Iakov Levi e  Luigi Previdi

OCCIDENTE  E  ORIENTE  SEMITICO  NELLO  SPECCHIO  DI
DIONISO  E  DI  APOLLO


Gennaio 2002

Il riassunto dei capitoli I, III e VIII è stato pubblicato , con il nome di Es e Io nello specchio di Apollo e di Dioniso, in: TEORIE E MODELLI. Rivista di storia e metodologia della psicologia, a cura di Giuseppe Mucciarelli, V.3.2000, Pitagora Editrice, Bologna 2001.


CAPITOLO  PRIMO


I  DUE  DEI

L’intuizione di Nietzsche
 

Nietzsche ci ha mostrato come la società greca, la sua arte e la sua cultura siano state il risultato della tensione tra due poli opposti: il dionisiaco e l’apollineo:

Alle loro due divinità artistiche, Apollo e Dioniso, si riallaccia la nostra conoscenza del fatto che nel mondo greco sussiste un enorme contrasto, per origine e per fini, fra l’arte dello scultore, l’apollinea, e l’arte non figurativa della musica, quella di Dioniso: i due impulsi così diversi procedono uno accanto all’altro, per lo più in aperto dissidio tra di loro e con un’eccitazione reciproca a frutti sempre nuovi e più robusti,  per  perpetuare  in essi la lotta di quell’antitesi, che il comune termine “arte” solo apparentemente supera[...]per accostarci di più a quei  due impulsi, immaginiamoli innanzitutto come i mondi artistici separati del sogno e dell’ebbrezza; fra questi fenomeni fisiologici si può notare un contrasto corrispondente a quello fra l’apollineo e il dionisiaco[...]la bella parvenza dei mondi del sogno, nella cui produzione ogni uomo è artista pieno, è il presupposto di ogni arte figurativa, anzi, come vedremo, altresì di una metà essenziale della poesia. Nella comprensione immediata della figura noi godiamo, tutte le forme ci parlano, non c’è niente di indifferente e di non necessario. Tuttavia, nonostante la vita suprema di questa realtà sognata, traluce ancora in noi il sentimento della sua illusione (La Nascita della Tragedia, par.1).
In questa prima istantanea dell’epifania dei due dei Nietzsche considera
l’apollineo e il suo opposto, il dionisiaco, come forze artistiche che erompono dalla natura stessa, senza mediazione dell’artista umano, e in cui gli impulsi artistici della natura trovano anzitutto e in via diretta soddisfazione: da una parte come immagini del sogno, la cui perfezione è senz’alcuna connessione con l’altezza intellettuale o la cultura artistica del singolo; d’altra parte come realtà piena di ebbrezza, che a sua volta non tiene conto dell’individuo, e cerca anzi di annientare l’individuo e di liberarlo con un sentimento mistico di unità (ibidem).
Sogno e illusione apparterebbero al dio delfico, l’ebbrezza al dio caprino e in entrambi i casi come forze che erompono dalla natura stessa senza la mediazione dell’artista umano. Nelle pagine seguenti noi cercheremo di focalizzare meglio queste distinzioni, prodotte dall’intuito folgorante di Nietzsche, poiché ci sembra che alcuni aspetti siano rimasti confusi, e in alcuni punti persino depistanti
Apollo, come dio di tutte le capacità figurative è insieme il dio divinante; egli è anche il dio della bellezza, della luce e del sole. Egli  è il dio dell’occhio, e infatti questo organo è quello che più di tutti gli altri fa da ponte tra il mondo esterno e quello interno, la sua sapienza è quella di ciò che vede fuori per “insegnarlo” all’interno. La vista, come tutti gli altri sensi, non può essere uno strumento obbiettivo, il momento stesso che trasmette le immagini esterne all’interno le traduce automaticamente in visione. Inoltre non è solo quella che ci aiuta a percepire il mondo esterno ma è anche il ponte attraverso il quale proiettiamo all’esterno la rappresentazione del nostro mondo interno, lo schermo sul quale vediamo la proiezione dei nostri contenuti interni, che senza questo strumento rimarrebbero amorfi.
Nietzsche, alla fine di un’intera vita passata a rimuginare sul significato di questi contenuti allarga e riassume l’idea dei due dei. Questa volta attribuisce anche al dio delfico l’ebbrezza, quella della visione e dell’arte.
Perché vi sia arte, perché vi sia un qualche contemplare o agire estetico, a tal fine è indispensabile un presupposto fisiologico: l’ebbrezza. L’ebbrezza deve anzitutto aver potenziato l’eccitabilità dell’intera macchina: prima di ciò non si giunge a nessuna arte (Il Crepuscolo degli Idoli, par. 8.).
E ancora:
Che cosa significa l’antitesi da me introdotta nell’estetica, tra i concetti di apollineo e dionisiaco, entrambi intesi come specie di ebbrezza?- L’ebbrezza apollinea riesce soprattutto a eccitare l’occhio, così che esso acquista la forza della visione. Il pittore, lo scultore, il poeta epico sono visionari par excellence. Nello stato dionisiaco per contro l’intero sistema degli affetti è eccitato e potenziato, in modo che questo scarica in una volta tutti suoi mezzi espressivi (ibidem, par.10).
L’ebbrezza, dunque, questa volta attribuita anche ad Apollo, è il presupposto fisiologico affinché possa prodursi l’arte, sia questa dionisiaca o apollina: lo strumento è l’ebbrezza e l’arte è il risultato.  Anticipiamo già che noi invertiremo questi rapporti: l’ebbrezza sarà il risultato della visione e dell’arte, e non  il medium attraverso il quale queste si esprimono. Ovvero, nella soluzione apollinea i contenuti interni si scaricano nella  visione, il sogno o l’opera d’arte che è il suo equivalente, attraverso il medium della rappresentazione, la quale si forma a sua volta elaborando le immagini che le erano state trasmesse dall’esterno, e il risultato sarà l’ebbrezza. Quando invece Nietzsche parla di ebbrezza associandola al dionisiaco, la confonde con l’eccitamento che stordisce, il cui culmine è la perdita di conoscenza dell’orgasmo. In entrambi i casi non si può parlare di “forze artistiche che erompono dalla natura stessa, senza mediazione dell’artista umano”, poiché l’unica natura che può creare un’arte è proprio quella umana, a meno che con natura non s’intenda appunto quello strato primario della psiche prima che venga mediato dalle influenze esterne.
Nella soluzione dionisiaca la scarica avviene prescindendo dai messaggi esterni comunicati dalla vista, diremmo persino “chiudendo gli occhi”, come fa spesso chi si concentra ascoltando la musica, e infatti nell’arte non figurativa della musica le energie non si scaricano all’esterno attraverso il ponte della visione, bensì si accumulano all’interno potenziando una tensione la cui scarica è il black out, la macchia nera, ovvero l’esatto contrario della visione. Come quando si mette a bollire una pentola d’acqua, se la si lascia scoperta l’acqua evapora un pò alla volta e “vola in cielo”, ma se la si chiude ermeticamente con un coperchio la pressione accumulata si risolve in uno scoppio.
Noi, infatti, non definiremmo la musica un’arte, proprio perché il suo scopo non è di mediare e sublimare, bensì di riallacciarsi a contenuti interni amorfi per potenziarli e scaricarli, negando appunto la mediazione della visione. Il dionisiaco allo stato puro non è arte, e nemmeno ebbrezza, poiché queste categorie appartengono solo all’apollineo. Solo in una fusione tra il potenziamento interno delle energie (la cui meta finale sarebbe stata l’orgasmo) e la scarica esterna attraverso la visione, può prodursi arte, ovvero solo quando le energie dionisiache vengono deviate dalla meta, canalizzate, e completamente subordinate all’apollineo. In questo caso si ottiene l’arte sublime, poiché la soluzione apollinea viene potenziata da un contributo fresco ed esaltante di energia dionisiaca. Ma questo si ottiene solo se il medium adoperato è quello apollineo della rappresentazione figurata: la pittura, la scultura, l’architettura. Se il medium adoperato è la musica, l’introduzione di visioni in quella che è una provincia psichica appartenente alla sfera dionisiaca può solo deteriorarne la qualità, che in questo caso sarebbe meglio definire “intensità”, poiché viene impedito il potenziamento e l’accumularsi di quelle tensioni che, non inibite nella meta, si sarebbero risolte nella scarica finale. La parola stessa “qualità” possiede infatti una connotazione apollinea in quanto implica una distillazione e una scelta.
Il chiudere gli occhi mentre si ascolta la musica ha lo scopo di impedire alle immagini provenienti dall’esterno di mediare la tensione che si stà accumulando all’interno. Se chi, mentre chiude gli occhi, traduce i suoni in visione, come chi ascoltando la “Pastorale” di Bethoveen veda prati, verdi pascoli o temporali, si sta abbandonando a una soluzione di compromesso, in cui la tensione interna viene inibita nella meta e rivolta verso l’esterno. Il compromesso viene consumato attraverso la continua scarica di una parte delle energie verso l’esterno, e queste producono le immagini,  il cui scopo è impedire lo scoppio. Ma in questo caso il medium apollineo della visione viene subordinato al dionisiaco, invece che l’incontrario, e la soluzione dionisiaca perde d’intensità invece di essere la soluzione apollinea a guadagnarne.
Nella realtà non può esserci musica dionisiaca allo stato puro, a meno chè l’apice di ogni musica non si traduca in orgasmo, e una certa deviazione energetica in rappresentazione diventa sempre un compromesso inevitabile. Ma può darsi che un tempo le cose siano state proprio così. Infatti Dioniso viene associato non solo alla musica ma contemporaneamente anche al baccanale, alla danza orgiastica e alla tragedia. Lo scopo della musica era appunto quello di accompagnare i sensi, insieme alla danza, per potenziare il tutto nella scarica orgiastica. Danza, musica, gioia-tragicità e orgasmo erano tutt’uno. E infatti Nietzsche aveva intuito l’essenza del dionisiaco:
La musica, come la intendiamo oggi, è egualmente un’eccitazione e una liberazione totale degli affetti, ma è tuttavia soltanto l’avanzo di un mondo espressivo degli affetti molto più completo, un mero residuum dell’istrionismo dionisiaco. Per rendere possibile la musica come arte particolare, si è messa a tacere una quantità di sensi, soprattutto la sensibilità muscolare (almeno relativamente, giacchè in un certo grado ogni ritmo parla ancora ai nostri muscoli): così che l’uomo più non imita né descrive subito corporalmente tutto ciò che sente. Ciononostante è questo il normale stato propriamente dionisiaco, in ogni caso lo stato originario; la musica è la sua differenziazione lentamente raggiunta, a spese delle facoltà, strettamente affini (ibidem).
Nietzsche stesso implica che affinché la musica possa essere considerata arte particolare deve rinunciare alla piena espressione che avrebbe raggiunto se, accompagnata dalla sensibilità muscolare, le fosse stato permesso di arrivare alla scarica orgiastica. Quindi aveva anche intuito che la vera musica, quella originale, non è arte, e diventa tale solo in una soluzione di compromesso con l’apollineo, dopo aver parzialmente inibito alcuni strumenti della scarica come, per esempio, quella muscolare della danza.
Le Baccanti arrivavano all’orgasma per mezzo della musica e la danza, per queste non avrebbe avuto nessun senso associare la musica all’arte, mentre invece chi oggi sta seduto in una sala da concerti, già inibendo l’attività muscolare si preclude un canale essenziale affinché la musica che sente si traduca in orgasmo. Se poi accompagna i suoni a delle rappresentazioni ecco che diverge ancora di più dall’immergersi nel senso originale della musica. Senza rappresentazioni figurate non può esistere arte, e quelle sono l’unico medium per questa. Chi oggi assista a un concerto, precludendosi il canale dello sfogo muscolare, mette in atto anche quel processo di sublimazione che se si fosse trattato di pittura di scultura o di architettura al suo apice avrebbe potuto produrre un’opera d’arte. Trattandosi di musica avviene ciononostante un processo di sublimazione che, per potenziarsi al massimo nell’unico canale rimasto libero, deve però rinunciare alla rappresentazione. Altrimenti la contamizione dell’apollineo in una provincia psichica a lui estranea produrrà un’ulteriore diluzione delle energie dionisiache canalizzandole verso il medium apollineo. Con questo non intendiamo affatto sminuire l’intenso godimento di chi oggi ascolti una composizione musicale, bensì sottolineare che questo non è che la pallida eco di quello originale, quando tutti i sensi potevano giungere ininibiti alla scarica e alla meta. Inoltre bisogna tenere presente che ogni formazione di compromesso tra questi due poli, apollineo e dionisiaco, producono un ibrido all’interno del quale le possibilità sono pressochè infinite, a secondo della distribuzione quantitativa.
Tra orgasmo dionisiaco e ebbrezza apollinea le energie psichiche hanno un vasto campo in cui distribuirsi alla  ricercarca del soddisfacimento. Se chiudere gli occhi mentre si ascolta la musica, può servire sia a precludere le immagini, concentrando le energie verso l’interno, sia a provocarle, canalizzando le energie in visione, in arte chiudere gli occhi può solo servire a potenziare le immagini e la loro canalizzazione in visione.
Omero, il poeta apollineo par excellence è cieco.
E così anche Tiresia, l’indovino.
Non vedendo, Omero invita la Musa a potenziare le immagini al massimo, non quelle reali che vengono dal mondo esterno e quindi possono solo inibire la visione, bensì quelle interne. Omero non vede, lo schermo può solo riflettere il prodotto della concentrazione della fantasia. Omero produce le immagini, e racconta quello che vede. Essendo cieco può vedere quello che vuole, e così può vedere di più. Lo stesso per Tiresia. La divinazione appartiene ad Apollo. Un indovino è come un poeta: non vedendo quello che succede intorno a lui, può vedere meglio quello che è lontano. Forse non è un caso se oggi la vendita di biglietti della lotteria è spesso affidata ai ciechi. La fortuna, infatti, è cieca, in quanto vede più lontano.
 

Dioniso e  “Es”

Freud nell’analizzare la psiche umana isolerà un’istanza che ci ricorda in tutto le caratteristiche del dio: non la chiamerà Dioniso bensì Es. Questo è quello che ci dice di questa provincia psichica:

All’Es ci avvicinimo con paragoni: la chiamiamo un caos. Un crogiolo di eccitamenti ribollenti. Ce lo rappresentiamo come aperto alle estremità verso il somatico, da cui accoglie i bisogni pulsionali, i quali trovano dunque nell’Es la loro espressione psichica, non sappiamo però in quale substrato. Attingendo alle pulsioni, l’Es si riempe di energia, ma non possiede un’organizzazione, non esprime una volontà unitaria, ma solo lo sforzo di ottenere soddisfacimento per i bisogni pulsionali nell’osservanza del principio di piacere. Le leggi del pensiero logico non valgono per i processi dell’Es, soprattutto non vale il principio di contraddizione. Impulsi contrari sussistono uno accanto all’altro, senza annullarsi o diminuirsi a vicenda; tutt’al più, sotto la dominante costrizione economica di scaricare energia, convergono in formazioni di compromesso, non conosce né giudizi di valore, né il bene e il male, né la moralità. Il fattore economico o, se volete, quantitativo, strettamente connesso al principio di piacere, domina ivi tutti i processi. Investimenti pulsionali che esigono la scarica: a parer nostro nell’Es non c’è altro (“Introduzione alla Psicoanalisi”, in Opere, B.Boringhieri, Torino, Vol. 11, pp. 185-6).
Questa descrizione è esattamente quello che corrisponde alla follia platonica e nitzschiana. Se ritorniamo alle parole di Nietzsche:  “Nello stato dionisiaco per contro l’intero sistema degli affetti è eccitato e potenziato, in modo che questo scarica in una volta tutti i suoi mezzi espressivi”, pare proprio che entrambi stiano parlando della stessa cosa. Il “non esprime una volontà unitaria” di Freud era stato per contro: “un sentimento mistico di unità” per il primo, ma la volontà unitaria di Freud, dal resto del contesto, va intesa come unitaria nel senso della psiche nel suo complesso, ovvero l’Es non tende alla coerenza con le altre istanze psichiche descritte, l’Io e il Super- Io . Per quello che riguarda la meta delle pulsioni provenienti da questa provincia psichica, quella della scarica, l’Es freudiano ci pare molto coerente nel suo scopo. Se riesce a prescindere dalla funzione inibitoria delle altre istanze psichiche con cui deve condividere il dominio della personalità, una volta ottenuta la scarica “il senso mistico di unità” nietzschiano è esattamente quello che viene raggiunto: questo infatti è il momento dell’orgasmo, apice del fine dell’Es.
Ma in questa istanza, che Freud preferirà denominare “provincia psichica”, per enfatizzare l’aspetto topico oltre a quello economico, dalle sue stesse parole non era stato solo il dominio incontrastato del principio di piacere bensì nelle sue strade aveva anche incontrato la pulsione di morte e si era unito ad essa in un’unico impasto:
Eros e pulsione di morte lottano in esso…Potremmo rappresentarci la situazione come se l’Es stesse sotto il dominio delle mute ma possenti pulsioni di morte, le quali cercano la pace e si sforzano di ridurre al silenzio, secondo l’indicazione del principio di piacere, l’Eros turbolento ("L’Io e L’Es”, in op. cit. Vol. 9, p. 520).
Questa è la prima volta in cui Freud allude alla morte non solo come risultato della pulsione omonima, bensì anche come risultato di una richiesta dell’Eros stesso, due anni dopo che la pulsione era stata isolata come istanza antitetica a quella dell’Eros . Sette anni dopo, nel 1929, tornerà sulla natura di questo strano impasto pulsionale:
Il nome libido può ancora essere usato per le manifestazioni della forza dell’Eros, allo scopo di distinguerle dall’energia della pulsione di morte. Dobbiamo confessare che ci è molto più difficile cogliere quest’ultima, in un certo senso la indoviniamo soltanto nello sfondo, dietro all’Eros, e addirittura ci sfugge se non si svela frammichiandosi ad esso (“Il disagio della civiltà”, in op. cit., vol. 10, p.608.)
Subito dopo spiega come nel sadismo la pulsione di morte, altrimenti denominata anche pulsione di distruzione , cavalchi l’Eros, sinonimo di libido, per ottenere i suoi scopi. Con termini simili estenderà lo stesso concetto in “Analisi terminabile e interminabile”  e in “Compendio di Psicanalisi” , dove intercala anche una frase interessante che forse ci servirà in seguito: “Trattenere l’aggressività e comunque malsano, porta alla malattia”. Nelle stesse pagine leggiamo: “Il diritto che ci arroghiamo di riferire alla libido le tendenze aggressive è fondato sull’idea che il sadismo sia un impasto pulsionale di tendenze meramente libidiche con altre tendenze meramente distruttive, impasto che da quel momento in avanti non cesserà mai più di esistere” . E ancora:
Il nocciolo del nostro essere è dunque formato dall’Es oscuro, il quale non tratta direttamente con il mondo esterno e anche alla nostra conoscenza diventa accessibile grazie alla mediazione di un’altra istanza (l’Io). In questo Es sono all’opera le pulsioni organiche, le quali sono composte  a loro volta da miscele variamente proporzionate di due forze originarie (Eros e distruzione)…le autopercezioni (i sentimenti in genere e le sensazioni di piacere e dispiacere) governano con dispotica violenza i decorsi dell’Es (Ibidem, pp. 624-5).
Dunque l’Es contiene dentro di se “l’Eros turbolento”, con le sue “tendenze aggressive”, una pulsione di morte “che si impasta con esso”, e l’Es è governato dalla loro “dispotica violenza”. Teniamo a mente tutti questi concetti: senso mistico di unità…sistema degli affetti eccitato e potenziato…scarica di Nietzsche e quelli freudiani: caos...crogiolo di eccitamenti ribollenti…costrizione economica di scaricare energia…possenti pulsione di morte…Eros turbolento. Vediamo adesso cosa Freud stesso aveva detto molti anni prima del pasto totemico:
Immaginiamoci ora la scena di un pasto totemico…Ecco il clan, che in una circostanza solenne uccide con efferatezza e divora crudo il suo animale totemico, carne, sangue e ossa; ci sono tutti i membri del clan che, travestiti a somiglianza del totem, ne imitano la voce e i movimenti come se volessero accentuare la loro identità con lui…Dopo il fatto, l’animale ucciso viene pianto e compianto(Totem e Tabu’, IV,5).
Ovvero l’atto orgiastico di cannibalismo viene accompagnato da alte grida e pianti e movimenti di pantomima che saranno anche i primi passi di danza.
Reik ha analizzato per esteso lo Shofar, il corno rituale ebraico, il corno di ariete o di capro, che esattamente come per i greci era l’arcaico totem tribale ("Lo Shofar", in Il rito religioso, Boringhieri, Torino 1969; cfr: Iakov Levi, Il silenzio e la parola). Nel suo esteso lavoro riesce a provare, a nostro avviso in maniera convincente, come la musica sia nata dall’imitazione del suono del lamento della bestia uccisa. Dalla descrizione di Freud dell’orda primitiva, prima del primo delitto commesso dall’umanità esistevano bande di giovani maschi che vagavano inibiti dalle femmine dalla potenza paterna, e vivevano in una continua e completa frustrazione pulsionale, come succede anche oggi nelle orde di primati e di mammiferi dove il maschio più forte scaccia dal branco i maschi più giovani e rimane l’unico padrone delle femmine. Riprendendo la similitudine di prima possiamo paragonare nuovamente la situazione a quella in cui nella pentola delle pulsioni provenenti dall’Es viene messo il coperchio ermetico rappresentato dalla forza del capo dell’orda. Un giorno tutti gli elementi che erano stati compressi in questa pentola: caos, crogiolo di eccitamenti ribollenti, costrizione economica di scaricare energie, possenti pulsioni di morte, Eros turbolento, tendenze libidiche e distruttive, provocarono lo scoppio che fece saltare il coperchio dell’unica forza inibitrice, che fino a quel momento era stata esclusivamente esterna e rappresentata dalla potenza del padre dell’orda, il maschio più forte.
Il risultato fu il parricidio e l’atto cannibalistico che condensano in se sia la pulsione di morte, che la libidine dell’Eros nell’impasto pulsionale del sadismo orale verso il corpo del padre. Con la pantomima dell’agonia del mostro e l’imitazione del suono della sua voce nacquero la musica e i primi passi di danza. Mentre danzavano urlando con pezzi sanguinolenti del corpo paterno ancora in bocca, avvenne quel senso mistico di unità, di cui parla Nietzsche associandolo a Dioniso, con tutto il sistema degli affetti eccitato e potenziato al massimo. La scarica motoria era stata ottenuta attraverso la prima musica e la danza orgiastica, che Nietzsche aveva percepito essere elementi mancanti nella musica che ne derivò da allora: “...di sensi, soprattutto la sensibilità muscolare (almeno relativamente, giacchè in un certo grado ogni ritmo parla ancora ai nostri muscoli): così che l’uomo più non imita né descrive subito corporalmente tutto ciò che sente...” (supra).
La prima co-munione di cui parla Freud .
Poiché la causa dell’esplosione era stata l’inibizione forzata dal corpo delle femmine possiamo supporre che in concomitanza al sopraffacimento del capo dell’orda sia avvenuta anche l’orgia liberatoria. Dopo aver dato espressione alla sessualità orale e motoria nell’aggresività sadica verso il corpo del padre e nella danza in un unico impasto, avvenne anche la scarica genitale. Lo scoppio rappresentò quindi l’espressione di tutto quello che c’è nell’Es, l’apologia della liberazione da qualsiasi inibizione, a ogni livello. Tutte le orge che avvennero da allora non poterono essere che un pallidissimo tentativo di imitazione di quella originale, poiché solo in quel momento non esisteva ancora alcuna istanza interna che facesse da inibizione. Anche il pasto totemico, che venne dopo, e che fu la prima rappresentazione teatrale dell’umanità, non potè essere altro che una  pallida eco dell’azione originale.
 

Le sofferenze di Dioniso

 I miti orfici, che rappresentano la versione più arcaica dei miti greci, così  descrivono il pasto totemico di Dioniso:

I Titani arrivarono come morti dagli Inferi, dove Zeus li aveva relegati, colsero di sorpresa il bambino che giocava, lo lacerarono, lo tagliarono in sette pezzi e li gettarono in una caldaia che stava in un tripode. Quando la carne fu cotta, essi incominciarono ad arrostirla su sette piedi. Secondo una delle versioni le membra cotte del dio furono sepolte e da esse nacque la vite. Anche i seguaci di Orfeo dicevano che l’ultimo dono di Dioniso sarebbe stato il vino e chiamavano lui stesso Eno, “vino” (Karoly Kerenyi, Gli Dei della Grecia, Il Saggiatore, Milano 1962, p. 210).
Più tardi risorse, con l’aiuto di Demetra che ne raccolse i pezzi. Questo mito ricorda in tutto i riti del pasto totemico tribale , in cui viene ripetuta la cerimonia di uccisione del totem e la sua incorporazione, attraverso il pasto cannibalistico.
Nei riti della pubertà delle tribù selvagge avviene una ripetizione simbolica del pasto totemico in cui l’iniziato condensa in sé sia la figura del padre, che viene simbolicamente ucciso, sia quella dell’uccisore che ne espia la pena. Dalla morte simbolica risusciterà purificato . Vedremo in seguito come il vino, che fu “l’ultimo dono di Dioniso” si ricolleghi al rito cristiano dell’Eucaristia .
I greci divinizzarono sia la  sfrenatezza del dio che l’inevitabile espiazione. Invece di rimuovere le pulsioni antisociali, davano loro piena espressione nella fantasia e nel mito, accettando anche il dolore che questo implicava. Così il mito di Dioniso condensa sia le pulsioni erotiche più primarie e sfrenate, sia la passione dell’espiazione, ricalcando i contenuti mentali degli arcaici riti tribali del pasto totemico e d’ iniziazione puberale.
Gli antichi, come le tribù primitive prima di loro e dei giorni nostri, concepivano l’esistenza come un’equazione , in cui gli opposti si fondono in un’unica equivalenza, e non a modo nostro, come una dialettica di concetti che si escludono tra di loro .
Apollo non era, all’inizio, il contrario di Dioniso, bensì l’altro aspetto, e questi due dei, insieme, davano espressione alla realtà esistenziale percepita dai greci. Le pulsioni incontrollate, personificate da Dioniso, non rappresentavano un polo morale, o meglio, come si direbbe oggi, immorale, bensì erano accettate per quello che sono: una parte del proprio sé.  Era l’altra faccia della moneta di Apollo. La scissione di un unico concetto, sintesi di questa realtà esistenziale, in due parametri divergenti fino all’antitesi, è uno sviluppo posteriore che porterà al platonismo e, finalmente, all’idea di bene e male del cristianesimo, che sarà il culmine di questa evoluzione.
Dioniso aveva aspetti molto diversi. In forma umana lo si rappresentava con una maschera barbuta. Era associato a Pan e ai piccoli Pan, gli dei fallici e pelosi della foresta. Il dio era l’antitesi della bellezza apollinea dalle proporzioni plastiche perfette, e rappresentava gli eccessi, l’ebbrezza, la sfrenatezza, la perdita di controllo e l’orgiastico. Durante le feste in suo onore le Bacchanalia (Dyonisia) le donne abbandonavano le proprie famiglie, andavano sui monti vestite di pelli di fauno e gridavano “Euoi”, il grido rituale . Formavano delle bande sacre (thyasi) e danzavano alla luce di fiaccole al ritmo del flauto e del tympanon. Mentre erano sotto l’ispirazione del dio avevano forze occulte, l’abilità d’incantare i serpenti, e forze sovrumane che permettevano loro di dilaniare animali vivi e sbranarli (omophagia) . Le Baccanti gridavano il suo nome come Bromios (il tuonante), Taurokeros (dalle corna di toro), Tauroprosopos (dalla faccia di toro), nella credenza che incarnasse un animale sacrificale . Appariva spesso in veste di vari animali, tutti pelosi e generalmente selvatici.
Nelle raffigurazioni arcaiche viene rappresentato come un uomo barbuto, un Sileno, e solo in epoca ellenista, quando Apollo avrà preso definitivamente la preminenza, come un giovane effeminato. Gli artisti rappresentavano i satiri con peni esuberanti e ci sono pitture vasarie del VI e V secolo che li rappresentano con erezioni della grossezza di un braccio e persino, in una di queste rappresentazioni, uno che tiene in equilibrio sul pene in erezione una coppia in una scena di convivialità sfrenata; anche nelle commedie di satiri il pene portato dai membri del coro era in erezione . Alcune feste greche, comprese le Dionisiache cittadine e le Dionisiache rurali in Attica, comprendevano una processione in cui veniva portato un fallo (ossia un pene in erezione) in onore di Dioniso .
Dioniso -- Pan, che come vedremo in seguito aveva anticipato Apollo nelle nebbie delle steppe che avevano preceduto l’Olimpo greco, condensa l’antitesi di quelle che saranno le peculiarità del dio delfico, e simboleggia l’alter ego delle soluzioni apollinee. In questo contesto la bellezza plastica e l’armonia delle forme di Apollo sono anche la rappresentazione figurata della sua contenutezza e il raggiungimento dell’equilibrio energetico sublimato, l’ideale, e Dioniso la sua antitesi, entrambi divini poiché questi sono i due poli di un’unica equivalenza. Ma in concomitanza allo sviluppo della società greca in società apollinea, con la rimozione completa della propria realtà esistenziale tribale, si creò una scissione tra le due divinità che assunse una connotazione normativa. Apollo diventò, quindi, sempre di più, anche il simbolo di un ordine morale. Con il progredire dei secoli, la divergenza tra questi due dei si accentuò sempre di più, fino a diventare il simbolo, uno del bene assoluto, l’altro del male assoluto. Il cristianesimo spinse questa divergenza, da quella che una volta era stata un’equivalenza, ai suoi estremi, fino a tradurre l’immagine di Apollo, astro principale dell’universo, in quella del Cristo, e quella di Dioniso, demone caprino e peloso dagli istinti sfrenati, in quella del Diavolo. Simbolo di luce e di giustizia e, quindi, di equilibrio e di moralità l’uno; simbolo di oscure macchinazioni e, quindi, di sfrenatezza e d’immoralità, l’altro.
 

