentato nella scena
della Natività, non in quella della Crocefissione, dove ci viene
presentato un giovane dalle forme di Apollo, e questa ricalca la
condensazione dei riti della pubertà con quelli della
fertilità.
Freud scelse una scorciatoia.
Il mito di Dioniso è parallelo a quello
della Natività, come abbiamo imparato anche dal brano riportato
da Kerenyi, in cui anche il dio greco viene rappresentato nato in una
grotta e divorato mentre stava giocando.
Quindi la storia orfica di Dioniso divorato dai
Titani mentre sta giocando è quella delle pulsioni erotiche
della prima infanzia, prima del periodo di latenza che comincia con il
tramonto del complesso edipico verso i cinque anni, e che vengono
“punite” attraverso l’azione dei Titani.
L’analisi non può prendere scorciatoie.
La decodificazione deve passare attraverso tutte le diverse fasi.
Anche il divorare non è casuale. La
storia è quella di una pulsione sadico-orale, che secondo la
legge del taglione viene punita da un divoramento parallelo.
Dioniso rimase la vittima sacrificale, non
arrivò mai a compiere l’atto eroico e quello eterosessuale dei
giovani novizi. Questi spetteranno ad Apollo.
Quello che il mito greco scompone in due miti
diversi, quello di Dioniso e quello di Apollo, il primo con il suo tre
e il secondo con il suo sette, il mito cristiano riunisce nella storia
di un unico Eroe, anche se la sua storia presenta la stessa scissione:
da una parte la Nascita e la primissima infanzia, e dopo un lasso di
tempo che corrisponde al periodo di latenza tra il crollo del complesso
di Edipo e la reattivazione pulsionale della pubertà, quella di
un giovane adolescente che strabilia tutti mostrando la sua saggezza ai
dottori della Legge nel tempio di Gerusalemme (Luca 2,41-8).
E da li’ di saggezza in saggezza fino all’albero
della Croce, come i giovani novizi che vengono fatti morire e rinascere
simbolicamente, nella macchia della foresta, come nei riti della
fertilita’ degli altri giovani dei.
La conoscenza immanente di Dioniso è
dunque dissociata da qualsiasi imbrigliamento e sublimazione: è
conoscenza pulsionale in antitesi completa alla sapienza insegnata del
sette di Apollo, il dio della sapienza.
Il tre del dio caprino rappresenta la
completezza dell’essenza pulsionale, il fallo non come soluzione
metafisica raggiunta in un processo di doing e undoing ma come
la verità assoluta dell’immanenza esistenziale.
Questo tre appartiene allo strato primario
dell’essenza umana, su questo si costruiscono tutti gli altri, in una
graduale sublimazione alle insegne degli insegnamenti di Apollo, che
però comportano anche una perdita di intensità.
Quello che Freud chiama “la perdita della
civiltà”.
L’identificazione con Dioniso nei misteri a lui
legati condensa sia l’esplosione orgiastica di liberazione, avvenuta
nel delitto primordiale, sia l’identificazione stessa con con il
corpo del padre ucciso e con la di lui essenza, quella del potere
assoluto che godeva sull’orda primordiale e la mancanza assoluta di
inbizione pulsionale.
Al padre dell’orda era tutto permesso e
così ora anche ai figli che nei misteri dionisiaci si
identificano con lui.
In questo contesto il tre rappresenta la
completezza nel senso di tutto quello che si può desiderare: una
mancanza d’inibizione assoluta.
Il tre di Dioniso era all’inizio di tutto, lo
sfogo pulsionale assoluto, ma l’altro aspetto della stessa moneta era
la morte tragica del giovane dio.
Il cristianesimo operò una sintesi con la
salvezza della saggezza di Apollo e risolse la dicotomia nella formula
salvifica della Santa Trinità.
Il tre del Cristo e’ la vera
soluzione poichè condensa in se non solo lo sfogo pulsionale
bensì anche il suo superamento attraverso la saggezza di Apollo,
che si traduce in Redenzione. Il tre aggiunge alla propria formula quel
contenuto di riconciliazione che gli permette di esentarsi dal
periodico anniettamento, il taglione e la sua legge, rappresentato dal
divoramento dei Titani. Attraverso la metafisica del meccanismo
salvifico tutto viene proiettato in cielo.
ORFEO, APOLLO E
IL DIO EBRAICO
Ma c’è un altro dio associato al sette:
Orfeo.
Il dio, come Apollo, è associato ai
giovani e alla loro istruzione.
Come abbiamo visto sopra, il sette appare nei
sette mesi durante i quali deve rimanere in una caverna sotto un’enorme
rupe, dopo aver passato sette giorni senza assumere cibo presso il
fiume degli Inferi, in una caverna, simbolo del ventre materno, da cui
poi rinascerà.
In questo periodo si tenne lontano dalle donne e
si recavano da lui i selvaggi abitanti del bosco, satiri e giovani
ragazzi. Orfeo li educava all’astinenza dalla carne, cantava loro
l’origine delle cose e degli dei e li iniziava ai misteri che aveva
appreso dalla regina degli Inferi durante la sua visita all’al di
là.
Qui il processo iniziatico, con le sue
astinenze, la rinascita e le sue istruzioni appare in maniera esplicita.
Si associa ai satiri, come Dioniso, e di questo
dio condivide l’aspetto selvatico o pastorale. Sembra una via di mezzo
tra l’animale Dioniso e il bel giovane Apollo. Sembra quasi uno stadio
si passaggio tra il capro divorato ferocemente e l’epifania di luce e
di saggezza del dio delfico.
In comune con Apollo ha anche la lira, uno degli
strumenti musicali piu’ arcaici.
Ma il dio originale della musica è Orfeo.
Apollo si associa alla musica e alla lira solo gradualmente quando
perde l’aspetto minaccioso del dio iniziatico. L’arco terribile di
Apollo si trasforma un po’ alla volta nella lira che tiene in mano e
che aveva preso ad Orfeo, pari passo all’evolversi delle sue minacce in
saggezza civilizzatrice (Apollo Citaredo con l'arco e la lira in una rappresentazione del "600 ).
La musica di Apollo è già
arte, non è più la musica orgiastica delle Bacchanalya
di Dioniso accompagnatrice della danza sfrenata e della scarica
motoria associate al culto del dio caprino.
Theodor Reik nel suo esteso lavoro sulle origini
dello Shofar, il corno rituale ebraico, (in Il rito
religioso, Boringhieri, Torino 1949 e 1969) ha trovato che presso
tutti i popoli l’invenzione della musica è associata a un
dio o a un semidio che comunica agli esseri umani la sua sofferenza per
mezzo di suoni. L’autore fa convincentemente risalire questi primi
suoni, che avrebbero ispirato anche i primi strumenti musicali, alla
voce in agonia del primo dio, l’animale totem ucciso.
