Iakov Levi e Luigi Previdi


Occidente e Oriente semitico nello specchio di Dioniso e di Apollo. Parte prima B

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I Culti della fertilità

Il sincretismo tra la cultura greca e i riti orientali con cui era venuta a contatto in epoca ellenista aveva prodotto, nei tre secoli antecedenti il cristianesimo, una fioritura particolare di questi culti e uno stesso dio con nomi diversi veniva fatto periodicamente morire e risorgere, come condensazione degli arcaici riti tribali della pubertà e i riti della fertilità legati al ciclo delle stagioni e dell’agricoltura in un’unica sintesi. Nei culti di Osiris, Tammuz, Dioniso, Attis, Adonis e Mitra, il pasto totemico, condensato con le tracce mnestiche dei riti d’iniziazione puberali, che era il rito tribale par excellence, e comprensibile solo nel contesto della struttura sociale del clan, diventò l’allegoria del ciclo di morte e rinascita della natura. Il paradosso consiste nel fatto che solo quei popoli che erano definitivamente usciti dalla struttura sociale tribale, per natura semi-nomade, per dedicarsi all’agricoltura, perpetravano questi riti in quanto solo per loro aveva senso identificarsi con il ciclo delle stagioni, la semina e il raccolto, le prime piogge autunnali vivificatrici e le ultime piogge primaverili che prennunciavano la morte della natura e del dio. I Sumeri avevano per primi introdotto questo culto, nel IV millennio, proprio perché erano stati i primi a uscire dalla struttura tribale e a dedicarsi all’agricoltura. Questa era stata la prima civiltà del mondo, precurritrice di tremila anni la polis greca. Dumuzi il dio sumero, nato da Inanna, regina dei cieli, scendeva periodicamente nel regno dei morti e resuscitava . Parallelamente ai Sumeri, all’altra estremità del “fertile crescente”, gli insediamenti predinastici sulle rive del Nilo erano usciti anche loro dalla struttura tribale e si erano costituiti a Stato sotto l’insegna del faraone. In concomitanza all’istituzione di una civiltà agricola nacque il mito di Osiris, nato da Iside, madre e moglie, smembrato da Seth. Iside cercò e ricompose i pezzi tranne che il membro virile, che non riuscì a ritrovare. (cfr. Dioniso e Demetra p.8), e rimase nel regno degli Inferi, diventando l’ultimo estremo giudice. Iside lo fece resuscitare con mezzi magici e gli partorì un figlio, Oro, che diventò re d’Egitto .
I culti che ripetevano simbolicamente il fato del dio venivano celebrati in varie città d’Egitto e consistevano tra l’altro nella costruzione di un “giardino di Osiride”, una forma di fango dalla figura del dio bagnata con le acque del Nilo e seminata di grano. Più tardi, germogliando, simboleggiavano la rinnovata forza del dio
Erodoto nel V secolo a.C. identificherà Osiride con Dioniso (Hist., II/144)  e Iside con Demetra (II/123). Interessante notare come a Memphis il toro sacro Apis veniva identificato con il dio e chiamato Osiride-Apis. Se, come abbiamo visto, Osiride è parallelo a Dioniso, totem delle tribù greche dalla forma di capro, il totem principale delle tribù che furono i progenitori degli Egizi era stato evidentemente un toro. L’Egitto e la sua fertilità era molto più adatto, come la Mesopotamia e a differenza della Palestuina e della Grecia collinose, all’allevamento del bestiame piuttosto che a quello delle greggi.
Nel secondo millennio, il dio sumero Dumuzi divenne il dio babilonese Tammuz, cambiò solo il nome ma il suo ciclo rimase lo stesso. Nel calendario ebraico ancora oggi il mese più caldo dell’estate (luglio-agosto) si chiama Tammuz. Questa è la traccia rimasta degli antichi culti della fertilità babilonesi, che passarono anche alla Siria-Palestina, in cui il dio scende agli inferi alla fine della primavera per rinascere in autunno. Quando il dio moriva le donne lo piangevano e si strappavano i capelli per il lutto. Questo rito era eseguito anche dagli ebrei, nel tempio di Gerusalemme stesso, prima dell’esilio babilonese. Con le parole del Profeta:

Poi mi disse: Hai visto figlio dell’uomo? Vedrai che si commettono nefandezze peggiori di queste”. Mi condusse all’ingresso del portico della casa del Signore che guarda a settentrione e vidi donne sedute che piangevano Tammuz (Ezchiele, 8,14).
Come nel mito orfico di Dioniso che muore e viene resuscitato da Demetra tutti questi dei vengono fatti rinascere da una dea-madre. L’unica differenza pare essere che mentre Dioniso viene ucciso da bambino, mentre stava giocando, gli altri dei sono tutti dei giovani, ma non bambini, ovvero in età puberale, come il Cristo crocifisso è rappresentato come un dio giovane.
Freud ha ricollegato questi miti al peccato originale del parricidio e all’incesto , e ha spiegato il dio giovane come condensazione del padre ucciso e del figlio che ne espia la pena. Ma un dio bambino non è appunto un dio giovane in età puberale, a questo spetta più l’immagine di Apollo, infatti in tutti i culti orientali, Osiris, Tammuz, Adonis e Attis sono dei giovani amanti di dee madri che muoiono e risuscitano.
Nei culti di Dioniso già dal V secolo apparivano i satiri con il pene in erezione  , e quest’immagine mal si accorda con quella del mito orfico in cui un bambino viene sbranato dai Titani mentre sta giocando. In epoca ellenista e fino a Michelangelo e Caravaggio l’idea di Dioniso o Bacco viene associata molto di più a quella di un giovane che a quella di un infante. Il Dioniso dei culti della fertilità non è più dunque quello sbranato dai Titani e l’epicentro passa dalla traccia mnestica del pasto totemico a quella del rito d’iniziazione puberale. In questo contesto il dio “prende in prestito” l’immagine di Apollo, il dio figlio eternamente giovane, che assomiglia molto di più a quella di Tammuz, Osiride, Adonis, Attis. Immagini si sovrappongono a immagini, e il contenuto originale viene seppellito sempre più in profondità, sotto strati sopra strati.
La condensazione crea la confusione: un dio-Padre che è insieme bambino, e dopo giovane in età puberale. I segreti trasmessi dallo stregone della tribù ai giovani iniziati si fondono con quelli di un dio che muore e risorge e di una natura che muore sotto il solleone per rinascere con le prime piogge autunnali. Da queste condensazioni di più immagini in una deriva l’idea del mistero, quella stessa che passerà al cristianesimo.
C’è ancora un punto che esige una chiarificazione.
Reik, valendosi dei lavori di numerosi antropologi, ha esaminato da vicino i riti della pubertà come questi avvengono tra le tribù selvagge dell’inizio del secolo .
Il modello comune a tutti è che il giovane novizio viene allontanato dalle madri e dalle sorelle per essere portato a morire e a rinascere simbolicamente nella foresta, e in questo ci troviamo in simbiosi con tutti i culti di cui abbiamo parlato. Ma la grande differenza è che nelle tribù selvagge i novizi vengono fatti rinascere dal padre e non dalla madre, come invece avviene nei culti della fertilità. Questo è anche l’accorgimento affinché i giovani adulti si identifichino con il padre e si stacchino dalla madre, e questo è proprio lo scopo del rito iniziatico puberale. Il sacrificio di Isacco, che rappresenta la traccia mnestica dei rito di passaggio , come questi avvenivano nelle antiche tribù ebraiche, ci racconta di un padre che allontana il figlio dalla madre, minaccia di ucciderlo e di un dio-Padre che lo salva, ovvero lo fa rinascere, alter-ego del padre biologico, per restituirlo alle braccia della madre rinato (la quale nel frattempo era morta per il dolore).
In questa differenza trova espressione la differente struttura sociale tra le tribù selvagge odierne e i pastori semi-nomadi che nel secondo millennio vagavano ai margine del seminato, e la cultura dei popoli sedentari dei secoli precedenti il cristianesimo.
Le tribù selvagge odierne e i beduini si occupavano di caccia (vedi Ismaele ed Esaù) e quelle ebraiche di pastorizia (Abramo, Isacco, Giacobbe) ed erano società strettamente patriarcali., erano appunto tribù. I popoli della fine del primo millennio erano agricoltori e avevano abbandonato la religione del Padre per abbracciare quella della Madre, la Madre Terra e i suoi frutti. Da iniziazione tribale alle insegne del padre i riti erano diventati culti della fertilità della terra, alle insegne della madre.
Ed ecco che Dioniso viene fatto rinascere da Demetra, la dea delle messi e della fertilità della terra, Tammuz da Astarte, la dea della fertilità semitica, Osiride da Isis, la dea della fertilità egizia  e così via nelle diverse variazioni. Ovvero, gli arcaici riti puberali si trasfigurano insieme alla metamorfosi sociale in riti della fertilità, e la figura del padre viene sostituita da quella della madre, come imago principale. Come vedremo in seguito, il cristianesimo opererà una sintesi tra i due, parzialmente ricoprendo all’indietro parte della strada passata dall’Occidente.
 

Sulla soglia del cristianesimo

La società nella quale mise piede il cristianesimo era quella del modus mentale apollineo, come si era evoluto in dieci secoli. Quello che rimaneva del dionisiaco, come abbiamo visto, era stato relegato allo scurrile, i suoi veri contenuti erano stati rimossi e non esisteva più nessuna somiglianza tra il primo dio delle tribù greche e quello festeggiato nelle commedie teatrali dei satiri con il pene in erezione.
In tutta l’ecumene greco-romana l’ideale era quello del sole cosmopolita di Apollo. Chi non accettava di far parte di questa cultura, all’insegne delle visioni di Apollo, l’arte plastica e la rappresentazione figurata, era considerato barbaro. La filosofia aveva da tempo preso il posto del rito tribale e tutte le espressioni di quest’ultimo erano considerate forme di inciviltà.
Quando questa civiltà disunita in tutto, ma unita dallo stesso modus mentale epidermico, sotto il tetto dell’epifania di Apollo, ricevette su di sè un Salvatore, questo dovè necessariamente avere il volto di quest’ultimo, che racchiudeva in sè i simboli degli strumenti della salvezza: l’insegnamento, la sapienza, la bellezza, l’epifania = la rivelazione. Come Apollo aveva parlato per enigmi, il Cristo parlerà per parabole, meno astruse delle divinazioni del dio delfico ma, d’altra parte, il messaggio non era più diretto a un’ elit di iniziati, bensì a una massa di diseredati.
Paolo si scaglierà contro “la sapienza del mondo”, ma questa era stata proprio quella del suo dio. Solo la sintesi platonica aveva cominciato la sua trasfigurazione in fede e questa, con il crollo del mondo antico, ne aveva definitivamente preso il posto.
La fede, che era stata il prodotto finale della bellezza e della filosofia si rivolta contro le sue matrici per non avere concorrenza. Platone, attraverso il suo epigono (Paolo), riesce a perpetrare il coup d’etat tanto ambito. Come ogni nuovo rivoluzionario ci tiene a tutelarsi dalla controrivoluzione e scomunica chi dubita.
 