Apollo e “Io”

Abbiamo visto come alla figura di Dioniso e ai suoi contenuti nell’ambito della psicologia sociale corrispondesse un’istanza psichica ben definita. Vediamo ora quali sono i contenuti che ci riflette lo specchio dell’immagine di Apollo.
Caratterizzando l’Io, Freud dice:

Questo sistema è rivolto verso il mondo esterno, fa da intermediario alle percezioni che ne provengono, e in esso sorge, nel corso del funzionamento, il fenomeno della coscienza. È l’organo sensorio dell’intero apparato, ricettivo del resto non solo agli eccitamenti provenienti dall’esterno, ma anche a quelli che provengono dall’interno della vita psichica. La concezione secondo cui l’Io è quella parte dell’Es che è stata modificata dalla vicinanza e dall’influsso del mondo esterno, non ha quasi bisogno di essere giustificata: è questa la parte predisposta per la ricezione degli stimoli e per la protezione dagli stessi, paragonabile allo strato corticale di cui si circonda il grumo di materia vivente. Il rapporto con il mondo esterno è diventato decisivo per l’Io, il quale si è assunto il compito di rappresentarlo presso l’Es (“Introduzione alla Psicanalisi”, in op.cit.,Vol.11, pp.186-7).
Se confrontiamo la descrizione data da Nietzsche (p.2) riconosciamo facilmente i contenuti della figura del dio delfico con quelli dell’istanza psichica descritta da Freud. Il dio che è un organo sensorio, l’occhio che tutto vede, quello che succede all’esterno e lo comunica all’interno, e che proietta i contenuti psichici interni sullo schermo delle percezioni esterne. Nell’Io la pulsione si trasforma in rappresentazione , la media e sublimandola può trasformarla in arte. Ed ecco l’ebbrezza, che Nietzsche aveva concesso anche ad Apollo e non più solo a Dioniso. Le stesse energie pulsionali che procuravano le “visioni e allucinazioni che si comunicavano a intere comunità, a intere adunanze cultuali” menzionate parlando del dio caprino, e invero l’allucinazione appartiene alla sfera dell’Es,  mediate e censurate dall’Io si tramutano in sogni e il sogno, a differenza dell’allucinazione, appartiene ad Apollo. Anche nel contesto delle istanze psichiche vediamo dunque che i due dei erano stati all’inizio uno solo:
Chiamiamo Es la più antica di queste province o istanze psichiche: suo contenuto è tutto cò che ereditato, presente fin dalla nascita, stabilito per costituzione, innanzi tutto dunque le pulsioni che traggono origine dall’organizzazione corporea e che trovano qui in forme che non conosciamo una prima espressione psichica. Sotto l’influsso del mondo esterno reale che ci circonda una parte dell’Es ha subito un’evoluzione particolare. Da quello che era in origine lo strato corticale munito degli organi per la ricezione degli stimoli, nonchè dei dispositivi che fungono da scudo protettivo contro gli stimoli, si è sviluppata una particolare organizzazione che media da allora in poi fra Es e mondo esterno. Questa regione della nostra vita psichica l’abbiamo chiamata Io (“Compendio di Psicanalisi”, in op. cit., Vol. 11, pp. 572-3). .


e ancora:
“Uno sguardo retrospettivo alla storia evolutiva della persona e del suo apparato psichico ci permette di stabilire nell’Es un’importante distinzione. Originariamente tutto era Es, l’Io si è sviluppato dall’Es per influsso persistente del mondo esterno” . Erodoto ci aveva detto che Oro (Apollo) era figlio di Osiride (Dioniso) (Hist., II/144), ovvero veniva dopo di lui, e ora Freud ci conferma lo stesso con le sue parole: l’Io nasce dall’Es, sotto l’influenza del mondo esterno (l’educazione).
Il mondo esterno, che nelle pagine precedenti abbiamo chiamato “l’educazione di Apollo”, media e filtra le pulsioni e le trasforma in sublimazione, in arte. Le energie filtrate e sublimate conservano, arrivando alla meta della rappresentazione, una carica sufficente per produrre l’ebbrezza di Apollo, quella di cui Nietzsche parla e concede anche al dio delfico. Questa non è la stessa ebbrezza della scarica nella sua epifania dionisiaca, quella bestiale che si traduce nel grido orgiastico dell’orgasmo, bensì quella della contemplazione, uno stato di godimento celestiale, paradisiaco, che può essere molto intenso ma da un punto di vista topico si trova all’altro polo.
Questa è la “sindrome di Stendhal”, quello strano fenomeno da cui sono colpiti alcuni spettatori quando si trovano difronte a opere d’arte dall’effetto travolgente. In questi casi l’intensità dell’ebbrezza si traduce nello “star male” e nel “sentirsi mancare”.
Il concetto di una sublimazione che canalizza le energie dionisiache distillandole e depurandole fino al raggiungimento della loro meta, questa volta verso l’esterno invece che compressa verso l’interno, era stato sintetizzato da Nietzsche nella formula “ebbrezza di Apollo”. Freud, all’intuizione folgorante, contrapponeva un lungo lavoro empirico ma le sue conclusioni sono le stesse:

Come da tempo abbiamo appreso, l’arte offre soddisfacimenti sostitutivi per le più antiche rinunce imposte alla civiltà e contribuisce perciò come null’altro a riconciliare l’uomo con i sacrifici da lui sostenuti in nome della civiltà stessa. Le creazioni dell’arte promuovono d’altronde i sentimenti d’identificazione, di cui ogni ambito civile ha tanto bisogno, consentendo sensazioni universalmente condivise e apprezzate: esse giovano però anche al soddisfacimento narcisistico allorchè raffigurano le realizzazioni di una certa civiltà alludendo in modo efficace ai suoi ideali (“L’Avvenire di un’Illusione”, in op. cit., Vol. 10, pp.443-4).
Rinuncia – sacrificio - soddisfacimento sostitutivo – riconciliazione - identificazione, sono esattamente gli stadi che dal rito di pubertà tribale e fino agli apici della civilizzazione e della religione portano il singolo a far parte della collettività, sia questa un clan selvaggio o l’ecumene cattolica che vuole abbracciare tutta l’umanità.
L’ebbrezza apollinea è infatti anche quella promessa dal Cristo-Apollo ai suoi fedeli. Arte ed estasi religiosa si fondono nel nirvana della contemplazione in paradiso, meta estrema di qualsiasi sublimazione; il veicolo è la fede che annette a se il rito tribale, si fonde con esso, ma anche lo sostituisce. L’Eucarestia, il pasto totemico dionisiaco, attraverso il veicolo della fede apollinea, distilla il rito tribale mantenendone il nucleo e lo espande in forma sublimata a tutta l’umanità attraverso il veicolo delle rappresentazioni figurate del dio delfico.
L’ebbrezza dell’arte e della contemplazione di Apollo era cominciata molti secoli prima nella foresta dove lo stregone, minacciando i giovani iniziati da dietro la sua maschera terrificante, li induceva a trattenere le pulsioni e a frenarle, con le parole di Freud a proposito dell’Io: “…domina gli accessi alla motilità, ma ha inserito tra bisogno e azione la dilazione dell’attività del pensiero”  . Il primo Io, “l’influsso persistente del mondo esterno" (supra) era stato dunque lo stregone, il rappresentante della generazione dei padri, che aveva indotto il bisogno (la pulsione) a fare una pausa, a dilazionare l’azione e a rinunciarvi fino a che questa non avesse trovato il giusto canale per esprimersi. L’ultimo Io è il Cristo-Apollo, dio dell’ebbrezza consumata attraverso la luce, la contemplazione, la fede e l’arte.
Cominciano così a diventarci chiari i contenuti del cattolicesimo e il perché possano manifestarsi solo attraverso le rappresentazioni figurate.
 

Padri e figli

Se, come sostiene Freud, l’inizio di ogni religione, organizzazione sociale e moralità è nel pasto totemico , di cui ci parla anche il mito orfico dello sbranamento di Dioniso, questi era invero il primo e unico dio delle arcaiche tribù greche e quindi comprendeva nella propria figura tutto il bene e il male, il bello e il brutto esistente, la sacralità, il sacer, che era sia sacro che maledetto. L’animale totemico della tribù greca principale era sicuramente il capro, poiché come tale è rappresentato il dio, fino ancora nella tragedia eschilea dove il coro era rappresentato da capri. Ma probabilmente altri clan, che si fusero in quelli che saranno i greci, avevano altri animali totemici. Infatti, come abbiamo visto sopra, le baccanti chiamavano il dio Taurokeros e Tauroprosopos. Quindi un altro clan, forse anch’esso uno dei più forti, aveva il toro come animale totemico . Il mito greco di Teseo che uccide il Minotauro è certamente la traccia mnestica del totem del toro, che rappresenta il padre ucciso dall’eroe. Questa traccia continuò a persistere  fino al culto di Mitra,  nel primo secolo della nostra era, dove il sacerdote uccideva infatti un toro. Inoltre Dioniso era rappresentato spesso nella forma di altri animali selvatici.
La Corrida, in cui il vicario della congregazione uccide il toro, simbolo del Padre, non è altro che la continuazione della tragedia greca che era stata a sua volta la transfigurazione del rito totemico primordiale. Il pubblico balza in piedi estasiato ogni volta che il torero, trasfigurazione dell’eroe arcaico, commette qualche prodezza o atto di sfida verso la tirannia paterna, e grida “Oleh”, ovvero “Oh – Allah”. L’estasi nel vedere il Padre sfidato e ucciso, è parallela a quella descritta da Freud in “Totem e tabù”. La Corrida va fatta risalire infatti all’influenza araba, ma se non ci fosse stato uno strato psichico parallelo nella psiche occidentale, il rito sarebbe caduto in disuso con la Reconquesta, invece di acquistare sempre nuova vitalità.
La figura di Apollo fu dunque un’epifania che si aggiunse alla figura del dio in un’unica sintesi solo in un secondo stadio, probabilmente quando le tribù ancora amorfe agli albori della storia cominciarono ad acquistare quelle peculiarità che ci permettono di definirle come tribù greche e inizieranno, in seguito, ad accennare i primi esitanti passi sulla lunga strada della civilizzazione.
Forse Apollo fu invero il primo dio greco, nel vero senso della parola, ovvero da quando i greci avevano già preso quella forma culturale che ci permette di definirli chiaramente come tali., ma non fu certamente il primo dio dei progenitori di quelle che sarebbero state le tribù achee e doriche: questo fu il totem, il capro Dioniso, di cui i miti orfici conservavano ancora le tracce mnestiche. Nella psiche occidentale l’immagine di Apollo è sempre stata associata alla grecità stessa, e questa a civilizzazione, ovvero al superamento di strutture sociali e mentali arcaiche. E adesso ci pare di poter seguire con passo più sicuro l’evoluzione che subì la psiche greca.
Il capro era il totem dei primogenitori delle antiche tribù greche, in realtà il primo dio dell’Occidente. Quando queste cominciarono a uscire dagli stadi più primitivi della loro evoluzione furono creati anche i primi miti. Le tracce mnestiche dell’antico pasto totemico e dei riti d’iniziazione puberali, in cui il novizio viene ucciso e rinasce in un’unica consustazione con il padre dell’orda, rimasero nei miti orfici che ci raccontano di un dio-bambino nato e risorto, che prese il nome di Dioniso. Il mito, come ha chiarito per primo il grande studioso di mitologia semitica del secolo scorso Robertson Smith, è solamente una storia che viene a spiegare un rito che lo precedeva e di cui è stato rimosso il significato. La mitologia, che in tutte le forme di culto dell’antichità prende il posto di quello che alla fine del processo sarà il dogma, a differenza di questo non aveva una garanzia sacra, né la capacità di impegnare i fedeli. I miti facevano semplicemente parte dell’apparato dei vari culti. All’individuo veniva offerta la possibilità di scegliere tra le differenti versioni dello stesso avvenimento ed a nessuno importava quello che egli scegliesse. Non era obbligatorio credere a un determinato mito. Ciò che si richiedeva era l’esatta esecuzione degli atti sacri, i riti. In breve il mito deriva dal rito e non l’incontrario: le cerimonie erano stabilite e i miti differenti . Frazer che ha studiato attentamente i riti delle tribù selvagge odierne è arrivato alla stessa conclusione: “il rituale può essere all’origine mito, il padre di esso, ma non può essere una sua creatura…mentre ci sono molti casi in cui un mito è stato costituito per spiegare un rito, sarebbe difficile trovarne uno in cui il mito abbia dato origine a un rito” (The Golden Bough, London 1919).
Anche in questo caso, quindi, il mito orfico di Dioniso sbranato dai Titani e ricomposto da Demetra è la storia di un rito, il cui vero significato era stato rimosso: quello del capro ucciso e divorato nel rito del pasto totemico. Nei riti della pubertà delle tribù selvagge tutti i contenuti del pasto totemico vengono ri-rappresentati nella saga iniziatica di morte e resurrezione dei novizi. Ma nei riti della pubertà i giovani non vengono solo uccisi simbolicamente e rinascono, come il giovane Dioniso, bensì vengono anche minacciati  ed educati dagli adulti della tribù che, attraverso i riti terrificanti, li inducono a rimuovere le loro pulsioni anti-sociali e ad identificarsi con la generazione dei padri  .
Quando la religione delle primitive tribù greche si evolse da totemismo in politeismo, le tracce mnestiche degli adulti che terrorizzavano i giovani nel bosco durante il rito, minacciandoli di morte mentre contemporaneamente li istruivano sui segreti della tribù, si trasfusero nella figura di un dio, questa volta Apollo. I segreti tribali, i tabù, insegnati dagli adulti in questi riti, dopo secoli in cui erano stati nel frattempo dimenticati, si trasfigurano negli enigmi proposti dal dio delfico. Nel bosco i giovani venivano ammoniti a non rivelarli alle donne e ai bambini, poiché non essendo stati iniziati non ne erano degni e venendone a conoscenza sarebbero morti; nel tempio di Apollo il dio si rivela da dietro la maschera dell’enigma e la sua iniziazione si trasfigura in sapienza. Il rito della pubertà che nella foresta cominciava quando gli adulti minacciavano i giovani nascondendosi dietro a delle maschere terrificanti  si concludevano quando queste cadevano e i padri della tribù si rivelavano agli iniziati accettandoli nella loro società. Questa è anche la prima verità, il volto dei padri del clan, l’identificazione con la generazione degli adulti e l’apprendimento dei loro segreti. Questo è anche il nucleo delle religioni ri-velate poiché rivelare significa togliere il velo, la maschera. Vedendo il vero volto dei padri, personificazione della morale (verità) della tribù, e identificandosi con loro, venivano fatti partecipi e diventavano loro stessi padri-detentori della verità, tramandatasi da padre in figlio.
Questa è l’iniziazione di Apollo e la sua verità: una conoscenza insegnata di generazione in generazione. La sua antitesi è la conoscenza dionisiaca, che riconosce solo gli insegnamenti, i messaggi, della propria immanenza esistenziale pulsionale, quelli dell’Es. Non c’è posto per gli adulti e i loro veli nell’iniziazione dionisiaca: questa rifiuta le tradizioni dei padri ed è fine a sè stessa. Le tracce della natura originale di Apollo si trovano ancora nell’Iliade, dove il dio, con il suo arco terribile fa strage nel campo degli Achei, accampati intorno alle mura di Troia. Questo è ancora l’unico Apollo conosciuto dalla civiltà greca dei tempi di Omero, quello che colpisce da lontano( Il., I/1) con il suo arco e le sue frecce. Colui che fa sentire gli uomini consapevoli della propria colpa e li purifica; colui che presiede alle leggi religiose e alla costituzione di città . Il suo secondo nome, Febo, significa “lucente”, “puro” . Come la purificazione è lo scopo del rito iniziatico puberale. La rinascita che purifica, come questa avviene nel miqwe, il bagno rituale ebraico, e nel battesimo cristiano. Sua quindi è la Legge dei tempi antichi, quella imposta da padre in figlio, prima che nascano le prime istituzioni politiche.
Solo dal V secolo in poi i greci cominceranno ad identificare il dio delfico con il sole .
Apollo non è solo il dio che minaccia ma anche il protettore dei ragazzi, l’educatore e,  dall’ottavo secolo in poi, si evolve a dio della sapienza : il suo oracolo porrà i quesiti e gli enigmi, come i maestri di scuola interrogano gli allievi e come nelle tribù selvagge gli adulti e lo stregone prima minacciano i giovani di morte e poi li istruiscono sui segreti del clan. L’aveva detto anche il più saggio di tutti gli uomini, il re Salomone: “Chi risparmia il bastone odia suo figlio, chi lo ama è pronto a correggerlo” (Prov.13,24). Come nei riti della pubertà i giovani si identificano con gli adulti e ne imparano la sapienza così questi si identificano con i giovani e diventano un’unica entità . Un unico corpo in grazia del sangue comune versato . Ed ecco che Apollo stesso è un dio giovane, protettore dei fanciulli ma fanciullo lui stesso.
Salomone, il più saggio degli uomini, lo aveva detto anche lui: “Ascoltate, o figli, l’istruzione di un padre e fate attenzione per conoscere la verità poiché io vi do una buona dottrina; non abbandonate il mio insegnamento. Anch’io sono stato un figlio per mio padre…” (Prov., 4,1-3). Un dio-figlio, parallelo di Apollo, che aveva ricevuto la Saggezza dal Signore (I, Re, 10,23-4)
Non ci deve meravigliare, dunque, se Dioniso ed Apollo all’inizio appaiono in un’unica consustanzialità: insieme riassumono e condensano tutti gli stadi della realtà esistenziale umana: immersione nello sfogo pulsionale il primo, come questo trova la sua espressione nel pasto totemico, e inibizione e sublimazione il secondo, come viene “insegnato” ai giovani durante i riti della pubertà iniziatica. Con le parole di Reik:

Difficilmente si può sopravvalutare, nella vita religiosa e nell’ordine sociale dei popoli primitivi, il significato dei riti d’iniziazione e della pubertà, con il loro cerimoniale elaborato e suggestivo…Sono per la massima parte più imponenti e durano più a lungo che le celebrazioni del matrimonio. La loro importanza è comprensibile se teniamo presente che i riti della pubertà non soltanto segnano un’epoca della vita bensì indicano che è giunta l’età in cui e legalmente permesso il rapporto sessuale e la procreazione dei figli; che essi iniziano il giovane alle cerimonie religiose; e gli conferiscono tutti i diritti e gli impongono tutti i doveri che valgono per i membri adulti della tribù (Reik, ibidem, p.103).
Ci pare di avere scoperto il motivo per il quale fu Apollo che divenne il dio civilizzatore e non Dioniso. Il dio caprino infatti rimase l’immagine del dio-Padre dio-Figlio in un’unica condensazione, ma rimase privo di qualsiasi connotazione educativa. In una delle immagini della sintesi del mito muore bambino, non raggiunge mai lo stadio della pubertà e dell’educazione, ovvero della sublimazione delle pulsioni aggressive e incestuose. Senza la canalizzazione di queste in mete socialmente accettabili non può accedere alla società degli adulti: il suo rito rimane chiuso, circoscritto a uno sfogo pulsionale fine a sè stesso, come lo sono le pulsioni della primissima infanzia prima della formazione di un “Io” inibitore.
Il dio rappresenta l’epifania della conoscenza non mediata, immanente, il suo culto è l’orgia, con le parole di Nietzsche: “l’intero sistema degli affetti è eccitato e potenziato, in modo che questo scarica in una volta tutti i suoi mezzi espressivi”(p.2), e di conseguenza è il dio dell’anti- socialità. L’iniziazione ai riti dionisiaci non ha niente a che fare, infatti, con riti d’iniziazione puberali, attraverso i quali avviene un’iniziazione sociale sotto le insegne dell’immagine di Apollo.
I riti dionisiaci non sono altro che uno sfogo pulsionale, un’orgia, e Dioniso è il dio sotto l’insegna del quale è tutto permesso. Mentre gli iniziati di Apollo imparano la saggezza, attraverso l’azione civilizzatrice sotto gli auspici del dio, gli iniziati di Dioniso disimparano momentaneamente qualsiasi inibizione per poter permettersi lo sfogo pulsionale non-mediato. L’immagine proiettata sullo schermo esterno della psiche è quello di un capro selvaggio che viene lacerato e divorato in un’orgia che condensa tutta l’essenza pulsionale: l’Es allo stato puro, distillato dalla presenza opprimente della civilizzazione.
Questo è anche il momento della scissione. Un unico dio si scinde in due volti diversi, prima in un’unica consustanzialità, gradualmente in due divinità antitetiche. Dioniso rimane il dio delle prime pulsioni, antecedenti il crollo del complesso di Edipo dopo il quarto anno di età, e Apollo rappresenta la fioritura puberale, dopo il periodo di latenza , e la sua inibizione-sublimazione.
Una traccia mnestica che Dioniso abbia preceduto Apollo, e che il secondo sia stato all’inizio un dio-figlio, come il primo era stato il totem, primo padre della stirpe, la troviamo in Erodoto. Il padre della storia infatti dice: “Ultimo, avrebbe regnato sull’Egitto Oro, figlio di Osiride, quello che i greci chiamano Apollo: egli, dopo aver detronizzato Tifone, fu l’ultimo che dominò il paese. Osiride in lingua greca, è Dioniso”(Hist., II/144). Quindi Apollo (Oro) era figlio di Dioniso (Osiride) e regnò per ultimo, ovvero lo sostituì come insegna sotto la quale si sviluppò tutta la civiltà greca.Negli stessi miti orfici greci troviamo un’allusione molto illuminante sul rapporto tra Dioniso e Apollo. Dioniso infatti è un bambino che nasce da Persefone dopo che era stata rapita da Ade, il quale a sua volta non era altro che il nome di Zeus stesso come Zeus sotterraneo o Katachthonios. Inoltre Dioniso appare come bambino e come secondo Zeus, con le parole di Kerenyi:
In altre storie egli [Dioniso] figurava come figlio di Persefone e veniva indicato con l’epiteto Chthonio [come Zeus]...Il padre del bambino viene chiamato anche Ades.... Il nome stesso  Ades, esprimeva soltanto qualcosa di negativo, adatto all’incolore quadro degli inferi e indicava uno solo degli aspetti di un grande dio. Ma si sa che allo sposo di Persefone spettava anche il nome di Zeus Katachthonios, “Zeus sotterraneo”. Quale Katachtonios, Zeus era il padre del Dioniso sotterraneo. Nella stessa qualità egli si chiamava anche Zagreo, “il grande cacciatore” e così si chiamava anche suo figlio. Tale identità è già stata menzionata a proposito di Zeus... Si riconoscono i due volti che anche Zeus mostrava: il volto del padre e dello sposo da un lato, quello del figlio e del bambino divino dall’altro. Non soltanto Zeus e Dioniso avevano questo doppio volto nella nostra mitologia, ma nessun altro dio sembrava quanto Dioniso un secondo Zeus (K.Kerenyi, Gli Dei della Grecia, Il Saggiatore, Milano 1962, p.207). .
Dioniso era, dunque, un secondo Zeus, e questi era il padre di Apollo.
La tradizione orfica rappresenta la traccia mnestica di un arcaico dio padre, il capro, che con l’evoluzione della società greca da totemistica-tribale a politeista si era trasfigurata in Dioniso. Ma questo era anche un dio bambino, quindi dovettero creare un’altra figura divina per esprimere l’altro aspetto della condensazione, ed ecco che viene creato Zeus per rappresentare la figura del dio-Padre. Il capro-Dioniso rimase in terra e il suo aspetto di Padre venne proiettato al regno dei cieli con il nome di Zeus. Il mito orfico conserva ancora la condensazione, e il volto di Dioniso è ancora lo stesso di Zeus. Inoltre Dioniso bambino è raffigurato nel mito orfico che nasce “in una grotta in cui si vede il letto in cui la dea ha appena dato alla luce il bambino cornuto: a questo attributo si riconosce il figlio di Persefone”. Il bambino cornuto è rappresentato subito dopo la nascita su un trono, come re del mondo e circondato da balocchi. Nel cristianesimo la stessa immagine riemergerà nella scena della Natività, in una grotta, partorito da una dea vergine,  Persefone, che nel mito orfico viene fecondata da Zeus sotto forma di serpente . Ovvero la stessa condensazione di dio -- Padre e dio – Bambino. L’unica differrenza è che Gesù apparentemente non aveva le corna. Queste invero, come nel lavoro di spostamento e condensazione che avviene nei sogni, furono trasferite al bue che scalda il Bambino nella greppia, e l’allusione allo sbranamento di Dioniso emerge nella mangiatoia stessa, dove egli viene depositato. Tutti gli elementi dell’arcaico totemismo occidentale appaiono nella raffigurazione della Natività, attraverso un processo di regressione che sarà l’araldo del crollo del mondo antico.
Il politeismo segue il totemismo, dove il padre della tribù viene rappresentato ancora come animale-totem, dopo in un dio il cui animale gli diventa sacro, e in uno stadio ulteriore si scompone nei diversi dei  . La condensazione del dio padre con quella del dio figlio avviene per soddisfare il bisogno di identificazione del figlio con il padre dopo il parricidio cannibalistico, come questa si esprime nel rito del pasto totemico . La condensazione del mito orfico abbraccia tutti gli elementi: il dio-padre dio-figlio è Zagreo, il cacciatore, ovvero colui che caccia e uccide l’animale. Anche l’elemento del parricidio trova la sua espressione nel nome del bambino, che sotto la pressione della condensazione viene attribuito anche a Zeus stesso. E se non avessimo ancora capito ecco un’ulteriore allusione: Dioniso nasce dalla coscia stessa di Zeus, allusione all’immagine di un Dioniso che si scompone in due figure diverse. Il mito ci racconta ogni volta un’aspetto diverso della stessa storia, attraverso allusioni diverse, come per farci capire il suo vero significato e le sue diverse ramificazioni, come il sogno ripete lo stesso concetto attraverso immagini diverse: prima il faraone sogna sette vacche e dopo sette spighe, e Giuseppe aveva capito il meccanismo: “Il sogno del faraone è uno solo” (Gn. 41,25).
Le baccanali durante l’estasi orgiastica chiamavano Dioniso anche Bromio (colui che tuona) e infatti questo è un attributo di Zeus, e lo chiamavano anche Taurokeros e Tauroprosopos, il toro, come in quanto toro Zeus si accoppia ad Europa e a Io. L’animale totemico di una delle tribù greche come trovava espressione nel grido orgiastico delle Baccanali che lo evocavano, condensato nel culto dionisiaco, si trasfonde in Zeus, che è la transustazione del Dioniso terrestre in dio dei cieli. Non ci è più difficile seguire l’evoluzione: il capro, Dioniso come dio padre e capro, Dioniso come dio figlio che nella condensazione dell’identificazione è anche dio-padre, scomposizione della figura in Dioniso che rimane in terra e in Zeus che diventa padre degli dei, Dioniso che nella trasfigurazione in Zeus diventa padre di Apollo.
Dioniso era Trigonos, tre volte nato: nel mito orfico da Zeus e Persefone e diventa re del mondo e con lo stesso volto del padre degli dei, nel mito posteriore da Zeus e Semele, e in un’altra forma nato dalla coscia di Zeus. Quest’ultima rappresentazione è quella di un figlio che viene tolto alla madre (Semele), per rinascere dal padre. Questa è la traccia mnestica dei riti tribali della pubertà dove il novizio viene tolto alla madre per rinascere dal padre ed identificarsi con lui  .
Il concetto che Zeus rapressenti una sintesi più che un dio specifico trova conferma nel fatto che i templi dedicatigli sono più tardi di quelli dedicati agli altri dei e in Atene solo nel VI secolo fu costruito il primo tempio in suo onore. Il dio primitivo è un dio che protegge la sua tribù, che è specifico di questa, che insegna ai suoi figli le origini, la caccia e la pesca, come fare il fuoco, mentre Zeus è un’immagine astratta che non convince. Padre degli dei in generale è solo un concetto astratto.
Quando la società greca era ancora strutturata in tribù e in clan diversi questo dio non esisteva ancora. Probabilmente fece la sua prima apparizione nella Grecia continentale, come dio specifico nella sintesi di padre degli dei solo verso la metà del secondo millennio, quando la civiltà micenea era già solidamente stanziata sul territorio e aveva, con la fine delle sue migrazioni, instaurato una civiltà agricola e urbana. Quando le tribù greche si amalgamarono in nazione sedentaria cominciò ad avere un senso anche un dio che risieda fisso sull’Olimpo e faccia da tetto a tutti gli altri dei.
Agli albori della civiltà greca vi era dunque un solo dio-padre. Con il politeismo e l’abbandono dei riti tribali, e solo con lo stadio dell’insediamento, Dioniso aggiunse a sè la figura di Zeus e da questi nacque Apollo, il dio figlio par excellence, ma questa è una sovrapposizione relativamente tarda del mito originale, probabilmente non prima del XV secolo, quando la civiltà micenea si era già amalgamata nella Grecia continentale. Apollo aveva certamente anticipato Zeus nella mitologia greca, in quanto era la traccia mnestica dei riti iniziatici puberali, che avevano già smesso di essere con la metamorfosi greca da pastori ad agricoltori e da nomadi a residenti fissi. Apollo era il figlio di Dioniso e solo quando quest’ultimo fu proiettato in cielo e prese il nome di Zeus, il mito operò uno spostamento e fece di Apollo il figlio del padre degli dei.
Dopo il V secolo comincerà la sua ascesa al regno dei cieli condensandosi ad Helio, il dio sole. Come vedremo in seguito, con l’ellenismo e l’ecumenizzazione della religione greca, questo dio figlio si affiancherà al padre nel regno dei cieli e ultimamente lo spodesterà. Zeus è dunque una figura che ebbe ragione di esistere, come divinità specifica, solo da quando i greci erano già un popolo amalgamato e perderà molte di queste ragioni quando la cultura greca, in epoca ellenista, si evolverà ulteriormente in cultura ecumenica. Come universalista, il sole di Apollo avrà tutte le ragioni di spodestare il “padre”. Zeus era stato il simbolo di una nazione di agricoltori, residenti fissi che avevano bisogno dei tuoni e della pioggia, come il Baal cananeo che tiene in mano un fulmine, mentre Apollo diventa il simbolo dell’evolversi di una cultura attraverso tutti i suoi stadi, da rito iniziatico puberale e fino all’insegnamento della “morale” che dopo più di mille anni era diventata universale. Zeus risedeva in un posto fisso, l’Olimpo, il monte principale della Grecia, Apollo invece salì al regno dei cieli e lo percorreva da Oriente a Occidente sul suo carro solare in tutta la sua vastità, come Horus, il suo parallelo egizio . Quando i greci vennero a contatto con i semiti della Fenicia e della Palestina trovarono lì il Baal, il dio cananeo dei fulmini e delle piogge, dio padre del Pantehon cananeo e rappresentato anch’egli con un fulmine il mano, stranamente non lo identificarono con Zeus, ma con Dioniso , da tanto era ancora vitale la traccia mnestica che Dioniso fosse stato il dio-padre originale.
Anche l’aspetto caricaturiale di Zeus e le sue avventure romantiche dà da pensare: sembra che tutti riescano a manipolarlo e lui stesso si ingarbuglia in situazioni ridicole, minacciato da una moglie gelosa. Non rappresenta la morale, non l’insegnamento, non la saggezza. Per decidere ha bisogno di una bilancia e la maggior parte delle decisioni non sono di sua competenza in quanto sono già state emesse dal Fato.
Nessuno si farà mai, invece, beffe di Apollo, il dio che prima minaccia gli iniziati e poi insegna loro la sapienza. Il suo occhio guarda terribile ed enigmatico. La sua maschera rimane nel suo sorriso arcaico, allude alla crudeltà e alla salvezza. Come nessuno si era mai fatto beffe di Dioniso, quando era il dio ucciso dei miti orfici e quello della tragedia eschilea. Solo più tardi diventerà il simbolo della scurrilità, e allora lo diventerà in maniera estrema. I romani spingeranno la loro avversione al dionisismo, antitesi dell’idea dello stato apollineo, al punto da reprimere i culti legati al dio e nel 186 a.C. un editto senatoriale soppresse rigorosamente tutte le logge dionisiache .
Malgrado Apollo sia diventato lentamente il dio greco par excellence, la sensazione che sia venuto dopo, continua oggigiorno a sussistere negli studiosi di mitologia e filosofia greca. Colli dice: "Gli studi più recenti sulla religione greca hanno messo in evidenza un'origine asiatica e nordica del culto di Apollo"  (Giorgio Colli, La Nascita della Filosofia, Adelphi, Milano 1977, p.19). L’Enciclopedia Brittannica: “Though the most Hellenic of all gods, Apollo apparently was of foreign origin, coming either from somewhere north of Greece or from Asia”
Apollo, prima di Zeus, ma dopo Dioniso, quando il rito iniziatico puberale stava cadendo in disuso. Le sue origini sono straniere, ovvero straniere alla civiltà greca nel massimo del suo splendore, straniero alla sua epifania di rivelazione ecumenica, apparteneva allo stadio tribale, con il quale l’Occidente stesso non si identifica più. Solo in questo senso può definirsi straniero. I greci non erano nati lì, erano il prodotto di un’immigrazione che poteva essere venuta solo dalle steppe asiatiche o dall’Anatolia, ed era il dio iniziatico di quando le tribù greche eseguivano ancora i riti della pubertà, come in ogni cultura primitiva.