Lo Shofar il corno di montone,
è lo strumento musicale che condensa il dio stesso e il suono
della sua voce in agonia. Infatti la Bibbia fa risalire l’invenzione
della musica a un patriarca che si chiama Iuval (Gen. 4,21), e questa
parola in ebraico significa appunto ariete. Ovviamente prima
che il redattore biblico operasse la sua azione censoria questa figura
era quella di un dio, che fu poi degradato a mortale.
Se così, il primo dio, Dioniso, il
capro sacrificato avrebbe dovuto essere lui il dio della musica. E
infatti la prima musica, quella orgiastica del baccanale, è
associata al dio caprino. Nietzsce in tutta la sua opera fa riferimento
alla musica come manifestazione dell’ebbrezza dionisiaca in contrasto
all’ebbrezza apollinea dell’arte.
Ma Dioniso, come abbiamo visto, era un’epifania
divina troppo associata al selvaggio e allo sfogo pulsionale non
mediato perchè gli fosse attribuita quella connotazione
civilizzatrice che alla fine si polarizzerà nella figura di
Apollo. E la musica, nata come espressione di sfogo pulsionale, si
sviluppa però, durante i secoli, in formula d’incivilimento e
sublimazione.
Per gli Ebrei il suono del corno del capro
diventerà la formula della salvezza, e questo viene suonato
solennemente alla fine del giorno dell’Espiazione per convincere il
Signore ad aprire le porte dell’assoluzione.
Eppure la percezione che la musica dovesse la
sua origine al selvatico, al primordiale, premeva troppo per essere
associata solo ad Apollo.
Così venne creato un dio intermedio, meno
selvatico di Dioniso ma pur sempre a lui associato attraverso le figure
dei satiri con cui convive nella foresta, meno civilizzatore di Apollo,
ma pur sempre legato a lui dall’azione educativa dei giovani, dalla
rivelazione dei segreti, e alla fine gli consegnerà persino la
sua lira, simboleggiando così la metamorfosi della musica stessa
da strumento per la scarica orgiastica a quello di medium di
sublimazione.
Così Orfeo divenne il dio della musica,
un compromesso tra i contenuti autentici della musica dionisaca,
apologia delle pulsioni ininibite dell’Es, con la sua connotazione di
terrore e di violenza come questi trovano espressione nel mito del dio
bambino lacerato e divorato dai Titani, e quelli della sublimazione e
dell’arte di Apollo.
Il mito di Orfeo ci rivela ancora molte cose.
Il dio perde la donna amata, scende negli
inferi, convince per mezzo della musica Ade a restituirgliela, e la
riperde definitivamente per un involontario peccato di voyerismo.
La morte (la discesa negli inferi) e la
rinascita si riallacciano al mito orfico di Dioniso ucciso dai Titani e
ricomposto da Demetra. Qui si tratta ancora di un dio bambino,
lì già di un dio adolescente, qui una morte violenta
collegata al pasto totemico, lì di una discesa al mondo dei
morti.
Gli aspetti selvaggi del mito dionisiaco vengono
addolciti, come “civilizzati”, nel mito di Orfeo, il quale viene anche
associato a una donna amata, come per definire la sua saga al periodo
puberale in cui avvengono i primi innamoramenti e i primi rapporti
etrosessuali.
Anche in questo, dunque, Orfeo reppresenta un
annello di congiunzione tra Dioniso e Apollo, il quale, pur essendo il
dio più associato ai riti d’iniziazione puberali, non muore e
rinasce, malgrado questi elementi facciano parte essenziale del rito.
Ed ora alla musica: Orfeo commuove il dio degli
Inferi attraverso la sua musica e lo convince a restituirgli l’amata.
Il mito greco non ci dice niente del peccato di
Orfeo che aveva provocato il terribile castigo della perdita
dell’amata, ma in tutto l’oriente ellenizzato e anche a Roma venivano
eseguiti culti in cui un giovane dio muore e risorge in associazione
diretta con un peccato di incesto con una dea madre che era diventata
la sua amante: Cibele e Atti a Roma, Rea e Atti in Grecia,
Afrodite-Adonis in Fenicia, Isthar-Tammuz in Siria e Palestina,
Iside-Osiris in Egitto ecc. Quindi e’ logico associare anche la morte
–rinascita di Orfeo con la sedimentazione peccaminosa di ogni rapporto
eterosessuale, in quanto associato inconsciamente all’incesto.
Ade, come abbiamo visto sopra, era anche
un’epifania di Zeus (p.8), il padre degli dei, ovvero dio-Padre par
excellence, quindi l’Eroe del nostro mito chiede l’assoluzione a
dio-Padre e questa gli viene concessa in grazia della musica.
Questa associazione suono-perdono l’abbiamo
già incontrata parlando del corno rituale ebraico. Rivediamo ora
più da vicino questo nesso.
Nel Talmud babilonese Rabbi Joshia
chiede:
“Sta scitto: “Salute al popolo che comprende il
suono del corno”. Forse che il resto dei popoli non conoscono il modo
di suonare l’allarme? Quanti strumenti a fiato essi hanno! Quante
buccine, quante trombe! E tu proclami: “Salute al popolo che comprende
il suono del corno”. Resta pero’ il fatto che Israele sa come
procurarsi il perdono del suo Creatore per mezzo del suono dello
shofar. Iddio si alza dal suo seggio di giudice e va al trono della
misericordia, e la compassione gli commuove il cuore; Egli da giudice
severo diventa giudice misericordioso” E ancora: “Essi sanno come
rendersi devoti al loro Creatore suonando lo Shofar”.
Nella preghiera mattutina del
primo giorno del Nuovo Anno si legge: “Io lo persuadero’ con lo shofar,
cadendo sulle ginocchia difronte a Lui” e in quella di mezzogiorno
(Mussaf): “Noi suoniamo lo shofar durante la preghiera per persuadere
Te o Onnipotente”.
Orfeo ottenne dunque il perdono del Padre,
attraverso la sua musica, come gli Ebrei ottengono il perdono
attraverso la loro.
L’unica differenza consiste nel fatto che questi
hanno mantenuto in tutta la loro multi-millenaria evoluzione lo
strumento musicale originario, il corno di montone, mentre i Greci del
tempo del mito orfico lo avevano già sostituito, dal corno di
Dioniso, il dio caprino, alla lira di Orfeo.
Orfeo aveva imparato in carne le conseguenze
dell’incesto e ora insegna ai giovani che lo seguono nella foresta
l’astinenza dalla carne, affinche’ un peccato di parricidio-
cannibalismo non faccia fare loro la fine di Dioniso e raccomanda loro
l’astinenza sessuale, affinchè non debbano scendere agli inferi
a ricercare inutilmente l’amata.