La sintesi

Molto è stato già scritto sulla similiarità tra il mito cristiano di un giovane dio che muore e risorge e i culti del mondo ellenista pre-cristiano , e anche di quello anteriore all’ellenismo, come il culto di Osiride in Egitto e di Tammuz-Dumuzi nel mondo mesopotamico sumero-babilonese . Non c’è dubbio che questi culti contengono tutti le tracce mnestiche degli antichi riti tribali d’iniziazione puberale in cui un novizio muore e risorge simbolicamente, ed è ovvio che la Crocifissione ricalca questi riti.
Quello però che tutti quelli che hanno scritto numerosi articoli sul parallelismo tra i culti della fertilità orientali e il cristianesimo non sono riusciti a spiegare è perché proprio quest’ultimo sia diventato una religione mondiale alla quale aderisce un quarto dell’umanità, duemila anni dopo la sua prima apparizione. Infatti né il culto di Mitra né quello di Dioniso-Adonis-Tammuz-Attis si evolsero a religioni e tantomeno a religioni mondiali.
Come abbiamo visto sopra, l’aspetto del rito iniziatico tribale era stato rimosso dai culti della fertilità che erano diventati paradossalmente proprio il culto dei residenti fissi, agricoltori che avevano completamente abbandonato la struttura sociale tribale. Dell’iniziazione era rimasto solo l’aspetto del “mistero”, non aveva più niente a che fare con l’iniziazione sociale dei giovani alla società degli adulti.
Da “riti”, che conservano la connotazione del clan, erano infatti diventati “culti”, ovvero qualcosa di misterioso che è più del rito ma meno della religione. Tranne che la ripetizione di una saga, quella della morte e della resurrezione, comune del resto a tutti quanti, non si erano sviluppati né in una religione articolata né in una visione metafisica del mondo. Eseguiti in tutto il mondo civile di allora ed universalmente accettati, da Roma con il nome di Cibele e Attis, e in un’altra versione Rea, Grande Madre degli dei - Attis, che  nel mito greco viene partorito come primo uomo , alla Grecia come Dioniso-Demetra, Agditis-Attis, alla Fenicia come Afrodite e Adonis, alla Siria dove lo stesso dio appariva anche con il nome di Tammuz, trasfigurazione babilonese del Dummuzi sumerico e conviveva con Isthar, l’Astarte cananea, Iside -- Osiris per gli Egiziani , erano tuttavia come ogni rito, prima del cristianesimo, “rappresentazioni teatrali” circoscritte al luogo in cui avvenivano, anche se simili. Per questo i diversi nomi a secondo di dove avvenisse il culto. Come se ognuno raccontasse la saga del proprio clan, anche se era simile a quella degli altri. Per dirla in altre parole, erano un culto particolarista, anche se generale. Come particolarista è il rito tribale, poiché in esso ogni clan racconta la propria storia e quella del proprio padre primigenio. La religione generale di tutto il mondo civile di allora era quella di Apollo, il dio iniziatico, che si era staccato dalla propria particolarità ed era diventato il dio universale, comune a tutta l’ecumene greco-romana.
Ma Apollo, che era il dio iniziatico dei riti di passaggio delle tribù greche, non appare mai come dio che muore e risorge. Questo dio è Dioniso. Il cristianesimo mette in atto una sintesi tra Apollo, che era nel frattempo diventato il dio unificatore di tutta l’ecumene pan-ellenica, e al quale si richiama Gesù nella sua immagine di maestro e di rivelatore di saggezza, e Dioniso che viene messo a morte e resuscita. Questa sintesi mette in atto una regressione esistenziale di centinaia di anni, poiché nel frattempo il pasto totemico dionisiaco e i suoi contenuti tragici, dal mito orfico dello sbranamento del dio alla tragedia eschilea del coro dei capri, erano stati da tempo rimossi e sostituiti da un culto della fertilità che aveva perso ogni legame emotivo con il rito primitivo.
Avviene qui una reattivazione di un contenuto rimosso, ed ecco il risultato finale della sintesi: il Cristo muore come Dioniso ma rinasce come Apollo, e come questi diventa il dio ecumenico con tutti i suoi contenuti: bellezza (p.16), saggezza (p.17),  insegnamento-rivelazione (p. 10), castità (p. 29). Gesù viene sempre rappresentato barbuto e con una lunga tunica addosso nella sua vita terrena, come il capro Dioniso, mentre da risorto è sbarbato è vestito di bianco, come un vero sole. In Occidente, in croce è rappresentato semi-nudo, come i giovani greci che si ispiravano ad Apollo (P.16).
Tutto allude a questa sintesi. Anche nel Vangelo stesso un Gesù barbuto viene battezzato, ovvero fatto rinascere a una nuova vita. Chi lo battezza è S. Giovanni rappresentato in tutte le raffigurazioni vestito di una pelle di animale, ovvero travestito in animale totemico, il capro, e che morirà anche lui di una morte sacrificale, la cui testa viene presentata a un banchetto, come il totem viene ucciso e sbranato. Il Battista rappresenta uno spostamento dell’immagine della natura dionisiaca del Cristo a se stesso, come la scomposizione di un’immagine in due diverse per meglio comprendere i diversi elementi della condensazione. E i greci, come abbiamo visto nell’analisi delle condensazioni operate dalla mitologia greca, erano abituati a scomporre un’immagine in due diverse come allusione all’evoluzione mentale e religiosa.
Come aveva detto Erodoto: “Ultimo avrebbe regnato Oro, figlio di Osiride, quello che i greci chiamano Apollo…Osiride in lingua greca è Dioniso” (Hist., II/144). Apollo infatti aveva preso il posto di Dioniso come dio principale. Così la natura apollinea del Cristo, in un’unica sintesi con quella dionisiaca, ha la prevalenza. Il Battista stesso lo spiega: “dopo di me viene uno a cui non sono degno nemmeno di allacciare i calzari” (Gv.,1,27), cioè dopo di me, Dioniso, arriva uno, Apollo, che sarà a me superiore. Ora diventa più chiaro anche un altro passo del Vangelo:

Venne un uomo mandato da Dio e il suo nome era Giovanni. Egli venne come testimone per rendere testimionianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui. Egli non era la luce, ma doveva rendere testimonianza alla luce. Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo”(Gv.,1,6-8)
e il dio collegato alla luce è Febo, il cui nome stesso significa “che illumina”.
Giovanni, simbolo del dio caprino, era Dioniso, che aveva preceduto Apollo e che non era la luce vera, come Lucifero non era stata la luce vera, questa verrà dopo di lui. Ecco la proposizione del cristianesimo: una luce vera che viene dal Dio-Figlio, invece delle proposizioni false associate al padre tribale arcaico. L’Eucarestia sarà il rito che condensa tutti i contenuti (pp.26-28). Attraverso l’ecumenismo apollineo e la sua epifania di luce e di rivelazione, il rito tribale, particolarista per natura, diventa universale. Per mezzo di Apollo, Dioniso smette di essere il totem specifico delle arcaiche tribù greche e morendo salva non solo un clan o un popolo, ma tutta l’umanità. Questa è stata la vera innovazione del cristianesimo e quella che ha trasformato un culto della fertilità orientale, come ce n’erano tanti, in religione universale.
Un Apollo epidermico e stanco ma universale, e la reattivazione dell’arcaico totem, ancora pieno della vitalità dell’Es com’era nella preistoria della civiltà greca, produssero il miracolo. Entrambi gli dei furono rivitalizzati dalla sintesi nel dio cristiano. Dioniso perse la scurrilità e la comicità della decadenza ellenista e riacquistò la tragicità dei tempi antichi, e Apollo fu rivitalizzato dalle ritrovate energie di questo nuovo-vecchio dio.
Come in arte la canalizzazione delle energie del primo nel medium figurativo dell’altro aveva prodotto l’opera d’arte sublime della Grecia classica, così le energie tragiche e vitali del Dioniso sacrificato trasfigurate in un Apollo dio sole e re dell’universo produssero la formula giusta per una nuova religione vitale che avrebbe conquistato il mondo. Giovanni era venuto prima ed aveva battezzato Gesù, ovvero versandogli sul capo dell’acqua lo aveva travasato delle proprie energie vitali. Il Cristo risucchiò le energie del dio caprino e rinacque, e infatti il battesimo è simbolo di rinascita, per innalzarsi a nuove altezze.
Giovanni Battista è quasi sempre rappresentato con indosso una pelle di capro.
Nel capolavoro di Donatello, in Santa Maria Gloriosa dei Frari a Venezia la selvaticità della bestia e la sua pena trasudano dalla figura del santo.
Simile è la statua di Francesco Di Giorgio Martini a Siena.

              
   Giovanni Battista di Donatello          Giovanni Battista di Martini  

Michelozzo da Bartolomeo Museo dell'opera del Duomo (Firenze).

Nel Battistero fiorentino è rappresentata la storia del Battista e la sua decapitazione.
Andrea Pisano lo scolpisce in ginocchio, con la testa che quasi tocca il suolo, e l'enorme e fatale spada in un tragico angolo acuto con il braccio del soldato che si appresta a scendere sul collo. Il Santo, con i lunghi capelli che fanno tutt'uno con la veste bestiale, è l'animale sacrificale.
Abbiamo davanti la rappresentazione del sacrificio della Bestia, il Padre primigenio, Dioniso, il capro sacro, come era ripetuto e raccontato dal Coro dei Capri della tragedia eschilea.

     
Giovanni Battista (Caravaggio) = l'ariete, il dio-Padre, Totem e animale sacrificale


Il Caravaggio rappresenta Giovanni Battista come un giovane efebico, ricalcando la trasfigurazione da Capro a giovane Apollo che, come abbiamo visto nei capitoli precedenti, era già stata proposta dal tardo ellenismo nel tentativo di condensare i due dei ma, anche qui, la natura originale del Dioniso - Battista emerge dall'inconscio nel capro che si accompagna al giovane dio.

In numerosi dipinti, Giovanni Battista punta con il dito della mano destra alla Vergine e al Bambino, come se stesse presentando al pubblico la sua famiglia: Da Raffaello a Domenico Veneziano.


Finalmente abbiamo capito il ruolo di Giovanni Battista nella saga evangelica.
Il battesimo cristiano avviene quando il bambino, appena nato dalla madre, rinasce simbolicamente dal Salvatore, ovvero dal Dio-Figlio diventato un’unica consustazione con il Padre, come i novizi durante il rito puberale vengono staccati dalle madri per rinascere dai padri e si identificano con i fratelli. Nel rito avviene una regressione esistenziale dal rito della fertilità che prima del cristianesimo si era sovrapposto all’arcaico rito tribale puberale, per ritornare al nucleo del suo contenuto primario, in un’unica condensazione con la nuova sintesi della consustazione con il corpo del Dio —Figlio – Dio -- Padre della soluzione apollinea.
La madre, che nei riti della fertilità piangeva e raccoglieva i pezzi del figlio ucciso per ricongiungersi con lui (Inanna, Iside, Isthar (Astarte), Demetra, Cibele, Agditis, Afrodite), e alla quale, invece, il figlio viene strappato per essere battezzato, non fu completamente rimossa ma solo spostata; viene anch’ella innalzata al Regno dei Cieli e riemerge nella figura di una dea vergine, ovvero depurata dall’antica contaminazione incestuosa che era stata parte integrale della causa della perdita e della caduta.
L’effetto fu travolgente perché questa sintesi era quella che tutti stavano aspettando da tempo. Questa fu invero “la buona novella”. La soluzione al vicolo chiuso in cui era incappata la cultura occidentale in un processo di decadenza che durava da secoli e che aveva trovato la sua espressione nella perdità di vitalità dei due dei, Dioniso e Apollo, rappresentazione figurata della sua essenza esistenziale.
La buona novella era questa: abbiamo ritrovato nuove energie riallacciandoci ai contenuti tribali rimossi ma dando loro l’epifania della cultura stanca ma universale in cui viviamo.
La classe dirigente, l’aristocrazia culturale e politica romana cercarono di resistere questa nuova formula, poiché temevano per secoli di cultura apollinea che si era sovrapposta al dionisiaco tribale rimosso, e che rappresentava il loro modus esistenziale. L’equilibrio esistente andava bene a quelle classi che avrebbero solo avuto da perdere da un sovvertimento della situazione. Il problema non era solo politico. Tutto un equilibrio mentale si sentiva minacciato. Tacito chiamò il cristianesimo: “la peggiore delle superstizioni” e accusò i cristiani di “odio contro l’umanità”(Ann., XV/42) , che erano esattamente le accuse che scagliava contro chiunque fosse sospetto di tribalità. Come vedremo in seguito scaglierà esattamente le stesse accuse contro gli ebrei.
In un senso particolare il cristianesimo fu una rivoluzione, poiché fu interpretata dai sostenitori del vecchio ordine come un tentativo di sovvertimento della soluzione apollinea a favore di quella dionisiaca, ma in un altro senso fu l’accorgimento per animare di energie nuove uno status quo che stava per perdere il suo equilibrio.
Infatti Paolo cerca di tranquillizzare in tutte le maniere “il sistema”.
La sua rivoluzione avverrà nel Regno dei Cieli. In questo mondo: “Ciascuno stia sottomesso alle autorità costituite; poiché non c’è autorità se non da Dio e quelle che esistono sono stabilite da Dio. Quindi chi si oppone all’autorità, si oppone all’ordine stabilito da Dio” (Lett.Rom. 13,1-2), ovvero “sto lavorando per l’ordine costituito e non contro di esso.”
Purtroppo per l’Impero, chi deteneva il potere in quel momento era troppo depravato e cieco per capire che l’equilibrio poteva essere mantenuto solo a prezzo di qualche concessione, ovvero di permettergli di essere rivitalizzato dalle nuove – vecchie energie che erano state reattivate. Perseguitando il cristianesimo gli imperatori romani non fecero che accellerare la sua ascesa, poiché mentre Paolo porgeva la sua mano all’ecumene greco -- romana proponendole l’unica sintesi possibile, la classe dirigente era asseragliata in abitudini mentali che non potevano più essere mantenute. Solo Costantino fu obbligato a prendere atto di un processo che non poteva più essere riversato.