Link to:
Sapere e conoscenza. Dai riti iniziatici alla filosofia platonica
Nietzsche e la psicoanalisi



CAPITOLO  SECONDO


I  DUE  POLI  OPPOSTI

 
 

Brutto e bello

Non esiste un bello di natura.
Ma esiste certo il brutto perturbante...
(F.Nietzsche, Frammenti postumi 1869-1874, 7[116] )

Quella che, con il crollo del mondo antico, sfocerà in Occidente in scissione assoluta tra bene e male era cominciata molti secoli prima, come divergenza del concetto di sacro in due parametri opposti:  brutto e bello.
Il Dioniso dei miti orfici, il capro, antico totem delle tribù greche, non era né bello né brutto, ne buono né cattivo: era sacro, ovvero era sia una cosa che il suo opposto. In latino sacer, in ebraico qaddosh, in arabo haram, e persino in una lingua moderna come il francese sacrè definiscono tutte il concetto di sacro e sacrilego, santo e maledetto, con un’unica parola.
Quando le tribù greche superarono la crudezza del rito totemico e cominciarono a relegare sempre di più l’immagine del capro alle province più lontane della psiche, l’immagine del dio cominciò anche ad assumere una connotazione normativa: sempre sacro ma, per la prima volta, brutto. Così nacque in Occidente un concetto e, automaticamente, anche il suo opposto. Quando la società greca scelse la strada della civilizzazione, alle insegne dell’immagine di Apollo, e innescò un processo di rimozione del pasto totemico e del rito tribale, quello che lo rappresentava, il capro Dioniso, divenne indesiderato e quindi brutto, superato e quindi ridicolo. Con l’esasperazione di questi parametri, anche cattivo e, alla fine, con il crollo del mondo antico, addirittura diabolico. Il suo opposto, ovvero tutto quello che divergeva dall’immanenza dei riti tribali, la saggezza, l’educazione in quanto civilizzazione, la contenutezza entro la canalizzazione dell’equilibrio plastico, divenne normativamente positivo e desiderabile, e quindi bello. Questo per i greci si tradusse in buono e in un nuovo concetto di divino , e come tale passò anche al cristianesimo .
Prima nacque dunque l’idea del brutto, in quanto rimozione di quello che non era socialmente desiderabile, e solo dopo e in antitesi ad esso, l’idea del bello.
Ed ecco che in Occidente, dal VI-V sec a.C. in poi, brutto sarà tutto quello che ricorda il capro, il Dioniso divorato dai Titani, cioè il peloso, lo sgraziato, l’animalesco e bello sarà il suo contrario: l’ideale del corpo umano in antitesi alla bestia, il liscio in antitesi al peloso, il tronco dritto in antiteso al gobbo, che ricorda l’animalesco che cammina a quattro zampe, ecc.
Anche Freud cadde in questo equivoco. Come un nuovo Platone postula prima un ideale di bello, a priori, e a secondo di questo classifica il resto in bello o brutto. Infatti nel 1910, a proposito della vita amorosa, scrive una frase molto interessante ed enigmatica: “I genitali stessi non hanno seguito l’evoluzione delle forme corporee verso la bellezza, sono rimasti animaleschi, e così anche l’amore è rimasto nella sua essenza animale come è sempre stato” ("Psicologia della vita amorosa”, cit.,vol.6, p.431). Sul modello di quale parametro Freud stabilisce che i genitali non sono “belli”, se non appunto di quello apollineo di un ideale di forme platonico del corpo umano, che è l’antitesi dell’animalesco? Dalle parole di Freud i genitali “non sono belli”, ovvero sono brutti, poiché sono animaleschi, sono rimasti dionisiaci, e non hanno passato la metamorfosi nella loro antitesi apollinea. Il capro, l’animale totem degli antichi progenitori delle tribù greche, sarà dunque il metro di misura intorno al quale ruoteranno, in Occidente, tutti i parametri di brutto e di bello. Non ci risulta che in qualsiasi altra cultura umana sia mai avvenuto lo stesso.
Il motivo è che nelle altre culture non avvenne un rinnegamento così deciso del proprio animale – totem e una divergenza così completa dal proprio passato tribale.
Gli ebrei, che il caso volle abbiano avuto, nella loro lontana preistoria, lo stesso animale –totem dei greci, il capro o l’ariete, forse poiché entrambe erano tribù di pastori che pascolavano la pecora bianca, non crearono mai un’idea del bello che fosse antitetica a quella dell’ariete. Al contrario, l’idea di sacro rimase affine a quella dell’animale -- totem con cui si identificavano, e non crearono mai concetti di bello che divergessero dall’idea dell’arcaico animale sacro, al punto che consideravano sacrilego radersi la barba o i peli del corpo. Il Talmud ci racconta qualcosa di velato in proposito, riportando un’antica leggenda:

Tutti in confronto a Sara sono come una scimmia in confronto all’uomo, Sara in confronto a Eva è come una scimmia in confronto a l’uomo,  Eva in confronto ad Adamo è come una scimmia in confronto a l’uomo e Adamo in confronto al Signore è come una scimmia in confronto all’uomo (Tal.Bab., Baba Batra 58a).
Prima di accusare i saggi di misogenia e scarso senso cavalleresco cerchiamo di capire che cosa intendessero. I rabbini spiegano: poiché Dio creò l’uomo a sua immagine e somiglianza e la donna solo dall’uomo. Ovvero Adamo assomigliava a Dio, e questi è l’unico parametro valido per qualsiasi forma di bellezza, ovvero più bello di lui non avrebbe potuto essere, mentre Eva era stata creata dall’uomo, ed era dunque solo un misero riflesso della bellezza maschile. E tutti quelli che sono stati creati dopo di lei, che “è la madre di tutti i viventi”(Gn.3,20), possono solo essere più brutti. Dunque l’unico parametro di bellezza e bruttezza corrisponde nella somiglianza a Dio. Questo è l’unico bello che esista. Se il primo dio fu un’animale, transustazione del padre dell’orda ucciso, e quindi un dio maschio, bello è quello che gli assomiglia. Non le donne, Eva e Sara e tutte le altre, sono belle, bensì solo gli uomini fatti a immagine e somiglianza di Dio. I rabbini non potevano adoperare la parola sacro, poiché Adamo era stato degradato a mortale dal redattore post-esilico, ma questa sarebbe stata la parola giusta. Sia per gli antichi greci che per gli antichi ebrei, bello era dunque il parallelo di sacro, e questo per entrambi era associato al dio caprino. La parola divino è una parola posteriore: all’inizio esisteva sola la parola sacro e ancora oggi in ebraico esiste una parola sola qaddosh. Questa parola indica sia la sacralità di Dio che dei suoi sacerdoti, che del popolo dopo che è stato iniziato alle sue leggi, sia il massimo dell’empio, la qaddeshà e il qaddesh, i prostituti sacri.
È molto strano che gli ebrei, che rimossero ogni immagine dal proprio modus mentale, proprio nel Talmud, estremo strumento di rimozione e sublimazione, abbiano fatto la reattivazione del concetto di immagine attribuendola proprio al Signore, e questa immagine è bella, non solo ma viene associata attraverso la parola “scimmia”, invertendo i parametri per nascondere il legame associativo: una scimmia è brutta in confronto a Sara e Sara è brutta in confronto a Eva e Eva e brutta in confronto a Adamo, che a sua volta è brutto in confronto al Signore = come scimmie.
La leggenda (Midrash)insiste spesso sul fatto che Adamo era “bello” e chi legga la raccolta di leggende ebraiche sulla creazione si può fare l’immagine di un giovane Apollo, ma una di queste ci racconta che il Signore aveva creato Adamo con la coda, ovvio simbolo del pene, e solo dopo la rimosse (Bereshit Raba, 14,10). Ebbe torto dunque Freud a considerare i genitali "brutti".
Quindi possiamo supporre che per “bello” non intendessero esattamente la bellezza apollinea così radicata nella psiche occidentale.
Se queste associazioni fossero apparse nella condensazione dell’immagine di un sogno non avremmo avuto difficoltà a decodificarle, e perfino Darwin avrebbe approvato.
Dio veniva prima ed era più bello di qualsiasi cosa, e attraverso la catena associativa viene per quattro volte associato alla scimmia, che anch’essa, nelle tracce mnestiche conservate nell’eredità arcaica , veniva prima. È interessante notare come l’umanità associ proprio alla scimmia l’idea antitetica a quella di bellezza.
Perché si dice “brutto come una scimmia”?
La risposta è semplice: l’uomo associa a sè stesso l’idea della scimmia, proprio perché noi tutti veniamo da questa, e dichiarandola brutta prende le distanze dal proprio alter ego rimosso. Paradossalmente è brutta proprio perché assomiglia all’uomo, o meglio, all’immagine rimossa che ha di sè stesso. Quindi, secondo questo parametro, il Talmud avrebbe dovuto invertire il concetto: se quello che viene prima è più bello di quello che viene dopo, si dovrebbe dire bello come una scimmia. E forse l’allusione inconscia del testo è proprio questa. L’umanità, ebrei compresi, associa l’idea di bello alla scimmia e poi, nel processo di rimozione, inverte questo parametro e ne prende le distanze.
Ma la cosa più strabiliante è stata quando abbiamo scoperto un frammento semi-dimenticato, che risale a sette secoli prima della citazione talmudica che abbiamo riportato sopra. Eraclito, l’enfant terrible della filosofia occidentale, il filosofo oscuro ed ermetico, dice: “La più bella delle scimmie è brutta in confronto all’uomo e l’uomo più sapiente avrà sembianze di scimmia in confronto del dio” (Frammento 72 da: Eraclito, i frammenti e le testimonianze, edizione a cura di Carlo Diano, Mondadori, Milano 1993, p.35).
I maestri del Talmud non conoscevano certamente Eraclito, che nel terzo secolo della nostra era era stato quasi dimenticato. Il filosofo greco era vissuto a cavallo tra il VI e il V secolo ed è come se avesse voluto ricordare ai suoi compatrioti, che da lì a poco si sarebbero avviati sulla strada della scelta apollinea, che in realtà veniamo tutti dalla scimmia. I suoi aforismi erano indecifrabili per i suoi contemporanei come, d’altronde, anche per noi, ma basta introdurre un’inversione nella catena associativa affinché il contenuto oscuro diventi chiaro  . Eraclito è colui che aveva detto: “Per il Dio tutte le cose sono belle, buone e giuste, ma gli uomini considerano alcune cose essere ingiuste e altre giuste”(Heraclitus, framm. 14 (A19), in Giorgio Colli, La Sapienza Greca, vol.III: (A19),  Adelphi, Milano 1996, p. 109). Allusione al fatto che il sacer originale non aveva avuto alcuna connotazione normativa. Intuiva quindi quello che era successo: la separazione di un unico concetto in due parametri opposti.
Come esempio di come, quando si dice bello, si possano intendere cose diametricalmente opposte si pensi a questo. La Bibbia ci racconta che Mosè sposò una donna negra (Num.12,1) (la Bibbia italiana traduce “etiope”, infatti nell’ebraico arcaico “etiope” era sinonimo di negro). Nel commento a questo versetto Rashi  dice: “sposò una donna molto bella” e Miriam cominciò a sparlare di Mosè poiché era gelosa della bellezza della cognata. Ovvero, per gli antiche ebrei, negro, o etiope, era sinonimo di bello. In Occidente per molti secoli negro fu associato, invece, al brutto. Solo adesso qualcuno può pensare che “anche una negra possa essere bella”. Nel “Inno a Nisibene”, datato al IV secolo d.C., viene declamato: “I tre fratelli di Babilonia sfuggirono non al fuoco che gli uomini avevano acceso, ma dalla lascivia sfuggirono, poiché erano perfetti. Il loro fuoco, fu esso a trionfare, può cambiare bambini neri in bianchi…” (“THE NISIBENE HYMNS", (Translated by Rev. J. T. Sarsfield Stopford, B.a.), in Nicene and Post-Nicene Fathers, Series II, Vol. XIII, Cap. VII). Nero viene associato a lascivia peccaminosa e satanico, mentre invece bianco a purezza. Il fuoco sacro (fuoco è sempre associato a erotismo) trasforma il male (l’erotismo peccaminoso in contrasto a quello sacro, ovvero quello acceso dagli uomini) in bene, bambini neri in bianchi.
Come comprova si può portare che negro, nelle immagini medioevali del cristianesimo, era sinonimo di satanico. Ancora nel XIV secolo, una donna posseduta da Satana viene liberata solo quando un negro etiope esce dal suo corpo ( Michael Goodich, Violence and Miracle in the Fourteenth Century, University of Chicago, Chicago 1995, pp.76-77). Le messe nere, quelle sataniche, sono il contrario di quelle sacre. Nero è il contrario di bianco, il puro. Ancora nell’ “800 si discuteva se anche i negri avessero un’anima e una delle argomentazioni che razionalizzavano lo schiavismo che permetteva a buoni cristiani di tenere schiavi negri, senza che questo pesasse sulla loro coscienza, era che quelli non avessero un’anima, fossero figli di Satana, e quindi fosse giustificato sfruttarli, ucciderli e torturarli. La “sessualità sfrenata” dei negri, quella satanica, brutta in antitesi all’ebbrezza di Apollo, era la giustificazione per qualsiasi brutalità. L’esasperazione di questi parametri antitetici fu proprio il crollo del mondo antico e il balzo verso l’astrazione del Regno dei Cieli che fece il Cristo apollineo, in contrasto alla grande caduta del Capro nel regno sotterraneo. Il razzismo “scientifico” del XIX secolo non fu altro che il riallacciarsi a quei parametri che il cristianesimo medioevale aveva sviluppato, sulla scia dei turbamenti della decadenza del mondo antico.
Per gli ebrei dunque il bello rimase parallelo all’immagine rimossa del Dio, l’ariete, che veniva prima: Il brutto è il suo contrario. Per gli ebrei tutta l’arte occidentale è brutta, sacrilega, anti-religiosa, come ogni immagine, e più è antropomorfica, più viene considerata tale, poiché simile all’immagine di Apollo, il dio della bellezza giovanile, plastico, armonioso e lisciforme, al contrario del dio-caprino.
In completa antitesi, per i greci bello diventò, invece, tutto quello che si allontana dall’immagine del dio caprino, ovvero il giovane in età pre-puberale, quando i peli e la barba non hanno ancora profanato le sue forme apolline. Questa è una delle cause per le quali i greci si dedicavano con tanto entusiasmo all’omosessualità, e questa era sempre la passione degli adulti per un giovane imberbe. Il giovane, che acconsentiva ad essere penetrato da un’adulto, lo faceva non per lussuria ma per ricevere in cambio la saggezza del suo amante . Quando Socrate vuole spiegare come un oggetto ci richiami alla mente una persona amata dice: “Quando un amante vede una lira o un mantello o qualsiasi cosa che il suo amato usa, percepisce la lira e nella sua mente si forma l’immagine del fanciullo al quale la lira appartiene, non credete?” (Fedone, 73d).
Per Socrate era scontato che l’unico oggetto d’amore possa essere solo un fanciullo. L’immagine di questi era l’unica che poteva venire alla mente nel processo associativo. Erodoto già settant’anni prima di Socrate aveva detto: “[I Persiani] si danno a ogni sorta di piaceri di cui vengono a conoscenza e, tra l’altro, dai Greci hanno imparato a praticare l’amore verso i giovani”(Hist., I/135). L’esauriente lavoro del Dover ha dimostrato che nella Grecia classica i due parametri di bello e brutto erano già ben radicati in stereotipi comuni: Il bello era il giovane imberbe, quello ancora privo di peli. Con le parole del Dover:
Rappresentazioni di Ganimede e di Titone, personaggi mitici la cui bellezza eccitava persino gli dei, ci permettono di definire i criteri della bellezza maschile, e ci permettono di vedere che gli stessi criteri sono soddisfatti in ritratti di dei eternamente giovani (in particolare Apollo) e di ragazzi o giovani raffigurati nell’atto di essere inseguiti, corteggiati o abbracciati da comuni amanti mortali. Da questo possiamo trarre validi motivi per catalogare come modelli di “pin-up” il grande numero di giovani ritratti in varie pose su vasi di ogni tipo; in particolare, il tipico giovane solo (di solito nudo, a volte in atto di vestirsi o di svestirsi)…La documentazione positiva di queste raffigurazioni è rafforzata da quella negativa delle scene in cui il pittore ha voluto raffigurare il brutto, il discustoso e il ridicolo: satiri (cfr. Senofonte, Simposio 4,19: “Se non fossi più bello di te, sarei più brutto di tutti i sileni delle rappresentazioni satiriche!”) (K.Dover, op.cit, p. 9).
Con il parametro “corpo umano bello in quanto antitesi del corpo del capro brutto” viene superata dai greci l’inibizione a mostrarsi nudi.
Kerenyi scrive a proposito di questa fase dello sviluppo della cultura greca:
Nella città di Cnido, sulla costa dell’Asia Minore, dove greci puri e non orientali   osarono per la prima volta esporre alla vista una Afrodite nuda  - la celebre statua dello scultore Prassitele -  la conchiglia era considerata come animale sacro alla grande dea dell’amore.» E allo stesso proposito “....le etere veneravano la dea come una di loro, sotto nomi di Afrodite Hetaira o Porne. In questa atmosfera ridotta sorgevano opere d’arte che mostravano la bellezza della dea come Kalliglutos o Kallipygos, colei che ha belle natiche, con la veste sollevata, dopo che i nostri artisti poco a poco avevano ottenuto che la nudità della dea al bagno non incutesse più un sacro orrore agli spettatori» ( K.Kerenyi, op.cit., p.65 e p.73) .
Quindi vediamo che, prima di evolversi in società apollinea, anche i greci avevano avuto orrore del nudo, esattamente come le antiche tribù semitiche e gli ebrei.
Quando Erodoto racconta, alla fine della prima metà del V secolo, questo processo mentale, nella Grecia continentale, era già stato portato a compimento. Infatti ci dice: “Per i Lidi, infatti, come pure, in generale, per gli altri barbari, essere visto nudo, anche per un uomo, è cosa che procura grande vergogna” (Hist., I,10). Ovvero per i greci non era già più una vergogna mentre per i Lidi, che non erano altro che greci  ancora permeati di influenza culturale persiana, lo era.
Permissività sessuale e culto del nudo furono dunque uno svolgimento concomitante al superamento della struttura sociale arcaica.
Un pò alla volta ci diventa chiaro come mai il bello nella cultura occidentale diventa anche sinonimo di  divino e di morale, e infatti per i greci i brutti erano anche i cattivi e i viziosi. Quello che era sacro nei tempi antichi, ai tempi dei riti iniziali arcaici, diventa prima brutto, poi ridicolo, profano e infine malvagio. La sua antitesi prende il posto del divino, i parametri si capovolgono, e per dare espressione a questa nuova normatività nasce una nuova parola, divino, oltre a quella primordiale dal doppio significato equivalente: sacro.
In epoca classica quella dei fanciulli imberbi, l’opposto del capro peloso, diventa la bellezza ideale e questa viene elevata a estasi religiosa. Senofonte ci racconta che:
C’era nell’esercito un certo Epistene di Olinto, che aveva un debole per i fanciulli. Quand’egli vide condurre al supplizio un bel giovinetto, appena giunto alla pubertà, ma già armato di peltra, corre da Senofonte e lo supplica di intervenire a favore del ragazzo. Senofonte si reca da Seute e lo prega di risparmiarlo; gli parla della passione di Epistene, raccondandogli che una volta, nella formazione del suo lochos (compagnia), aveva badato solo che i componenti fossero belli; si dovette ammettere però che sia lui che i suoi soldati avevano combattuto con valore. Seute domanda a Epistene: “Saresti pronto a dare la vita per lui?”. Epistene porge subito il collo e dice: “Se questo fanciullo accetta e me ne sarà riconoscente, colpisci pure”. (Anabasi VII, 4, 7).
Senofonte ci tiene a specificare “ma già armato di peltra”, ovvero: malgrado fosse già armato di peltra, poiché secondo i parametri apollinei avrebbe dovuto essere una ragione di repulsione e non d’amore. L’implicazione è che il fanciullo era così attraente che persino quella prima peltra, ragione d’orrore, non  riusciva a mitigare l’attrazione.
Platone nel Simposio propone, per bocca di Fedro, di costituire eserciti composti solo da amanti e amati poiché questi si vergogneranno a dimostrarsi codardi gli uni davanti agli altri, combatteranno con valore e saranno pronti a sacrificarsi gli uni per gli altri (Simposio, 178e-179a). Platone fa dipendere dunque anche il valore militare dall’Eros e questo è quello di un adulto per un bel giovane, che lo contraccambierà grazie ai valori morali di saggezza imparati da lui. L’Eros, in senso di libido, viene risvegliato dalla bellezza del giovane e questo risveglia la “furia combattiva” negli Eroi (179b). Orfeo avrebbe fallito la sua missione e avrebbe perso l’amata poiché il suo non era vero amore, e l’allusione di Platone è che ogni amore per una donna non possa essere vero amore, e non era pronto a morire per lei, come invece gli Eroi greci che erano pronti a sacrificarsi per i fanciulli amati (179d). L’esempio seguente è quello di Achille che è pronto a sacrificarsi per Patroclo:
Achille, figlio di Tetide fu onorato (dagli dei) e mandato al posto che gli spettava nelle isole di Blesto, poiché pur avendo saputo da sua madre che sarebbe morto appena ucciso Ettore, ma se lo avesse risparmiato sarebbe ritornato a casa e finito i suoi giorni in vecchiaia, egli coraggiosamente scelse di andare e salvare il suo amante Patroclo, lo vendicò, e cercò la morte non solo per sè stesso ma per venire così riunito con colui che la morte aveva preso. Per questo gli dei lo ammirarono così altamente da dargli onori speciali, poiché aveva attribuito un così alto valore al suo amante (179e-180a).
Ma qui Platone ci rivela ancora qualcosa:
Eschilo dice sciocchezze quando riferisce che fosse Achille ad essere innamorato di Patroclo, poiché egli (Achille) superava in bellezza non soltanto Patroclo ma anche tutti gli altri eroi, essendo ancora imberbe, e inoltre molto più giovane, secondo il racconto stesso di Omero. Poiché, in verità, non esiste valore più ammirato dagli dei di quello che deriva dall’amore; tuttavia essi ammirano ancora di più e sono ancora più deliziati e benevolenti quando l’amato è attaccato da affetto al suo amante di quanto l’amante sia innamorato del suo favorito; poiché colui che ama, pieno comè dell’essenza del dio, supera il suo favorito in divinità (180a-b).
L’interpretazione platonica della saga omerica è particolarmente interessante poiché svolge davanti ai nostri occhi l’evoluzione che nel IV secolo vide trasfigurarsi la libido di un uomo (Patroclo) per un bel giovane (Achille), in amore spirituale e, quindi, divino del giovane verso l’uomo che era innamorato di lui. Per Eschilo la furia di Achille era ancora il prodotto della passione dell’eroe per Patroclo, mentre invece Platone invalida questa tesi e dice che il vero eroismo era quello di Achille proprio perché non era infatuato di Patroclo come questi lo era di lui, (e l’infatuazione libidinosa era sempre quella dell’adulto per il giovane imberbe), bensì nutriva per il proprio erastes (l’amante adulto nella coppia), un amore profondo e disinteressato indipendente dalla libidine. Questo secondo Platone è il vero amore. Abbiamo dei seri dubbi che Omero, nell’VIII secolo, interpretasse in maniera così soffusa e sofisticata la saga achea, ed è rivelante vedere come Platone conduca la libidine dalla sua natura concreta e passionale a livelli di astrazione nuovi.
Quindi, un amore ideale della bellezza, come questa viene personificata da un fanciullo, per il quale un guerriero greco è pronto a morire, si trasfigura in eroismo e bellezza dell’anima quando si distilla dalla componente libidinosa, che secondo Platone non può esistere nell’amante giovane verso il suo patrono, per tramutarsi in “furia eroica” di amore puro. Come i martiri cristiani saranno pronti a sacrificarsi per l’idea del bello apollineo trasfigurato in verità cristiana.
Afrodite, la dea dell’erotismo e dell’amore eterosessuale, viene trasfigurata nella filosofia platonica. Esistono ora due Afrodite, quella eterea, non nata da utero materno bensì figlia del Cielo, che chiama celestiale, e la più giovane, figlia di Zeus e di Dione che chiama quella popolare (180d). Su questa scia esistono due tipi di Eros, quello celestiale e quello popolare o terreno. L’Eros non è piu lodabile per sè, ma solo se induce ad un amore nobile (181a). L’amore indotto dalla Afrodite popolare opera a secondo del caso: questo è quello di uomini che amano donne o ragazzi indistintamente e il loro amore è un amore fisico e non spirituale. Inoltre la loro scelta è frutto del caso e l’oggetto della loro concupiscenza sono persone prive di saggezza, poiché essi mirano ad un determinato scopo senza curarsi se questo sia o no da considerarsi nobile (181b). La fonte di questo Eros è nella più giovane fra le due dee, di cui l’origine è nelle due componenti, quella maschile e quella femminile. Ma l’altro Eros deriva dalla dea celeste, la cui fonte non è nel femminile bensì solo nel maschile, e in secondo luogo è più anziana e purificata da qualsiasi lascivia. Coloro che che si ispirano a questo Eros lo dirigono verso il maschio, attirati dalla robusta natura di questi e dalla maggiore ampiezza mentale (181c). Persino nella passione per i fanciulli si può notare che coloro che provano questi sentimenti si innamorano solo quando diventano più maturi, e il loro diventa un amore eterno, indipendente dalle peripezie della vita (181d).
L’apologia dell’omosessualità diventa parallela a quella del carattere e dello spirito. Quattro secoli dopo, nel II secolo della nostra era, il concetto di un amore puro, staccato e distillato dalla sua componente libidinosa, penetra dalla cultura greca anche nell’ebraismo. Nella Mishnà, la legge orale, trascritta in questo periodo, leggiamo la frase seguente:
Ogni amore che dipende da una cosa, smette di esistere la cosa, finisce l’amore. Un amore che non dipende da qualcosa non finisce mai. Qual’è l’amore che dipende da una cosa? Quello di Amnon per Tamar (cfr.2,Sam 13), qual’è l’amore che non dipende da nessuna cosa (e quindi è eterno)? Quello di Davide per Gionata (Masechet Avot, 5.16).
La connotazione di amore eterno e disinteressato è non nella passione eterosessuale di Amnon per la sorella, bensì in quello “platonico” di Davide per l’amico.
Se, secondo la definizione di Freud, ogni amicizia  nasce come  una pulsione di natura omosessuale inibita nella meta, ecco che anche l’amore platonico ebraico, dopo quattro secoli da quando Platone aveva formulato il concetto, viene percepito come un amore omosessuale, al pari di quello greco. Anche qui, come nella menzione platonica di Orfeo (179d), l’amore vero viene dissociato da quello per una donna, esattamente come nel Simposio di Platone. Per gli ebrei non si creerà mai l’associazione amore = bellezza apollinea. La bellezza per questi rimarrà associata a quella del dio caprino, e da questa si svilupperà in spiritualità e idea dell’anima.
Di Davide era stato detto: “…era un ragazzo rossiccio di capelli e di bell’aspetto” (1,Sam.,17,42), ma il bell’aspetto di Davide è esattamente l’incontrario di quello di Apollo e la sua bellezza febica. Era legata al selvatico e al dionisiaco, non come nelle rappresentazioni figurate occidentali dove viene rappresentato come un giovane Apollo con la lira. La comprova è proprio che “era rossiccio di capelli”, admoni, come Esaù (Gn., 25,25), che era adom, rosso di capelli e di peli, soprannominato Edom, ed era la personificazione del selvaggio e dell’irruento. Se il Dioniso occidentale si era trasfigurato lentamente in Apollo, e la musica orgiastica del primo, nelle melodie del secondo, il dio-eroe ebreo è rosso di capelli, abbatte Golia con la fionda e saltava e danzava davanti al Signore (2,Sam.6,16). Malgrado, nell’elaborazione ebraica posteriore l’Eroe passi un processo di addolcimento e la sua fionda si trasfiguri in lira, come l’arco di Apollo si trasfigura in questo strumento musicale, Davide rimane una figura dionisiaca in tutte le sue membra.
Ritorniamo ora a Platone e ai suoi fanciulli imberbi.
Alla fine del V secolo bello e buono erano un’unica sintesi, come ci dimostra la frase ironica di Socrate accusato di corrompere i giovani: “Tutti gli Ateniesi dunque, a sentir te, li fanno buoni e belli; tutti all’infuori di me: ci sono solo io che li corrompo” (Apol., 25a). Nessuno poteva aver accusato Socrate di averli fatti brutti, ma solo malvagi, quindi l’equivalenza tra brutto e malvagio è implicata dalle sue parole. Socrate fu probabilmente il primo che concepì l’anima come sede della conoscenza e quindi della virtù:
non ti vergogni tu a darti pensiero delle ricchezze per ammassarne quante più puoi, e della fama e degli onori; e invece della intelligenza e della verità e della tua anima, perché ella diventi quanto è più possibile ottima, non ti dai affatto né pensiero, né cura? (Apol.,29e)
Intelligenza, verità e anima, come bontà e bellezza, appaiono in un’unica associazione.
Non solo dunque esiste un’anima, ma essa è completamente dissociata dal corpo: “non del corpo dovete avere cura, né delle ricchezze né di alcun’altra cosa prima e più dell’anima”(30b). Da dissociazione corpo e anima a farne due parametri morali antitetici la strada è breve, infatti: “io ho così grande speranza che morire sia un bene” (40c). “e anzi vedo manifestamente che per me ormai morire e liberarmi da ogni pena e fastidio era la cosa migliore”(41d). A questo punto sembra di sentire il Redentore: “per questo nessun rancore io ho con coloro che mi votarono contro, né coi miei accusatori” (41d).  Il processo di Socrate contiene delle rassomiglianze starordinarie con il processo di Gesù, come è presentato nel Vangelo.
Nel Fedone, l’immortalità dell’anima diventa una certezza filosofica.
Già Erodoto quando parlava del dio greco, senza specificare quale, intendeva automaticamente Apollo. Quando Creso deve spiegare a Ciro chi lo avesse indotto a muovere la sua disastrosa guerra ai Persiani risponde: “Il dio dei Greci”( Hist., I/ 87). Il dio delfico non solo già dall’inizio del V secolo era diventato il dio principale, ma diventa, un pò alla volta quasi l’unico dio. Socrate chiama a testimonianza della propria sapienza (quella di sapere di non sapere) il dio delfico (Apol., 20e) che è l’unico detentore della sapienza e della verità (23a). In tutta l’Apologia Socrate si riferisce ad Apollo come se fosse l’unico dio e il solo al quale deve rispondere delle sue azioni. Nel Critone, l’ultima frase di Socrate, prima di essere condotto a morte è: “questa è la via lungo la quale Dio ci conduce” (Crit., 54e): se non fossimo nel IV secolo, avremmo potuto supporre di essere già in pieno cristianesimo.
Platone trattò l’amore che nasce in seguito allo stimolo della bellezza visiva come un caso speciale di quella forza che spinge l’umanità a cercare la visione della “forma” o “idea” immutabile e eterna del “bello”. Con le parole del Dover:
È particolarmente importante il fatto che egli veda la filosofia non come un’attività da perseguirsi nell’isolamento della meditazione e comunicata dal maestro ai suoi discepoli attraverso lezioni ex cathedra, ma come un processo dialettico che può senz’altro cominciare dalla rispondenza da parte di un uomo adulto allo stimolo procurato da un giovane in cui la bellezza fisica si combina con quella dell’anima (ibidem, p.14).
La bellezza fisica, in questo stadio, si combina a quella dell’anima, ma siamo ad un passo a che la bellezza diventi una qualità dell’anima stessa abbandonando il corpo che ne era stato il veicolo. Se uniamo quello che ci racconta Platone di Socrate a quello che ci ha raccontato Senofonte di Epistene qualche decennio prima, abbiamo già davanti agli occhi la sintesi di quella che è stata la lunga strada di Apollo, da quando minacciava i novizi sotto le mura di Troia a un passo dall’apparizione del Salvatore.
Il greco, Epistene, era pronto a sacrificarsi per il proprio ideale di bellezza, che è lo stesso di anima, sapienza e verità di Socrate, come il romano sarà pronto a farlo per lo Stato, come il cristiano sarà pronto a immolarsi per la fede: tutti avevano in mente la stessa cosa, trasfigurata in epifanie diverse: l’ideale apollineo.
Platone nel Fedone, attraverso una costruzione filosofica, codifica l’antidionisismo.
Il corpo, unico strumento di conoscenza dell’esperienza immanente dionisiaca, non solo non è più tale, bensì impedisce la vera conoscenza: la conoscenza pura può essere ottenuta solo separando il corpo dall’anima e spetta solo a quest’ultima (Fed., 65a-d). Non solo, ma quella che era conoscenza assoluta e appartenente al dio caprino, in quanto Es indisturbato dalla presenza dell’Io inibitore, diventa, invece, conoscenza = bellezza = bontà-giustizia assoluta, solo in grazia della sua separazione dal corpo (65e-66e).
Platone inventa qui l’astrazione come strumento di rimozione dell’immanente.
Questo nuovo assoluto, dissociato completamente dal dionisiaco e proiettato in astrazione, diventa il regno indiscusso di Apollo. “La verità è purificazione” (Fed., 69b), purificazione dal corpo e dall’Es. Platone, per bocca di Socrate, nel Fedone, come aveva già cominciato a fare nell’Apologia, non parla più di dei, bensì di dio, il dio, e questi è sempre Apollo. Febo “il dio che purifica”. Che strano paradosso! I progenitori della civiltà greca avevano visto proprio nel corpo e nell’esplosione delle pulsioni dell’Es l’unico mezzo di purificazione.
Vediamo qui tutte le fasi di passaggio del processo passato dalla civiltà greca: sacralità del totem-capro-Dioniso, consustanzialità con Apollo, il dio educatore, scissione tra le due divinità in concetti antitetici, ascesa di Apollo a divinità dalla connotazione normativa positiva e parallelamente degradazione di Dioniso a un concetto normativo negativo, nuova equazione: Apollo = divino = bello = sapiente = verità= anima, ancora un piccolo passo e siamo già alla fede e alla figura del Cristo. L’anima verrà d’ora in poi associata alla bellezza di Apollo. È un nuovo elemento, antitetico alla sessualità sfrenata di Dioniso e dei suoi satiri.
Comincia così a delinearsi, per la prima volta, anche una connotazione normativa negativa della sessualità, poiché venendo associata a questo dio viene anche completamente dissociata da Apollo, la sua bellezza e la sua appena trovata “anima” .
Nasce qui, per la prima volta, il famigerato amore “platonico” come istanza antitetica ai sensi e alla sessualità, e viene così dissociato dal dio caprino e dato ad Apollo per volare in cielo insieme al suo carro solare. Il V secolo aveva generto l’associazione sole = Apollo. Il IV, l’associazione Apollo sole, unico vero dio, detentore dell’unica verità in quanto staccata dal corpo e l’azione depistante dei sensi, connotazione normativa morale, divina. Altri dei continueranno a muoversi sullo schermo della psiche occidentale, ma solo ad Apollo Platone attribuisce degli ideali. L’ecumenismo pan-ellenico dell’ellenismo vedrà salire questo dio solare sempre più in alto e spodestare tutti gli altri dei.
 