Istruendo i giovani sui suoi misteri li inizia,
prima ancora di Apollo, all’inibizione e alla sublimazione.
Orfeo è un dio associato al sette come
Apollo e quindi un dio legato all’educazione dei giovani, ma a
differenza del dio delfico manca completamente di qualsiasi
connotazione minacciosa.
La soluzione è semplice: Orfeo non
rappresenta la generazione degli adulti, bensì rimane lui stesso
un adolescente: come tale insegna ai suoi coetanei la sua dolorosa
esperienza iniziatica mancata.
Era sceso agli inferi e ne era risorto,
ma la sua esperienza iniziatica non era stata coronata dal successo
come quella dei novizi che alla fine del rito puberale acquistano la
licenza sessuale ed hanno il primo rapporto eterosessuale. Se il
rapporto non riesce il novizio muore. E Orfeo aveva mancato, la sua
Euridice gli era stata tolta, come il marito di Anna, figlia di Fenuele
che era morto senza aver potuto procreare (Luca 2,36) e i sette
fratelli descritti da Matteo (22,25) che erano morti uno dopo l’altro
appena sposati.
Il rito iniziatico non era stato seguito dal
rapporto eterosessuale, l’amata era andata persa, e quindi lui non
aveva potuto superare la soglia della pubertà, ed era destinato
a rimanere nel bosco insieme agli altri adolescenti.
La sua perdita era stata seguita da un’eterna
condizione di omosessualità puberale, priva della sapienza del
rito iniziatico superato: questa spetterà solo ad Apollo.
Il mistero di Orfeo conserva ancora la traccia
dell’atto cannibalistico che risolve attraverso l’astinenza dalla
carne, come il cristianesimo risolverà attraverso
l’esorcizzazione dell’Ostia Sacra, e racconta ai giovani che lo seguono
di un incesto punito con la morte, che esorcizza mantenendosi in
astinenza.
Quelli di Dioniso e di Orfeo rimangono misteri,
atti di fede, e il cristianesimo si riallaccerà a questo strato
e dichiarerà impenetrabili le vie e la configurazione della
divinità: un mistero la Santa Trinità, l’Immacolata
Concezione, l’Incarnazione, la natura del Cristo ecc.
Apollo, invece, nella sua figura di Febo, che
significa “puro-pieno di luce”, rappresenterà il passaggio da
quello dei misteri a quello della luce, della saggezza e alla fine
della Rivelazione, il suo oracolo proporra’ la soluzione dell’enigma,
anche se in forma astrusa, decodificabile attraverso la sapienza e alla
fine della fede che si trasfigurerà in grazia ed accettazione.
Quello di Apollo non è già piu’ un mistero indecifrabile,
i degni vi riusciranno: con la saggezza e la fede propone la salvezza.
Anche a questo strato si riallaccerà il cristianesimo. Il Cristo
verrà sacrificato come Dioniso, scenderà agli Inferi a
raccogliere le anime, vi resterà tre giorni (Matteo
12,40), resusciterà come Orfeo, come questi raccomanderà
l’astinenza, e alla fine si rivelerà in tutta la sua epifania di
luce, bellezza, sapienza e sublimazione come Apollo.
Quello che il mito greco scompone in tre
dei diversi Dioniso, il dio lacerato e sbranato, il parricidio
primordiale, Orfeo il padre della musica, condensazione di peccato
(l’incesto) e perdono attraverso la sublimazione della musica stessa,
Apollo il dio minaccioso e terribile che si trasfigura in quello
dell’insegnamento della morale e della saggezza e quindi dell’arte, la
sublimazione per eccellenza, i Cristiani trasfigurarono in quella del
Cristo, che da capro sacrificale si sublimò in dio della
saggezza e della misericordia, attraverso la sua multeplice epifania di
dio Bambino, Dio adolescente crocifisso e dio Padre in un’unica sintesi.
Gli Ebrei condensarono tutta la saga
esistenziale in un’unica immagine, che non fu neppure tale,
poichè Jahvè non si può vedere. Il suo nome
è così terribile e innominabile proprio poichè
concentra in un unico sè tutta la condensazione di quelli
elementi che trovarono, invece, espressioni diverse nella mitologia
greca e nel cristianesimo, permettendo di scaricare, attraverso la
scomposizione dell’immanenza esistenziale in miti diversi e in
immagini, la pressione terribile che nella sintesi del dio ebraico
rimase condensata e compressa.
Se il cristianesimo dovette imporre il mistero e
il dogma, nel timore che i veri volti del loro dio riemergessero dalla
rimozione e apparissero improvvisamente su quel poliforme schermo
allestito dal modus mentale greco, ecco gli Ebrei risolsero il problema
in maniera molto più efficace e più consona al proprio
modus mentale.
Questi accettarono l’inibizione stessa del tatto
e della vista; il Dio non si vede, va adorato attraverso il rito.
Esiste nell’ebraismo un solo dogma: il Dio è uno. E questo dogma
è molto facile da osservare poichè, se come ci ha
insegnato Freud, il primo dio era il padre e ognuno ha dell’idea di Dio
quella che nella prima infanzia aveva del proprio padre, Dio e’
veramente uno solo, poichè ognuno ha un solo padre.
La cultura occidentale, scomponendo questa
unità in multiformi rappresentazioni sceniche, si
abbandonò allo sfogo pulsionale del tatto e della vista, ma
sotto il peso delle contraddizioni interne che si formavano sullo
schermo come conseguenza della poliedricità stessa delle
rappresentazioni emerse, dovette alla fine cercare rifugio nei misteri
e nel dogma e impedire il pensiero.
L’ebraismo, risolta tutta la complessità
della multivalenza pulsionale nell’inibizione e
nell’anti-immagine di un dio unico che non si vede, non ebbe bisogno di
ulteriori costrizioni e gli Ebrei poterono liberare una quantità
di energie enormi alla speculazione intellettuale e al libero pensiero.
Gli occidentali divennero cosi’ maestri d’arte
mentre gli Ebrei diventarono maestri d’intelletto.
Quando Apollo depose il suo arco,
abbandonò anche il suo sette, e a una rimozione indotta dal
terrore ne sostituì una messa in atto attraverso l’educazione e
la colonizzazione civilizzatrice.
Le soluzioni di Apollo divennero così un
ordine morale.
Gli Ebrei risolsero il terrore di Jahvè e
il suo sette in maniera simile, ma molto diversa. Come il volto
minaccioso di Apollo si era trasfigurato in un sorriso arcaico e il suo
terrore in opera civilizzatrice, anche il “volto” del dio ebraico, che
aveva minacciato i suoi figli in ogni occasione si trasfigurò in
quello di un padre misericordioso che consegna in blocco, ex
macchina, la Legge al suo popolo e lo difende dai suoi nemici,.