Link: Jesus and Mary Magdalene, the Harlot of the Horde + the Primal Father, John the Baptist
 
 
 

                                            CAPITOLO  SESTO
 

                                         JAHVE:  IL  DIONISO  EBREO
 

La Giudea

Mentre l’ecumene greco-romana era assorta nella sua dialettica esistenziale, altre vicende stavano permeando un altro popolo di contenuti diversi
Come abbiamo visto sopra, quelle che erano state tribù ebraiche e si erano insediate in Palestina verso la fine del secondo millennio avevano passato una metamorfosi esistenziale e si erano trasformati in agricoltori dediti ai culti della fertilità come tutti gli altri popoli vicini. La distruzione del regno settentrionale d’Israele e la deportazione assira di dieci tribù su dodici (721 a.C) aveva lasciato solo la tribù di Giuda e il suo piccollo annesso di Beniamino a rappresentare l’antico popolo ebraico. Distrutto anche il regno di Giuda (586 a.C), deportati i suoi abitanti in Babilonia, e tornati dall’esilio dopo settantanni, il popolo ebraico aveva cominciato quel processo di differenziazione dai suoi vicini che costituirà la sua peculiarità durante i secoli.
I culti della fertilità, comun denominatore di tutti gli agricoltori, residenti fissi, furono rifiutati energeticamente, ovvero fu rifiutato il culto della Madre e preferito il culto esclusivo del Padre. Questo creò una contraddizione interna, oltre che esterna.
Da un lato non vi fu più quel comun denominatore con gli altri popoli che condividevano lo stesso stile di vita e furono gettate le basi di quello che sarà un eterno isolamento culturale, dall’altro il culto del Padre non era in simbiosi con l’attaccamento alla terra  e alla sua fertilità. Il precludersi lo sfogo pulsionale del rito della fertilità e la consumazione simbolica dell’incesto ebbero un effetto potente: l’attaccamento del popolo ebraico per la sua terra fu sublimato e diventò intenso ed esclusivo: diventò Terra Santa. I Seleucidi e i Romani dopo di loro pagheranno un prezzo molto caro in lotta e sangue nel tentativo di distogliere i Giudei dalla loro patria.
Questa contraddizione interna fu risolta accentrando tutto sempre di più nella figura del Padre, innalzandolo sempre di più, e facendo dipendere esclusivamente da Lui tutti i fenomeni della vita, al punto che il lavoro della terra stessa, non potendo più essere erotizzato attraverso i culti della fertilità, fu esorcizzato attraverso i precetti legati all’agricoltura. Da qui l’importanza sempre maggiore che assunse il tempio di Gerusalemme, come unico mezzo per purificare il lavoro della terra dalla sedimentazione peccaminosa di colpa che gli era associata. Il Tempio di Gerusalemme, che malgrado le riforme di Giosia era rimasto fino all’esilio il tempio del culto del sole, della prostituzione sacra e del culto di Tammuz (Ezchiele, 8), divenne finalmente lo strumento della purificazione e della sublimazione delle pulsioni incestuose in fedeltà assoluta alla religione del Padre. Le Primizie, le Decime, l’anno sabbatico, la proibizione di raccogliere per i primi tre anni i frutti dell’albero, la proibizione di seminare speci diverse ecc. Furono tutti sostitutivi dei riti della fertilità proibiti e questa volta ordinati specificamente da un Dio- padre unico ed esclusivo.
Fu fatta una reattivazione di molti arcaici tabù, particolari della tribalità primitiva, come quello mestruale, quello dei morti, la proibizione di mischiare carne e latte ecc  .
Fu ristituita la festa delle Capanne, un’antica festa tribale che non era stata festeggiata come tale per più di settecento anni “Dal tempo di Giosuè figlio di Nun fino a quel giorno, gli Israeliti non avevano fatto più niente di simile” (Neemia 8,17). Nei sei secoli che andavano dall’insediamento in Palestina e fino alle ritorno dall’esilio babilonese era stata solo la festa dei fichi e delle olive.
La Pasqua stessa come ricorrenza dell’uscita dall’Egitto era stata istituita solo cento anni prima da Giosia, alle soglie dell’esilio (2RE 23, 21-23). Prima era stata la festa della primavere e del primo raccolto dopo le piogge invernali. Ovvero fu accentuato tutto quello che era particolare e peculiare dell’esperienza esistenziale ebraica prima che passassero la metamorfosi da pastori semi-nomadi ad agricoltori. Fu reattivata l’iconoclastia assoluta comandata da Mosè, principe d’Egitto e seguace di Ecknaton .
La carne di maiale diventò tabù assoluto, come avevano imparato in Egitto mille anni prima. Come ci racconta Erodoto, infatti: “Gli Egiziani hanno sempre ritenuto il maiale un essere immondo: prima di tutto, se uno di loro, passando accanto a un maiale soltanto lo sfiora, corre subito a gettarsi in un fiume” (Hist., II/47).
Le proibizioni introdotte da Neemia di mischiarsi agli altri e dei matrimoni misti completarono l’isolamento peculiare. Ma quello che piu di tutto creò una scissione tra gli ebrei e gli altri popoli, e che fu parallelo alla rinuncia ai culti della fertilità e la prostituzione sacra, fu la proibizione assoluta dell’infanticidio. La valle a Occidente della città fortificata di Gerusalemme, dove i re di Giuda sacrificavano i propri figli primogeniti per scongiurare le carestie e le sconfitte militari (2,Re16,3) e ancora Manasse, l’ultimo re di Giuda, aveva fatto passare nel  fuoco i suoi figli (2,Cron., 33,6), al pari dei re vicini, come Mesha re di Moav, che sacrificò il proprio primogenito quando stava per subire una sconfitta (2,Re, 3,27), fu dichiarata il tofet, l’inferno, e diventò il simbolo di quello che aveva provocato l’ira divina e l’esilio. I profeti del Dio dei pastori, perseguitati e scacciati dai re d’Israele e di Giuda fino a che il popolo viveva in pace nella sua terra, con l’esilio babilonese e la reattivazione del senso di colpa che pervase il popolo ebraico da allora, vinsero la battaglia per l’anima ebraica. I popoli circostanti non riuscirono a capire questa strana inibizione che il popolo ebraico prese su di sè. Mentre per loro la sacralità era concentrata nei culti della fertilità, nelle orge all’interno dei templi, la prostituzione sacra e l’infanticidio come mezzo per assicurarsi il giusto ciclo delle stagioni e la fertilità della terra, la pioggia d’inverno, di cui il Medio-Oriente è così avaro, e la rugiada d’estate, ecco che i giudei si isolavano e dichiaravano immonda la prostituzione sacra e il tofet.
Il Dio d’Israele, per bocca dei suoi sacerdoti proibiva quello che tutti sapevano che il Baal e l’Astarte cananea esigevano come condizione per elargire la loro benevolenza. A Sulcis in Sardegna, dove i fenici-cananei, ora chiamati cartaginesi, fondarono una colonia, è stato ritrovato un cimitero con migliaia di scheletri di bambini fino ai due anni d’età dentro delle giare, vittime dell’usanza semita di sacrificare i propri figli.  Il cimitero conteneva più di ventimila urne, lì depositate tra il 400 e il 200 a.C . Le urne contenevano le ossa di bambini sacrificati. Spesso i genitori facevano voto di uccidere il prossimo nato se gli dei esaudivano un loro desiderio, per esempio una spedizione di merci arrivata al sicuro in un porto straniero. Alcune urne contenevano le ossa di bambini appena nati insieme a quelle di un bambino di due anni, indicando che se il nuovo nato nasceva morto uccidevano il fratellino maggiore per soddisfare il voto. Il sacrificio era accompagnato da musica, danze e orge, e includeva lo stupro di una vergine. Plutarco racconta che coloro che non avevano figli compravano dei bambini da vicini poveri e li sgozzavano come se fossero agnelli o uccellini... Nel frattempo la madre stava in piedi davanti alla statua del dio, senza una lacrima, ma se avesse emesso anche un singolo grido avrebbe dovuto rinunciare al denaro ricevuto e il suo bambino sarebbe stato sacrificato ugualmente, mentre l’atmosfera si riempiva  del fracasso di tamburi e flauti (Lloyd deMause, Foundations of Psychohistory,Creative Roots, New York 1982, p.29).
Sacrificando agli dei i propri bambini, i cananei-cartaginesi si purificavano dai propri peccati, come testimoniano le iscrizioni trovate sulle giare che spiegano esplicitamente come i bambini fossero stati sacrificati a questo scopo .
Quindi mentre i sacerdoti cananei erano i delegati della comunità a perpetrare lo sfogo pulsionale, a dirigere l’orchestra dell’orgia sacra in cui veniva sfogata liberamente ogni pulsione omicidia e sadico erotica, e queste erano dirette verso i propri figli, come strumento di “purificazione”, i giudei, dopo il ritorno dall’esilio babilonese, elessero i propri sacerdoti affinché facessero da purificatori attraverso l’inibizione delle stesse pulsioni e non il loro sfogo. Il compito eversivo dei Profeti, che lottavano contro la monarchia per eradicare questi culti, con la perdita dell’indipendenza e l’esilio passò alla classe politica dirigente che ne assunse il compito. La rivoluzione era riuscita. I parametri si capovolsero. Quello che prima dell’esilio era considerato sacro, la prostituzione e l’infanticidio, divenne immondo, orripilante. Il compito dei sacerdoti sarà d’ora in poi quello di castigare ed inibire. Quando questi tradiranno il loro compito, verranno sostituiti dagli Scribi, i dottori della Legge e alla fine dai rabbini.
I greci avevano da tempo superato il sacrificio umano, da quando, nel mito avvolto dalla nebbia delle saghe omeriche, Agamennone aveva sacrificato la figlia affinché il vento si levi e porti la flotta greca a porto sicuro. Quando entrarono in contatto con il mondo semita la Giudea parve loro un’isola di “filosofi” in un oriente che anche per loro era considerato barbaro. Ma anche se greci e romani non sacrificavano già più la propria prole agli dei, quello di esporre i propri figli era un diritto sacrosanto. Contrariamente all’ipotesi che l’infanticidio fosse stato un problema solo orientale questa era una pratica comune anche in Occidente, malgrado non fosse perpetrato come sacrificio agli dei  . L’inibizione ebraica irritava tutti quelli che venivano a contatto con la Giudea, al punto che Tacito inveisce contro gli ebrei: “I Giudei tengono comunque molto a che il loro numero si incrementi: è proibito infatti, uccidere uno qualsiasi dei figli in soprannumero» (Hist.,V/5). Quando anche l’Occidente riceverà su di se una religione con le stesse aspirazioni moralistiche, questa inibizione dall’infanticidio provocherà una tensione accumulata che verrà scaricata proprio sugli ebrei, e ancora dopo molti secoli verranno periodicamnte accusati di omicidio rituale.
Quindi mentre in Occidente si creava quella sintesi da rito a religione attraverso la filosofia e la metafisica con il medium dell’espressione plastica, il culto della bellezza e la tolleranza di tante espressioni del divino quante ne può contenere la psiche umana, in Giudea si completava “una visione del mondo” non meno articolata, in antitesi a quella dei loro vicini semiti, ma con gli strumenti opposti della Weltanschauung occidentale: l’inibizione pulsionale e l’intolleranza, invece che lo sfogo pulsionale e il sincretismo, ovvero attraverso la distillazione di contenuti specifici e il rifiuto totale di tutti gli altri. Ma mentre i contenuti rifiutati e scartati dalla grecità erano stati proprio quelli della particolarità e della legge assoluta, del capro e il senso di colpa legato al parricidio primitivo, che per gli elleni si associava a tribalità, gli ebrei scartarono i contenuti opposti, quelli del sincretismo e del cosmopolitismo, quelli della civiltà apollinea interpretata come soluzione culturale. I contenuti esistenziali dell’ariete furono interiorizzati e distillati, la sublimazione avvenne attraverso l’inibizione pulsionale dei sensi del tatto e della vista e l’innalzamento del capro stesso a realtà metafisica rifiutando qualsiasi medium di rinnegamento. Il capro ebraico non divenne mai brutto, ovvero, invece di anteporgli un’antitesi esistenziale e un rifiuto tradotto nell’ideale di tutto quello che gli è antitetico, divenne un’entità cosmica che non si può vedere né nominare. Il sacro divenne invisibile. Quando il sacerdote benedice il popolo mimando l’ariete , i figli d’Israele si coprono gli occhi e il volto per non vedere. Jahvè lui è il Dio. Proclamando la sua unità, ovvero la sua unicità, gli ebrei mettono la mano sugli occhi come per dire: è Lui e non un altro, è rimasto Dioniso, mai trasfigurato in Apollo. Nell’ebraismo non esistono trasfigurazioni di sorta, compromessi o travasi di sacralità da un elemento all’altro. Negare l’ariete è il sacrilegio, l’idolatria, e per non trovarsi davanti l’immagine cruda dell’animale, fu proibito di guardare.
A una metafisica cosmopolita ne corrispondeva una in cui, l’essenza totemica del padre arcaico, obbedienza incontestabile alla Legge, attaccamento alla terra, intolleranza e iconoclastia assoluta furono fuse e proiettate a verità universali. La Legge del clan diventò verità rivelata e proiettata ad altezze cosmiche.
La diffidenza che avevano i popoli semiti circostanti per i giudei e il loro isolamento puritano, quando abbracciarono la soluzione metafisica universalista dell’ellenismo e diventarono “greci”, scoppiò in odio feroce. La Palestina, dal deserto al mare, si riempi di nuove città “greche” con i loro templi e i loro ginnasi, gli anfiteatri e gli ippodromi, e la piccola Giudea intollerante e iconoclasta rimase come una spina profondamente infissa nel fianco di un gigante.
 