L’inizio della discesa

Nietzsche aveva capito, ma non aveva capito di aver capito. Vediamo dove lo aveva portato la sua intuizione:

Una questione fondamentale è il rapporto del greco col dolore, il suo grado di sensibilità.-questo rapporto rimase  uguale a se stesso? Oppure si capovolse? -- la questione se in realtà il suo desiderio sempre più forte di bellezza, di feste, di divertimenti, di culti nuovi non si sia sviluppato dalla mancanza, dalla privazione, dalla melanconia e dal dolore. Posto cioè che proprio questo fosse vero -- e Pericle (o Tucidide) ce lo lascia intendere nel grande discorso funebre -- da che cosa discenderebbe allora il desiderio opposto, che si manifestò cronoligicamente prima, il desiderio del brutto, la buona e dura volontà, di pessimismo nel greco antico, di mito tragico, dell’immagine di tutto il terribile, il malvagio l’enigmatico, il distruttivo e il fatale che si cela in fondo all’esistenza…Che cosa indica la sintesi di dio e capro nel satiro? Per quale esperienza interiore, obbedendo a quale impulso il greco dovè immaginare come satiro l’invasato uomo primordiale dionisiaco? E per quanto concerne l’origine del coro tragico: ci furono forse in quei secoli, in cui  il corpo greco fioriva e l’anima greca spumeggiave di vita, rapimenti endemici? Visioni e allucinazioni che si comunicavano a intere comunità, a intere adunanze cultuali (“Tentativo di Autocritica”, in La Nascita della Tragedia, op.cit., p.8).
Nietzsche non conosceva ancora gli studi fatti dagli antropologi a cavallo del secolo sul totemismo e i riti d’iniziazione tribale, ma aveva intuito perfettamente la nostalgia dei greci per i propri riti arcaici superati, il desiderio del brutto, che si manifestò cronologicamente prima, e il contenuto vitale e immanente del pasto totemico, la prima rappresentazione tragica dell’umanità . Nietzsche aveva intuito che il dio caprino e la sua “bruttezza” venivano prima, che questa era l’istanza autentica e non mediata e da lì era cominciato il lungo cammino verso la civiltà. Ci conferma quello che ci aveva raccontato Erodoto e dirà dopo di lui Freud: Apollo era venuto dopo Dioniso, come l’Io era venuto dopo l’Es, come il bello era venuto dopo il brutto.
Quello che Freud chiamerà: le pulsioni e il loro destino.
Nietzsche fa risalire l’inizio della decadenza greca già dall’epoca classica e le istituzioni democratiche, ovvero da quando i greci avevano rinunciato al senso tragico, come trovava la sua espressione ancora nella tragedia eschilea, per assestarsi in un equilibrio che rappresentava da un lato l’apice, dall’altro la fine del dionisiaco autentico e radicale. Il passaggio non era stato subitaneo. La metamorfosi era avvenuta nella rappresentazione stessa del coro dei capri, e probabilmente fu percepita quando Sileno, da dietro la sua maschera tragica aveva cominciato a ridere. Il satiro diviene lentamente satirico. Il pubblico quando se n’era accorto era già troppo tardi, e invece di piangere, stava già ridendo. Ascoltiamo quello che ha da dirci Nietzsche sulle prime pietre, sulle quali solo dopo è stato costruito il grande tempio di Apollo:
L’antica leggenda narra che il re Mida inseguì a lungo nella foresta il saggio Sileno, seguace di Dioniso, senza prenderlo. Quando quello gli cadde infine fra le mani, il re domandò quale fosse la cosa migliore e più desiderabile per l’uomo. Rigido e immobile, il demone tace; finchè costretto dal re, esce da ultimo fra stridule risa in queste parole: “Stirpe miserabile ed effimera, figlio del caso e della pena, perché mi costringi a dirti ciò che per te è vantaggiosissimo non sentire? Il meglio è per te assolutamente irragiungibile: non essere nato, non essere, essere niente. Ma la cosa in secondo luogo migliore per te è-morire presto” (La Nascita della Tragedia, op.cit., p.31).
La risata del Sileno non è ancora satirica, è orribile, è tragica. Questa era l’anima greca originale, che fu nascosta dalla sovrapposizione dell’arte apollinea. Apollo venne, dunque, per far dimenticare Dioniso e la sua tragicità autentica.  Tra i satiri dal pene in erezione delle dionisiache rurali e cittadine e il Sileno interrogato dal re Mida si apre un baratro molto più profondo che tra quello tra Sileno e il dio delfico al massimo del suo splendore.
 

Tragico e autentico

“E allora? Se i greci  ebbero proprio nella ricchezza della loro gioventù la volontà del tragico e furono pessimisti; se fu proprio la follia, per usare un’espressione di Platone, a portare sulla Grecia le sue benedizioni maggiori” .
La follia di Nietzsche (e di Platone) sarebbero dunque le energie originali, non mediate che trovano il loro sfogo nel pasto totemico e nell’orgia dionisiaca. Questa è l’anima autentica del greco. A queste energie che scaturiscono dal profondo attribuisce il merito della creatività greca. E invero le energie che provengono dalla libido dell’Es, essendo questa la provincia psichica primaria, sono quelle che danno la spinta ascensionale, che Freud ha definito Eros, che è all’origine della vita e la mantiene. Dal momento che l’Io è un’organizzzazione che si sviluppa posteriormente, come risultato dell’evoluzione (p.13) e cerca di porsi in contrasto alla libido dell’Es, meno l’individuo è sviluppato e  più queste energie originarie sono fresche e vitali.
Ma abbiamo imparato anche che nell’Es appare un impasto della libido con la pulsione di morte: sadismo-distruzione-autodistruzione. Ne deriva che ogni vitalità sfrenata contiene anche una carica non indifferente del bisogno di uccidere e di morire.
Se l’Eros è fresco e vitale, in concomitanza lo sarà anche questo impasto con la pulsione di morte. Ed ecco che si spiega la tragicità nitzschiana. Infatti questa è esattamente l’incontrario del pessimismo decadente, “romantico”, ai tempi di Nietzsche. È il pessimismo di chi, a contatto con le forze spumeggianti della vita, entra anche automaticamente in contatto con la realtà esistenziale della pulsione di morte. È la vita vera: la presa di contatto con la morte attraverso il veicolo dell’Eros e non come conseguenza dell’indebolimento di questo. In vecchiaia la morte soppraggiungerà quando la pulsione di morte avrà il sopravvento su di un Eros ormai esaurito, ma quando la vita “spumeggia” il contatto avviene come parte della miscela vitale. È l’altro polo del pessimismo nichilista che è il prodotto della stanchezza e della vecchiaia. Solo così ci diventano chiare le parole del saggio Sileno, il capo dei satiri, al re Mida: per lui la morte non è quella che viene con la stanchezza e la vecchiaia ma quella che si trova in un unico impasto con l’Eros. Ecco il desiderare la morte come il massimo dei beni, e a cosa se non alla parola desiderio si associa di più la parola Eros?
Quale baratro tra questo desiderio di morte, come estrema e paradossale espressione dell’Eros, e quella desiderata da Socrate per poter liberarsi dell’Eros stesso!
Quando Nietzsche dice che prima di Platone, “obbedendo a quale impulso il greco dovè immaginare come satiro l’invasato uomo dionisiaco?” La risposta è quella che abbiamo dato. Il satiro invasato, trasfigurazione dell’orgia primordiale in cui tutte le forze dell’Es erano scoppiate in un Super-orgasmo, è la personificazione dell’avvenimento originale, che più autentico di questo non potrebbe esserci.
Freud aveva chiamato il pasto totemico, che ricalca l’orgia parricida primordiale, la prima rappresentazione tragica dell’umanità, ma non vide che l’elemento tragico non è presente solo nella rappresentazione dell’evento primordiale in cui si fuse lo sfogo ininibito di tutte le pulsioni in quello che costituiranno appunto tutte le componenti della tragedia, ovvero la pulsione che non può se non uscire di controllo e perpetrare il fato, bensì anche nell’inevitabilità che con l’espressione ininibita delle pulsioni dell’Es emerga insieme all’Eros anche la pulsione di morte. L’impasto pulsionale stesso, che fa parte della realtà esistenziale, costituisce per se una tragedia, se così si può chiamare l’inevitabilità dell’essenza umana.
Nietzsche nulla sapeva della pulsione di morte di Freud, e quindi la sua intuizione folgorante rimase nebulosa. Insisteva sull’associazione vitalità-senso tragico, perché sapeva che è così, sapeva anche che quando i greci persero parti della loro vitalità “spumeggiante” persero anche il senso tragico. Oggi noi abbiamo capito: evolvendosi avevano anche emarginato al rimosso parti vitali di quella provincia psichica che Freud ha chiamato Es. Cancellarono un’intera regione dalla mappa topografica. Relegarono alle cantine sotterranee dell’inconscio non solo l’orgia primordiale e dopo il pasto totemico, ma anche la capacità di lasciare emergere alla coscienza quell’impasto pulsionale Eros-pulsione di morte che riempiva la loro anima di senso tragico.
Quando Nietzsche si chiede: “ci furono forse in quei secoli, in cui il corpo greco fioriva e  l’anima greca spumeggiava di vita, rapimenti endemici? Visioni e allucinazioni che si comunicavano a intere comunità, a intere adunanze cultuali?”, la risposta è si. Dopo relegarono tutto ai sotterranei blindati, e con Socrate e Platone buttarono definitivamente in mare anche la chiave.
Ai giorni nostri il distacco è diventato così assoluto che ogni immersione nell’Es e liberazione dalle briglie dell’Io viene catalogata come allucinazione psicotica. Con la nascita della civilizzazione nacque, così, anche la malattia mentale.
Nietzsche non conosceva Freud, ma Freud avrebbe dovuto conoscere Nietzsche. Freud aveva riscoperto l’orda primordiale, il pasto totemico e l’impasto Eros-pulsione di morte. Se non si fosse astenuto da Nietzsche sarebbe riuscito ad articolare le sue scoperte in un tutto più organico, come ci pare di essere riusciti a fare noi. Nietzsche aveva intuito anche un altro punto: che sublimando le proprie pulsioni e canalizzandole attraverso gli insegnamenti di Apollo era andata persa l’intensità originale delle emozioni, la loro autenticità:

e se, d’altra parte e inversamente, proprio ai tempi della loro dissoluzione e debolezza, i Greci si fecero sempre più ottimisti, superficiali istrionici, e anche più smaniosi per la  logica e la logizzizazione del mondo, cioè a un tempo più “più sereni” e “più scientifici”, non potrebbe essere forse la vittoria dell’ottimismo, il predomininio della razionalità, l’utilitarismo pratico e retorico, come la democrazia stessa, di cui esso è contemporaneo- un sintomo di forza declinante, di vecchiaia approsimantesi? (ibidem).
Il desiderio di autenticità porterà Nietzsche a ispirarsi al dio nella sua ricerca di una formula che restituisca l’umanità alle radici della propria essenza, là dove solo si può ritrovare se stessi e conoscere la verità della sintesi gioia-tragicità. La conoscenza dionisiaca, in chiave nietzscheana, è anche l’unica forma di conoscenza auspicabile, poiché, estraneatosi dalla propria realtà esistenziale, l’uomo occidentale sarà destinato alla decadenza. Infatti guardandosi indietro aveva visto che nel processo di civilizzazione non tutte le energie di Dioniso erano state sublimate in arte e avevano prodotto l’ebbrezza di Apollo. Una parte non indifferente era andata persa per strada, invece che sublimata era stata rimossa, e queste energie erano andate consumandosi nel mantenere la rimozione attraverso la razionalizzazione.
La smania per la logica e la logizzizazione del mondo erano infatti non solo la conseguenza della rimozione ma anche il mezzo per mantenere, attraverso la razionalizzazione, il distacco da quelli strati della psiche che erano stati rimossi. In questo caso al posto dell’arte, prodotto sublime della canalizzazione delle energie, la civiltà aveva ricevuto invece una ben misera cosa, la filosofia.
Socrate associava ancora la sua filosofia alla musica (Fed.,61a) ma il legame era ormai diventato molto flebile, solo una traccia mnestica di quello che era stata una volta la musica. La società apollinea aveva infatti tentato di arruolare la musica all’immagine del dio delfico, e a questì attribuì la lira, ma questo era stato all’inizio un atto di violenza perpetrato sul corpo peloso del dio caprino. Le Baccanali, infatti, entravano in orgasma danzando al suono del flauto e del tympanon (kettledrum), gli strumenti musicali più antichi,
Per gli ebrei la musica rimase associata al capro.
La Bibbia ci racconta che il padre della musica era stato Jubal (Gn.4,21), che in ebraico significa ariete; Keren Haiubel è il corno dell’acclamazione, lo Shofar, il corno d'ariete che gli Ebrei suonano nelle sinagoghe nelle ricorrenze più importanti. il Giubileo, Iubel, è il corno del capro al suono del quale avverrà la redenzione.
Chi quest’anno (2000) accorre a Roma o a Gerusalemme per festeggiare il Giubileo, sappia almeno che va a festeggiare la grande festa del capro, accompagnata dai suoni rauchi del corno di ariete.
Il re Davide, che nelle rappresentazioni d’arte occidentale viene rappresentato come un giovane Apollo, che canta accompagnandosi alla lira, era invece ben lungi dall’essere tale. La Bibbia ci racconta che “Davide danzava con tutte le forze dinnanzi al Signore…Mentre l’arca del Signore entrava nella città di David, Mikal, figlia di Saul, guardò dalla finestra; vedendo il re Davide che saltava e danzava dinanzi al Signore, lo disprezzò in cuor suo” (2 Sam.,6,14-16).
Danzava con tutte le sue forze…saltava e danzava, e in maniera così sregolata da suscitare il disprezzo della moglie, ovvero la musica per gli antichi ebrei rimase associata alla scarica motoria e alla danza, e il Signore veniva festeggiato come Dioniso veniva festeggiato dalle Baccanali. Infatti il dio ebraico rimase un dio caprino
Per i greci invece la musica, la più primaria delle espressioni umane, fu dissociata dal dio caprino e attribuita al dio delfico. Così diventò arte, e ai tempi di Platone, invece di accompagnare la scarica orgiastica, accompagnò il torpore della filosofia.
La musica platonica è già completamente associata all’ordine morale apollineo: Giustizia  =  musica;  ingiusto =  non musicale (Fed., 105d).
Più le energie venivano deviate da Dioniso verso Apollo e più perdevano di intensità e la musica da ruggito diventava melodia. Con la vittoria della filosofia venne degradata a suoni di accompagnamento alle speculazione filosofiche che erano sempre meno vere e sempre più belle. Nel Simposio, dopo che Agaton termina il suo discorso, Socrate lo loda e dice: “La bellezza delle tue parole e delle tue frasi non poteva che toglierci il respiro” (198b).
Non l’acume, non la sottigliezza, non la perspicacia, bensì la bellezza.
Ora possiamo capire anche un’altra leggenda greca: Apollo punisce il satiro Marsia, scorticandolo, poiché si vanta di suonare il flauto meglio del dio, e punisce il re Mida, attaccandogli delle orecchie da asino, poiché si rifiutava di riconoscere la superiorità del dio delfico nella musica a quella dei Sileni e del dio Pan . Il re Mida è quello stesso che aveva rincorso il Sileno per chiedergi qual’è la verità, la sapienza. Voleva sapere dunque qual’ è la conoscenza dionisiaca, quella immanente. Disdegnava l’oracolo di Apollo per quello di Dioniso. Per lui la musica, quella vera, rimase quella del dio Pan e dei Sileni, si rifiutò di piegarsi alla mistificazione di Apollo, e quindi fu punito dal dio. Anche la natura del castigo che Apollo infligge al satiro Marsia ci dice qualche cosa: lo scortica, ovvero gli toglie la pelle.
Nei riti tribali totemici i partecipanti indossano la pelle dell’animale-totem con il quale si identificano. Il satiro rappresenta la condensazione dell’animale con il partecipante al rito. Apollo lo scortica, ovvero lo depriva della sua identificazione con il capro, Dioniso, e tutto questo nel contesto del vanto del satiro di suonare meglio del dio delfico. Il castigo inflitto al re Mida non è di molto diverso: “vuoi continuare ad identificarti con il capro, ebbene invece della pelle di questo ti attacco delle orecchie d’asino”
 Gli animali, da cui viene l’uomo, non conoscono sublimazione ed ebbrezza, la loro scarica avviene solo attraverso il potenziamento delle possibilità dell’Es. L’Io o non esiste affatto o è rimasto atrofizzato dopo i primi accenni di sviluppo.
Il cristianesimo chiamerà il capro, il diavolo, la Bestia.
All’intuizione di Nietzsche, che allontanandosi da Dioniso fosse andata persa una buona parte di autenticità, corrisponde la conclusione di Freud:  “Sensazioni che per i nostri progenitori erano dense di piacere sono diventate per noi indifferenti o addirittura intollerabili”(“Lettera ad Einstein”, in op.cit., vol.XI, p.628). E questo lo scrive ad Einstein, che gli aveva chiesto cosa si può fare per evitare quella guerra che entrambi sapevano si stava avvicinando in maniera inesorabile. La rinuncia imposta dalla civiltà ai piaceri primordiali stava per esplodere in un’orgia d’impasto pulsionale Eros-pulsione di morte, in un’ancora più triste ripetizione dell’esplosione della pentola chiusa ermeticamente dell’Es e le sue pulsioni all’inizio della pre-istoria umana.
Nietzsche si rifiuta di prendere in considerazione che nessuna società può mantenersi sulla base dello sfogo pulsionale dionisiaco. Le pulsioni dell’Es, senza la canalizzazione e la sublimazione dell’Io rischiano di minare la stabilità di qualsiasi struttura sociale, e di far crollare il tempio di Apollo che vi è stato costruito sopra. Freud aveva avuto il sospetto che la felicità dell’uomo fosse minata dai suoi stessi sforzi per ottenerla. Qualche anno prima della sua lettera ad Einstein aveva detto:
La civiltà umana poggia su due pilastri, di cui uno è il controllo delle forze della natura, l’altro è la limitazione delle nostre pulsioni. Il trono della regina è retto da schiavi in catene… Le esigenze pulsionali insoddisfatte fanno sì che egli avverta con un senso di oppressione costante le pretese della civiltà ( “Resistenze alla Psicoanalisi”, in op.cit., vol.X, p.55).
E ora ci è più chiara anche la frase che abbiamo riportato sopra (p.6): “Trattenere l’aggressività e comunque malsano, porta alla malattia”, e così dicendo non ci aveva altro che confermato la saggezza biblica: “Un’attesa troppo prolungata fa male al cuore, un desiderio soddisfatto è albero di vita” (Prov.13,12).
Ma non porta forse alla malattia anche il predominio assoluto delle forze dell’Es? Non ci ha insegnato forse lui stesso che il ritiro delle energie dalla sfera dell’Io e la regressione a una psiche dominata esclusivamente dalle pulsioni dell’Es porti alla perdita del principio di realtà, all’allucinazione e alla psicosi?
Quelle culture che si sono organizzate sotto il dominio della Legge del Padre e della tradizione sono difese da questo rischio, poiché ricevere su di sè una legge indiscussa, la coesione del gruppo e le sue regole, preclude anche una regressione al caos. I riti iniziatici tribali, e dopo la Legge, fungono da sbarramento alla tentazione dell’Es di disarcionare l’Io. Ma una società come quella occidentale, una volta superate le costrizioni della trascendentalità della Legge, superato il rito tribale, e messasi in condizione di poter scegliere, era sempre in pericolo.
Platone questo lo aveva capito.
Così si spiega da una parte la sua lucidità nel capire che  fu proprio la follia a portare sulla Grecia le sue benedizioni maggiori (p.30), dall’altra la sua determinazione a impedire qualsiasi manifestazione del dionisiaco al punto da codificare una Repubblica ideale sotto l’insegna della repressione e della censura (Rep.,378-380). Per Platone la soluzione apollinea e la rimozione del dionisiaco erano l’unica strada per bloccare ogni regressione che avrebbe minato la società, e la filosofia fu lo strumento per portare a termine questo scopo. Questo spiega le acrobazie dialettiche nelle quali si spinge pur di arrivare alla meta. I paradigmi che costruisce nel Fedone per provare la superiorità dell’anima e la sua immortalità sono la prova che la meta esisteva prima, e la catena dialettica è solo il mezzo per arrivarvi a tutti i costi.
Ma la sua catena di sillogismi è molto bella. La bellezza del dialogo è lo scopo, non la sua attendibilità. Usa la bellezza come velo per nascondere la verità, che come abbiamo visto prima era dionisiaca, quindi brutta, e rischiava di minare la stabilità sociale così cara a Platone.
Da qui anche il legame tra bellezza, verità e filosofia.
Platone sapeva che la follia, il dionisiaco, sono molto più veri, nell’unico senso possibile, ovvero autentici, ma doveva trovare a tutti i costi una verità alternativa che facesse da strumento prima, e da legittimazione dopo, per l’ordine sociale.
Vuole fare il bene dell’umanità a spese della verità dell’immanenza esistenziale.
 
 
 

                                                       CAPITOLO  TERZO
 
 

                                                        DOPO  IL  CAPRO
 

Homo politicus

Come abbiamo visto nei capitoli precedenti, nella prima metà del primo millennio a.C. i  due dei si erano contesi il primato e la società fu fecondata, e poté arrivare agli apici della sua creatività per merito della tensione onnipresente fra queste due divinità. Con l’inizio del quinto secolo A.C. cominciò a delinearsi una preferenza per la soluzione apollinea e si innescò un processo di repressione e rimozione delle pulsioni dionisiache, che portarono al primato di Apollo, come unico detentore della “verità” greca. Come culmine della grande vittoria di Apollo ci vengono presentate in arte le grandi opere di scultura e di architettura della Grecità classica. In questo stadio non si può ancora parlare di rimozione completa del dionisiaco, bensì solo di canalizzazione poiché le grandi opere d’arte della Grecia classica erano state la sublime fusione di energie dionisiache nel medium espressivo apollineo. Apollo aveva imbrigliato Dioniso e lo aveva sottomesso al suo servizio. Nella vita sociale l’espressione della vittoria di Apollo fu la costituzione della Polis con le sue istituzioni urbane e democratiche. E invero Nietzsche aveva intuito il nesso tra la divergenza dal dionisiaco e le nuove istituzioni politiche greche:

non potrebbe essere forse la vittoria dell’ottimismo, il predominio della razionalità, l’utilitarismo pratico e teorico, come la democrazia stessa, di cui esso è contemporaneo -- un sintomo di forza declinante, di vecchiaia approsimantesi, di affaticamento fisiologico, a dispetto di tutte le “idee moderne” e di tutti i pregiudizi del gusto democratico? (“Tentativo di autocritica”, in La Nascita della Tragedia, op.cit., par. 4).
Il fenomeno della cultura greca, che d’ora in poi chiameremo apollinea, infatti, non è limitato alle espressioni di arte plastica. Il mondo, o meglio il modus, apollineo è una struttura mentale, la cui espressione sociale è antitetica a quella tribale, e intorno alla quale viene organizzata, non solo l’espressività artistica, ma anche tutta la vita sociale e politica dei greci. Se le pulsioni dionisiache rappresentano un mondo barbaro e titanico, dove queste pulsioni possono venire dominate solo dalla repressione e la rimozione, la soluzione apollinea è la canalizzazione di queste pulsioni e il loro incivilimento attraverso la sublimazione dell’arte plastica. La tragedia eschilea, che era stata il prodotto sublime della fusione tra il dionisiaco e l’apollineo, è anche l’apice dell’espressione dionisiaca. L’arte, sotto l’occhio vigile di Apollo, non uscirà mai più di controllo. Le esuberanti energie dionisiache o furono rimosse e represse, con le uniche trasgressioni lecite delle orge e i baccanali, che facevano da valvola di sfogo, i quali avvenivano però solo in determinate occasioni, o furono canalizzate al servizio dell’espressione figurativa plastica e, in questa loro subordinazione all’apollineo, trovarono la propria sublimazione .
Come abbiamo visto questa prevalenza dell’apollineo non fu limitata all’arte. Si svolse parallelamente una scelta esistenziale, il cui contenuto fu il superamento dei legami di sangue e della fedeltà tribale, in favore di un’organizzazione sociale e mentale più ampia.
Una società tribale è legata alla Legge del Padre. I capi vengono scelti sulla base dei legami di sangue e questi sono anche l’unica base degli interessi comuni. Il senso di colpa verso il padre cementa l’unione dei fratelli ed è un blocco che inibisce qualsiasi ulteriore sviluppo sociale. I greci, riuscendo a superare questo blocco mentale, sgombrarono la strada verso una miriade di possibilità diverse, che invece rimasero precluse ai loro vicini orientali. Liberi dai legami di una fedeltà “a priori”, i greci poterono compiere delle scelte, organizzarsi in gruppi indipendenti dal legame familiare, e formare i primi partiti politici. Così nacque la politica. La Polis prese il posto della tribù, e le lotte tra i diversi partiti politici il posto delle faide tra i clan. Questo sviluppo permise la nascita della democrazia , mentre il superamento del rito tribale permise, e come abbiamo visto sopra persino rese necessaria, la nascita della filosofia e della metafisica.
L’Occhio di Apollo accompagnerà d’ora in poi i greci anche al di là della loro particolarità nazionale e il dio divenne il simbolo della cultura greca quando, in epoca ellenista, questa si trasformò in ecumenica. Vediamo quindi che, mentre Dioniso rimase il dio della tribalità greca preapollinea, delle orge e dei lutti, della sofferenza e della resurrezione, Apollo, dio del sole, rappresenterà il comun denominatore dell’ecumene panellenica: il culto della bellezza ideale e dell’arte figurativa plastica. Inoltre, dal momento che il sole rappresenta le aspirazioni universaliste,  in contrasto a quelle settariali e monolatriche, poiché illumina tutto il mondo e con il suo occhio tutto vede, sarà anche il simbolo di un dio, comune a tutta l’ecumene pan-ellenica, quando questa verrà percepita come soluzione culturale cosmica.
Il processo di graduale distacco da fedeltà tribale a civilizzazione probabilmente era stato innescato quando le tribù doriche si erano stanziate nei territori della Grecia continentale e del Peloponneso e, smesso di essere semi-nomadi, avevano parzialmente abbandonato la pastorizia per dedicarsi all’agricoltura, un processo che incoraggia a staccarsi dalla fedeltà al clan per spostare l’epicentro alla lealtà reciproca che lega tutti gli abitanti dello stesso villaggio sotto il tetto degli interessi comuni.
 

Vergogna e colpa

Il Dodds ha percepito questa metamorfosi mentale che avvenne gradualmente nella psiche greca e ha definito lo stadio arcaico, che noi abbiamo chiamato pre-apollineo, come “civiltà di vergogna” da come questa emerge nelle saghe degli Eroi descritti da Omero . Infatti, come riferisce l’autore, la maggior preoccupazione degli eroi achei era la propria immagine difronte alla comunità, e il sentimento che provavano, quando fallivano in qualche impresa o quando venivano scoperti mentre compivano qualche atto infame, non era il senso di colpa ma la vergogna di essere considerati indegni dai propri compagni.
La società omerica, che più che civiltà definiremmo cultura, proprio perché i legami che la vincolavano erano ancora quelli della coesione del gruppo, rispecchia un modus mentale sociale dove i legami di sangue e di clan sono ancora fortissimi e non erano stati ancora sostituiti da un nuovo tipo di lealtà verso lo Stato.
Gli eroi greci si chiamano ancora con il nome del padre: Achille è il pelide, Agamennone e Menelao gli atridi, ecc. Persino Apollo stesso nel primo libro dell’Iliade è designato con il suo patronimico: il figlio di Zeus e di Leto. Nel quinto secolo non vi è quasi più traccia di questi patronimici e i compagni di Socrate vengono denominati ognuno con il suo nome personale.
La società omerica è quella del gruppo. Agamennone, il duce, è solo il primo tra i pari e risucchia la sua autorità dal patto di sangue tra le tribù achee, un patto tra i fratelli. Quando questi offende Achille, l’eroe non si sente più vincolato da nessun tipo di fedeltà trascendentale e lo insulta liberamente senza che questo venga considerato atto di lesa maestà. In tutto il poema omerico non viene menzionata la patria; questo concetto non esisteva ancora. Come abbiamo visto, nel V secolo le cose cambieranno, e la fedeltà del singolo verrà trasferita definitivamente dai legami di sangue a quello verso le istituzioni cittadine. Solo dopo il passaggio a questo stadio noi definiremo la cultura greca: civiltà. Il punto di rottura e il passaggio a quella che l’autore definisce “una civiltà di colpa”, e che noi d’ora in poi chiameremo invece una società apollinea, poiché questa definizione sintetizza meglio gli aspetti peculiari a questo tipo di organizzazione, pare essere avvenuto nel VI secolo, e la sua manifestazione esterna la legislazione di Solone. Con le parole del Dodds:

La famiglia era la chiave di volta della struttura sociale arcaica, la prima unità organizzata, il primo feudo del diritto. La sua organizzazione, come presso tutte le società indoeuropee, era patriarcale (solo indouropee?). Il capo della famiglia era il suo re[…]Verso il padre un figlio aveva doveri, ma nessun diritto; vivo il padre, era un eterno minorenne-condizione che durò in Atene sino al VI secolo, quando Solone stabilì qualche salvaguardia[…]si ritiene che il sistema abbia funzionato, finchè l’antico senso di solidarietà familiare rimase intatto[…]ma con il rilassamento dei vincoli familiari, quando l’individuo cominciò a rivendicare in misura sempre maggiore i suoi diritti e le sue responsabilità personali, dovevano sorgere quelle tensioni interne che da tanto tempo caratterizzano la vita familiare nelle società occidentali. Dall’intervento legislativo di Solone possiamo dedurre che queste tendenze si fossero manifestate apertamente nel VI secolo ( Ibidem, pp.65-6.)


Il rilassamento dei vincoli familiari” avrebbe provocato il senso di colpa, che sarà, d’ora in poi, la caratterizzazione della struttura sociale occidentale. Allentati i vincoli familiari, ma sarebbe meglio dire i legami del clan, ovvero della famiglia in senso largo e traslato, la vergogna diventa secondaria poiché il singolo dipende di meno, per la propria autostima e per la sua stessa autosopravvivenza , dall’opinione che hanno di lui gli altri membri del gruppo.
Secondo noi il senso di colpa, peculiare del complesso di Edipo della famiglia monogoma occidentale non è causato dal rilassamento dei vincoli familiari per sè, come sostiene il Dodds, bensì dalle sue conseguenze. Rilassati i legami di sangue che legano i membri del clan tra di loro ed abbandonati i riti tribali che rappresentano la coesione sociale nelle società arcaiche, il senso di colpa rimane senza una soluzione ed emerge  in tutta la sua inquietà perturbante . I riti tribali, che cementano la coesione del gruppo e attraverso i quali i singoli membri diventano un unico corpo , un insieme di auto-identità e approvazione reciproca, risolvono il senso di colpa ed evitano la nevrosi, che scoppia sempre solo quando vi sia una divergenza tra le esigenze del singolo e quelle della collettività. La nevrosi diventa così un fenomeno legato alla civiltà e alle pesanti esigenze che impone al singolo, senza più dargli, privatolo del rito tribale, i mezzi per risolvere i conflitti prodotti dall’ambivalenza pulsionale.
Il processo di rilassamento dei vincoli che legavano il singolo al clan e il passaggio della fedeltà alla polis era ormai già completato nel 399 a.C. data del famoso processo di Socrate, poiché così apostrofa il maestro uno dei suoi discepoli:

Con tutta la tua sapienza non ti rendi conto che la patria è più preziosa sia della madre che del padre e di tutti  i tuoi antenati, e più sacra , più venerabile, più degna di considerazione da parte degli dei e degli uomini assennati; e che le si deve obbedire e servirla anche nelle sue ire, più che un padre? E che l’alternativa è fra persuaderla o eseguire i suoi ordini, soffrendo in silenzio se ci impone di soffrire, si tratti di essere battuti o imprigionati, o anche di essere feriti o uccisi se ci manda in guerra[...]se è empietà usar violenza contro il padre e la madre, tanto più lo sarà contro la patria” (Critone 51/ b-c).
Come abbiamo già visto sopra trattando dei parametri estetici, anche in questo contesto, ai tempi di Socrate la società greca aveva completato la sua metamorfosi: la Patria aveva preso il posto della tribù e la fedeltà allo Stato il posto dei legami di sangue e persino le veci del padre e della madre: da società tribale si era trasfigurata a polis, società apollinea. Come appare chiaro dalle parole di Socrate, quelli che erano forti legami di patto di sangue tra i membri del clan, si trasfigurano in doveri di fedeltà alla Patria. In questo processo il legame affettivo perde di intensità, poiché da concreto si proietta in astrazione, e l’intensa vergogna che provava il greco difronte alla tribù dei fratelli se commetteva un atto indegno dell’onore del gruppo, si trasfonde in un soffuso senso di colpa se trasgredisce quelli che sono i parametri morali di un’entità astratta ed estraneata.
Le parole di Socrate esortano i suoi discepoli a trattare l’idea astratta di Patria come nei tempi antichi venivano trattate istanze molto più concrete: il padre, la madre e gli antenati. Ma mentre una società tribale non avrebbe avuto bisogno di esortazione alcuna per avvicinarsi con sacro terrore ai riti del clan e i suoi tabù, la società apollinea ha bisogno di essere sollecitata continuamente al rispetto delle sue istituzioni, poiché la morale del singolo non corrisponde più automaticamente a quella della collettività.
 

 Dalle mura di Troia al regno dei cieli

Come abbiamo visto sopra Febo avesse terrorizzato gli Achei sotto le mura di Troia, come lo stregone e la generazione degli adulti fanno con i novizi durante i riti d’iniziazione puberale. Degna di menzione è anche la causa, addotta da Omero, che avrebbe scatenato l’ira del dio: un insulto al proprio sacerdote Criso che era venuto a supplicare la liberazione della figlia, ovvero l’insulto al vecchio sacerdote, simbolo della figura paterna, e il rapimento della donna, simbolo dell’incesto.
Questi sono esattamente i due rimproveri che vengono mossi ai giovani novizi durante i riti puberali e la causa addotta per i maltrattamenti che devono subire .
Subito dopo la conciliazione con il sacerdote verrà data via libera alla conquista di Troia. La riconciliazione tra la generazione dei giovani e quella degli adulti è infatti lo scopo finale di tutto il rito iniziatico puberale.
Appena la cerimonia viene portata a compimento è permesso al giovane, e in alcune tribù è persino obbligatorio, avere un rapporto eterosessuale. E infatti la presa di Troia e della donna entro le sue mura, attraverso il simbolo fallico del cavallo e del coito degli eroi che irrompono da esso è la rappresentazione simbolica di questo rapporto consumato. Da questo dio minaccioso si trasfigurerà l’immagine del dio delfico che insegna e propone gli enigmi, la figura degli adulti che minacciavano di morte i giovani si evolve a simbolo di ogni insegnamento e saggezza, e questa corrisponde all’idea di verità.
Ma c’è anche un altro aspetto di Apollo: quello che emerge dal canto di Ovidio. Qui un giovane dio sconfigge con il suo arco e le sue frecce il Pitone, emerso dalla madre terra dopo il Diluvio (Metam., I, 435-445). Qui il dio non è più l’iniziatore, bensì il giovane novizio che perpetra l’atto eroico. Questa istantanea è già la rappresentazione dell’identificazione dei giovani con la generazione degli adulti: iniziatore e iniziato si condensano in un’unica immagine.
Come abbiamo visto sopra, a complemento dei riti deve avvenire l’atto eterosessuale. E infatti Ovidio ci descrive, in un’unica catena associativa, l’atto eroico, la gloria dei giochi pitici, l’alloro e l’infatuazione per Dafne, figlia di Peneo. Ma qui viene introdotta una nota dissonante: mentre nei riti della pubertà l’atto eterosessuale viene sempre consumato a coronamento della cerimonia d’iniziazione, nella rappresentazione di Ovidio Dafne, l’amata, viene inseguita ma non raggiunta, e si trasforma in albero sotto lo sguardo supplicante del giovane dio. Il mito apollineo, a differenza del mito omerico che ci presentava un’istantanea distillata e camuffata del crudo rito tribale, introduce la prima nota di quello che diventerà, con il crollo del mondo antico, un ritornello conosciuto: l’astinenza come modello.
Apollo è fratello di Artemide, la dea vergine dall’arco e le frecce, e per questa rappresentano lo strumento apotropaico che difende la sua verginità. Questa parentela non può essere completamente priva di significato. La dea è, dunque, il parallelo femminile del fratello. Come Apollo è sempre circondato da giovinetti da iniziare e sarà il loro protettore, così Artemide è la dea delle giovani vergini che la seguono dovunque. Se Apollo insegna ai giovani maschi l’arte di diventare uomini e conquistarsi le fanciulle, la sorella insegna allo stuolo delle sue seguaci come fuggire e come difendersi dalle bramosie maschili. A un’iniziazione maschile che si traduce in virilità, corrisponde, così, un’iniziazione femminile che si traduce in verginità.
Ma come abbiamo visto il dio, dopo molti secoli da quando era apparso per la prima volta sotto le mura di Troia, viene frustrato nel tentativo di avvicinarsi alla donna. La saggezza di Apollo, alle soglie della crisi che colpirà il mondo occidentale si traduce, attraverso l’allusione di questo aspetto del mito, in astinenza. A differenza della “saggezza” delle antiche tribù greche, quella di una società che da tempo aveva passato la metamorfosi da società arcaica, “di vergogna”, per adoperare un’espressione del Dodds, a quella di  “colpa” della Polis greca, il canto di Ovidio allude alla frustrazione di Apollo come a un modello da seguire; bellezza e verità si associano così ad astinenza-verginità.
Raccogliendo tutti gli elementi che sono emersi dai capitoli precedenti possiamo ora ricostruire la formula, che in un’evoluzione di più di un millennio rappresenta la sintesi dello sviluppo di tutta la cultura occidentale: sacralità del totem-capro-Dioniso, consustanzialità con Apollo -- il dio educatore -- scissione tra le due divinità in concetti antitetici, ascesa di Apollo a divinità dalla connotazione normativa positiva e parallelamente degradazione di Dioniso a un concetto normativo negativo, Apollo = divino = bellezza = amore = sapienza = anima, Apollo = astinenza.
Siamo appena ad un solo passo dalla sintesi che opererà il cristianesimo: Apollo = bellezza = Sapienza = anima = astinenza = fede = Cristo = Paradiso: l’amore cristiano  guarderà dalle sue proiettate altezze nel regno dei cieli con disgusto l’amore sensuale, sessuale e sfrenato di Dioniso e lo condannerà all’inferno.
 Il sentimento mistico di unità (p.2) dell’orgia pulsionale di Dioniso, l’apologia dell’Es, era stata una comunione concreta con il capro ucciso. Questa comunione-identificazione poteva essere raggiunta solo ritirando qualsiasi investimento dall’Io, che è la provincia psichica dove avviene la differenzazione tra mondo esterno ed interno (p.12), per potenziare al massimo tutte le energie in uno scoppio che sfoghi ed annulli qualsiasi tensione: questo è anche l’apice, dopo di esso il nulla. Eros e pulsione di morte si fondono in un unico impasto che sintetizza il tutto (intenzionalmente abbiamo evitato il termine “che rappresenta” poiché la rappresentazione fa solo parte della sfera dell’Io e di Apollo). Qui ci diventano chiare le parole di Nietzsche: “..della realtà piena di ebbrezza , che a sua volta non tiene conto dell’individuo, e cerca anzi di anniettare l’individuo e di liberarlo in un senso mistico di unità” (p.2), poiché all’apice dell’orgia dionisiaca l’individuo ottiene tutto e viene liberato da qualsiasi inibizione e costrizione imposti dal mondo esterno = Io e contemporaneamente svuotato ed anniettato. Ritirata qualsiasi energia dall’Io, l’unica epifania dei contenuti interni proiettati all’esterno può essere l’allucinazione .
Nell’epifania apollinea questo senso di unità mistica, attraverso l’inibizione e la sublimazione era stato sostituito da un nuovo tipo di sfogo pulsionale, questa volta con il veicolo degli strumenti di Apollo: l’occhio, la visione (trasfiguratasi in arte e estasi religiosa), la fede. Questo sfogo pulsionale è ben diverso da quello dionisiaco, che è uno scoppio. Ad esso si addice il termine ebbrezza, poiché è una condizione di estasi prolungata che sfocia in unità mistica che è proprio il contrario dell’anniettamento, come la lenta ebollizione, nella similitudine da noi adoperata, è la soluzione energetica alternativa allo scoppio del contenitore chiuso ermeticamente. La definizione sentimento mistico di unità coincide anche con questa situazione psichica. I suoi strumenti sono la rappresentazione figurata, il sogno, l’arte e l’estasi religiosa. La sua istanza topica, o provincia, è il polo opposto. Eppur si toccano!
I due estremi, come nel globo terrestre, coincidono e l’ultimo fuso orario tocca il primo. Così anche la co-munione apollinea, pur usando strumenti antitetici a quella dionisiaca, luce la prima come black-out la seconda, all’esterno e verso l’alto come all’interno e verso il basso, all’estremo della sua espressione produce lo stesso annullamento dell’orgasmo dionisiaco. Per capire cosa intendiamo basta pensare all’estasi di Santa Teresa di Avila, alla sua figura rapita dal tremore erotico, come è stata scolpita dal Bernini, oggi in Santa Maria della Vittoria a Roma, e alle sue parole nel descrivere la sua “passione”:

Vedevo un angelo accanto a me…lo vedevo tenere in mano una lunga freccia d’oro, che sulla cuspide aveva mi pareva avesse un pò di fuoco. Mi pareva che me la conficcasse più volte nel cuore, spingendola fin dentro le viscere: e quando l’estraeva, avevo l’impressione che se le tirasse dietro, lasciandomi tutta ardente di un immenso amor di Dio (Libro de su vida, 1562).
Nessuno può distinguere tra l’orgasma “spirituale” da lei ottenuto attraverso la contemplazione e la fede, e quello “carnale” raggiunto nell’orgia dionisiaca. Come gli ossessi dionisiaci, il suo corpo è rapito, ovvero annullato, preso da qualcun’altro. L’estasi dell’arte e quella religiosa sono infatti paragonate a un rapimento.
La musica della civilizzazione si stacca sempre di più dall’orgasma originale attraverso il medium apollineo, ma ogni tanto fa, proprio attraverso gli strumenti di questo, un’incursione verso gli estremi che si toccano, tentando un contatto, una co-munione. Come esempio si può portare il magnifico Salve Regina di Claudio Monteverdi (Venezia, 1640), dove i vocalizzi dei cantanti, in corrispondenza delle parole della progressione finale “O dulcis virgo Maria”, si abbandonano a una melodia di sfrenata sensualità, che evoca il culmine dell’eccitamento sessuale.
Come abbiamo visto esistono due tipi di unione mistica, di co-munione, ai due poli opposti delle province psichiche: la prima attraverso lo scoppio e l’autoanniettamento, questa è la scarica dell’orgasma e del black- out, e la comunione è con il capro, il corpo del padre ucciso, la co-noscenza è immanenza: Eros e pulsione di morte si fondono in un’unico tutto. Il nucleo di questo tipo di comunione sarà sublimato dal cristianesimo attraverso l’Eucarestia, ma la buccia, la cruda espressione sensuale sarà relegata all’altro polo, a quello delle tenebre dove regna Luci-fero, quello che era stato l’angelo più luminoso, diventato signore del regno delle tenebre. A questo regno, diventato ora quello del padre spodestato e divorato attraverso lo sfogo pulsionale ininibito, verranno associati tutti i culti satanici con la loro connotazione di sesso e morte, sacrificio cultuale e orgia. Il corpo del Padre, il capro, diventa quello del diavolo dai molti nomi, la Bestia par excellence.
La storia del medioevo è piena di allucinazioni in cui l’immagine rimossa del padre ucciso riemerge nelle allucinazioni su un Satana, con la coda e le zampe caprine, le corna e la barbetta tipica dell’animale. L’immagine rimossa proiettata nell’alter degli ebrei, o degli eretici, o di donne accusate di copulare con lui. L’arcaico rito di purificazione perpetrato attraverso l’orgia sacra alle insegne dell’immagine del dio, quando riemerge come allucinazione viene ri-perpetrato e risolto attraverso la sua negazione nel rito di purificazione del rogo, il fuoco sacro, simbolo esso stesso di eccitazione erotica e di copulazione .
La seconda co-munione avviene attraverso la sublimazione di Apollo, l’arte, la visione per mezzo dell’organo del senso, l’occhio, a questa si addice il termine di epifania nel senso di rivelazione trascendentale, di luce, che viene dal difuori, anzi dall’alto, dalle stesse altezze alle quali le immagini interne erano state proiettate, la scarica avviene attraverso il sogno e l’ebbrezza e la co-munione è con la bellezza del corpo di Apollo.
Luci-fero viene fatto precipitare dal regno della luce a quello delle tenebre. Questa è la traccia mnestica dello spodestamento del Padre originale, il capro che diventa la bestia sotterranea, e la cui co-munione viene privata di qualsiasi luce e relegata ai culti satanici. Dioniso, il capro sacro aveva fatto una lunga strada, in Occidente, dall’unico dio detentore di tutta la sacralità al polo opposto. Al suo posto viene la co-munione con la luce di Apollo.
L’Evangelista che enfatizza l’equazione Cristo = luce è Giovanni (4,4-9), e non a caso è lo stesso che comincia il suo messaggio con il logos: “In principio era il Verbo, e il Verbo era presso di Dio, e il verbo era Dio” (1,1). Il logos, la sapienza, che nei versetti seguenti diventa sinonimo di luce, è la soluzione finale di un lungo percorso cominciato molti secoli prima.
Platone attraverso il gradino della bellezza era salito a quello della filosofia e della verità e l’Evangelista riprende esattamente lo stesso tema. L’unico equivoco è che il processo era avvenuto all’incontrario: prima era venuta l’azione, il brutto, “il Diavolo”, Lucifero, principe delle tenebre, il capro, la Bestia; dopo era venuta la bellezza, la luce, il logos, Dio. Il logos era stato la soluzione al capro, la Bestia. Il Verbo, che Giovanni pone all’inizio di tutto, era stato, invece, la soluzione finale. Ed ecco che tutto si ricollega: Dioniso in contrapposizione a Apollo, Es a Io, pulsione a inibizione-sublimazione, scarica orgiastica a ebbrezza, conoscenza immanente a sapienza e poi fede, allucinazione a sogno, baccanale a arte, effusione ad espressione, brutto a bello, sessualità sfrenata ad astinenza, tenebre a luce, azione a Verbo, inferno a paradiso e diavolo a Dio.
Ed ora una breve disgressione: è sia interessante che illuminante notare come Freud adoperi la parola logos. Mentre l’Evangelista, epigono di Platone, con logos intende La Ragione trasfigurata in verbum dei, ovvero la verità trascendentale che è il Dio stesso e i suoi insegnamenti, a Freud era molto cara la ragione umana come mezzo per liberarsi dalla Ragione divina e da quella che definisce un’illusione . È forse il logos caro a Freud l’estremo capolinea dell’evoluzione apollinea che in un cammino di molti secoli aveva trasformato l’immanenza pulsionale in trascendenza divina e viene ora tradotta in fiducia nella ragione umana e nella scienza? Non è forse questo positivismo freudiano un’ulteriore gradino nell’astrazione apollinea, razionalizzato come fiducia nella scienza?
Quando Freud dice: “a lungo andare nulla può resistere alla ragione e all’esperienza”  questa non è una constatazione che si basi sull’osservazione scientifica; è un postulato di fede esattamente come quello del Vangelo. E questo proprio quando dichiara la sua sicurezza che la ragione sostituirà la fede, come gli evangelisti postulavano che il cristianesimo avrebbe sostituito il paganesimo e la Ragione di Apollo avrebbe preso il posto dell’immanenza di Dioniso. “L’Avvenire di un’illusione” è un saggio stridente nel corpus degli scritti freudiani; non perché tolga il velo sull’essenza della fede religiosa, ma perché sostituisce la fede in un’illusione con la fede in un’altra: quella nella ragione umana. Eppure era stato proprio lui a rivelarci che le forze pulsionali e le loro trasfigurazioni sono sempre più forti. Che la ragione umana nulla può contro l’Ananke! Proprio la ragione e l’esperienza, il logos freudiano, sono quelle che alla fine vengono sopraffatte dall’ananke. Il positivismo freudiano è forse l’unico aspetto del suo lascito che ci ricorda la lunga strada depistante di Apollo e le sue vie, e contraddice l’esperienza psicoanalitica in quanto questa ha dimostrato di potere solo nell’ambito dei singoli individui che hanno la capacità di nuotare controcorrente e sottoporsi in carne a quello che Nietzsche aveva chiamato, naturalmente in un altro contesto, una trasvalutazione di tutti i valori
Niente può la psicoanalisi per la società, per l’educazione, per il futuro dell’umanità.
Oggi intellettuali che non hanno mai letto una parola di Freud, né si sono sottoposti ad un’analisi, lo dichiarano superato. Con le parole di Peter Gay, il biografo di Freud: "Freud fu inorgoglito dall’aver disturbato il sonno dell’umanità e questa gli ha restituito pan per focaccia trivializzandolo, diluendolo, o trovando scuse per ignorarlo” ("Introduction," in The Freud Reader, ed. by Peter Gay, W.W. Norton & Co., New York 1989, pp. xiii - xiv).
L’ultimo volto di Apollo, la moda, è di dichiararsi iunghiani. Quando qualcuno si dichiara tale, intende dire che si è adattato alla nuova ecumene apollinea, è una persona civile che si sa adeguare agli ultimi sviluppi della scienza, l’ultimo grido del conformismo apollineo. Come Apollo e la sua connotazione di luce e di sublimazione era venuto, nella percezione occidentale, dopo Dioniso e lo aveva superato, così oggi Jung e le sue soffuse astrazioni sovrappongono come un velo la pulsionalità immanente delle scoperte di Freud. La verità diventa irrilevante. Come per Platone, l’importante è la bellezza. La teoria iunghiana degli archetipi è infatti bella, soffusa, tende a conciliare, rifugge il confronto, si rifugia dietro postulati dogmatici condensati per difendersi dalla penetrazione, che con la sua chiarezza ne decodificherebbe le contraddizioni. Forse, se Freud fosse vissuto ai nostri giorni, non si sarebbe abbandonato a strane pastoie positivistiche. Avrebbe visto con i suoi stessi occhi come la razionalizzazione si impadronisce della ragione e dell’esperienza e fa di queste il suo feudo assoluto. Anche in vecchiaia credeva che la resistenza alla psicoanalisi fosse stata una controcorrente destinata a essere vinta dalle forze della ragione umana: il suo logos personale. Questa strana fede corrisponde esattamente a quella della fede nella giustizia divina, quella della razionalità di Apollo.
 

Alle soglie del cristianesimo

Siamo andati a vedere dove ci portava questo sentiero apparso improvvisamente ai lati della via maestra ma adesso torniamo sulla strada principale.
Con il prevalere dell’apollineo la “conoscenza” dell’immanenza pulsionale dionisiaca viene rimossa, relegata ai misteri, feudo esclusivo di un’elit di iniziati guardati con sospetto, forse come lo sono i massoni dei giorni nostri, e tale deve rimanere: un mistero. La musica orgiastica dionisiaca, la danza sfrenata e persino la tragedia eschilea vengono relegate all’opposto e diventeranno l’antitesi di quello che è socialmente desiderabile, al punto che Platone filosofeggia se non sia il caso di proibirle nel suo stato ideale, come propone di proibire Omero e di censurare i miti greci che raccontano di cose “sconvenienti”.
I riti legati a Dioniso continuarono a venire festeggiati, come nelle dionisiache rurali e cittadine, e persino vi era una città sacra denominata Dionysia dove ogni sorta di svaghi e orge venivano celebrate all’insegna del dio. In epoca ellenista un teatro fu edificato in suo onore sull’Acropoli di Atene, ma quella che ai tempi di Eschilo era ancora una tragedia divenne commedia e in questo teatro si festeggiava sempre meno la sacralità e sempre di più la scurrilità del dio. La gente non andava più a teatro per esperimentare sulle proprie membra la passione del pasto totemico nel tremore dell’identificazione e della catarsi bensì per svagarsi: le commedie dei satiri, un cabaret parallelo ad ogni società in decadenza, e le rappresentazioni teatrali all’insegna di Dioniso prolificavano come i nigth-clubs di Parigi o della Berlino tra le due guerre.
Divenne un dio della fertilità, come quelli semiti celebrati in tutto l’oriente ellenizzato: Attis, Adonis, Tammuz. Diventò improvvisamente un dio “orientale”, come quelli che morivano alla fine della primavera per risuscitare in autunno, quando nel Medio Oriente le prime piogge riportano alla vita la natura, che era rimasta arida sotto il solleone estivo. Dalla metà del V secolo in poi  divenne un dio con il quale l’anima greca avrà sempre più difficoltà a identificarsi. Sempre meno dio e sempre più satiro, nel senso volgare della parola. La morte sociale di Dioniso trascinerà con se anche l’agonia di Apollo. Il dio defico senza un’equivalenza antitetica perderà anche lui di intensità vitale. La sua massima espressione, la saggezza comunicata per enigmi, transustazione dell’arcaica conoscenza comunicata ai giovani attraverso il rito iniziatico puberale, diventa attraverso la razionalizzazione della filosofia, “verità ideale”. Priva dell’apporto energetico delle energie provenienti dall’Es, in concomitanza con il processo di rimozione, gradualmente anche il volto di Apollo era impallidito.
L’arte occidentale, dopo essere arrivata ai suoi apici nella fusione delle energie dionisiache con il medium visivo del dio delfico, dal IV secolo in poi comincia a decadere. Il regno di Fidia e di Prassitele viene sostituito da quello di Platone e di Aristotele. La filosofia viene al posto dell’arte, come strumento di rimozione e di razionalizzazione. Apollo aveva vinto, ma era molto, molto stanco. Il processo era stato lento ma letale. Se il modus mentale apollineo aveva portato alla democrazia della polis greca come sviluppo naturale del bisogno di libertà ispirato da Apollo come conseguenza del superamento del rito tribale e della Legge del Padre, ecco che Platone vuole codificare delle regole precise, vuole farne una repubblica ideale, e introdurre così dalla porta posteriore una censura e una regolamentazione che sono proprio l’antitesi dello spirito di libertà della polis greca. Come già, per Platone, il bello era stato il parametro per costrure i suoi schemi filosofici, questi fanno presto a diventare una fede.
Quando nella Grecia arcaica il dio delfico dall’interno del suo tempio si pronunciava per enigmi, le sue sentenze oscure alludevano che solo i degni, gli iniziati alla vera essenza del dio avrebbero potuto decodificarne i significati: eravamo ancora ben lungi dalla filosofia socratica e le sue catene di sillogismi. Con Platone lo schema è pronto: il filosofo, ispiratosi al bello, che come abbiamo visto è l’antitetico del brutto, il capro, filosoferà su quello che è buono o malvagio, giusto o ingiusto. Il filosofo diventa così il nuovo sacerdote di Apollo. La sua aspirazione è tradurre i suoi postulati filosofici in articoli di fede: siamo già alle soglie del dogma. Se Platone sà di poter distiguere tra il bene e il male, teme però che non tutti riceveranno i suoi postulati, e non si accontenta di diffondere la sua scienza, vuole imporla come unico schema politico. I filosofi della sua Repubblica non sono più dunque come l’oracolo di Apollo, che viene consultato volontariamente da chi vuole essere illuminato attraverso il medium della sacralità del dio, bensì una classe politica detentrice della verità assoluta.
Platone dunque, e non Pietro, è la pietra su cui verrà edificata la Chiesa.


Link: Il Cristo dionisiaco e la musica
 
 

                                           CAPITOLO  QUARTO
 

                       DALLA  LEGGE  DEL PADRE ALLA FILOSOFIA
 

La necessità

Nei capitoli precedenti abbiamo accennato a come il distacco dal rito del clan e  l’allentamento dei legami di fedeltà di sangue abbiano gettato le basi per la nascita della filosofia. Questo è un fenomeno specifico dell’Occidente, poiché solo qui lo sviluppo portò non solo a cercare una razionalizzazione del rito stesso, come d’altronde succede anche in tutte le altre culture, ma a creare una metafisica che spieghi il cosmo staccandosi dal rito, superandolo e al dunque confutandolo.
Mentre nei grandi centri delle civiltà antiche, Egitto e Babilonia, la filosofia si limitò a proiettare il mito specifico a tutto il cosmo e a creare dei miti astrali, che non erano altro che  una proiezione alle altezze celesti del rito terreno dopo che era stato razionalizzato in mito, in Grecia le energie furono impiegate nel creare dei sistemi ex novo come legittimazione a nuove forme di cultura religiosa, politica e di costume. In filosofia assistiamo all’assolutizzazione di un singolo elemento della realtà, astraendolo dal suo contesto originario (esattamente come i primi filosofi greci cercavano “il principio” da cui facevano poi dipendere tutto il resto).
Originariamente, la filosofia non si distingueva dalla scienza: esisteva solo la nuova sapienza apollinea, che aveva progressivamente sostituito la conoscenza dionisiaca, l’unico patrimonio della società arcaica. Di questa nuova sapienza apollinea, la scienza costituiva l’istanza più avanzata. La filosofia, invece, ebbe il ruolo di sostituire e di superare la legge primordiale, e di dare nuovi strumenti per difendere ideologicamente le mura della Polis mediante lo strumento della razionalizzazione.
In ogni sistema filosofico, ciò che viene assolutizzato non è mai preso a caso. In primo luogo ad essere astratto è esattamente l’anello debole dello scheletro sul quale viene intessuto l’equilibrio raggiunto, e viene proiettato in una dimensione diversa da quella della realtà per mascherarne la debolezza. A questa funzione si condensa quella di esaudire un desiderio. Abraham ha paragonato il mito al sogno prodotto da una collettività nel suo complesso . Possiamo allora considerare la filosofia, che viene a sostituire il mito razionalizzandolo, come il sogno di una civiltà in un successivo livello del suo sviluppo. Utopie politiche, promesse di salvezza religiosa, di purificazione razziale o spirituale, sono tante facce della stessa medaglia, che originano dalla stessa radice: il Paradiso perduto, il rimosso. Ma se questi sono i frutti, le radici di questo albero sono piantate inesorabilmente nel terreno reale: l’albero succhia la sua linfa dalla situazione reale, contingente, con cui ci si trova a dover “fare i conti”. Il pensiero metafisico assolutizza infatti, un aspetto di questa realtà. I filosofi, nella loro ansia di dovere necessariamente “fare i conti con la propria coscienza filosofica precedente”, si dimenticano di venire a termine con il fatto che la società ha il suo modo di cambiare, e la storia occidentale ha mostrato che un sistema di pensiero è sempre il prodotto delle condizioni della civiltà materiale che lo esprime: da qui nasce la caducità di ogni filosofia e di ogni metafisica, cosa che sarebbe stata inconcepibile in Egitto, dove la metafisica  stessa era lo strumento apotropaico contro la caducità.
 

1. Metafisica e magia.
 

La metafisica, dal punto di vista del modo di pensare che sottintende, esprime una parentela con il pensiero magico. Tylor, l’antropologo britannico che affrontò tra i primi lo studio scientifico della magia, ha sostenuto che questa è una pseudo-scienza in cui i primitivi postulano un rapporto di causa-effetto tra l’atto di magia e l’effetto desiderato, ovvero, che il principio del pensiero magico consista nella  “sostituzione di un nesso reale con uno ideale” .
Mentre gli antropologi non psicoanalisti non erano riusciti ad andare oltre una generica descrizione di questo fenomeno, caratterizzandolo come un difetto del modo di procedere razionale, Freud ha fatto risalire la magia alle sue radici pulsionali. Egli adottò l’espressione “onnipotenza dei pensieri”, per definire una serie di supserstizioni di un suo paziente, che soffriva di rappresentazioni ossessive caratterizzate dalla convinzione di potere vedere realizzate certe sue fantasie avendole semplicemente immaginate. Capì che la magia, ben lungi dall’essere un semplice “errore” del modo di pensare razionale come questo fu elaborato durante la rivoluzione scientifica, è una struttura del pensiero che si riferisce a un ben determinato stadio di sviluppo del pensiero umano; e che nei soggetti nevrotici si ripresenta come conseguenza della regressione evolutiva innescata dalla patologia.

I motivi che spingono a esercitare la magia sono facilmente riconoscibili: sono i desideri dell’uomo... l’uomo primitivo ha una straordinaria fiducia nel potere dei propri desideri... A questo punto (quando cioè si è formato il modo di pensare magico) esiste perciò una sopravvalutazione generale dei processi psichici... Le cose retrocedono in secondo piano rispetto alle loro rappresentazioni; ciò che si intraprende con queste ultime deve verificarsi anche con le prime... Riassumendo potremmo ora dire: il principio che regge la magia, la tecnica del modo di pensare animistico, è quello della ‘onnipotenza dei pensieri (S. Freud, “Totem e tabù” in op.cit., vol.VII, pp.89 – 91).
Anche la filosofia pretende, infatti, di costituire un “sistema” universale del mondo, non attraverso la sperimentazione, ma dichiarando a priori la possibilità di poterlo fare nell’ambito del puro pensiero. Una volta approntato il sistema, la realtà vi si dovrà adattare. La filosofia non ha bisogno di sperimentazione, per usare un’espressione cara a Leonardo da Vinci essa inizia e termina nel pensiero. La sicurezza che spesso i filosofi mostrano di avere nel puro pensiero, come strumento per l’evoluzione della civiltà, trova il suo corrispondente in quest’altra considerazione di Freud:
In tutte le nevrosi è determinante, ai fini della formazione dei sintomi, non la realtà dell’esperienza, bensì quella del pensiero. I nevrotici vivono in un mondo particolare, nel quale, come mi sono espresso altrove, ha corso soltanto la ‘moneta nevroticà; ... il nevrotico rivela quanto egli  sia vicino al selvaggio che presume di mutare il mondo esterno con i puri pensieri ( Ibidem, pp.92 – 93).
Comprendendo nel narcisismo il fondamento pulsionale del modo di pensare magico, e noi aggiungiamo, metafisico, Freud disegna uno schema in cui a ogni stadio di questa evoluzione corrisponde un livello della personalità:
Allora la fase animistica corrisponde sia cronologicamente che per il suo contenuto al narcisismo, la fase religiosa corrisponde a quello stadio di rinvenimento dell’oggetto che si caratterizza per l’attaccamento del bambino ai suoi genitori, e la fase scientifica trova il suo esatto corrispettivo in quello stato di maturità dell’individuo che ha rinunciato al ‘principio di piacerè, e, adeguandosi alla realtà, cerca il suo oggetto nel mondo esterno (Ibidem, p.95).
Identificando il modo di pensare scientifico con la fase della maturità dello sviluppo psichico occidentale, egli stesso ci informa che tra il modo di pensare metafisico – legato al pensiero magico e al principio di piacere – e il modo di pensare scientifico – legato al pensiero sperimentale / razionale e al principio di realtà,  vi è una differenza di livello. Essi si riferiscono a stadi di sviluppo diversi.

2. Greci e Persiani

Non è casuale che la filosofia ebbe una particolare fioritura nelle colonie greche impegnate nella guerra contro la Persia e che i filosofi presocratici fossero anche uomini politici antipersiani. Questa fece infatti da strumento apotropaico contro il pericolo di riattivazioni dionisiache stimolato dalla vicinanza dei Persiani. La filosofia degli esordi, dei primi pensatori ionici, Talete, Anassimandro e altri, tradisce questa associazione, ma il movimento di distacco dal modus mentale arcaico a quello della polis è rintracciabile in tutti i filosofi greci presocratici, almeno fino a Eraclito. Questi filosofi, se da un lato hanno inaugurato una nuova forma di sapienza, dall’altro hanno attinto a piene mani a quella conoscenza dionisiaca che in loro era ancora attiva e vitale. Sarà con Platone e con i sofisti che la soluzione apollinea soppianterà definitivamente quella dionisiaca e la filosofia prenderà, per i successivi duemila e quattrocento anni, la strada della metafisica.

Talete, Anassimandro e Anassimene

Talete viene ricordato come il filosofo che aveva posto l’acqua come principio dell’essere, osservando, dai suoi studi scientifici, che il nutrimento di tutta la materia vivente trae origine da essa. L’acqua è un simbolo femminile. Come ha osservato Freud, la nascita è sempre associata mediante un riferimento all’acqua. Questo simbolo rappresenta il corpo della madre in quanto l’uomo, nella prima fase della sua storia evolutiva, ha vissuto come embrione immerso nel liquido amniotico . L’acqua rappresenta dunque il corpo della madre, di cui il bambino si è nutrito nei nove mesi della gravidanza. La teoria di Talete esprime così una fantasia incestuosa, intrauterina rimossa.
Ma mentre nella tribù primitive le pulsioni incestuose dei giovani novizi vengono rimosse mediante un’azione collettiva e violenta, ma certamente efficace allo scopo, e che si conclude con la definitiva maturità sessuale degli iniziati e il loro ingresso a pieno titolo nel consesso degli adulti, nella Polis, dove il singolo è lasciato a se stesso a misurarsi con le sue spinte incestuose, Talete non può fare altro che nascondere queste spinte dietro un tentativo di razionalizzazione, che traduce il rito in mito e questo in metafisica, facendogli perdere il valore concreto che questo possiede nel suo contesto originario. Quello che rimane è un non ben determinato “sapere” la cui natura voyeristica si traduce in curiosità scientifica.
Omero lo aveva già detto che l’inizio di tutto era stata l’acqua: l’Oceano era «l’origine degli dei» e «l’origine di tutto». Da Oceano venne Teti, che veniva chiamata Madre  (Il., 14/201 e 246), e non aveva fatto finta di averlo scoperto come risultato di una speculazione filosofico-scientifica. Per Omero era un mito, e il mito, come ci ha insegnato Freud, non rappresenta una realtà materiale bensì una verità storica . Non pretende di descrivere la realtà bensì ci racconta in forma simbolica quello che tutti sanno, ovvero che l’uomo viene dall’acqua dell’amnio materno. Il simbolo di quella che è verità universalmente accettata non ha bisogno di essere riscoperto dalla speculazione scientifica, a meno che questa verità comune non sia stata rimossa rinnegando il mito. Il greco dei tempi di Omero non provava interesse nelle origini scientifiche del mondo poiché era per lui ovvio che l’uomo nasce dall’acqua materna, questo concetto lo esprimeva attraverso il mito, e questa era anche l’unica verità che lo riguardasse. La cosa interessante è che la razionalizzazione raggiunge qui, per la prima volta, un livello altamente elaborato. Notiamo una sistematizzazione della razionalizzazione. Ogni mito è una razionalizzazione di un rito ma adesso il mito viene organizzato in modo singolarmente nuovo: fa un salto di qualità, diventa filosofia, e se da un lato dimostra la forza della nuova sapienza apollinea, dall’altro comincia quel distacco dalla propria essenza profonda, quella rimozione del mito stesso, che caratterizza la filosofia occidentale. Non a caso Platone esprimerà la sua avversione per gli antichi miti, in quanto voleva sostituire alla verità esistenziale greca una verità che ribadisse le sue costruzioni filosofiche. Nello stesso tempo, è presente la regressione del pensiero scientifico al livello del pensiero magico, un compromesso tra soddisfazione pulsionale e rimozione innalzata a postulato scientifico. Non sarà certo con la teoria dell’acqua di Talete che i cittadini della Polis potranno conoscere gli strati più profondi della psiche e la propria essenza pulsionale, anzi, la filosofia di Talete sembra fatta apposta per poterli sviare da quella che era stata la realtà esistenziale, ovvero per aiutarli a stendere il velo dell’amnesia sulla verità arcaica.
 Anassimandro e Anassimene proseguono sulla scia del loro predecessore. Secondo Anassimandro, il “principio” (che conia il termine di à – peiron, l’indefinito, l’indeterminato) è “invisibile all’occhio fisico e, pertanto, non definito, non descritto, non delimitato, (àpeiros)”. Se tutto ha un suo disegno, un suo “contorno”, una sua “configurazione”, e “determinazione” (peras), la sua “negazione” è un quid indefinito, indeterminato, senza contorni e perciò senza limiti, l’à – peiron,” . Anassimene critica Talete, e nello stesso tempo ripete il concetto di Anassimandro: secondo lui, l’aria è più “primordiale” dell’acqua (in quanto questa si produce per condensazione di quella), ed è quindi questa il “vero” principio. La sua “aria” è però un concetto tanto astratto e confuso come quello dell’ à–peiron di Anassimandro. Infatti, egli non parla di “aria” come di qualcosa di materiale, ma, come dice Adorno,  di  un non meglio precisato “soffio vitale (?), per cui appunto, la vitalità il soffio…è energia, vita e dunque essere, che è in quanto si estrinseca, in quanto soffio indefinito (apeiros), si determina concretandosi: condensandosi diviene vento, nube, acqua, terra” .
Il mito orfico sulle origini del mondo aveva già raccontato che Nix (la Notte), sotto forma di uccello era stata fecondata dal vento, la quale depose il suo uovo d’argento nell’immenso grembo dell’oscurità e da quest’uovo balzò fuori Eros , Protogonos, ovvero l’inizio della vita, così infatti anche Freud definisce l’Eros, come l’insieme delle pulsioni vitali.  Gli ebrei prima di Anassimene avevano già postulato che la vita è aria, vento, ruah, quella che Dio aveva infuso nelle narici di Adamo, senza farne una teoria scientifica. Così credevano, e non s’interessavano della validità scientifica di questa “verità storica”.
Invece di essere l’acqua omerica a essere l’inizio di tutto adesso è il vento. E infatti il bambino, in uno stadio del suo sviluppo, sostituisce l’idea della nascita dalla madre con quella dal padre, come nel mito biblico è il Signore, il dio-Padre a compiere la creazione. Lui è il ruah, Lui è la vita. Il greco, prima della nascita della filosofia, lasciava convivere attraverso i diversi miti queste diverse concezioni, senza pensare che si contraddicano a vicenda. Alla stessa maniera il mito biblico è pieno di versioni diverse. Per gli antichi ebrei queste non rappresentavano una contraddizione, ma la condensazione di verità storiche diverse.