Il sette di Jahvè non fu mai deposto. Gli
Ebrei rimasero una tribù ideale figli di un unico Padre, com’era
stato quello originale.
Invece di una rimozione risolta nella
canalizzazione delle energie in rappresentazione figurata e in sfogo
pulsionale sublimato attraverso il medium della raffigurazione,
tutte le energie furono arruolate a un’ulteriore inibizione pulsionale
che sfociò in sottomissione assoluta alla Legge del Padre.
Queste energie, sotto il peso della rimozione
furono interiorizzate e potenziate e sfociarono in sublimazione
attraverso il medium della Legge stessa.
Invece di templi e cattedrali, statue e
città di marmo, la Legge rimase il loro unico ordine morale. La
Legge fu adattata ogni volta a secondo dell’evoluzione interna del
popolo, ma rimase l’unico medium. Concentrando tutte le energie
nella direzione dell’inibizione pulsionale, salirono sempre di
più sui gradini della spiritualità e dell’elaborazione
mentale.
La Scrittura diventò il grattacielo che si innalza alle vette
più alte e il sette del dio ebraico si fuse con questa in
un’unica unità.
La Scrittura rimase il medium di Jahvè
per iniziare il suo popolo come l’arte, il volto di Apollo e il suo
sorriso arcaico scolpito sul frontone dei templi, fu lo strumento
dell’iniziazione di Febo.
IL DELFINO
Un’associazione interessante, a proposito di Apollo
come dio iniziatico in un’unica condensazione con la figura del Cristo
ci è fornita dalla caratterizzazione dell’erede al trono di
Francia, sotto il nome di Delfino.
Il Delfino, infatti, era un animale sacro
ad Apollo (anche il nome Delfi, la città dove il dio aveva il
suo oracolo, deriva da Delfino) e Apollo stesso si presentava spesso
sotto le sembianze di un delfino.
La storia del nome è nota: il Delfinato,
una regione della Francia, prendeva il nome dal suo Signore, che veniva
appunto chiamato Delfino. Una volta annessa al regno di Francia,
l’ultimo Delfino chiese e ottenne che da allora in poi con questo
titolo fosse chiamato il principe ereditario di Francia.
Il principe Delfino, quindi, era come Apollo un
dio iniziatico, il dio–figlio adolescente che prende il posto del
Padre, quando questi dovette rinunciare al suo titolo, per cederlo al
Figlio.
Qui il numero sette non è presente in
maniera esplicita, ma attraverso comunque il richiamo alla simbologia
apollinea. D’altra parte, la simbologia usata è un linguaggio
funzionale a esprimere un contenuto, e questa simbologia del
Delfino–Apollo sembra condensare in una sola persona (il Delfino) il
ricordo mnestico degli antichi riti di iniziazione, che avevano come
protagonisti i sette fratelli, qui condensati necessariamente da
un’unica persona. Sette = Delfino = Apollo.
La condensazione ritorna anche in un altro
contesto: nella Pasqua cristiana, infatti, e durante i Venerdì,
i fedeli sono tenuti a cibarsi di pesce.
Gesù risorto, infatti, veniva
rappresentato come pesce, e il pesce era uno dei simboli dei primi
cristiani. La Pasqua ci ricorda la risurrezione di Gesù.
Gesù, morto come Dioniso, è risorto come Apollo. Adesso
ci è chiaro, dunque, che il richiamo al pesce nella Pasqua va
dunque interpretato nell’ottica dell’identità apollinea del
Cristo risorto.
Apollo è anche il dio del sole. Come sole
e astro principale dell’universo verrà anche rappresentato il
Cristo nelle rappresentazioni figurate. Il Re Sole era il re di Francia
e persino i Visconti milanesi scelsero questo simbolo per
rappresentarsi.
Ogni sovrano si autopercepisce, dunque, come
sintesi di Padre ma anche di dio-figlio rappresentante dell’orda dei
fratelli.
L’APOCALISSE DI GIOVANNI
Ed ecco l’Apocalisse di Giovanni che ostenta il
numero sette, simbolo fallico carpito agli Ebrei, per ripresentare
all’Occidente la formula magica attraverso la quale gli viene offerta
la salvezza.
Il rito d’iniziazione, che era stato superato e
rimosso dalla civiltà greco-romana, all’apice della sua crisi le
viene riproposto.
L’Apocalisse fa riemergere dalla rimozione il
dio iniziatico, che terrorizza gli Achei e minaccia di ucciderli
intorno alle mura di Troia, in un’unica condensazione con il dio che
aveva portato la sua grande prova iniziatica distruggendo
l’umanità nel Diluvio Universale e aveva iniziato gli Israeliti
con le piaghe d’Egitto. E, infatti, così dice l’Apocalisse:
«Appena il primo (dei sette angeli) suonò la tromba,
grandine e fuoco mescolati a sangue scrosciarono sulla terra...Il
secondo angelo suonò la tromba...Un terzo del mare divenne
sangue, un terzo delle creature che vivono nel mare morì e un
terzo delle navi andò distrutto. Il terzo angelo suonò la
tromba e cadde dal cielo una grande stella, ardente come una torcia, e
colpì un terzo dei fiumi...e molti uomini morirono per quelle
acque che erano diventate amare. Il quarto angelo suonò la
tromba e un terzo del sole, un terzo della luna e un terzo degli astri
fu colpito e si oscurò: il giorno perse un terzo della sua luce
e la notte ugualmente.» (Apocalisse 9, 6-12).
Perché ogni volta solo un terzo?
Un messaggio rivolto all’Occidente non poteva
essere senza introdurvi il numero tre.
La nuova versione delle dieci piaghe d’Egitto
continua. Dopo il sangue, la grandine e l’oscurità arrivano le
cavallette, le ulcere e gli scorpioni (9,1-6).
Tutte le minacce e gli atti magici indotti a
terrorizzare e a meravigliare gli Israeliti in tutto l’Exateuco, dal
Diluvio Universale, all’Egitto, alle falde del Monte Sinai,
all’iniziazione degli Israeliti intorno alle mura di Gerico (le
trombe), vengono ripetuti e condensati nell’Apocalisse di Giovanni.
Anche le torture eterne minacciate (14,10-11)
non sono altro che i tormenti che, nelle tribù primitive, i
giovani iniziati devono passare per superare la prova.
Se Jahvè aveva fatto del suo popolo una
tribù di iniziati perennemente intimiditi, terrorizzati e
tenuti sotto controllo, ecco i profeti del cristianesimo minacciano
l’umanità intera di un estremo ultimo rito in cui tutti i figli
dell’uomo verranno presi da terrore e torturati.