Apollo in Giudea

All’interno del popolo ebraico le cose non si amalgamarono senza lotte interne.
L’Apollo cosmopolita e iconodulo aveva fatto la sua apparizione anche in Giudea.
I primi contatti tra greci e ebrei, sotto i primi Diadochi che si spartirono l’impero di Alessandro erano stati improntati alla cordialità.
Alla fine del IV secolo i primi scrittori greci che menzionano i giudei li definiscono “coraggiosi”, “disciplinati” e “filosofici”.
Avevano probabilmente percepito che erano l’unico popolo della regione che aveva sviluppato una sua “visione del mondo” e si sentivano attratti da quello che credevano fosse “una filosofia”. Alessandro aveva sposato una persiana e intendeva considerare tutti i suoi sudditi come parte di una grande famiglia in cui fossero tollerate tutte le credenze e gli atteggiamenti più diversi. Sia greci che giudei sentivano una strana simpatia e una curiosità reciproca. Per gli ebrei la grecità rappresentava il superamento dei barbari riti semitici che loro stessi avevano rifiutato, e per i greci i giudei erano gli unici ad avere un concetto di sacralità spirituale che in alcuni aspetti si avvicinava al loro.
Né Alesandro né i Diadochi dopo di lui sentivano antisemitismo alcuno. Per loro i giudei erano “un popolo di filosofi” con i quali erano sicuri di poter intavolare un discorso a livello superiore che con gli altri barbari semiti.
Secondo Giuseppe Flavio (Josephus) (Ant.,12/8) Alessandro elargì grandi onori ai sacerdoti di Gerusalemme e liberò la Giudea da qualsiasi tassazione per sette anni, tra il disappunto generale degli altri abitanti della Palestina. Furono i semiti che abbracciarono la cultura greca, che nutrivano un anti-giudaesimo acuto da quando gli ebrei avevano cominciato ad isolarsi, che non capivano questa strana preferenza dei primi sovrani greci per i giudei e la Giudea. Tolomeo II Filadelfo elargì agli ebrei di Alessandria diritti speciali e mandò doni a Gerusalemme (Jos.,Ant.,12/2). Anche Seleuco Nicator che aveva ricevuto il dominio della Siria diede piena cittadinanza ai numerosi ebrei che abitavano il suo regno e concesse loro diritti speciali per quel che riguardava la tassazione e i riti particolari della legge ebraica (ibidem,12/3). Giuseppe Flavio riporta che ancora centocinquant’anni dopo la conquista macedone gli ebrei della Ionia godevano di diritti particolari. Quando questa passò in mano ai romani gli altri cittadini ne approfittarono per cercare d’invertire la situazione. Andarono da Marco Agrippa e gli dissero:

A noi soli spettano i diritti di cittadinanza elargiti da Antioco (che i greci chiamano “dio”), nipote di Seluco, poiché questi desiderava che, se i giudei volessero esserne partecipi, dovessero essere anche obbligati a sacrificare agli stessi dei di tutti gli altri”. Ma quando la cosa arrivò in tribunale, fu data ragione ai giudei (ibidem).
E l’idilio non fu poi così breve. In tutti i cento anni in cui la Palestina fece parte dell’impero tolemaico d’Egitto non si ha notizia di dissidi tra i sovrani e la Giudea, anzi da un lato i nuovi “faraoni” consideravano la Palestina una provincia satellite dell’Egitto, ricalcando l’attitudine dei faraoni del Nuovo Impero e si accontentavano di esigere le imposte che erano loro dovute, dall’altro in Giudea stessa le classi che detenevano il potere assumevano molti atteggiamenti filo-ellenici, come adottare nomi greci e cercare punti in comune tra la filosofia greca e la Weltanschauung ebraica.
Come riporta Giuseppe Flavio, Tolomeo II Philadelfo all’inizio del terzo secolo fece tradurre la Bibbia in greco e la depose come cosa sacra nella sua famosa biblioteca (Ant.,12/2) ad Alessandria d’Egitto fiorì una prospera comunità ebraica che, pur continuando a rimanere attaccata al Dio esclusivo insegnato dalla classe sacerdotale di Gerusalemme, si immerse totalmente nella cultura greca, non senza contraddizioni stridenti. In Egitto gli ebrei produssero una considerabile letteratura (per la maggior parte andata persa), intesa ad inculcare negli ebrei greco-foni l’orgoglio nel loro passato e a controbilanciare quello che stava persino diventando un complesso d’inferiorità sentito da alcuni verso la ricca cultura greca predominante. Nel campo storico, Demetrio, verso la fine del III sec. A.C scrisse un’opera, I Re della Giudea, intesa a controribattere le affermazioni antisemite di un sacerdote e scrittore egiziano . Nel II secolo a.C., un ebreo alessandrino che usava il nome di Hecataeus scrisse Dei Giudei . Un altro, Eupolemus, nel 150 a.C. scrisse, come Demetrius, Sui Re della Giudea, la cui natura apologetica è espressa da un frammento che asserisce che Mosè avesse insegnato la scrittura non solo agli ebrei ma anche ai fenici e ai greci . Artapanus, nel 100 a.C,, nel suo libro Dei Giudei, andò anche oltre nel romanticizzare la figura di Mosè, al punto da identificarlo con il greco Musaeus e l’egizio Ermes-Thoth (dio della scrittura e della cultura) e da asserire che Mosè sia stato il vero originatore della cultura egizia e che abbia persino insegnato agli egiziani il culto del dio Apis (il toro sacro) e dell’Ibis (l’uccello sacro) . Nelle sue Storie, Cleodemus, in un trasparente tentativo di guadagnarsi il rispetto dei greci arriva ad asserire che due dei figli di Abramo si fossero uniti a Ercole nella sua spedizione in Africa e che l’eroe greco avesse sposato la figlia di uno dei due .
Questi tentativi di “sedurre” gli intellettuali ellenisti alla causa ebraica fu aspramente criticata da un altro ebreo, che pur essendo fieramente ortodosso, portava tuttavia un nome greco, Giasone di Cirene (100 a.C) , che nelle sue Storie critica violentemente gli ebrei ellenizzati, ma la sua maniera di scrivere è caratteristica della cultura ellenistica, con l’enfasi sul pathos, come d’altra parte sarà anche quella di Josephus. Il III Libro dei Maccabei (I sec. A.C.) è un lavoro di apologetica ebraica diretto contro i numerosi ebrei che cercavano di guadagnarsi la cittadinanza alessandrina . La Lettera di Aristea, malgrado attribuita a un cortigiano pagano di Tolomeo II Philadelfo, fu probabilmente composta da un ebreo alessandrino intorno al 100 a.C per difendere il giudaesimo e i suoi riti dai suoi numerosi detrattori antisemiti . Gli ebrei alessandrini composero anche numerose opere e poemi, di cui ci sono arrivati solo frammenti, per glorificare la loro storia . Philo il Vecchio, che anch’egli, malgrado il nome, era un ebreo alessandrino, scrisse un poema in esametri omerici di nome Su Gerusalemme . Ezekiel (100 a.C) scrisse tragedie in greco, di cui un frammento arrivato fino a noi, Exodus, mostra come profondamente era influenzato dal drammaturgo greco Euripide . Lo scopo era mostrare ai pagani quanto materiale simile al loro avessero anche gli ebrei. E la lista è ancora lunga. Malgrado i tentativi dei Farisei di contenere l’influenza ellenista questa era sentita in tutti gli strati della cultura ebraica, anche dopo la rivoluzione dei Maccabei.
Tra gli ebrei della Diaspora, che contavano in epoca ellenista più di cinque milioni , molto di più che in Giudea stessa, la lingua prevalente era il greco. Nel Talmud stesso vi sono 3000 parole di origine greca, e mentre spiegavano la legge i rabbini davano anche la traduzione greca, per quelli tra i fedeli che non conoscessero l’ebraico . La prevalenza di epitaffi in greco sugli ossari, e la scoperta di papiri in greco nelle grotte del Mar Morto, confermano il vasto uso di questa lingua persino in Giudea, dove l’ebraico rimaneva pur sempre la lingua principale.
Quindi vediamo che la cultura ellenista, abbagliante e poliforme, aveva ammiccato anche al popolo asseragliato nel suo culto esclusivo. Non era solo una questione di conformismo. Se era stato relativamente facile sentirsi superiori al politeismo incongruente dei popoli agricoltori vicini, la cui espressione si manifestava in orge infanticide, prostituzione all’interno dei templi e in immagini rozze di Bealim e di Astarti, quando la cultura greca riuscì a sintetizzare il tutto in una visione metafisica e universalista all’insegna delle multiformi rappresentazioni plastiche di dei e dee dalle forme perfette, la tentazione si rivelò molto forte.
L’inibizione pulsionale imposta dall’idea di un solo Dio che non si vede non poteva non essere sentita come troppo pesante dalla maggior parte del popolo. La contraddizione interna di un popolo di agricoltori che adori solo un concetto astratto di dio-Padre esigeva un perpetuo contro-investimento pulsionale che si traduceva nello sforzo di chi è costretto a nuotare contro-corrente. C’era anche il precedente storico: quando gli ebrei avevano invaso la Palestina mille anni prima e avevano passato la metamorfosi esistenziale da pastori ad agricoltori si erano, abbandonandosi alla realtà dei sensi, dedicati al politeismo dei popoli vicini. Sotto lo stimolo di una nuova religione dei sensi, questa volta molto più articolata e coerente, che ammiccava sotto forma di filosofia, la quale a sua volta si incontrava ai suoi estremi con la spiritualità del dio ebraico, fu reattivata la tendenza naturale di ogni popolo legato alla sua terra di dedicarsi al politeismo. Anche la realtà politica spingeva in questa direzione.
Gli ellenisti avevano vinto e la loro cultura dominava tutto il mondo conosciuto. Ventinove città splendenti nei loro templi, teatri e ippodromi riempivano la Palestina, la Terra Santa dei figli d’Israele. Secondo l’antica concezione per la quale il dio del vincitore diventa lui stesso quello predominante, sembrava innaturale rimanere asseragliati nel culto di un dio perdente. Se aveva perso tutte le guerre non poteva dopo tutto essere il più forte e il più giusto. A questa incongruenza esistenziale avevano supplito facendogli passare una metamorfosi da dio particolare della tribù a dio metafisico e universalista, ma anche come tale aveva difficoltà a competere con il sole di Apollo.
L’idea dell’aldilà e di una giustizia divina che troverà la sua espressione in un altro mondo, nella psiche ebraica stava solo facendo i primi passi esitanti. Anche l’idea dell’anima, come un’entità separata che sopravviva il corpo era completamente estranea agli ebrei, malgrado facesse parte del  modus mentale occidentale già dai tempi di Platone. Infatti erano stati proprio i greci che, dai pre-socratici al Fedone platonico, avevano introdotto questi concetti come parte delle loro esplorazioni metafisiche e filosofiche. La Bibbia aveva parlato di nefesc (anima), ma questa era sinonimo di sangue, e scorre via dal corpo insieme ad esso. Aveva parlato di neshamà (anima), ma significa respiro e smette di esistere quando questo si arresta. I Salmi l’avevano detto esplicitamente: “Non i morti loderanno il Signore e non coloro che scendono nella tomba” (113). Quando la Bibbia ci dice di Gacobbe che “ritrasse i piedi nel letto e spirò e fu riunito ai suoi antenati” (Gn.49,33), non aveva in mente nessun simbolismo metaforico. Nei recenti scavi archeologici a Saint Andrews, sulla collina occidentale al di là delle mure di Gerusalemme, sono venute alla luce delle tombe ebraiche del periodo del primo Tempio (1000 a.C- 586 a.C) in cui ogni tomba di famiglia era composta da un piano orizzontale su cui veniva adagiato il corpo del defunto, e una volta che la decomposizione era completata, le sue ossa venivano raccolte e buttate nella fossa comune sottostante dove si riunivano così a quelle degli antenati. La Bibbia usa un linguaggio molto concreto; l’allegoria e le spiegazioni metafisiche sono venute dopo, quando questi contenuti esistenziali erano stati dimenticati e rimossi. Solo alle soglie della nostra era cominciarono le prime discussioni se l’anima fosse destinata a perire insieme al corpo o lo sopravvivesse.
La classe sacerdotale che deteneva il potere, a cavallo del primo secolo, i Sadducei, sostenevano ancora energicamente che non vi fosse alcuna sopravvivenza dell’anima dopo la morte (Jos., De Bell. Jud., II/8). I Farisei furono i primi ad adottare l’idea della sopravvivenza dell’anima ,nel corso del I secolo della nostra era, insieme agli Esseni, e questi avevano preso l’idea dalla filosofia greca che li aveva preceduti. Come dice Josephus: “La loro dottrina [degli Esseni] consiste nel sostenere che il corpo è corruttibile, ma che l’anima sia immortale e continua per l’eternità…e questa opinione corrisponde a quella dei Greci, che le anime dei buoni trovano la loro abitazione al di là dell’oceano” (De Bell.Jud., II/8). Quindi, a metà del II secolo a.C., ben poche erano le consolazioni che spettassero a chi si attenesse a un dio perdente, anche se cosmico, che imponeva solo inibizioni pulsionali senza assicurare un gran chè in cambio. Proprio la classe sacerdotale, i possidenti e gli intellettuali, gli abitanti dell’unica città ebraica di allora, Gerusalemme e il suo tempio, furono coloro che si accollarono il compito di inserire anche la Giudea nell’habitat mentale e culturale prevalente. Dalle descrizioni dei libri dei Maccabei sembra che all’inizio la cosa sia riuscita, almeno parzialmente, poiché tutti i nomi dei sacerdoti che servivano nel tempio erano greci, Giasone, Menelao ecc. (proviamo a immaginarci oggigiorno un rabbino che si chiami Menelao!) e:
In quei giorni sorsero da Israele figli empi che persuasero molti dicendo: “Andiamo e facciamo lega con le nazioni che stanno attorno, perché da quando ci siamo separati da loro ci sono capitati molti mali”. Parve ottimo ai loro occhi questo ragionamento; alcuni del popolo presero l’iniziativa e andarono dal re [Antioco IV della casa dei seleucidi], che diede loro la facoltà di introdurre le istituzioni dei pagani. Essi costruirono una palestra in Gerusalemme secondo le usanze dei pagani e cancellarono i segni della circoncisione e si allontanarono dalla Santa Alleanza; si unirono alle nazioni pagane per fare il male ( I Macc.,1,11-15).