Eraclito
Le citazioni di Eraclito qui contenute, sono tratte dallŽedizione dei frammenti di Eraclito di G. Colli, in La sapienza greca, vol. III: Heraclitus. Adelphi, Milano, 1996, p. 21 e passim.

Eraclito è il pensatore nel quale le tracce del modus arcaico–dionisiaco sono maggiormente presenti. La tradizione dei filosofi ha identificato in lui il pensatore “oscuro”, oracolare, enigmatico e sconcertante, altezzosamente aristocratico, estraniatosi per motivi etico – politici dai suoi contemporanei. Eraclito viene considerato, da tale tradizione, come il filosofo del divenire, e colui che per primo ha scoperto e introdotto in filosofia la dialettica dei concetti, nella forma della coincidentia oppositorum.
Il nostro punto di vista, invece, è che in Eraclito troviamo un modo di pensare che si esprime per enigmi, e questo ci riporta già alla sfera della sapienza apollinea più arcaica, in cui il dio iniziatico impone ai novizi la prova mortale della sua sapienza: essi diventeranno adulti, e cioè uomini iniziati, solo se riusciranno a superare la prova della sapienza. L’accento quasi ossessivo che Eraclito pone sulla esigenza della sapienza è da comprendere in questo senso. Quando egli dice che “Il signore, cui appartiene quell’oracolo che sta a Delfi, non dice né nasconde, ma accenna” Quando egli dice che "Il signore, cui appartiene quellŽoracolo che sta a Delfi, non dice n? nasconde, ma accenna" (framm. 14[A1], Colli), vuole indicare che la sapienza non può essere, propriamente, insegnata, ma che per ciascun uomo della Polis, essa è una sfida, una conquista personale, di vitale importanza: l’oracolo non può “dire”, perché altrimenti non ci sarebbe ricerca, ma non può neppure “nascondere”, perché il suo compito non è quello di sviare gli iniziati. Quindi, esso può soltanto “accennare”: spetterà agli uomini trovare la strada.
La sentenza di Eraclito sull’oracolo di Apollo (“quel signore...”) a Delfi sembra quasi una descrizione del rapporto che l’analista instaura con il paziente: anche l’analista non “dice” e non “nasconde”, ma “significa”; egli non impone traguardi all’analizzato, né limitazioni al suo orizzonte umano. L’analista, come un moderno oracolo apollineo, accompagna l’analizzato nel suo percorso, e “significa”, cioè gli mostra quale sia il significato (inconscio) del suo comportamento. E opera di colonizzazione dell’Es da parte dell’Io, l’opera di civilizzazione di Apollo. Con le parole di Freud: “Dov’era l’Es deve subentrare l’Io. È un’opera di civiltà, come ad esempio il prosciugamento dello Zuiderzee” (S.Freud, " Introduzione alla psicoanalisi", in op.cit., vol.XI, p.190) Ma questo può essere ottenuto solo attraverso la presa di contatto con l’immanenza dionisiaca. Essa deve essere rivissuta sul lettino dell’analista. Non deve alzarsi dal lettino insieme all’analizzato ed uscire dalla porta. Rivissuta ma colonizzata, canalizzata entro la sfera dei parametri della civiltà. Eraclito allude allo stesso concetto, e nei suoi aforismi continuamente ce lo dice: “Uno sperimentare l’immediatezza è la massima eccellenza, e la sapienza è dire e fare cose vere, apprendendo secondo il nascimento” (framm. 14[A15]): lo “sperimentare l’immediatezza” è la stessa fonte della conoscenza dionisiaca, non-mediata, non-sublimata. Essa è anche l’essenza del dionisiaco. Eraclito la considera come la “massima eccellenza”, e cioè il massimo livello della sapienza, che le viene associata, in immediata susseguenza, nella seconda parte del discorso. “Apprendendo secondo il proprio nascimento”, perché lo scopo primo della sapienza è trovare le radici profonde dell’Io, che, come ci ha mostrato Freud, prima di essere tale era lui stesso Es, attraverso la propria esperienza esistenziale: troviamo qui, espresso in altre parole, un concetto fondamentale di un altro grande filosofo dionisiaco, Nietzsche: ognuno può conoscere solo quello che sa già.
L’essenza dionisiaca della conoscenza emerge anche in quest’altro frammento: “Polemos di tutte le cose è padre, di tutto poi è re; e gli uni manifesta come dei, gli altri invece come uomini; gli uni fa esistere come schiavi, gli altri invece come liberi”. “Polemos”, e non “Logos”, è il signore e padre di tutte le cose. Esso è un attributo dionisiaco, in quanto si riferisce a ciò che Freud chiama il destino di ciascun uomo, come ritorno del rimosso che determina la struttura psichica degli individui, e le differenze tra un uomo e l’altro. Esso non appartiene alla sfera dell’Io cosciente, bensì a quella dell’Es, che abbiamo già identificato come il sostrato delle pulsioni dionisiache. In un altro frammento: “La vita è un fanciullo che gioca a dadi, che sposta i pezzi sulla scacchiera: di un bimbo è il regno”. Qui è chiara l’allusione a Dioniso, dio – bambino (da cui poi si svilupperà, nella regressione innescata dal cristianesimo, il culto sterilizzato di Gesù bambino) che gioca con i dadi, suo attributo divino: c’era, infatti, una storia orfica su Dioniso bambino, che “enumerava anche i giocattoli del nuovo sovrano universale, giocattoli che sono diventati i simboli degli stessi riti di iniziazione attraverso i quali passò il fanciullo divino, il primo Dioniso: dadi, palla, trottola” .
Ma il punto più rilevante del pensiero di Eraclito si manifesta anche sotto un altro  aspetto, nella “coincidenza degli opposti”. Dalla psicoanalisi sappiamo che questo concetto risale ai tempi in cui gli uomini chiamavano con la stessa parola una cosa e il suo opposto . Quando Eraclito afferma che “Dell’arco, invero, il nome è vita, ma l’opera è morte”, egli condensa in maniera ermetica l’equazione vita = morte; inoltre, ci dice anche in che modo ciò si realizza: l’arco, l’arma di Apollo, è il simbolo fallico apotropaico con il quale il dio terrorizza i giovani iniziati. Gli iniziati dovranno morire simbolicamente come giovani, per potere rinascere come adulti. Dunque, l’opera dell’arco è morte, ma il suo nome, cioè la sua essenza (dare un nome = chiamare, possedere il fallo paterno) è vita, cioè la rinascita degli iniziati nella loro identificazione con la generazione degli adulti.
Solo chi ha superato il rito entra a fare parte de clan, e avrà la conoscenza. Lo stesso concetto è espresso da Nietzsche che, in Ecce Homo, parlando delle virtù dei Persiani e citando Erodoto (Hist., I/136 e 138) , osserva quanto segue: “Dire la verità e tirare bene con l’arco, ecco la virtù persiana…c’è qualcuno che mi capisce?”  Nietzsche, che non poteva conoscere il significato dei riti tribali come è stato messo in rilievo dagli studi etnografici e psicoanalitici, allude che la verità si esprime nel tirare con l’arco, cioè il simbolo fallico maschile, che nel rito iniziatico puberale diventa lo strumento di Apollo. Ovvero, come adoperare il simbolo fallico del dio, in simbiosi alla morale della società degli adulti. Dire la verità e tirare bene con l’arco, e verità e donna erano già, da lui stesso, state associate:

Posto che la verità sia una donna, e perché no? Non è  forse fondato il sospetto che tutti i filosofi, in quanto furono dogmatici, s'intendevano poco di donne? Che la terribile serietà, la sgraziata invadenza con cui essi, fino a oggi, erano soliti accostarsi alla verità, costituivano dei mezzi maldestri e inopportuni per guadagnarsi appunto i favori di una donna? - Certo è che essa non si è lasciata sedurre - e oggi ogni specie di dogmatica se ne sta lì’ in attitudine mesta e scoraggiata (Al di Là del Bene e del Male, Adelphi, Milano 1968 e 1977, p.3).


Nietzsche e Eraclito stavano parlando delle stesse cose.
Eraclito: “Non comprendono come, disgiungendosi, con se stesso si accordi: una trama di rovesciamenti, come quella, appunto, dell’arco e della lira”. (attributo di Apollo). Anche in questo enigma Eraclito esprime, con l’ennesima immagine, la lotta e la conciliazione tra conoscenza dionisiaca e sapienza apollinea. Come in un sogno, dove lo stesso pensiero inconscio viene espresso in più immagini distinte, apparentemente sconnesse, così Eraclito ci presenta in diversi enigmi la medesima esperienza esistenziale: quella del passaggio dalla conoscenza non-mediata dionisiaca a quella della sapienza mediata apollinea, dal mondo del rito tribale al dominio della Polis.
Le stesse tracce mnestiche dei riti di iniziazione tribali sono contenute in quest’altro frammento: “E di fronte a lui, che sta laggiù, si drizzano, e diventano custodi che vegliano sui vivi e i morti”. Questo frammento ricorda in tutto l’essenza dei riti di iniziazione tribali, in modo anche più esplicito di quanto abbiamo descritto precedentemente: gli iniziati subiscono una morte simbolica, rappresentata nella discesa agli inferi, dove verranno accolti da Hades, “colui che sta laggiù”. Vita = morte: alla morte simbolica segue immediatamente la rinascita come adulti, e questa è accompagnata dalla maturità sessuale. Questo momento del rito è condensato nell’aforisma in cui Eraclito ci parla del rizzarsi degli iniziati. Questi, che adesso sono iniziati ai misteri e ai segreti del clan, sono diventati dei sapienti, ed entrano a fare parte del consesso degli adulti della tribù. Essi veglieranno, d’ora in poi, sui segreti di questa, e a ciò si riferisce la frase che li descrive come coloro che “veglieranno sui vivi e sui morti”. I morti fanno parte della tribù, come i vivi. I nuovi iniziati sono quelli che, fra poche generazioni, prenderanno con sé i propri figli e li inizieranno a loro volta, come lo furono loro. Questo passaggio delle consegne, questo scambio simbolico vita-morte, che va avanti da sempre e si perpetua all’infinito, ricorda da vicinissimo l’Eterno ritorno nietzscheano, che Eraclito sembra presagire, quando dice che “Ciò che si concatena, invero, è principio e fine nel cerchio”,  per cui “il sentire è ciò in cui si concatenano tutte le cose”.
Allo stesso modo, Eraclito conserva l’equazione sacro = sacrilego, dicendo: “Se non fosse compiuta per Dioniso la processione, e se non fosse rivolto a lui il canto dell’inno, in realtà senza nessuna venerazione maneggerebbero oggetti venerabili. Ma lo stesso è Hades e Dioniso, per cui infuriano e baccheggiano”. La caratterizzazione del dionisiaco è qui esplicitamente posta in relazione al suo carattere ambivalente, dove accanto alla passione per l’ebbrezza e per la sfrenatezza, compare anche la passione per l’espiazione, rappresentata da Hades. Ma, come osserva giustamente Eraclito, “Hades e Dioniso sono lo stesso”, come infatti ci raccontano i miti orfici in cui vi è un’identificazione completa tra il Zeus degli inferi, il Zeus Kathachtonio, e quello dei cieli, il Zeus Hipsystos e questi con Dioniso .
 Non potrebbe esserci nessuna definizione del dionisiaco più basilare di questa: vita = morte, sacro = sacrilego: l’equivalenza degli opposti della struttura mentale arcaica. In un altro aforisma, Eraclito dice: “Il dio è giorno notte, inverno estate, guerra pace, sazietà fame, e si altera nel modo in cui il fuoco – ogni volta che divampi mescolato a spezie – riceve nomi secondo il piacere di ciascuno”.
Mentre Talete aveva estratto dal suo inconscio il simbolo dell’acqua come principio femminile, generatore della realtà, qui Eraclito sceglie un simbolo opposto a quello dell’acqua. Il significato del fuoco è stato chiarito da Freud, che ha analizzato la leggenda di Prometeo:

il fuoco doveva apparire ai primitivi  come qualcosa di analogo alla passione amorosa – noi diremmo: come un simbolo della libido. Il calore irradiato dal fuoco evoca la stessa sensazione che accompagna lo stato di eccitamento sessuale, e la fiamma rammenta, per forma e movimenti, il fallo in attività....Allorché noi stessi parliamo del fuoco divorante della passione e del lambire delle fiamme, rassomigliando la fiamma a una lingua, non ci allontaniamo poi tanto dal pensiero dei nostri primitivi antenati (“L’acquisizione del fuoco”, in op.cit., vol.XI, pp.103 – 108). .
Freud dimostra che il fuoco è quindi un simbolo fallico, ma, analizzando la leggenda di Prometeo, che per avere donato il fuoco agli uomini è condannato a subire il martirio dell’eterno ciclo del divoramento del fegato e il suo rigenrerarsi per essere divorato nuovamente, giunge a una nuova conclusione: “Un altro piccolo passo conduce alla fenice, che rinasce ogni volta più giovane dalla sua morte e che, verosimilmente, più e prima del sole declinante tramonto e perennemente risorgente, voleva significare il pene che si ravviva dopo essersi afflosciato” . Questo è il risultato della ricerca sulla leggenda di Prometeo, dunque: “Entrambi descrivono la restaurazione delle voglie libidiche dopo la loro estinzione dovuta a sazietà, descrivono cioè l’indistruttibilità di queste voglie” .  A nostro parere, Eraclito afferma lo stesso concetto espresso, secondo Freud, dalla leggenda di Prometeo. Infatti, è facile riconoscere che le parole “Il dio... si altera nel modo in cui il fuoco – ogni volta che divampi mescolato a spezie – riceve nomi secondo il piacere di ciascuno” significano proprio l’eccitamento sessuale. Eraclito riconosce la “divinità” del fuoco, cioè il suo signoreggiare sugli uomini. Immanenza delle pulsioni, quindi. Ma adesso possiamo capire come mai a questa considerazione Eraclito fa precedere quella sulla polarità degli “opposti” (“giorno...estate...pace....sazietà.../notte...guerra...fame....”): è precisamente lo stesso concetto espresso dalla leggenda di Prometeo, come è stato chiarificato da Freud: l’eterno alternarsi della accumularsi della tensione con la sua scarica nell’orgasmo – e quindi della sua soddisfazione. Ancora una volta, Eraclito afferma la divinità di questo eterno ritorno.
Questo concetto, espresso per immagini, viene ribadito in un altro lapidario frammento che ci diventa chiaro in forza dell’analisi precedente: “Il fuoco sperimenta immediatezza”; qui ci ricolleghiamo all’altro concetto di Eraclito per cui l’immediatezza è la forma di conoscenza più autentica; questa volta lo stesso concetto viene ribadito per mezzo del simbolo del fuoco. Questo è una immagine del dionisiaco.
Crediamo di avere dimostrato l’onnipresenza di elementi arcaici nel pensiero di Eraclito. Ma Eraclito mostra anche momenti del suo pensiero che si allontanano drasticamente dal contesto della realtà esistenziale della fedeltà dionisiaca al gruppo e al clan. Infatti, un frammento ci informa che “Non bisogna comportarsi come figli dei propri genitori”. Dunque, qui Eraclito prende le distanze dal patrimonio culturale della tribù, dove i genitori sono la nazione stessa, e dove un’affermazione del genere sarebbe semplicemente priva di senso.
Mentre la società arcaica si basa su un patto di fedeltà di sangue tra i suoi membri, la nuova struttura della società, imposta dalla Polis, impone il superamento degli antichi vincoli di sangue e il conseguente  rilassamento dei vincoli tra le famiglie che compongono il clan. La struttura della Polis in realtà, non impone per sé l’estraniazione dei figli dalla generazione dei padri, bensì, come abbiamo visto sopra dalle parole di Socrate, lo spostamento delle energie da questo parametro a quello della struttura politica apollinea, ma Eraclito afferma che i figli devono staccarsi dai padri. Comincia qui quel lungo cammino che porterà la civiltà occidentale a definirsi come una civiltà che professa una religione del figlio, il cristianesimo, contro la religione delle società arcaiche per le quali la legge del padre è sempre una religione del padre.
Coerentemente con questa concezione, Eraclito sostiene anche che “Combattere a difesa della legge, per il popolo, è necessario proprio come a difesa delle mura”. Combattere non per difendere la propria gente e se stessi, ma per la legge convenuta in pieno accordo tra i cittadini e la Polis: Qui la legge non è La Legge. La legge di Eraclito in questo contesto è quella stabilita dall’accordo tra i cittadini, come quella di cui parla Socrate. È un pensiero che è collegato direttamente al precedente, in quanto la fedeltà alla Polis non solo è un’astrazione che sostituisce i concreti legami affettivi e di sangue ma perché tale fedeltà si imporrà, d’ora in poi, come esclusiva (vedi Critone 51/b-c). La fedeltà ai genitori, ai legami affettivi, è stata scambiata con un’astrazione: la fedeltà alla madre – patria. L’inizio del processo era già stato percepito da Eraclito, che visse due secoli prima di Platone.
L’Occidente, dunque, aveva già tracciato la propria strada. Da queste considerazioni emerge l’importanza particolare che occupa Eraclito nella storia del pensiero filosofico. Abbiamo osservato le reminiscenze arcaiche del suo pensiero, e il sostrato dionisiaco del suo modo di pensare. Ma questi aspetti dionisiaci del suo pensiero sono già entrati in una riflessione filosofica che tende a razionalizzare le antiche esperienze del rito, e che quindi ha già scelto la strada della sublimazione apollinea.
In Eraclito, a differenza degli altri filosofi, abbiamo l’esempio di una sintesi tra le energie dionisiache e quelle apollinee, e questo lo rende così particolare. Dire infatti che Eraclito esprima una preferenza per la soluzione apollinea non implica che egli abbia indirizzato il suo pensiero verso la rimozione dei contenuti dionisiaci, come è stato rilevato a proposito del discorso sul fuoco. Infatti, più e più volte Eraclito afferma la divinità delle pulsioni, e il loro signoreggiare sul destino dell’uomo.
Come possiamo conciliare tra queste due tendenze antitetiche? Noi crediamo che la risposta ce la dia lo stesso Eraclito in un altro frammento, in cui ci parla di immediatezza, nel senso di immanenza, e che contiene una riflessione sui canali di conoscenza nella nascente Polis: "Infatti tali cose, non le sentono con immediatezza i più, tutti quelli che in esse si imbattono, nè le riconoscono una volta che le hanno apprese immediatamente, bensì’ solamente le rappresentano a se stessi". A nostro parere, la parola – chiave di questo frammento è “rappresentazione”, che è l’essenza del medium apollineo.
Ancora una volta, quindi, Eraclito ci mette di fronte al dilemma di immediatezza dionisiaca versus rappresentazione apollinea. Egli avverte che i più non sentono con immediatezza. La percezione che nella civiltà della Polis, basata sul medium apollineo, non ci sarà spazio per la conoscenza dionisiaca, si traduce in senso di disagio.
Eraclito aveva forse intuito che nel passaggio dalla tribù alla Polis ci sarebbero stati dei prezzi da pagare. Questa è secondo noi la spiegazione della contraddizione che abbiamo individuato in Eraclito, ma anche la sua importanza come filosofo dionisiaco – apollineo, capace di aspirare  a una sintesi tra i due poli. Ma questa possibilità fu scartata, e infatti la figura di Eraclito rimase sostanzialmente isolata nella storia del pensiero filosofico greco. Da quel momento in poi, per tutti i filosofi e gli intellettuali occidentali, Eraclito di Efeso sarà definitivamente Eraclito l’Oscuro.
L’eccezionalità di Eraclito  ricorda quella di Nietzsche: come il primo, egli non si preoccupò dei “sistemi”. La differenza consiste nel fatto che mentre Eraclito visse agli albori della filosofia, Nietzsche visse quando la filosofia aveva oramai maturato una plurimillenaria storia. Come lui, fu in grado di concepire la filosofia come uno strumento di conoscenza e non di rimozione; la forma usata da Nietzsche, l’aforisma, ricorda da vicino l’espressione oracolare dei frammenti di Eraclito. Lo stesso Nietzsche ci dice che Eraclito è l’unico filosofo greco per cui egli provasse un “sommo rispetto” .
Le analogie non si fermano qui: entrambe vissero una vita appartata, essendo entrambe degli “inattuali” per i loro contemporanei. Eraclito, l’esiliato, si scaglia contro i suoi conterranei, gli efesii, per la loro insipienza e ressentiment: “Gli efesii farebbero bene a impiccarsi, tutti gli adulti, e ad abbandonare la città agli impuberi, essi che cacciarono via Ermodoro, l’uomo che eccelleva fra tutti loro, e dissero: fra noi, in verità, non deve eccellere uno solo; e se ciò avviene, eccella altrove e non in mezzo a noi”.
Sembra la stessa polemica che Nietzsche mantiene contro i tedeschi, in particolare per il loro antisemitismo, nel quale Nietzsche vedeva il prodotto aberrante del ressentiment nei confronti di un popolo pieno di vigore e di spirito: “Gli antisemiti non perdonano agli ebrei il fatto che gli Ebrei hanno spirito – e denaro. L’antisemitismo, uno dei nomi dei "falliti" . Altrove, capovolgendo le argomentazioni degli antisemiti tedeschi, egli propone l’esilio per costoro, proprio come Eraclito lo proponeva per i suoi concittadini.
In un altro punto, Eraclito dice: “Contro la brama della passione è arduo combattere: qualsiasi cosa voglia, difatti, essa è disposta a pagarla con l’anima”. Questo frammento sembra quasi un aforisma nitzscheano, e una conclusione freudiana sulla violente potenza delle passioni più oscure.  Ma Nietzsche è forse ancora più radicale di Eraclito come filosofo dionisiaco, perché essendo vissuto al tramonto della civiltà occidentale, poté vedere uno spettacolo di decadenza che Eraclito, vissuto invece agli albori di questa, non poté nemmeno immaginare.
Eraclito non fu compreso, perché non poteva essere più compreso. Nietzsche non lo fu per ragioni simili. Entrambi erano troppo avanti / indietro rispetto ai loro tempi.
Anche il modo di esorcizzare questi due grandi pensatori, da parte delle società nelle quali vissero fu, in fondo, simile: Eraclito venne esiliato e dichiarato “oscuro”: un’etichetta che lo accompagna ancora oggi. Nietzsche venne emarginato da vivo, e da morto fu trasformato, da chi aveva un interesse vitale a travisare il suo pensiero, addirittura in un anti – Nietzsche, in ideologo del nazismo.
Il destino di questi due grandi pensatori dell’occidente fu, quindi, molto simile.
Popper, un filosofo la cui fama è dovuta più alla pubblicistica che al valore delle sue proposizioni, ebbe un modo di fare filosofia non tanto diverso da quello di Talete.
Infatti, come per Talete, anche per lui la filosofia “nascerebbe” sulla base delle scoperte scientifiche. Talete è stato un grande “sapiente” (nel senso apollineo chiarito sopra), e abbiamo visto in che modo egli offrisse delle razionalizzazioni alla nuova civiltà che cominciava a staccarsi dalle fedeltà arcaiche. In questo modo egli contribuiva ad allontanare sempre di più la nascente Polis dalla antica conoscenza dionisiaca, ma nello stesso tempo, con i suoi sofisticati ragionamenti sul mito dell’acqua non proponeva una strada autenticamente percorribile verso la nuova sapienza. Chi lo seguiva si sarebbe smarrito, prima o poi, nei meandri delle razionalizzazioni. Il guadagno di Apollo è anche la sua perdita, e probabilmente queste cose Talete le intuiva, ma sentiva la “ragion di filosofia”, nello sbarazzarsi dell’arcaica legge del padre, come qualcosa di molto simile alla “ragion di stato”, che nelle Polis i governi invocano da sempre, per giustificare le loro azioni: tutto, in quel momento, doveva esserle sottoposto, pena, la possibilità di finire come tutte quelle società apollinee atrofizzate (come l’Egitto, che Talete conosceva bene), che non si erano mai completamente evolute verso il modus apollineo.
Popper, sostenendo che la metafisica è di aiuto alla scienza, perché essa crea quelle cornici di pensiero entro le quali lo scienziato può trarre delle idee da importare nel contesto specialistico della propria scienza, agisce nello stesso modo di Talete, duemila settecento anni dopo di lui.
Il pensiero di Popper è capace di offrire una rimozione adeguata alla situazione della civiltà occidentale a cui esso si riferisce: l’occidente sa di non potere rinunciare alla sua filosofia, come sa di non potere rinunciare a tutte le altre istituzioni apollinee. Sarebbe come se la Polis rinunciasse alla propria “ragione di stato”: e Popper si è eretto a baluardo contro il pericolo occorso. È una testimonianza di povertà intellettuale e di decadenza che proprio filosofi come Popper vengano portati in palmo di mano dall’accademia occidentale.
 
 
 
 

                                          CAPITOLO  QUINTO
 

                                                   L’INCONTRO
 

Il Medio Oriente semitico

Vediamo ora cosa era successo nel frattempo in quel Medio Oriente semitico, che con l’invasione di Alessandro diventerà parte della cultura greca.
Il Medio Oriente antico, in conseguenza della natura semi-arida del suo panorama, costituito da deserto, fasce collinose, e valli fertili bagnate da piogge esclusivamente invernali era abitato, dalla fine del IV millennio, da tre tipi di popolazioni: il beduino, il pastore semi-nomade, e l’agricoltore. Da un punto di vista etnico non c’era differenza alcuna tra questi tre tipi di abitanti. Dall’inizio del secondo millennio, dalla Mesopotamia alle soglie dell’Egitto, tutti parlavano dialetti diversi di una stessa lingua comune, il semitico nord-occidentale di cui facevano parte il babilonese, l’aramaico, l’assiro, il cananeo (che comprendeva ebraico-  fenicio- moabita-ammonita) e l’arabo.
La differenza consisteva in stile di vita.

1) I beduini erano gli arabi, e questi venivano in contatto con gli altri abitanti solo in due maniere: attraverso la razzia, la scorribanda improvvisa sul seminato per ritirarsi dinuovo al di là delle dune del deserto, o il commercio che avveniva per mezzo delle carovane di cammelli che portavano l’oro e le spezie dell’Africa orientale, e dal primo millennio a.C dall’India, fino alla Siria e all’Egitto lungo la costa occidentale della penisola arabica e dall’Egitto attraverso le due grandi strade internazionali che solcavano il Medio Oriente fino a Damasco.
La loro religione, fino all’Islam, non diventò mai articolata ed era un’insieme di religione animistica e di superstizioni arcaiche. Pare che il rito principale consistesse ancora dal pasto totemico vero e proprio, in cui legavano un cammello ad un altare di pietra e poi lo sbranavano vivo “pelle carne e ossa”, come questo viene descritto da S. Nilo ancora nel tardo V sec. della nostra era .

2) I pastori semi-nomadi fino al XIII sec. a.C erano gli ebrei, e il loro stile di vita è stato descritto fedelmente nel libro della Genesi dai racconti delle saghe dei Padri, Abramo, Isacco e Giacobbe e dalle fonti epigrafiche dell’archivio di Tell El-Amarna  .
La religione ebraica, prima dell’insediamento in Palestina nel XII-XI sec.a.C, era già più evoluta di quella dei beduini descritta da S.Nilo, e aveva già rinunciato al crudo pasto totemico, ma era ancora una religione fatta di riti tribali, in cui il rito iniziatico puberale era il rito principale, e infatti erano gli unici semiti, oltre gli arabi, che mantenevano l’uso della circoncisione . Le tracce di questi riti emergono in tutte le storie della Genesi  .
Nei secoli che precedettero l’uscita dall’Egitto e la conquista della Palestina la struttura tribale e patriarcale delle tribù d’Israele dettò anche la loro religione. Infatti l’idea del padre fu tradotta nel dio Jahveh che per molto tempo rimase il dio particolare delle tribù ebraiche, prima di evolversi in dio universale, solo dopo il ritorno dall’esilio babilonese verso la fine del VI sec a.C.
Il dio di Abramo, Isacco e Giacobbe era ancora ben lungi dall’essere un dio cosmico, e solo la mistificazione posteriore dei testi, perpetrata dalla classe sacerdotale dopo l’esilio babilonese, attribuì a questo dio peculiarità che all’alba della storia della nazione non gli appartenevano certamente .
Era il dio particolare della tribù e quella degli ebrei era una monolatria esattamente come quella di altri popoli seminomadi, loro stretti parenti, pastori che verso la metà del secondo millenio erano nel processo di passaggio a residenti fissi sul lato orientale del Giordano: gli Ammoniti con il loro dio Milcom e i Moaviti con il loro Chemosh.