E Giovanni intendeva naturalmente
l’ecumene greco-romana verso cui era diretto il messaggio terrificante.
Così ci dice, in realtà, il
Vangelo: «Non solo gli Ebrei saranno, d’ora in poi, un popolo
sacro di iniziati, un popolo eletto, bensì noi insegneremo a
tutta l’umanità cosa voglia dire essere terrorizzati dal volto
minaccioso di Jahvè. Noi, nuovi sacerdoti, terremo in pugno
l’umanità intera terrorizzandola con l’immagine dell’inferno e
di tormenti eterni. Se l’iniziazione ebraica era limitata a questa
terra noi ne faremo un’estensione all’aldilà,
all’eternità, e il nostro potere diventerà
illimitato!»
La crisi del mondo antico li risucchiava
all’indietro, verso i riti iniziatici superati.
Questi riti, una volta limitati alla sfera della
vita del clan, assumono ora un validità cosmica. Il
Cristianesimo si pose come meta di trasfigurarli, sfruttando il veicolo
del cosmopolitismo della cultura panellenica, in verità
metafisica. Tutti i contenuti esistenziali che il modus mentale antico
aveva creato, dalla filosofia al cosmopolitismo, furono arruolati al
nuovo fine: trasformare l’umanità intera in giovani novizi,
minacciati dall’immagine dell’inferno, ed esorcizzati in obbedienza
assoluta.
Allo scopo di disciplinare ed inquadrare i nuovi
fedeli si rivolsero agli Ebrei, la cui classe sacerdotale aveva ormai
un’esperienza millenaria nell’intimidire i figli d’Israele
all’obbedienza, sotto la cappa del senso di colpa imposta da un
dio-Padre onnipotente, per imparare da loro come si usa fare in una
tribù per terrorizzare i propri iniziati.
E impararono fin troppo bene.
Invece di accontentarsi d’intimidire gruppi di
giovani segregati nel bosco, o ai margini del deserto, o persino un
intero popolo, come aveva fatto il Dio d’Israele, i nuovi apostoli,
nascondendosi dietro immagini terrificanti di dannazioni eterne,
tentarono di estendere la minaccia iniziatica all’umanità
intera per spaventarla ed indurla all’obbedienza. E ci riuscirono,
poiché questa aveva perso la sua strada e non sapeva più
a chi rivolgersi. Chiedeva essa stessa di ritornare ad essere
un’umanità di figli, bisognosa di una guida che la esorcizzasse
in una rimozione liberatoria.
Ma nel processo persero l’autenticità,
che caratterizza il rito tribale, e da qui l’ostentazione forzata di
tutto il messaggio evangelico e particolarmente dell’Apocalisse di
Giovanni.
A questa sintesi, del sette minaccioso di un
Jahvè, dio di una tribù di pastori, l’Apocalisse di
Giovanni aggiunse tutta una serie di raffigurazioni iconodule
(12,13, 14,15), in simbiosi con il modus mentale greco-romano,
ma completamente antitetiche a quello iconoclasta ebraico.
Non ci deve meravigliare, dunque, se gli Ebrei
furono molto restii ad accettare un messaggio del genere. Per adoperare
un’espressione biblica: «La voce è la voce di Giacobbe, ma
le braccia sono le braccia di Esaù » (Gn.27,22).
Ovvero, questa voce minacciosa la conosciamo,
assomiglia a quella del nostro Dio, con tutti questi
«sette» che ci ostenta davanti agli occhi, ma il veicolo
è quello del modus mentale panellenico: non apriremo la
porta al lupo che imita la voce della mamma.
Essi erano avvezzi già da molti secoli a
fare la parte dei giovani iniziati in tutti i loro riti. Questo tipo di
minacce lo conoscevano già a memoria.
Gli Ebrei continuarono imperterriti nei loro
riti, che rispondevano pienamente alle proprie esigenze esistenziali, e
così si attirarono l’odio di un’umanità che era stata
iniziata, o meglio ri-iniziata, solo di recente.
E soprattutto non volevano annettere a se stessi
il mondo intero: il rito tribale non ha più nessun senso se
diventa una religione ecumenica.
Perdendo la propria identità specifica,
avrebbero perso anche la propria ragione di essere.
Nel Vecchio Testamento i miracoli facevano parte
dell’epifania di Iahve’, il dio iniziatico, ed erano parte
dell’esperienza esistenziale del gruppo. Per questo il beneficiario del
miracolo non èmai il singolo bensì solo la
collettività.
Le piaghe d’Egitto, il passaggio del Mar Rosso,
l’epifania del monte Sinai, le guerre e le vittorie del Dio degli
Eserciti sono tutti atti di rivelazione, il leit-motiv è
la coesione del gruppo nella loro comunione con il Padre del clan.
Il cristianesimo, diventando una religione
ecumenica in cui il rito iniziatico viene proiettato in cielo, i
miracoli vengono fatti al singolo, poiché non esiste piu’ un
gruppo. La specificita’ della collettività si è diluita
nell’oceano dell’ecumenismo generale.
IL REGNO DEI CIELI
APPARTIENE AI FANCIULLI (Matteo,19,14)
Come abbiamo visto nei capitoli precedenti, il
cristianesimo era stato una regressione esistenziale del mondo
apollineo greco-romano al modus mentale del proprio passato arcaico e
alle prorie radici tribali, e aveva quindi reattivato il bisogno dei
riti primitivi del pasto totemico e dei riti iniziatici, che in origine
erano riti della pubertà.
Ma una volta reattivato il modus mentale
arcaico, si rese necessario anche un meccanismo per distillare questi
riti dalla loro cruda espressione, pur mantenendo il nucleo dei suoi
contenuti esistenziali.
In secoli di evoluzione il contesto
mentale era cambiato e i riti iniziatici arcaici non potevano
più riemergere nella loro forma originale.
Anche per gli Ebrei, in secoli di evoluzione, si
erano distillati in trasfigurazione simbolica; anche se non era
avvenuta una rottura con il proprio passato, come per l’Occidente, ed
esisteva una continuità ininterrotta, dopotutto erano essi
stessi diventati una tribù ideale, e non erano più il
clan di pastori primitivo che aveva generato questi riti.
Così prese forma tutta l’ideologia
salvifica del cristianesimo.
Fu conservato il nucleo emotivo ma questo
trovò la sua forma in un’astrazione nuova.
La crocifissione rappresentò il rito
iniziatico stesso, ma anche il suo superamento. Per usare un
espressione di Hegel, il suo Aufhebung: il contenuto mantenuto
ma superato ed elevato ad uno stadio superiore per mezzo di una foma
nuova.