I  Maccabei

Se la classe dirigente e i sacerdoti di Gerusalemme avessero avuto la meglio oggi non esisterebbe più popolo ebraico. La Giudea sarebbe diventata una parte della Siria ellenizzata, non solo politicamente ma anche culturalmente. Ma c’erano in campo delle forze inconsce che emersero per avere la meglio. Non da Gerusalemme, la città, la nuova polis con i suoi ginnasi e teatri venne l’altisonante risposta all’apollineo ellenista. Dai villaggi seminati sulle colline intorno alla capitale si levò il grido di rifiuto di tutta una cultura che si era affermata nel mondo intero.
Il racconto del secondo libro dei Maccabei non è una fonte storica attendibile, parla di resurrezione a una vita dopo la morte che nel secondo secolo a.C era un’anacronismo (7,9). Soprattutto parla molto di fede e di sacrificio in nome della fede, che come abbiamo visto era un parametro della sfera apollinea (pp.16-17). Gli ebrei, fino alle persecuzioni del Medioevo parlavano di Legge, non di fede. La rivolta maccabea non avvenne in nome della fede, bensì in nome della Legge del Padre che era diventata il simbolo dell’autoidentità nazionale. Questo è anche probabilmente il motivo per cui gli ebrei non introdussero i libri dei Maccabei nel Canone, mentre i cristiani lo fecero, infatti assomigliano molto di più ai Vangeli che a storia ebraica, ma contiene un elemento molto illuminante: i sette fratelli che preferirono morire piuttosto che cibarsi di carne suine (2 Mac., 7,1). Il secondo libro dei Maccabei è molto tardo e più che fonte storica va trattato come apologetica. Per dare attendibilità al racconto si parla di un’interdizione a cui tutti sapevano che gli ebrei tenevano molto, e i Gentili anche se non conoscono gli altri precetti ebraici, identificano automaticamente gli ebrei con il tabù della carne di maiale .
Da un punto di vista religioso non vi è in questo precetto niente di particolare che faccia della proibizione di cibarsi di carne di maiale un’interdizione più grave di quella di cibarsi di altri animali proibiti. Ma questa si riallaciava a Mosè e al ricordo dell’Egitto. Infatti, con le parole di Erodoto, Gli Egiziani hanno sempre ritenuto il maiale un essere immondo. Ovvero i giudei che si ribellarono ad Antioco IV, si riallacciavano alle  tracce mnestiche dell’uscita dell’Egitto e degli insegnamenti di Mosè, saltando secoli in cui questi erano stati dimenticati. La traccia mnestica dell’uscita dell’Egitto, il primo atto di coesione e di lotta per la libertà che fece di tribù sparse un popolo, era stata reattivata solo ai tempi di Giosia. All’alba dell’esilio babilonese e della prima dispersione erano state gettate le basi di una storia nazionale che si riallacciasse a un passato nel quale si potessero riconoscere le prime tracce di un’identità storica. Se le storie dei padri, Abramo, Isacco e Giacobbe erano miti che raccontavano la propria pre-istoria, l’uscita dall’Egitto e la legge di Mosè erano già storia comune. Nella percezione collettiva lì era cominciata la Legge e questa corrisponde a identità. Da allora il mangiare carne di maiale diventò un simbolo, e mentre secondo la legge ebraica in caso di pericolo di vita è permesso mangiare carni di animali proibiti, poiché la vita è considerata più importante dei precetti giornalieri, un ebreo pio è comandato di rinunciare alla vita se per salvarla è obbligato a cibarsi di carni suine, poiché queste simboleggionano l’idolatria e la rinuncia all’identità ebraica. Lo stesso parametro è valido per qualsiasi forma di idolatria.
Quando i messi del re vennero a Modin, un villaggio a una ventina di chilometri da Gerusalemme  ed eressero un altare per obbligare i giudei a sacrificare, Mattatia e i suoi figli si ribellarono e uccisero i messi del re e tutti i giudei che avevano acconsentito a sacrificare (I Macc.,15,28). La rivolta fu subito nazionale. Nazionalità ebraica e Jahvè si erano fusi in un unico concetto.
Malgrado tutto, l’universalismo di Jahve era solo un accorgimento per minacciare la vendetta anche su imperi mondiali. Un dio limitato alla tribù era valido finchè si trattava di guerra con i popoli vicini, come i Moaviti, gli Ammoniti o gli Amaleciti e i Midianiti ma sarebbe stato sospetto d’impotenza quando era in palio la sopraminenza sull’ecumene pan-ellenica. Ma anche in questa metamorfosi si erano  riallacciati a una concezione ancora più arcaica, poiché tutte le tribù primitive, prima di diventare politeiste, osservano una rudimentale forma di monoteismo . Nella tribù dei Manu, in Africa, chiamano l’essere divino che adorano il “Signor Spirito”, e hanno con lui una specie di contratto eterno che ricorda molto il patto tra Jahvè e il suo popolo . Per dirla con le parole di Reik: “Nelle fasi primitive della società, il dio tribale è anche allo stesso tempo universale” .
Quindi, l’accorgimento adottato, riallacciandosi ad una concezione arcaica già sperimentata, che antecedeva il politeismo di sei secoli, di per sè rinforzava l’auto-identità peculiare in rapporto ai popoli circostanti, che erano entrati nello stadio dei culti della fertilità politeisti molto prima. Dai libri dei Maccabei emerge anche un altro punto importante: per Antioco IV era una questione politica. Il re vedeva nel rifiuto di sacrificare agli idoli una ribellione contro la sovranità dello stato: “Basta ormai; uscite, obbedite ai comandi del re e avrete salva la vita” (I Macc., 2,33) dicevano coloro che volevano incitare i giudei a profanare il Sabato. Cittadini fedeli potevano essere considerati solo coloro che si conformavano alle usanze comuni, conformismo culturale e fedeltà politica erano un’unica cosa. Potevano essere tollerati riti e costumi diversi ma solo accanto a quelli predominanti, non al loro posto. Antioco IV, detto Epiphane, era considerato dai suoi sudditi un sovrano illuminato e miracoloso proprio perché cercava di imporre a tutti i modelli culturali pan-ellenici. Per lo stesso motivo in ebraico, invece, il suo appellativo greco fu tradotto in “Il malvagio”. Ma Antioco IV non era già più un vero greco. A quasi due secoli dalla conquista macedone dell’Oriente, il sincretismo pan-ellenico cominciava a sentire la pressione di tensioni la cui fonte era la mancanza di coesione interna della sintesi Oriente -- Occidente, nella quale cominciavano a intravvedersi le prime crepe.
Con le prime vacillazioni interne e i primi tentennamenti sui veri contenuti della propria auto -- identità, il diverso, l’antitetico, in questo caso la Giudea iconoclasta, diventò l’altro polo morale. I giudei, che due secoli prima erano stati considerati i “virtuosi” e i “filosofi” del MedioOriente, diventarono i non-conformisti e quindi i barbari: la minaccia all’identità apollinea. Così si spiega anche la strana contraddizione tra una cultura ellenista che era tollerante verso le usanze degli altri popoli e pronta a qualsiasi forma di convivenza con gli dei dei popoli conquistati e l’odio che si sviluppò, invece, verso i giudei. Avrebbero tollerato forse un Jahvè a cui tutti possono sacrificare e che non avesse nessuna obiezione a che i suoi figli sacrificassero anche agli altri dei. Ma questo esclusivismo oscurantista era troppo: questa intolleranza era incivile, barbara, tribale. Questo era esattamente quello da cui erano rifuggiti da secoli: l’esclusivismo del padre della tribù, il totem, unico dio del clan. Il Dioniso originale, quello rimosso, veniva ostentato loro davanti con il nome di Jahvè.
Esisteva più di un filo che riconducevano Dioniso a Jahvè.
Quando gli israeliti invasero la Palestina, all’inizio il Baal locale, il padre degli dei cananei fu associato automaticamente al dio sinaitico . Erano entrambi dei legati al fulmine e al temporale, come l’epifania di Jahvè sul monte Sinai dimostra, entrambi residevano sui posti alti, uno sul Horeb, l’altro su di ogni altura con un nome diverso (Baal Peor, Baal Hermon, Baal Zafon, Baal Maon, Baal Perazim, Baal Gad, Har Baal, Khriat Baal), Baal e Jahvè erano dei padri. Quando i greci incontrarono il Baal cananeo lo associarono subito a Dioniso. Quindi, questa associazione Jahvè-Dioniso esisteva già attraverso il Baal cananeo. Ma a questa associazione inconscia contribuì ancora di più il fatto che l’arcaico animale totemico delle tribù greche, agli albori della storia, era stato esattamente lo stesso delle tribù ebraiche: il capro. E in Giudea echeggiava in tutte le ricorrenze ebraiche più importanti, come ancora oggi, il suono dello shofar, il corno di ariete, a mimica della voce rauca della bestia uccisa .
Il padre della musica era stato Jubal (Gn.4,21), che in ebraico significa ariete; Keren Haiuvel è il corno dell’acclamazione, il Giubileo, Iuvel, al suono del quale avverrà la redenzione. Questo suono rauco e commovente non poteva non ricordare ai greci il proprio capro ucciso. Come abbiamo visto sopra, Platone, nello sforzo di rinforzare la rimozione, aveva proibito la tragedia eschilea con il suo coro di capri e i contenuti emotivi tragici che gli erano associati. I contenuti dell’epifania di Apollo si erano sovrapposti agli strati rimossi. Di Dioniso era emerso solo l’aspetto scurrile delle processione di falli da Atene a Eleuthera (p.9 e 33) e a questo stesso si era sovrapposta l’immagine di un Dioniso ellenista, dalle belle figure plastiche dei culti della fertilità della terra, che aveva preso l’aspetto lui stesso di un giovane Apollo. Dell’arcaico capro, totem tribale, non volevano assolutamente sentir parlare. Ed ecco che lo ri-incontrano in Giudea, adorato da un popolo che non ne voleva sapere del medium apollineo della redenzione.
Un dio che non si vede, alla presenza del quale tremano tutte le membra e che si manifesta attraverso il suono della voce rauca del corno di ariete. Questo era il loro Dioniso rimosso! I giudei rifiutavano la trasfigurazione del capro in Dioniso apollineo e in Apollo. Era per loro sacrilego radersi e mostrare le bellezze di un corpo di fanciullo! Allora vuol dire che si facevano beffe di sforzi secolari di superare la tribalità, la colpa e la tragedia attraverso la soluzione apollinea. Se Jahvè non poteva venire affiancato nei templi agli altri dei, significava esattamente questo, era il dio particolarista di un clan. Se la fedeltà è verso il clan e i legami di sangue non può essere verso la polis e lo Stato.
Nelle tribù primitive la coesione tra i membri avviene per mezzo del patto di sangue sancito nella co-munione con il totem, attraverso il rito d’iniziazione puberale che culmina nella circoncisione. In Grecia l’istituzione della polis aveva superato definitivamente (cfr le parole di Socrate) il tribalismo del capro ed aveva esteso le soluzioni apollinee a tutto il mondo conosciuto attraverso una metafisica culturale e politica. E adesso venivano i Giudei e reclamavano il diritto alla diversità, ovvero volevano il diritto di rimanere barbari. I romani incontreranno nelle foreste della Germania e della Gallia altre tribù, ma almeno queste non pretendevano di avere una cultura superiore a quella del mondo civile. Non avevano sublimato il non vedere e il black-out, l’oscurantismo del rito tribale. Se anche non avevano templi con splendidi dei in cellae, per lo meno non ne avevano uno che non si vede in un tempio altrettanto sontuoso dei loro.
Quando, come riporta Tacito (Hist.,V), Pompeo entrò a Gerusalemme nel 63 a.C era così curioso di capire cosa mai stessero tramando i giudei che non potè trattenersi dal compiere l’estremo sacrilegio. Entrò di forza nella cella, nel Santo dei Santi, sicuro che avrebbe scoperto il tranello. Quando non vi trovò niente si infuriò.
Che senso ha costruire un tempio per un dio che non abita?!
I Giudei si stavano beffando di lui!!
 