3) Gli agricoltori erano i residenti fissi della Mesopotamia, la Siria e la Palestina e a differenza delle tribù di pastori semi-nomadi avevano lasciato la monolatria, la religione dell’unico padre del clan, per abbracciare un politeismo che meglio si adattasse alle loro condizioni di popoli dipendenti dal ciclo delle stagioni  e dalla fertilità della terra.
Il pastore semi-nomade, e come lui il beduino, rimane asseragliato nella struttura patriarcale della tribù, e quindi tende alla monolatria, proiettando la figura potente del Padre in quello dell’unico dio del clan. Ha così anche la tendenza a rimuovere la figura della madre e far dipendere tutto da un dio maschile.
L’agricoltore, invece, ha la tendenza naturale a identificare la terra che lavora e che gli da i suoi frutti con la madre biologica che era stata la sua prima fonte di nutrimento, e che diventa così Madre Terra. Attraverso il contatto giornaliero con essa avviene una reattivazione delle pulsioni incestuose e un’erotizzazione delle attività agricole connesse: l’aratura, la semina e il raccolto. Il Pantheon dei popoli che si insediano in un posto fisso e diventano agricoltori si popola di dee femminili, dee madri, e dei figli che muoiono e rinascono come personificazione dei cicli della natura.
Mentre non abbiamo notizia di dee femminili o di culti della fertilità presso gli ebrei, i moaviti o gli ammoniti fino alla loro metamorfosi in residenti fissi, nell’ultimo quarto del secondo millennio, la religione della maggior parte degli abitanti dell’Oriente semitico, gli agricoltori, era quella della dea madre, del dio delle piogge, di dei figli che nascono e risorgono e il culto della fertilità e delle orge all’interno dei templi, dove la sacerdotessa era la prostituta sacra. In Palestina, la terra del Cananeo come definita dalla Bibbia, veniva adorata Asherah, come madre di tutti gli dei ed era rappresentata come una prostituta nuda e denominata «Santità» . Le altre due dee principali erano Anath e Astarte, chiamate «le due Grandi Dee che concepiscono ma che non partoriscono» .
Tutte le dee cananee erano prostitute sacre, in antitesi a quelle greche, il cui modello era la verginità. Erodoto ci dice:

Gli Egiziani sono anche i primi che ritennero come pratica religiosa di non aver contatto con donne nei templi e di non entrarvi, dopo il contatto, senz’essersi lavati. Quasi tutti, invece, gli altri uomini, eccetto Egiziani e greci, si uniscono alle donne nell’interno dei templi (Hist., II/64)
Il padre della storia ci conferma che nel V secolo a.C. il culto principale nell’oriente semitico era quello della prostituzione sacra, e l’Egitto era l’eccezione.
Quando, alla fine del secondo millennio gli ebrei si insediarono in Palestina, prima in concomitanza ai cananei, dopo sostituendoli, e diventarono agricoltori, abbandonarono il culto di Jahvè, il padre della tribù, per dedicarsi ai culti di Asherà e di Astarte.
La Bibbia è piena di descrizioni su come i figli d’Israele si abbandonarono pienamente a questi culti. Per sei secoli, fino alle riforme di Giosia alle soglie dell’esilio babilonese, (586 a.C.) non esisteva alcuna differenza tra la religione ebraica e quella dei vicini cananei. Insediatisi in Palestina, nei due secoli precedenti la monarchia unita erano stati gettati i semi per una trasfigurazione esistenziale da pastori ad agricoltori.
La monarchia è il sintomo di questa metamorfosi che stava permeando il popolo ebraico che, diventato sedentario, andò da Samuele e gli dissero:
“Stabilisci quindi per noi un re che ci governi, come avviene per tutti gli altri popoli” (I,Sam.8,5). Non avevano quindi solo abbracciato la religione dei popoli sedentari ma volevano anche addottarne le istituzioni sociali poiché la monarchia rappresenta l’allentamento dei legami del clan, per istituirsi a Stato.
Come avverrà ai greci mezzo millennio dopo, anche gli israeliti avevano cominciato un processo di trasfigurazione apollinea che, come vedremo in seguito, a differenza di quello che avvenne in Occidente, fù parzialmente ribaltato tre generazioni dopo quando le tribù settentrionali si ribellarono all’autorità del figlio di Salomone.
Nei due regni separati, di Giuda e d’Israele, pur continuando la strada della trasfigurazione apollinea e immergendosi nei culti della prostituzione sacra e della Madre Terra del politeismo dei popoli circostanti, furono continuamente inibiti dalla presenza ingombrante dei Profeti di Jahvè, il dio dei pastori, che rappresentavano l’altro aspetto della psiche ebraica e premevano continuamente per una contro-rivoluzione. Monarchia e profezia erano agli antipodi: i re premevano per un allentamento dei legami del clan e la fedeltà alle istituzioni dello Stato, mentre i profeti volevano restituire gli israeliti alla fedeltà a Jahvè, il padre della tribù, e alle istituzioni di uguaglianza sociale e semplicità di vita, peculiari dei nomadi. Con l’esilio babilonese (586 a.C), il tentativo di trasfigurazione apollinea fu frustrato ulteriormente e da allora il popolo ebraico si organizzò in una struttura mentale antitetica a quella apollinea, anche se alcuni elementi, come la fedeltà alla propria terra, penetrarono nella psiche ebraica e vi rimasero in un unico impasto pulsionale.
Ma il tentativo c’era stato, e dei sedimenti rimasero.
Se, come abbiamo visto sopra (p.30), Davide, il primo vero e proprio re d’Israele era ancora la rappresentazione di un Dioniso impulsivo e aggressivo, che “danzava con tutte le forze dinnanzi al Signore” e “saltava e danzava” in maniera sguaiata tanto da suscitare il disprezzo della moglie, ecco che suo figlio, il grande re Salomone, è una figura completamente diversa.
Davide e il suo dio non sono mai associati alla saggezza, come sarà dopo di lui Salomone, ma all’immanenza pulsionale proveniente dall’Es. Questo è il canto di Davide e del suo dio: Salmo di Davide

“Il Signore tuona sulle acque,
il Dio della gloria scatena il tuono,
Il Signore sull’immensità delle acque,
Il Signore tuona con forza,
Tuona il Signore con potenza.
Il tuono del Signore schianta i cedri,
Il Signore schianta i cedri del Libano.
Fa balzare come un vitello il Libano
E il Sirion  come un giovane bufalo.  (Salmo 29, 4-6)

Davide era associato alla musica e alla danza sfrenata. L’immagine di Iahvè è ancora la stessa che aveva iniziato i figli d’Israele sulle falde del monte Sinai, tra tuoni, lampi e suoni terrificanti. È ancora il dio terribile che provoca con la sua ira cataclismi geologici come la distruzione di Sodoma e Gomorra, le piaghe d’Egitto e apre le acque del Mar Rosso, Il Signore schianta i cedri del Libano, i più grandi alberi conosciuti allora, Il Signore fa balzare come un vitello il Libano E il Sirion come un giovane bufalo. Davanti a questo Dio danzano i vitelli e i bufali, come aveva danzato Davide davanti al Signore, come le baccanali davanti a Dioniso e con Dioniso, che danzando sfrenatamente entravano in orgasmo gridando “euoi” (p.10). Il Dio stesso è un capro, un vitello, un giovane bufalo. Le Baccanti gridavano il suo nome come Bromios (il tuonante), esattamente come tuona il Signore con potenza, e il tuono del Signore schianta i cedri del Libano, Taurokeros (dalle corna di toro) e Tauroprosopos (dalla faccia di toro) (p.10), come Iahvè il vitello che salta sul Libano e l’Antilibano, le due catene di montagne più alte della regione. Nel linguaggio biblico, perennemente sottoposto a censura è il Signore che “fa balzare il vitello”, ma l’associazione dio = vitello, dio = giovane bufalo è lampante. La figura di Davide contiene ancora molti elementi del capo tribù, più che capo di stato. Solo con fatica riuscì ad assicurarsi la fedeltà di tutte le tribù d’Israele, che era sempre molto tentennante, come dimostra la ribellione capeggiata da Assalonne. Riuscì a guadagnarsi la fiducia degli israeliti solo dopo aver dimostrato volta dopo volta la sua dedizione a tutto il popolo d’Israele. E questa era legata alla sua persona, non alle istituzioni della polis.
Anche il Dio di Davide è ancora un Dio tribale. La sua è una giustizia molto strana. Manda una carestia di tre anni per un torto fatto ai Gabaoniti da Saul, che nel frattempo era morto da tempo, e dice: “Su Saul e sulla sua casa pesa un fatto di sangue, perché egli ha fatto morire i Gabaoniti” (2,Sam. 21,1-2), ma quando Davide chiede loro cosa possa fare per raddrizzare il torto, questi gli rispondono:

Di quell’uomo che ci ha distrutti e aveva fatto il piano di sterminarci, perché più non sopravvivessimo in nessuna parte d’Israele, ci siano consegnati sette uomini tra i suoi figli e noi li impiccheremo davanti al Signore in Gabaon, sul monte del Signore”. Il re disse: “Ve li consegnerò”. Il re risparmiò Merib-Baal figlio di Gionata, figlio di Saul, per il giuramento che Davide e Gionata, figlio di Saul, si erano fatti davanti al Signore; ma il re prese i due figli che Rizpa figlia di Aia aveva partoriti a Saul, Armoni e Merib-Baal e i cinque figli che Merab figlia di Saul aveva partoriti ad Adriel il Mecolatita, figlio di Barzilai. Li consegnò ai Gabaoniti, che li impiccarono sul monte, davanti al Signore. Tutti e sette perirono insieme. Furono messi a morte nei primi giorni della mietitura, quando si cominciava a mietere l’orzo…Le ossa di Saul e di Gionata suo figlio, come anche le ossa degli impiccati furono sepolte nel paese di Beniamino a Zela, nel sepolcro di Kis, padre di Saul; fu fatto quanto il re aveva ordinato. Dopo Dio si mostrò placato verso il paesè (2,Sam.21,4-14).
Quindi vediamo che la giustizia di Davide è quella della faida di sangue, l’unica conosciuta dalle tribù primitive. La morale della tribù è quella del sangue e del giuramento, non esiste altro parametro. Per raddrizzare le cose il re consegna i nipoti di Saul, affinché vengano impiccati. E questa è la giustizia del Signore, solo dopo Egli si placa. Anche oggi tra i beduini, sangue esige sangue, ed è assolutamente irrilevante l’intenzione o la colpa di colui il cui sangue deve venire versato, come è irrilevante il tempo passato dal misfatto. I nipoti di Saul vengono messi a morte per un delitto compiuto dal nonno, poiché sono carne della sua carne e sangue del suo sangue, e quindi sono lui stesso e nessuno trova niente da ridire. Non solo, ma il Signore si dichiara soddisfatto solo dopo questa “riparazione”.
In tutto questo capitolo non vi è un commento di qualsiasi genere sul fatto. La morale della tribù è questa. Se Davide voleva diventare capo tribù di tutti gli israeliti doveva fare solo così. Il Signore lo ispira nell’amministrare l’unica giustizia conosciuta dalle tribù ebraiche di allora.
È interessante notare quello che è scritto nel Deuteronomio: “Non si metteranno a morte padri per una colpa dei figli, né si metteranno a morte i figli per una colpa dei padri; ognuno sarà messo a morte per il proprio peccato” (Deut.24,16).
Questo libro del Pentateuco fu composto solamente ai tempi di Giosia , re di Giuda, alla fine del VII sec. a.C., quattrocento anni dopo la storia su Davide. E qui già vengono rispecchiate le leggi di un popolo sedentario da molti secoli, che aveva sostituito la legge dello stato alla faida tribale. Se non bastassero le prove che ha addotto Wellhausen alla cronologia dei libri della Bibbia, secondo la quale il Pentateuco è di molto posteriore ai libri dei Re, questa è senz’altro una prova concludente. Il Dio d’Israele aveva passato la stessa trasfigurazione mentale del suo popolo. I contenuti psichici che i greci scomponevano in dei diversi, gli ebrei condensarono in un unico dio, e necessariamente questo dio deve, quindi, assumere gli aspetti più diversi ed antitetici.
Dopo l’uccisione di Avner da parte del suo generale Ioav, Davide teme la faida e la vendetta di sangue (2,Sam.,3,26-28), e in punto di morte istruisce il figlio di mettere a morte Ioav per restituire sangue al sangue e impedire un’eterna faida mortale tra Giudei e Israeliti (1,Re,2,5-6). Gli raccomanda di regnare “secondo giustizia”, ovvero di sostituire l’autorità dello stato alle faide tribali, cosa che lui non era stato ancora in grado di fare.
Come Erodoto ci aveva raccontato che Oro era venuto dopo Osiride, che noi abbiamo interpretato nel contesto della successione dell’apollineo al dionisiaco, e ci pare di aver dimostrato che Apollo venne dopo Dioniso, così Salomone viene dopo Davide.
Vi è ancora un legame associativo tra la figura di Davide e quella della sfera dell’immanenza pulsionale tribale,  dionisiaca e antiapollinea.
Al re viene proibito di erigere una casa al Signore:
dice il Signore: forse tu mi costruirai una casa, perché io vi abiti? Ma io non ho abitato in una casa da quando ho fatto uscire gli Israeliti dall’Egitto fino a oggi; sono andato vagando sotto una tenda, in un padiglione. Finchè ho camminato, ora quà, ora là, in mezzo a tutti gli Israeliti, ho forse detto ad alcuni dei Giudici, a cui avevo comandato di pascere il mio popolo Israele: perché non mi edificate una casa di cedro? Ora dunque riferirai al mio servo Davide: così dice il Signore degli eserciti: Io ti presi dai pascoli, mentre seguivi il gregge, perché tu fossi il capo d’Israele…Quando i tuoi giorni saranno compiuti e tu giacerai con i tuoi padri, io assicurerò dopo di te la discendenza uscita dalle tue viscere, e renderò stabile il suo regno. Egli edificherà una casa al mio nome e io renderò stabile per sempre il trono del suo regno (2,Sam.7,5-13).
Davide e i Giudici prima di lui sono ancora associati al “vagare sotto una tenda”, al “camminare quà e là in mezzo a tutti gli Israeliti”, ai pascoli e al gregge.
La mentalità del nomade è antitetica a quella del cittadino: per lui le case sono tabù. Ancora nel VI sec.a.C. alla vigilia dell’esilio babilonese, esisteva un clan israelita, quello dei rehaviti, che si rifiutava di abitare in case e di piantare vigne (Geremia 35,1-19). Il dio di Davide si rifiuta ancora di abitare in una casa, solo quello di Salomone acconsentirà a farlo.
Salomone è già un vero re. Non è più associato alla musica e alla danza, come il padre, ma alla saggezza e questa, come abbiamo visto sopra, è un parametro apollineo.
Quale differenza tra i Salmi di Davide e il Cantico dei Cantici di Salomone, l’inno alla terra e all’amore. Quale differenza tra la passionalità sfrenata del canto e della danza di Iahvè, il dio di Davide, e la calma saggezza e la sapienza dei Proverbi del Dio di suo figlio. Davide, come Dioniso, danzava e muggiva, il suo Dio appariva con la spada sguainata ed esigeva sangue contro sangue. Quello di Salomone siede nella vigna e canta come Apollo, parla con gli uccelli, emette sentenze in cui la cruda giustizia tribale si trasfigura in verità enigmatica, in saggezza, negli insegniamenti di Apollo.
Salomone è il re che costruisce, e l’architettura è un’arte, appartiene alla sfera apollinea. Costruì il grande tempio del Signore, la sua reggia, il palazzo detto Foresta del Libano con un grande vestibolo del trono, ove rendeva giustizia, e una casa per la figlia del faraone sua moglie (1 Re,7,1-8).
I Giudici rendevano giustizia seduti sotto una palma (Giudici 4,5), il re seduto in un grande vestibolo. Il trono era il segno dell’autorità e Salomone, il più saggio degli uomini, lo personifica, mentre invece prima la giustizia veniva delegata a uno dei fratelli. Il potere diventa un simbolo astratto, la sentenza viene  ex cathedra.
Le sentenze di Salomone diventano, così, ispirate da Dio, come quelle del dio delfico.
Il potere del re diventa assoluto. A differenza di quello che era successo a Saul e a Davide, e accadrà di nuovo dopo la secessione della monarchia unita, nessun profeta si permetterà mai d’importunare il re. Qualsiasi sopruso fu giustificato per raison d’etat: impose il lavoro forzato sugli israeliti, per poter edificare le sue opere (1,Re,5,27), strinse patti con i sidoniti e consegnò loro città israelite (5,15 e 9,10-12), evidentemente perché si era indebitato più di quello che era nei suoi mezzi, si imparentò con il faraone d’Egitto (7,8), prese settecento principesse per mogli e trecento per concubine (11,3), si fece oggetti e mobili d’oro e d’argento (10,16-21) e naturalmente il conto lo pagarono le tribù ebraiche che si erano così imprudentemente cacciate in quella situazione.
Diventò anche il grande sacerdote dei culti della fertilità orientali, che ormai cominciavano già a mettere radice nel popolo ebraico, diventato agricoltore. Salomone seguì Astarte, dea di quelli di Sidone, la dea della fertilità e prostituta sacra di tutta la regione (11,4-8) e costruì altari e pali sacri in onore di Asherà, che rimarranno a Gerusalemme fino alle riforme di Giosia trecentocinquant’anni dopo. Così anche gli ebrei avevano avuto il loro momento apollineo, verso il quale nutriranno sempre un atteggiamento emotivo ambivalente.
Subito dopo la morte del grande re ci fu un ripensamento. Questa struttura a polis e a stato non si confaceva alla turbolenza e al bisogno di libertà ebraiche. Avvenì una secessione che ridimensionò il potere dello stato. I re di Giuda e d’Israele che vennero dopo di lui non riusciranno più ad accentrare il potere e la reggia di Gerusalemme e di Samaria dovettero sempre fare i conti con l’opposizione, che cominciò da quel momento ad emergere nella figura dei profeti del dio dei pastori.
I culti politeisti continuarono quasi indisturbati fino alla vigilia dell’esilio babilonese, ma la soluzione apollinea, con i suoi palazzi e opere architettoniche, e la “saggezza” che veniva dallo Stato, fu, pur con qualche spasimo di contrappunto, definitivamente scartata.
Con il ritorno dalla Babilonia, alla fine del VI secolo (538 a.C), gli ebrei abbandonarono i culti dei loro vicini e la religione ebraica cominciò a differenziarsi da quella di tutti gli altri popoli. Non solo tornarono alla monolatria di Jahvè, ma persino la trasfigurarono in monoteismo. Da qui in poi il popolo ebraico, o meglio quello che ne era rimasto dopo la distruzione totale di dieci tribù su dodici, diventò un popolo diverso dagli altri. Pur rimanendo un popolo di agricoltorì si depurò da tutti i culti della fertilità legati alla terra e al ciclo delle stagioni, per asseragliarsi nella religione del Padre, come se la metamorfosi esistenziale da pastori ad agricoltori non fosse mai avvenuta. La prostituzione sacra legata al Tempio, che solo Giosia aveva eradicato, divenne il polo proibito. Furono così il primo popolo sedentario della storia a eradicare in maniera permanente qualsiasi forma di politeismo . Le cause che portarono gli ultimi residui delle dodici tribù, ormai rimaste solo Giuda e Beniamino e i Leviti che le accompagnavano, a intraprendere una metamorfosi così profonda nel proprio modus mentale sono state spiegate da Freud come il risultato della reattivazione del senso di colpa per l’omicidio di Mosè, dopo una latenza di più di sette secoli da quando il grande condottiero aveva tentato di imporre alle tribù ebraiche il monoteismo di Ecknaton e ne aveva pagato il prezzo con la vita .
Questo spiegherebbe quale erano state le energie psichiche interne che condussero alla reattivazione di un modello rimosso, ma non chiarisce completamente il quadro della situazione. Uno stimolo importante era stato la perdita dell’indipendenza nazionale e il primo esilio, che avevano fatto da incentivo a trasformare un dio particolarista e tribale in dio universale pur continuando a mantenere la peculiarità di dio specifico del clan, che d’ora in poi si chiamerà: popolo eletto. La specificità del dio tribale fu infatta mantenuta attraverso questo accorgimento. Basta invertire l’espressione da “popolo eletto da Dio” a “Dio eletto dal popolo” ed ecco che questa strana assurdità diventa chiara. Come ogni tribù per rimanere tale e conservare la propria identità deve isolarsi dalle altre e continuare a mantenere la specificità del proprio Padre-Totem-Dio, così infatti fecero gli ebrei.
Ma questo successe dopo settecento anni di vita sedentaria e dopo che avevano abbracciato con entusiasmo i culti degli altri popoli tra i quali vivevano. Salomone “amò donne straniere, moabite, idumee, di Sidone e hittite” (I RE, 11,1), e queste portarono a Gerusalemme i loro culti. Acab “prese in moglie Gzabele, figlia di Etbaal, re di quelli di Sidone” (I RE 16,31) e la reggia di Samaria si riempì di culti della fertilità cananei, com’è descritto esplicitamente nei libri dei Re e Profeti. E questa era una pratica comune presso tutti gli israeliti, ed ecco che al ritorno dall’esilio babilonese vengono interditi sveramente i matrimoni misti (Neemia, 13,23-28) per isolare la Giudea dai culti dei popoli circostanti.
Quello che rese possibile questa trasfigurazione, il ritorno all’indietro per riallacciarsi a un modello apparentemente abbandonato, fu il fatto che, tra tutti i popoli della regione, le tribù ebraiche erano anche state le ultime a diventare sedentarie. Quando gli israeliti invasero la Palestina nel XIII secolo i cananei erano già agricoltori e residenti fissi da cinque secoli. Per gli ebrei, il modello tribale non era mai stato completamente abbandonato e aveva continuato ad esistere dietro le quinte del palcoscenico psichico. L’idea del Dio dei pastori, unico padre del clan, era stata soppiantata ma non soppressa, e persa l’indipendenza nazionale e cancellata la monarchia, suo simbolo, era tornata ad essere l’unica alternativa esistenziale.
Mentre Neemia e gli altri sacerdoti dopo di lui erano impegnati a fare degli ebrei un popolo particolarista e isolato, il resto del mondo semitico, sotto il tetto comune prima dell’impero babilobese e dopo quello ancora più vasto e cosmopolita dell’impero persiano, stava passando un processo inverso. Ogni popolo stava perdendo le proprie particolarità specifiche e cominciava quel sincretismo religioso, che era il risultato della fusione di secoli di vita sedentaria urbano-agricola, con il nuovo cosmopolitismo politico che trovava tutti i popoli del Medio-Oriente sotto un tetto comune. Il sincretismo religioso che ne derivò più che una religione universale fu un’insieme di culti, simili come contenuti, che portavano nomi diversi a secondo della regione geografica dove avvenivano, e privi di qualsiasi articolazione metafisica. All’universalismo politico aveva seguito un sincretismo comune che difficilmente si può chiamare una vera e propria religione.
Gli ebrei, una volta distanziatisi dai culti degli altri popoli e l’incesto simbolico che rappresentavano, probabilmente, come dice Freud, per la reattivazione inconscia del senso di colpa verso Mosè e il suo Dio, dovettero fare del dio particolarista della tribù, Jahvè, che li aveva guidati prima che si insediassero in Palestina, un dio cosmico, poiché quello era il mondo nel quale si ritrovavano, quello degli imperi mondiali, babilonese prima e persiano ora.
Questo era l’oriente semitico in cui dilagò Alessandro con le sue truppe e la sua cultura.
 

L’Ellenismo

Quello che mancava all’Oriente semitico, per produrre un’unica cultura universale, era la metafisica della religione di Apollo. La religione greca era infatti l’unica ad essere articolata. I vari culti non erano solo espressioni isolate, ma costituivano un insieme culturale: esisteva “una visione del mondo”, una Weltanschauung.
La filosofia greca, già dai presocratici, non era più solo un insieme di miti, come invece era stato il caso nell’Oriente semitico, ma era stato il veicolo per un tentativo di sintesi dinamica che prendeva forma in maniera progressiva. Da rito a mito a idea a metafisica. Il veicolo era stato la graduale metamorfosi di Apollo: dai riti della pubertà, agli insegnamenti e poi gli enigmi del dio delfico, l’arte, la bellezza e da questa alla filosofia. Il tutto prendeva una forma coerente e si espandeva fino ad abbracciare tutta la fenomenologia della realtà esistenziale.
I diversi dei e i rapporti dinamici tra loro erano le componenti di un mosaico dal quale  traspariva un continuo tentativo di sintesi in un’immagine chiara. I rapporti di forze tra le singole componenti non erano rigidi, come per esempio in Egitto, e abbiamo già visto come Dioniso, da una condizione di supremazia agli albori della civiltà greca, era sceso ed aveva ceduto il suo posto ad Apollo, il quale a sua volta aveva dovuto condividere il suo trono con un’altra epifania di Dioniso nella sintesi che ne era emersa con Zeus, dio padre della civiltà greca, come Dioniso lo era stato nella sua preistoria tribale.
Quando Erodoto nel V secolo identifica il dio sole egizio Ammon con Zeus (Hist., II/42) è perché in quel momento, prima dell’espansione greca, Zeus era il dio principale dell’Olimpo, come il sole era il dio principale dell’Egitto. Possiamo supporre che se Erodoto fosse vissuto in epoca ellenista, probabilmente avrebbe identificato Ammon con Apollo e non con Zeus, poiché in epoca ellenista il sole che illuminava il mondo ecumenico pan-ellenico era Apollo. Questo diventerà il simbolo del dio universale, mentre Zeus rimase il dio principale della Grecia, e nei tre secoli che precedettero il cristanesimo dovette cedere gran parte della sua supremazia al sole cosmico di Apollo che lo detroneggiò almeno parzialmente, come il Cristo detroneggerà parzialmente il Padre. L’ascesa del carro solare di Apollo nel regno dei cieli è infatti parallelo all’ascesa del Cristo in cielo dove si siederà a fianco del Padre, diventando però, di fatto,  la divinità principale.
Abbiamo visto come, nei secoli che si susseguirono all’apice della cultura classica, Dioniso era stato allontanato sempre di più dalla coscienza della grecità. Apollo si stava trasfigurando dall’immagine del dio delfico a quello di un ideale sempre più soffuso. Con l’ellenismo era diventato un dio ecumenico: da un lato guadagnò in popolarità, dall’altro perse in intensità. Nell’Oriente ellenizzato non significava ormai più il dio iniziatore che aveva terrorizato gli achei sotto le mura di Troia, ma nmmeno il dio mistico che illuminava la mente greca con i suoi enigmi ambivalenti. Era diventato un’immagine epidermica, il simbolo della cultura ecumenica pan-ellenica, l’immagine di una cultura, il suo trade-mark.
Dioniso, nella sua nuova veste di dio della fertilità, era diventato parallelo a quelli dei  culti della fertilità orientali: un fallo portato in processione da Atene a Eleuthera e ritorno, un dio che muore e rinasce come Osiris, Tammuz, Adonis e Attis.
Apollo era diventato un dio sole che illumina tutta l’ecumene pan-ellenica, ma che nulla ha da proporre tranne il suo simbolo epidermico: quello del cosmopolitismo.
Alessandro aveva aperto l’oriente all’influenza greca, ma i semiti del Medio Oriente, tranne gli ebrei che erano asseragliati nel loro isolamento particolare, puritano e iconoclasta, avevano restituito loro pan per focaccia. I culti della fertilità, festeggiati nei templi delle antiche dee cananee attraverso le orge e la prostituzione sacra, cominciarono a penetrare la Grecia, ai cui templi era stata invece relegata la sacralità delle dee vergini. In Occidente la sacralità delle dee era così antitetica al modus mentale della prostituzione sacra che questi culti non riuscirono a spodestare le belle vergini dalle loro cellae, ma diventarono parte della vita occidentale, sulle alture, nei campi, nella psiche.
Questo è il nuovo Dioniso, non quello dell’orgia sacra del pasto totemico e della tragedia eschilea, bensì il gigolò dal pene eternamente eretto, la caricatura patetica del proprio sè.


Continua in Parte prima B



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