Il rito, con le sue pene, invece di venire
perpetrato su tutta la comunità degli adolescenti, fu inflitto
sul loro rappresentante, e ci si sarebbe accontentati, d’ora in poi,
dell’identificazione con questo Dio-Figlio, emissario e vicario di
tutti i figli dell’umanita’.
Non vicario del Padre, dunque, ma bensì
vicario del “Figlio dell’Uomo”.
La Crocifissione, che assunse il senso
dell’estremo rito della pubertà, sarebbe stato il simbolo
dell’iniziazione collettiva di tutta l’ecumene greco-romana. In questo
contesto il cristianesimo fu percepito inconsciamente dagli Ebrei come
un sovvertimento dell’ordine sociale, poichè esenta i suoi
fedeli dai riti dell’accettazione sociale che rappresentavano l’unica
salvaguardia alla conservazione della tribù.
Paolo esentò i suoi fedeli dai precetti della Legge e
dalla circoncisione, i due parametri della coesione del clan.
La classe dirigente romana vide, invece, nel
cristianesimo una minaccia al sovvertimento del loro ordine sociale ma
proprio per la ragione opposta, in quanto vedeva nei nuovi-vecchi riti
una regressione dall’equilibrio apollineo raggiunto in secoli di
civilizzazione.
Il rito iniziatico, che nella lontana preistoria
dell’Occidente era stato lo strumento di salvezza dell’adolescente
dalle proprie pulsioni aggressive ed incestuose e la sua accettazione
nella società degli adulti, diventò lo strumento della
proiezione dell’accettazione sociale concreta a livello astrale e si
trasfigurò in salvezza dell’anima.
I Vangeli mettono in bocca a Gesù, in
ogni occasione, che non era venuto ad annullare la Legge, ma in
realtà questa era proprio la sua intenzione, o per lo meno
quella degli Evangelisti che ne trasmisero il messaggio, e soprattutto
di Paolo, il vero fondatore del cristianesimo.
Infatti questi abolì tutti i 613 precetti
della Legge dichiarandoli superati, non solo, ma abolì la
circoncisione, simbolo per eccellenza del rito iniziatico puberale
inferto sui figli del Padre.
La Crocifissione, inflitta al Vicario di tutti i
figli la rendevano superflua.
Il rito iniziatico viene proiettato in cielo e
qui avverrà il giudizio finale, con le sue remunerazioni e le
sue pene.
I credenti, ovvero coloro che accettano
di farsi rappresentare dal Redentore, vengono anche redenti dal suo
sacrificio, e di conseguenza sono anche esenti da un ulteriore rito
della pubertà = pene dell’inferno, che non sono altro che il
simbolo delle torture che il giovane passa per superare il rito che lo
iniziava alla salvezza sociale.
Per questo la fede in Cristo è essenziale
alla salvezza dall’inferno e le sue pene.
Per l’ebraismo, come per tutte le
religioni primitive, la fede non è essenziale alla salvezza,
poiché attraverso i riti, e questi sono essenziali
all’accettazione nel gruppo, avviene l’identificazione. La fede non fa
parte dell’apparato dell’ebraismo.
Perfino Spinoza, il caso più clamoroso di
scomunica del popolo ebraico, fu scacciato dalla congregazione
poiché si estraneava dai riti del gruppo, li aveva dichiarati
non validi, e rifiutava l’autorità dei rabbini. Nessuno si
interessò mai se avesse fede o no.
Ma la fede è essenziale al
cristianesimo.
Attraverso la fede che il rito iniziatico
sia stato inflitto sul corpo del Vicario, avviene la salvezza.
L’inferno infatti non viene minacciato a chi
commetta peccato, poiché la presenza di pulsioni aggressive ed
incestuose (il peccato) è scontata a priori, al punto che il
peccato diventa una conditio sine qua non per la redenzione. Il
cristianesimo ama i peccatori. E quasi tutti i santi furono canonizzati
grazie a un atto di fede avvenuto dopo il peccato. Il Cristiano
è tenuto a sentirsi peccatore.
Gli Ebrei non concessero la delega a venire
rappresentati dal Cristo nell’estremo sacrificio iniziatico, e quindi
furono dannati, indipendentemente da eventuali meriti del singolo
individuo.
I Cristiani si auto-esentano dal rito puberale e
furono accettati, grazie alla fede, nel regno dei cieli, ma questo
diventò “quello dei fanciulli”, anestetizzato dai tormenti del
rito, in grazia del Figlio di Dio, rappresentante dell’orda primordiale
dei fratelli, che li aveva subiti al posto loro.
Il mondo apollineo, regredito allo strato
mentale rimosso, aveva restituito il pasto totemico e il rito puberale
in un’unica condensazione ma, proiettandolo in astrazione attraverso il
nuovo simbolismo, evitò di dover ripristinare i riti nella loro
cruda forma originale, poiché dopo molti secoli di evoluzione
apollinea non sarebbe stato né accettabile, né possibile.
Mentre gli arcaici riti della pubertà
portavano agli adolescenti la “salvezza sociale”, ovvero la loro
accettanza nel mondo degli adulti = salvati = rinati = membri
rispettabili della tribù, la nuova salvezza fu trasfigurata in
salvezza dell’anima e il teatro degli eventi si spostò
dall’aldiquà a “l’aldilà”, e il regno dei cieli
diventò la controparte ideale di quello della terra.
In questo contesto diventa chiara anche la frase
“Meglio per te entrare monocolo nel regno di Dio, che avere due occhi
ed essere gettato nel fuoco dell’inferno” (Marco, 9,47).
L’allusione è che per entrare in cielo
sia necessario perdere un occhio.
Ma l’occhio è il simbolo del genitale.
Qui riemerge dal rimosso la traccia mnestica della forma originale che
prendeva il rito della pubertà, la minaccia di evirazione,
inflitta dal Padre sui figli e simboleggiata dalla circoncisione.
Paolo aveva esentato i fedeli dalla
circoncisione ma propone loro invece di perdere un occhio: il senso
rimane lo stesso.
Nietzshe aveva capito l’antifona, quando dice a
proposito di questo versetto di Marco: “Non è proprio all’occhio
che si pensa” (L’Anticristo, Adelphi, p.61).
In cielo i novizi sarebbero stati accettati in
blocco in grazia della fede che le pene iniziatiche erano già
state inflitte sul corpo del loro Vicario.
Ma c’era un turbamento, che non era stato
completamente superato; il sospetto che senza provare di persona i
tormenti del rito non sarebbero mai diventati adulti.
La scorciatoia proposta dal cristianesimo non
era completamente convincente e questo turbamento emerge nella famosa
enigmatica frase: “Il regno dei cieli appartiene ai fanciulli.”
Emerge così dalla rimozione il concetto
che senza il rito iniziatico in carne i fedeli sarebbero rimasti solo
dei fanciulli
L’ideale del cristianesimo diventa
un’umanità esente dai dolorosi riti della pubertà, e
quindi un’umanità di fanciulli.