La nacita del’antisemitismo

Molti hanno paragonato la laicizzazione della società ebraica in questi ultimi due secoli al tentativo in epoca ellenista di adottare i costumi degli altri popoli. Oggi sia nella Diaspora che nel rinnovato stato d’Israele la maggior parte degli ebrei sono laici e di questi molti atei. L’accusa di essere “ellenizzanti” viene naturalmente dai circoli ortodossi che si sentono i discendenti spirituali diretti dei Maccabei e gli unici detentori della “verità” ebraica, e fu diretta da sempre verso chi diverga dalle leggi dell’ortodossia come vengono interpretate dai rabbini, da Spinoza a Mendelshon e la riforma tedesca della fine del Settecento, ai pionieri sionisti dell’inizio del secolo, che con le proprie mani hanno ricostruito la casa nazionale ebraica.
Ma la differenza consiste nella linea di separazione tra precetti della religione ebraica e autoidentità. La legge dello stato d’Israele stabilisce che “ebreo è chi dichiari in buona fede di essere ebreo e di non appartenere ad un’altra religione” (1958). Anche se secondo l’ortodossia è ebreo chiunque sia nato da madre ebrea, quindi anche chi si converta a un’altra religione, lo stato laico ha stabilito una regola ancora più restrittiva : quella dell’autoidentità. Il peccato degli ellenizzanti del secondo secolo a.C., non fu solo un peccato religioso contro la fede ma, rifiutando la circoncisione, che è il segno distintivo dell’appartenenza al clan, e inchinandosi alle immagini, simbolo della cultura apollinea pan-ellenista, avevano dichiararato implicitamente di rifiutare la propria identità ebraica.
Nei sei secoli dalla conquista della Palestina (XII sec a.C) all’esilio babilonese (VI sec. a.C), il culto idolatro non rappresentava un abiura della propria identità ebraica, che era poco differente da quella dei popoli circostanti, anche se i Profeti d’Israele e di Giuda tentavano disperatamente di legare questa identità nazionale a Jahvè, il dio dei pastori. Salomone e i re che vennero dopo di lui erano tutti immersi nei culti della fertilità e dell’idolatria, e solo la mistificazione dei testi da parte della classe sacerdotale nel V e IV secolo a.C. ne fecero un atto di prevaricazione contro la tradizione e la fede.
In epoca ellenista invece era diventata una lotta per l’identità, in quanto Jahvè era diventato l’unico dio nazionale, gli antichi Profeti avevano vinto, e l’alternativa allettante era tutto un modus mentale e culturale che gli era antitetico. L’iconoclastia era diventata sinonimo di giudaismo, mentre invece idolatria e culto delle immagini, sinonimo di ellenismo apollineo. Il culto del corpo nudo nei ginnasi e la bellezza apollinea, ordine morale antitetico alla bruttezza del capro dionisiaco, erano diventati anche il simbolo di tutto quello che era antiebraico.
I parametri dell’apollineo erano penetrati in Oriente solo con la conquista macedone. I culti della fertilità semitici prima di allora non avevano niente a che fare con la raffigurazione plastica dell’ideale del bello. Questi furono addottati solo con l’ellenismo. Anche se i Cananei e i Fenici erano politeisti, le loro immagini rappresentavano solo la sintesi di un concetto, come ad esempio le Astarti semitiche rappresentate nude con gli organi sessuali evidenziati e i seni stilizzati, e le dee orientali cominciarono ad assumere le forme ideali di Afrodite solo dopo la conquista macedone.
I giudei, prima si differenziarono dagli altri semiti rifiutando i culti della fertilità ma la vera “empietà”, dal punto di vista occidentale, fu quando rifiutarono, a differenza degli altri semiti, anche il parametro del bello. L’avversità naturale per l’apollineo è una peculiarità di tutti i popoli che non abbiano passato l’evoluzione greca di rimozione del capro e idealizzazione dell’antitesi delle sue peculiarità, e quindi anche gli altri popoli del Medio Oriente, anche se politeisti. Ma mentre gli altri popoli, sotto l’allettamento culturale pan-ellenico si piegarono a soluzioni di compromesso e i loro idoli si adattarono alla forma della cultura prevalente, i giudei fusero il concetto stesso di politeismo con quello di apollineo. I semiti che erano considerati barbari in quanto non greci, ovvero estranei alla cultura apollinea, attraverso una soluzione di compromesso entrarono a far parte dell’ecumene pan-ellenica. Dal momento che ne accettarono i  parametri culturali, per i greci era come se avessero smesso di essere semiti. Gli ebrei ne rimasero fuori e rimasero i semiti par excellence.
Da allora la parola antisemitismo significò avversione per gli ebrei e non avversione per i semiti in generale .
 

Paolo l’ebreo ellenizzato

Nulla sappiamo in realtà della figura di Gesù. Probabilmente era una figura reale, e vi sono frammenti di Josephus  e di Tacito (Ann., XV/44) che ricordano un “Christos”, crocifisso in Giudea ai tempi di Tiberio. Ma il fatto storico è irrilevante, in quanto la nostra ricerca si focalizza sulla realtà psicologica e non su quella storica, e secondo noi questa è più importante nello spiegare gli sviluppi storici di quanto lo possano essere dati o fatti registrati. I romani crocifissero in Giudea più di duemila ebrei (Jos., De Bello Jud., II/5; II/12; II/13). Uno di loro può essere stato Gesù di Nazzaret. Era quello un periodo turbolento nella storia dell’ecumene greco-romana e la Giudea era sempre stata una regione eversiva. Non possiamo nemmeno sapere quali fossero state le vere intenzioni di un Gesù, che dalle stesse testimonianze dei Vangeli parlava per parabole e metafore, e “non era venuto a sostituire la legge di Mosè”. Il vero fondatore del cristianesimo fu Paolo, che non aveva conosciuto Gesù, e diede forma a tutta la struttura ideologica e salvifica del cristianesimo. Lui sì che sostituì la legge di Mosè. Le lettere paoline, scritte intorno agli anni “50 del primo secolo contengono ben poche informazioni sulla vita del Redentore. Al centro del pensiero di Paolo sta solo l’importanza teologica della morte del Cristo e il suo significato: La Resurrezione, l’esaltazione, la Seconda Venuta, contenute in brevi formule di dottrina. Queste formule l’Apostolo stesso occasionalmente caratterizza come se fossero una tradizione da lui ricevuta e tramandata (I Cor.11,23 sgg; 15,3 sgg; Rom, 1,3 sgg.).
Come abbiamo visto sopra parlando dell’ebraismo alessandrino, gli ebrei della Diaspora, che erano molto più numerosi che in Giudea stessa, vivevano una situazione di scissione psichica tra la fedeltà al dio esculsivo come veniva emanato da Gerusalemme, e la loro assimilazione al mondo greco-romano. Nel I secolo a.C erano preoccupati di ricevere la cittadinanza alessandrina che comprendeva necessariamente più di un compromesso con il loro giudaesimo in quanto includeva la partecipazione a riti pagani . Philo alessandrino, il filosofo ebreo dell’inizio del I secolo, racconta come i  correligionari della sua città considerassero le leggi  della Bibbia come mere allegorie e che la maggior parte osservavano solo il digiuno del Kippur .
La situazione negli altri centri culturali del mondo pan-ellenico non era diversa. A cavallo del primo secolo si era creata una situazione poliedrica ed insieme paradossale. In Giudea l’influenza ellenista era stata frenata dalla controrivoluzione Asmonea (i Maccabei), ma non era cessata del tutto, e persino i discendenti dei Maccabei, come il re Aristobulo (104-103 a.C.), nipote di Mattatia, che era stato il caporione della rivolta anti-ellenista, si denominava “Philhellene” , e il suo successore Alessandro Iannai (103-76), coniava monete con la doppia scritta in greco e in ebraico, e aveva al suo soldo un esercito di mercenari greci . Al massimo arrivò lo stesso Erode il Grande (37-4 A.C) che costruì un teatro greco, un anfiteatro e un ippodromo nelle vicinanze di Gerusalemme, malgrado le reazioni malevolenti del popolo. Ma vi era un tabù che rappresentava la linea di demarcazione: le immagini. Non solo le immagini cultuali, ma persino i simboli stessi delle legioni. Quando Pilato tentò di portare le insegne romane a Gerusalemme trovò migliaia di giudei che erano pronti a morire piuttosto che sopravvivere una simile vergogna, e fu obbligato a rinunciare al suo intento pur di non provocare una ribellione (Josep. De Bello Jud., II/9). Quindi, all’inizio del I secolo della nostra era vi era una tendenza in Giudea all’intolleranza e al separatismo mentre nella Diaspora la tendenza era più verso un accomodamento con la cultura ellenista.
Paolo di Tarso, il centro della Stoa e crocevia tra Occidente e Oriente, era più che ambivalente verso la propria autoidentità. Si definisce della scuola di Gamliel e fariseo, ma non perde l’occasione di dichiarare di essere cittadino romano. Dichiara di aver perseguitato i cristiani, dalle sue parole per istruzione della classe sacerdotale. Aveva un nome ebraico (Saul) e ne adottò uno romano. Non vi è dubbio che avesse una personalità scissa tra la fedeltà alla legge dei padri e l’abbagliante mondo ellenista con i suoi culti della fertilità orientali. Come molti altri giudei della Diaspora era dilaniato interiormente tra identità antitetiche. E così cominciò ad allucinare un giovane dio che morisse e risorgesse, come quelli della cultura in cui era immerso, ma questa volta ebreo.
Sulla strada per Damasco, questa soluzione geniale gli si rivelò all’improvviso.
Forse la sua intenzione era di imporre all’ecumene pan – ellenica un giudaismo, da lui allucinato, nell’unica forma in cui questa avrebbe potuto accettarlo: attraverso un dio – Figlio, con il quale lui stesso si identificava. Al dunque fornì lo strumento per la vendetta  del mondo ellenista sui giudei.
 
 
 

                                         CAPITOLO  SETTIMO
 

                                               DOPO  LA  SINTESI

Il mondo ellenico di Apollo a poco a poco viene interiormente sopraffatto dalle forze dionisiache.
Il cristianesimo era già pronto
(Nietzsche, Frammenti postumi 1869-1874, 7[4] ).