L’intuito folgorante di Nietzsche aveva colto al
volo il nocciolo del problema. Ascoltiamo le parole di questo grande
uomo che era vissuto prima che tutte le ricerche degli antropologi
moderni e degli psicanalisti ci avessero illuminato sugli arcaici riti
iniziatici puberali:
La
buona novella è appunto quella che non esistono più
contrasti: che il regno dei cieli appartiene ai fanciulli; la fede che
fa sentire ora la sua voce non è una fede conquistata con la
lotta, essa esiste, è sin da principio, è per così
dire, un’innocenza fanciullesca ricondotta nella fede spirituale. Il
caso della puberta’ ritardata, e non sviluppatasi nell’organismo
(Ibidem, p.41).
Dopo aver girato in lungo e in largo ritroviamo sulla
nostra
strada frammenti che avevamo già incontrato ma che non avevamo
ancora gli strumenti per identificare chiaramente. Ora possiamo
avvicinarci nuovamente a un versetto che avevamo messo da parte
all’inizio nella speranza di poterlo utilizzare in seguito.
E le nostre aspettative non si
sono dimostrate vane.
Non è un caso che proprio Pietro, colui che terrà in mano le chiavi alle porte del Paradiso, chiede a Gesù quante volte dovrà perdonare al suo fratello.Signore, quante volte dovrò perdonare al mio fratello se pecca contro di me? Fino a sette volte?” E Gesù gli rispose: “Non ti dico fino a sette, ma fino a settanta volte sette” (Matteo,18,21).
LA CONFERMA DELLE FIABE
Non riporteremo tutte le fiabe in cui appare il
numero tre,
poiché ci sembra che non vi sia bisogno di un’ulteriore conferma
che il tre sia un simbolo fallico. Questo simbolismo è ormai
universalmente conosciuto e noi abbiamo focalizzato la nostra ricerca
solo su quelli aspetti che non erano ancora stati sufficientemente
scandagliati.
Riporteremo, invece, alcune fiabe in cui appare
il
numero sette, come prova che questo sia un simbolo iniziatico,
poiché ci sembra che questo sia l’aspetto che non era stato,
finora, sufficientemente chiarito.
Come abbiamo visto nei capitoli precedenti il
numero
sette, con la crisi del mondo antico, emerge prepotente nel
cristianesimo e nel folclore occidentale.
Le tracce mnestiche degli antichi riti
d’iniziazione
rimossi premevano sempre di più per un riconoscimento.
La fiaba popolare, il rusticus, ci
presenta
queste tracce in modo evidente.
I Fratelli Grimm raccolsero queste fiabe, che
venivano
tramandate oralmente da molte centinaia di anni (C’era una volta...),
raccontate nelle lunghe ore buie delle notti dell’Europa medioevale.
Cercheremo di analizzarne alcune.
1) «Il Lupo e i Sette
Agnelli».
C’era una volta...una Mamma Pecora che viveva in
una
bella casetta con i suoi sette agnelli. La mamma doveva lasciare spesso
la casa per andare al mercato. Ogni volta, prima di uscire, ammoniva i
figli di non aprire a nessuno, poiché girava nei dintorni un
lupo mannaro.
La storia ci racconta come, una volta che la
mamma era
assente, il lupo si presentò alla porta e con vari stratagemmi
tentò di farsi aprire. Alla fine ci riuscì. I sette
agnelli si nascosero ognuno in un posto diverso, ma il lupo
riuscì a trovarli tutti e a divorarli, tranne il settimo, il
più piccolo, che riuscì a nascondersi nello stretto
spazio dell’orologio a pendolo del nonno, fino al ritorno della mamma.
Quando Mamma Pecora ritornò aveva perso i
suoi
sette figli, come la madre descritta nel secondo libro dei Maccabei
(p.18).
Ma l’agnellino, il settimo e il più
piccolo,
balzò fuori dal nascondiglio e raccontò tutto alla mamma.
Ella prese immediatamente un coltello e tagliò la pancia del
lupo, che nel frattempo si era addormentato, e ne balzarono fuori i sei
agnelli, che poterono così riunirsi al fratellino. Era questi,
infatti, che aveva raccontato alla mamma gli avvenimenti e salvato i
fratelli.
La fiaba trasfigura sette giovani, come quelli
che
abbiamo incontrato nelle pagine precedenti, in sette agnelli. Sette
agnelli come quelli che Abramo sacrificò nella cerimonia del suo
patto con Abimelech (p.15), come i sette agnelli sacrificati dai figli
d’Israele durante la festa delle sette settimane (Shavuot) (p.16), e i
settemila agnelli di Giobbe che furono sacrificati al Signore insieme
ai suoi sette figli (p.17).
Ma questi sette figli muoiono e rinascono, come
i
giovani durante il rito d’iniziazione.
E il coltello che la Mamma adopera per tagliare
il lupo
è la traccia della mutilazione, subita dall’iniziato durante il
rito e in concomitanza con la propria rinascita.
Lo spostamento della mutilazione-evirazione
dall’agnello-figlio al lupo, simbolo del Padre iniziatore terrificante,
non ci trae in inganno, come non ci trae in inganno lo spostamento dal
padre-eviratore alla madre.
Nella fiaba si condensa anche il bisogno di
vendetta
dei figli e delle madri sui padri carnefici terrificanti, come nei
sogni spesso i ruoli si ribaltano per scaricare un’aggressività
accumulata.
La madre era andata via (al mercato), mentre il
Padre
iniziatore (il lupo) terrorizzava e minacciava gli iniziati. In questi
riti, infatti, i giovani vengono portati via alle madri e alle sorelle,
per venire relegati lontano, nel bosco, a morire e a rinascere. Alle
donne viene raccontato che saranno divorati da un mostro e non li
vedranno mai più .
Quando vengono restituiti alle madri sono rinati
e
mutilati.
E così infatti avviene nella fiaba.
Il settimo agnello è il più
piccolo e
quello per merito del quale verrà messa fine alla tirannia del
Padre (il lupo).
Come nel mito greco Zeus è il figlio
più
piccolo che metterà fine alla tirannia di Crono, il padre che
aveva divorato i Titani, fratelli maggiori del dio. La fiaba del
lupo e i sette agnelli ricalca in maniera fedele il mito greco: Zeus,
il più piccolo che si era salvato attraverso gli stratagemmi
della madre prende il coltello ed evira il padre e dal suo ventre
rinascono i fratelli. In entrami i casi il figlio minore diventa il
più importante del gruppo dei fratelli
Anche il più piccolo, l'Eroe, muore e rinasce, come tutti gli
eroi delle saghe arcaiche. Solo che invece di riemergere dal ventre del
lupo riemerge dalla cassa dell'orologio a pendolo dove aveva trovato
rifugio, che come ogni contenitore rappresenta il ventre materno-
paterno. Infatti l'orologio era del nonno, il due volte padre. Come ci
ha mostrato Reik, i padri vedono nei giovani figli - novizi la
reincarnazione dei propri padri, nonni dei giovani.