 
 

Apollineo e Dionisico nell’arte occidentale

Nei capitoli precedenti abbiamo visto come, in un contesto sociologico, la figura di Dioniso rappresenti la realtà mentale tribale, mentre Apollo rappresenta il suo superamento, attraverso l’incivilimento nelle istituzioni politiche e la sublimazione attraverso l’arte. Ed ecco che, relegata la figura del dio caprino all’altro polo, a quello del brutto e del male, la parola tribale, in Occidente diventò un insulto, poiché questo parametro vitale della propria esistenza fu rimosso, insieme a tutti i contenuti mentali attribuiti al dio caprino.
L’arte greca rappresenta il superamento del dionisiaco, attraverso l’equilibrio rappresentato, nelle arti figurative, dall’armonia delle forme plastiche. Il mondo apollineo è quello descritto da Platone: un mondo dove l’arte cerca di riprodurre il mondo ideale delle forme olimpiche, in contrasto alla realtà delle imperfette forme umane. La fantasia viene imbrigliata e canalizzata per servire un ideale. L’artista deve così mettersi al servizio della bellezza ideale, che è anche una verità metafisica trascendentale, l’opposto dell’immanente. Platone diffidava dell’arte: temeva che lasciasse emergere i contenuti dionisiaci che ne sono il motore, che tradisse la verità “vera” attraverso quella sovrapposta dell’ideale del bello. Come abbiamo visto, la prima verità era stato il brutto. Quindi il filosofo è pronto a tollerare l’arte solo se questa si mette al servizio del suo ideale. Qui subentra il platonico: l’arte rappresenta la verità, mentre la realtà umana non è altro che un tentativo corrotto di ricalcare questa verità: da qui il detto che la natura cerca di copiare l’arte e non il contrario. L’arte diventò lo strumento per allontanare l’immagine del capro che era stata l’unica “verità”, e quindi “bellezza” delle tribù greche preistoriche. La verità platonica crea dunque un ideale che per essere tale deve essere il contrario della verità, deve allontanare e rimuovere l’immanenza. Quando l’ideale platonico della bellezza si tramutò in filosofia, ovvero in razionalizzazione, l’illusione dell’arte si trasfigurò nella “menzogna” dell’insegnamento e questa in fede.
Come abbiamo visto, Apollo diventò il simbolo di questi contenuti esistenziali e il cristianesimo tradusse da questi l’idea della perfezione di Dio, il Cristo, simbolo dell’equilibrio cosmico e quindi del bene e della moralità. Ma questa è una verità insegnata, più o meno imposta, che si sovrappone alla verità immanente che è quella dell’Es, come l’Io impone a questa provincia psichica la sua presenza inibitrice.
Al contrario, il dionisiaco ha come meta solo la scarica e la liberazione e quindi è l’opposto degli ideali. L’esperienza dionisiaca è una testimonianza di conoscenza, di verità immanente, non mediata e non sublimata, a differenza della verità ideale, e quindi necessariamente menzognera, proposta dal mondo apollineo.
E qui ci ricolleghiamo a quello che ci ha insegnato Nietzsche: l’arte è un’illusione, è l’ebbrezza di Apollo, ma è l’unica cosa che ci permette di alleviare la sofferenza esistenziale proprio perché ci permette di scaricare una parte delle energie dionisache inibite. Come dirà Freud, proprio perché, come il sogno, non ha la pretesa di essere realtà. Nietzsche e Freud contro Platone, il quale vuole fare dell’arte l’ancilla dell’ideale e farla passare per verità. E la verità di Platone è quella dell’Apollo che insegna la saggezza e l’ordine costituito, e non quello dell’enigma delfico. Se il modus mentale apollineo sono l’armonia e l’equilibrio plastico, il suo opposto sono l’esuberanza delle forme e il coloristico. Plastico versus coloristico, armonia versus disordine, contenutezza versus esuberanza.
Nella storia occidentale ogni divergenza dall’ideale classico sarà accompagnata, in arte, dal risorgere di tendenze antiplastiche e coloristiche. Se l’apollineo produsse l’ideale della democrazia, ogni divergenza da questi ideali provoca, o forse è la conseguenza, del riaffiorare di correnti dionisiache, e in arte l’equilibrio plastico viene sostituito da una tendenza al coloristico.
Così’, periodi in cui l’uomo occidentale si sente vicino agli ideali di libertà e tolleranza e si sente padrone della propria sorte, corrispondono in arte a momenti in cui egli ritrova il gusto dell’espressione plastica, mentre in periodi di crisi esistenziale, quando tende a tornare a quello stadio della propria preistoria mentale in cui era dominato da pulsioni dionisiache, è pronto a delegare la propria libertà e le istituzioni si fanno tiranniche, nel tentativo di compensare le divergenze creatisi nel suddetto equilibrio, e il gusto in arte diventa coloristico. Il mondo greco - romano, che si sentiva padrone del proprio mondo, si esprimeva in maniera plastica. Col crollo degli ideali del mondo antico e la crisi che portò al Cristianesimo, si entrò nel periodo forse più antiplastico della storia dell’Occidente: il periodo bizantino. L’arte di questo periodo è il simbolo del rifiuto del mondo reale e il bisogno di rifugiarsi nell’astrazione.
Il passaggio da una concezione plastica dell’arte figurativa e dalla sensazione di partecipazione dell’uomo agli eventi, caratteristica dell’arte romana dei  due secoli a cavallo della nostra Era, all’astrazione e al colorismo bizantino rappresentano la prima grande rottura dell’Occidente con gli equilibri del modus mentale apollineo. Questa rottura avviene in tutte le relazioni dell’uomo occidentale con il suo habitat. Si esaurisce la dialettica fra “civis” e “societas” e si instaura un legame statolatrico tra la massa dei sudditi e l’autorità dello stato. Il capo di stato romano, che ai tempi della repubblica era uno dei cittadini, diviene non solo imperatore, ma col tempo viene divinizzato. Dal terzo secolo si istituisce la proskinesis o prostrazione completa a terra dei cittadini di fronte all’imperatore, come si usava alle corti dei despoti orientali, e i cittadini diventano, definitivamente, sudditi.
Vediamo, dunque, che la rottura dell’equilibrio apollineo implica una rinuncia dell’uomo occidentale alle conquiste che gli aveva portato il superamento della struttura tribale. Sia come homo politicus che come homo faber, nel senso di artista, l’uomo occidentale subisce una metamorfosi: se l’uomo apollineo è in armonia con se stesso e col suo “status”, nel cosmo ideale a sua immagine e somiglianza, in cui a un’idea plastica perfetta nell’Olimpo corrisponde la propria immagine su questa terra, con la rottura non si auto - percepisce più come il centro del cosmo, ma rimpicciolisce e svanisce. L’espressione di questo sentimento in arte è la perdita del tempo reale, che veniva espresso così’ pienamente, ancora nel secondo secolo, nella narrativa della Colonna Traiana, per trovare una dimensione trascendentale, un tempo liturgico, la cui espressione è l’astrazione.
Dopo l’esplosione della crisi, per sette secoli, l’uomo occidentale non osò misurarsi con il tentativo di riallacciarsi ai suoi ideali apollinei. La prima ripresa di autocoscienza dell’uomo, quando, per tentativi, cominciò a uscire dal mondo di asservimento feudale, per ricostruire i primi nuclei indipendenti, i Comuni, corrispose a una nuova potente ondata di rifioritura plastica, e l’Europa è cosparsa delle grandi cattedrali romaniche con le loro potenti sculture. Il ripensamento parziale e le crisi del Trecento, insieme ai movimenti eretici che sconvolsero l’Europa dalla metà del tredicesimo secolo, furono probabilmente la causa dei rinnovati bisogni d’astrazione e di misticismo che trovarono espressione nel colorismo gotico. Il XIII secolo vide la proliferazione di numerosi movimenti eretici, sintomo delle agitate correnti che si muovevano nei meandri della psiche e intorpidivano le acque alla superfice: Ussitismo e Lollardismo, Beghardi e Beghine, I Fratelli del Libero Spirito, I Fraticelli, I Flagellanti e I Valdesi, talvolta era persino difficile focalizzare la differenza tra le varie sette. I nomi stessi erano usati intercambiabilmente come designazione dei nemici dell’ordine ecclesiastico costituito . Quello che avevano in comune era l’insofferenza e la protesta. Gli archivi dei tribunali ecclesiastici pervenuti a noi indicano che i movimenti eretici erano diffusi dappertutto e la vasta distribuzione è indice dell’eccitazione e dell’insoddisfazione che permeava  tutto il cristianesimo occidentale .

Per i “Fratelli del Libero Spirito”, vedi FREDERICQ: Corpus doc. haer. pravitalis, etc., vols. I-III.—HAUPT, art. in HERZOG, III. 467–473, Brüder des Freien Geistes. Vd.lit., vol. V., I. p. 459.—Per i FRATICELLI, F. EHRLE: Die Spiritualen. Ihr Verhältniss zum Francis-kanerorden u. zu d. Fraticellen in Archiv f. K. u. Lit. geschichte, 1885, pp. 1509–1570; 1886, pp. 106–164; 1887, pp. 553–623.—DÖLLINGER: Sektengesch., II.—LEA: Inquisition, III. 129 sqq., 164–175.—WETZER-WELTE, IV, 1926–1985.—Per i VALDESI, Vedi: lit., vol. V., I. p. 459.—Anche, W. PREGER: Der Traktat des Dav. von Augsburg fiber die Waldenser, Munich, 1878.—HANSEN: Quellen, etc., Bonn, 1901, 149–181, etc. Per il riassunto dei suddetti paragrafi vedi par. 58 in: HISTORY OF THE CHRISTIAN CHURCH*, Cap.VII, “HERESY AND WITCHCRAFT”, in the Christian Classics Ethereal Library at Calvin College. Last updated on May 27, 1999.

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 Sembra quasi che dopo ogni conquista dello spirito di libertà e d’indipendenza dell’uomo, si risvegli, dopo una determinata latenza, un senso di colpa e un bisogno d’astrazione, un ripensamento e un pentimento, che portano a delegare la propria libertà e a rinunciare, almeno parzialmente, alle conquiste ottenute. Non è un caso che la fioritura dell’arte gotica tra la metà del XIII secolo e la fine del XIV coincidano con la grande crisi economica e sociale. La nuova concentrazione in centri urbani iniziata nell’XI secolo aveva prodotto l’emergenza di nuove classi sociali e di nuove tensioni, sconosciute all’antico ordine feudale, che erano sfociate nel XIII in estraneazione e polarizzazione all’interno delle nuove città. Le pestilenze e altre calamità ecologiche avevano fatto il resto. Tra il 1250 e il 1360 vi fù infatti un calo drastico del numero della popolazione e dell’indice di aspettanza di vita. Il numero di bambini per famiglia scese da 3.5 a 1.9 .

Jerrold Atlas, �Medieval Crime, Violence and Superstition: Symptomatic Dysfunction�, http://members.xoom.com/_XMCM/childhistory/ja/2611998/medcrime.htm in The Journal of Psychohistory V. 26, N. 1, Summer 1998, in Digital Archives of PsychohistoryArticles & Texts A Publication of The Institute for Psychohistory.