2) «Il Brutto Anatroccolo»
Qui i sette figli prendono la forma di sette
cigni che,
essendo uccelli, rappresentano il simbolo del genitale maschile.
La loro trasfigurazione condensa, dunque,
l’organo sul
quale viene eseguita spesso la mutilazione, l’evirazione simbolica,
della circoncisione.
Il settimo figlio, l’ultimo, è anche il
più importante poiché diventa l’eroe della fiaba, come il
settimo agnello della fiaba precedente, e come Zeus che diventa padre
degli dei.
Qui tutto il rito viene eseguito su di lui.
Viene allontanato dalla madre per tutto
l’inverno,
dunque un lungo periodo durante il quale viene esposto a vessazioni, e
viene ritrovato quasi morto nelle acque congelate del lago da un
contadino, che lo mette nella tasca della sua giacca.
L’anatroccolo rinasce dalla tasca del contadino
esattamente come gli agnelli erano rinati dal ventre del lupo.
Lo scopo dei riti iniziatici è infatti di
togliere i figli alle madri per farli rinascere dai padri, che d’ora in
poi reclameranno tutti i diritti su di loro e con i quali questi si
identificheranno .
L’anatroccolo, che era nato la prima volta dalle
acque,
le rinnega, infatti queste sono adesso congelate, e rinasce dalla tasca
(ventre) del padre, come il settimo agnellino era rinato (balzato
fuori) dall’orologio a pendolo del nonno, nel quale aveva trovato
rifugio.
Al termine del rito il giovane è
diventato un
bel cigno adulto, che spiega orgogliosamente il suo fallo maschile (le
ali) e si riunisce ai fratelli nella congregazione degli adulti.
3) «I sette corvi».
Un’altra versione con gli stessi elementi.
Qui la metamorfosi da sette giovani a sette
uccelli
appare nella fiaba in maniera esplicita.
I sette figli del taglialegna si comportano male
al
punto da avvelenare le capre dei genitori.
E questo è un particolare particolarmente
interessante poiché Reik, che ha analizzato per esteso i riti
della pubertà presso i selvaggi odierni, ci dice:
Quindi quando la fiaba ci racconta di giovani che avvelenano le capre del padre, il parallelismo con i «giovani circoncisi che attaccano voracemente le stalle dei padri» diventa evidente.Ai giovani ( durante i riti d’iniziazione) cui vengono impartite le leggi e il codice morale della tribù che essi dovranno osservare, è consentito un ultimo sfogo. In Australia i ragazzi gettano fango contro chiunque incontrano. Presso i Janude nel Camerun i giovani che devono venire iniziati distruggono tutto ciò che cade nelle loro mani; e nel Darfur rubano i polli. I ragazzi, che sovente sono guidati dai loro maestri, attaccano nottetempo gli abitanti del loro villaggio e li depredano. I giovani circoncisi attaccano voracemente le stalle dei padri, rubano il bestiame, e bistrattano chiunque si opponga. I giovani durante questo periodo hanno il diritto di rubare e di compiere altri atti di violenza (T.Reik, Il Rito religioso, Boringhieri, Torino 1949, p.144)
Per
il motivo per il quale il numero tre sia un simbolo
peniano, Freud ha accennato alla stilizzazione del genitale maschile.
Abraham, come sintesi delle tre zone erogene principali: orale, anale e
urogenitale (K.Abraham, «Due contributi alla ricerca sui
simboli», in Opere, B.Boringhieri, Torino 1997, vol. II,
p.467).
Ma
forse c’è qualcosa di più.
La
lingua attribuisce un sesso agli oggetti inanimati
perché li identifica con l’uomo o la donna a seconda di certe
caratteristiche. Come dice Kleinpaul: «L’uomo sessualizza
l’universo» .
I
generi, che nel Medio Oriente antico erano due,
maschile e femminile, nel mondo greco-romano diventano tre.
Se
i popoli più antichi, Sumeri, Accadi,
Babilonesi, Cananei ed Egizi avevano sessualizzato il mondo nei due
generi, i progenitori dei Greci-Romani vi aggiunsero un terzo genere. A
loro pareva più confacente all’equilibrio cosmico dividere
l’universo in tre. Questo numero non era dunque solo il simbolo del
genitale, maschile e femminile, bensì era l’espressione della
sessualità del mondo, e da qui simbolo del tutto.
Platone
lo dice esplicitamente:
Quello che definiamo il genere neutro non è infatti tale, qualcosa che non sia né una cosa né l’altra, bensì un terzo sesso, ovvero le due cose insieme più ancora qualcosa. Non quello che rimane per un processo di eliminazione, il non-maschile e il non-femminile, ma un sesso a sé, che, secondo Platone «partecipava di entrambi i precedenti» e che, insieme agli altri due, completava l’ordine dell’universo e rappresentava la sua piena sessualità.Infatti, un tempo, la nostra natura non era quella che è ora, ma diversa. Dapprincipio vi erano tre generi di uomini, non due come adesso: il maschio e la femmina, e ce n’era, poi, un terzo, che partecipava di entrambi i precedenti e di cui ora rimane solo il nome, poiché esso è scomparso. Allora infatti, l’androgino era un genere a sé ed era composto, per figura e per nome, del maschile e del femminile (Simposio 189 -190)
L'esperienza analitica ci ha indotti alla persuasione che perfino contenuti psichici ben determinati come il simbolismo non hanno altra origine che la trasmissione ereditaria ( in Opere, B.Boringhieri, Torino 1989, vol. XI, p.523).Come abbiamo visto, per il numero tre, Freud ha accennato alla stilizzazione del genitale maschile, e Abraham come sintesi delle tre zone erogene principali: orale, anale e urogenitale, e noi vi abbiamo aggiunto la nostra tesi.
Azzardiamo quindi che sette sia il numero più basso che indichi un’intera collettività.L’iniziazione dei giovani ha luogo a intervalli di parecchi anni, quando c’è un numero di giovani pronti ad essere iniziati e si possiede un numero sufficiente di maiali per alimentare i banchetti che sono parte indispensabile alla cerimonia (The Golden Bough: Balder the Beautiful, vol.II, terza edizione, London 1913, p. 227.).
Links:
Occidente
e Oriente nello specchio di Dioniso e di Apollo
Pinocchio.
Il rito iniziatico di un burattino
Il
culto del Bambino e l'accusa di Omicidio Rituale