La sensazione di essere entrati un un vicolo cieco fece una reattivazione degli antichi sensi di colpa, e questi si tradussero in bisogno di astrazione e di comunione con le sfere celesti. Queste sono anche le condizioni ideali per la ri-emergenza del capro rimosso.
Non è un caso che alcuni tra i movimenti eretici del XIV secolo non fossero altro che una ribellione contro tutto l’ordine apollineo. Come esempio portiamo Margaret di Henegouwen, conosciuta come Margaret di Porete, una Beghina, che scrisse un libro a favore dell’annullamento dell’anima nell’amore di Dio (ibidem, nota 880), una reattivazione della co-munione, che già ben conosciamo dai primi capitoli. Ma di che tipo di comunione si trattasse ci diventa chiaro quando Margaret sostiene che, una volta avvenuta questa comunione, l’individuo possa abbandonarsi, senza rimorsi di coscienza, a qualsiasi appetito della carne . Quindi la co-munione invocata dalla Beghina eretica non è quella con il corpo del Cristo apollineo, bensì con quello dionisiaco, reattivazione dell’orgia della comunione con il corpo del capro che rappresenta la sensualità sfrenata e l’immagine del Dio relegata all’altro polo. L’eretica fu bruciata, insieme al suo libro, in piazza di Greve, a Parigi, nel 1310 (ibidem). Un’altra scrittrice della stessa setta che disse cose simili fu Maria di Valenciennes, il cui libro fu condannato dall’Inquisizione nel 1400 (ibidem). Allo stesso tipo di eresia appartiene il libro “L’uomo della Ragione”—homines intelligentiae,—che apparve at Brussels all’inizio del XIV secolo che predicava la comunione finale tra tutti gli uomini e il Diavolo  (ibidem, nota 881. Vediamo quindi chiaramente che la crisi delle soluzioni apollinee corrisponde a una reattivazione dell’immagine del capro e a una nostalgia per l’aspetto arcaico della comunione con il dio. L’equazione di cui abbiamo già parlato in precedenza si ripresenta: Dioniso = Bestia (Diavolo) = orgia pulsionale
Ma, dopo un secolo e mezzo di astrazione gotica, che era stata uno spasmo di contrappunto dionisiaco al potente movimento ascensionale apollineo, iniziato con il secondo millennio, i bisogni occidentali di espressione plastica tornarono a farsi valere e trovarono sfogo in una esplosione di vitalità creativa, che non aveva simile dai tempi dell’antica Grecia, e che forse non si ripeterà mai più: l’uomo del Rinascimento italiano parve ricordarsi della Grecia classica come se non fossero passati duemila anni, ma neppure duemila giorni. Non solo, ma riuscì a superare di gran lunga gli apici della Grecia antica. Non a caso la grande “rinascita” avvenne proprio in Toscana, l’antica Etruria.
L’arte etrusca aveva conservato in tutto il suo vigore le energie dionisiache, che nell’arte greca si erano andate esaurendo dall’arte classica in poi. Se Fidia e Prassitele avevano ancora in mano il filo del potente strato dionisiaco, lo avevano però subordinato alla soluzione apollinea. Nelle opere dei grandi scultori della Grecia classica le energie dionisiache erano arrivate anche al loro traguardo.
Gli etruschi, invece, non avevano scartato la soluzione dionisiaca e in arte questo potente substrato continuava a mantenere tutta la sua vitalità, continuando a correre come un filo parallelo, dove i greci avevano optato per l’altra soluzione.
L’arte etrusca rimase così, anticlassica.
Una parte di queste energie si infiltrarono nella prima arte romana, ma pare che i Romani preferirono ricollegarsi, almeno parzialmente, a quella che nel mondo greco era diventata arte ellenista. Ciononostante, il potente filo dionisiaco che gli etruschi passarono ai romani continuò a essere presente e a influenzare l’arte italiana.
Quando fu il momento, la psiche occidentale, dopo millecinquecento anni, cercò di ricollegarsi agli ideali esistenziali del mondo antico; gli uomini si ricollegarono alle opere della Grecia antica, ma attraverso il medium del filo dionisiaco, che era rimasto vibrante nella psiche italiana e particolarmente in quella toscana. Lo spirito etrusco, come la fiaccola che una staffetta in corsa consegna al corridore dopo di lui, passò le proprie energie dionisiache agli artisti fiorentini del Rinascimento: essi erano là, in situ, pronti a essere travasati da esso. L’arte del Rinascimento diventò così’ arte classica, ma travasata di energie dionisiache fresche, nuove: mediato dall’antico apollineo, lo spirito dionisiaco trovò la sua espressione e il suo sfogo, e diede all’apollineo un nuovo vibrante contributo. Anche qui, come nell’arte greca del V secolo, gli apici furono raggiunti dalla fusione tra dionisiaco e apollineo; anche qui dalla subordinazione del primo al secondo.
Ma in questo caso, a differenza dell’arte greca, il dionisiaco non arrivò al traguardo sfiancato, come conclusione di un processo, bensì pieno di energie e come promotore del processo di sublimazione che conduce all’opera d’arte. Il Donatello, il Masaccio, il Brunelleschi, Andrea del Castagno, Michelangelo e molti altri superarono Fidia e Prassitele. Anche il loro modus mentale era più simile a quello dei greci di quanto non fosse stato nei mille e cinquecento anni precedenti. Una nuova libertà di espressione fece sì’ che poterono affrescare santi e patriarchi nelle loro nudità classiche, cosa che non era mai successa prima e non si ripeté mai più dopo. L’Occidente fece qui, guardando indietro e inspirandosi a quello che vedeva, un grande balzo in avanti. Ma anche questo felicissimo momento di esaltazione e di presa di conoscenza si esaurì, e cedette il posto alle forze oscurantiste, che attendevano in agguato.
Il dionisiaco, una volta riattivato, tese a guadagnarsi la supremazia e così’ fu subito percepito come minaccioso, e fece scattare il meccanismo fobico di repressione.
Al plasticismo rinascimentale succedette il colorismo barocco.
Il dionisiaco, uscito dalla cornice della sua subordinazione all’apollineo, trovò la sua espressione nella sensualità dell’arte barocca ma contemporaneamente innescò le contromisure di repressione. La libertà e permissività del Quattrocento cedettero il posto all’assolutismo e al bigottismo del periodo barocco. Dove Michelangelo e Masaccio avevano affrescato i loro patriarchi e santi, nudi come eroi greci, vennero i censori e coprirono i loro genitali con foglie di fico. Simultaneamente le piazze d’Europa venivano illuminate dai roghi dell’Inquisizione. E come il movimento plastico ascensionale dell’inizio del millennio era stato contrastato dall’astrazione gotica accompagnata dalla reattivazione dell’erotismo sfrenato e sensuale del capro dionisiaco, di cui Margaret di Henegouwen era stata il portavoce, così Teresa di Avila è l’espressione del rinnovato bisogno di co-munione attraverso il medium della scarica pulsionale. Invece che bruciata in quanto eretica, come la sua precursora di tre secoli prima, fu beatificata. Aveva saputo celare la vera natura del suo amante, il capro dionisiaco, dietro l’immagine del Cristo apollineo. Come abbiamo alluso nel primo capitolo, era arrivata al polo dionisiaco attraverso l’ebbrezza del corpo di Apollo.
Come abbiamo visto nei capitoli precedenti, esuberanza, sfogo e scarica sono parametri di immanenza dionisiaca, ma per potersi tradurre in arte devono necessariamente venire mediati, e questo può avvenire solo attraverso il medium dell’astrazione. Anche dove la sensualità viene espressa e non astratizzata, come nell’arte barocca, la soluzione non avviene attraverso l’effusione e l’orgasma bensì il movimento viene bloccato all’apice della sua espressione, senza che gli venga permesso di sfogarsi in scarica. Ancora un passo in più e si ottiene solo effusione e retorica. Come abbiamo visto trattando di musica, a ragion di più quando si parla di rappresentazioni figurate, pulsioni dionisiache possono venir canalizzate in arte solo se si preclude loro la scarica non-mediata. L’arte barocca è quindi il massimo che si possa permettere il dionisiaco prima di venire imbrigliata anch’essa dall’apollineo e, come abbiamo sostenuto, senza il medium di quest’ultimo non può esistere arte di nessun genere.
Mentre nell’arte plastica della Grecia classica, e come sarà dopo nel Rinascimento italiano, è facile riconoscere il volto di Apollo, che ha imbrigliato a suo favore le energie dionisiache fino dall’inizio del movimento ascensionale, nell’arte barocca Dioniso si muove inquieto e cerca di straboccare dai confini della contenutezza apollinea, come se cercasse di ribellarsi all’imbrigliamento dell’Io. Se vi riesce, l’opera d’arte viene abortita. E infatti proprio in questo periodo della storia dell’arte, il Barocco, abbiamo tanti tentativi falliti in cui l’espressione degenera in effusione e retorica.
Il Rinascimento italiano non riuscì a passare le Alpi. Persino in Italia settentrionale non riuscì a respingere completamente il dionisiaco. Nel Veneto, dove il gotico “internazionale” aveva messo radici nell’humus della tradizione bizantina, il colorismo e l’astrazione non cedettero mai il passo al plasticismo rinascimentale, e si fusero con il barocco che aspettava dietro l’angolo. A Milano, il Duomo rappresenterà per l’eternità le influenze d’oltralpe, il dionisiaco tribale gallico-germano, con le sue foreste in pietra e i suoi rami protesi verso l’astrazione del regno dei cieli.
 

Conquiste e rinunce

Il raggiungimento dell’equilibrio apollineo è la missione dell’uomo occidentale: esprimersi entro gli equilibri dell’armonia plastica, vivere in una società democratica, ed essere sessualmente libero sono i suoi scopi, ma questo ideale fu raggiunto, solo per un brevissimo periodo, all’apice della Grecia classica. Appena il greco raggiunse la sua meta subito cominciò a degenerare. Prima perse la libertà, poi la permissività sessuale e infine rinunciò a esprimersi plasticamente. Da allora lotta per raggiungere questi ideali, che fanno parte della sua struttura psichica. Per lunghissimi periodi sembra “dimenticarsene”, ma ogni tanto almeno uno di questi aspetti riemerge, talvolta con vitalità ed esuberanza inaspettate. All’inizio di questo millennio, dopo sette secoli di repressione si organizzarono i liberi Comuni, il ’400 fu il secolo in cui Fidia e Prassitele non solo risorsero ma furono persino superati, e il nostro secolo ci ha riportato, almeno momentaneamente, quella libertà sessuale di cui non godevamo dal crollo del mondo antico. Ogni volta, e ci sono segni che per quello che riguarda la libertà sessuale stia già per esserci un ripensamento, l’uomo occidentale afferra con tutte due le mani la propria rinnovata conquista, solo per mollare subito la presa. È come se le onnipresenti correnti sotterranee dionisiache non possano venire represse, altro che per periodi molto brevi. Rimosse, ma sempre attive, premono perennemente per un riconoscimento: una specie di richiamo della giungla. E quando emergono, la reazione mentale della società occidentale è una stretta di vite, un nuovo controinvestimento energetico diretto alla repressione.
 In arte, queste correnti irrompono violente, non possono più essere represse,  tendono a straboccare all’aldilà dei confini contenuti del plasticismo apollineo, e cercano sfogo o in una contemplazione trascendentale, e quindi antiplastica, come nell’arte bizantina, o in un’astrazione gotica o in una sensuale esuberanza barocca.
Il ritorno al dionisiaco rappresenta per l’Occidente una regressione e, come ogni regressione, avviene in momenti di crisi. Il cemento, che tiene unita una società apollinea, non tiene durante le bufere delle crisi politiche ed economiche, quando le forze centrifugali minacciano le istituzioni, e gli equilibri raggiunti vengono messi in dubbio.
L’istantanea fotografata a Firenze ne “400 ebbe solo pochi e distanti echi nel resto dell’Europa. Dopo l’ondata di plasticismo romanico e il  rigurgito di “romanità”, portati dalla fioritura comunale dell’inizio del millennio, al di là delle Alpi il modus mentale dionisiaco, e le misure repressive da esso innescate, non smetteranno più di avere la prevalenza.
Così si spiega che dal XII secolo in poi, l’Europa rivedrà riemergere il capro sempre più violento, e lo schermo della psiche sarà dominato quasi esclusivamente da questa immagine. Il XII secolo vedrà le prime accuse di omicidio rituale di un bambino, rivolte contro gli ebrei, e infatti di Bambino si trattava, il piccolo Dioniso sbranato dai Titani del mito orfico e riemerso nell’immagine di Gesù Bambino. Il proprio alter ego rimosso viene proiettato negli ebrei, che erano rimasti l’altro polo. Nell’allucinazione popolare questi presero il posto dei Titani, che erano emersi dagli Inferi per divorare il dio bambino. Il XIV secolo vedrà la fioritura delle accuse di eresia. Il XV secolo i culti satanici [quadro di Hans Baldun Grien]. Il XVI  i roghi delle streghe.
Dal XII secolo in poi e fino alla rivoluzione industriale diavoli, capri e streghe [quadro di Goya], eccitati in un’orgia di scarica pulsionale, non smetteranno mai di emergere violenti sullo schermo della psiche occidentale.
Dove il plasticismo Rinascimentale non era riuscito a penetrare, le accuse di eresia e di culti satanici ebbero una continuità ininterrotta anche durante tutto il �400, ma anche a Firenze stessa, nel 1492 , con i primi turbamenti che emergono prepotenti già nell�arte di Michelangelo, Fra Gerolamo Savaonarola fu arso sul rogo in Piazza della Signoria.
Dal �500 in poi la psiche europea sarà tormentata ininterrottamente da immagini di streghe , di �messe nere� , di culti satanici , di accuse di omicidio rituale che, con intensità diversa e a secondo dell�intensità dei turbamenti sociali , non smetteranno fino ai giorni nostri .

Oriente dionisiaco

Per l�Oriente, il dionisiaco è la condizione naturale, poiché non si sviluppò mai una soluzione apollinea alternativa. Ma una società dionisiaca è anche una società dove l�equilibrio viene raggiunto attraverso la repressione, poiché le pulsioni, non canalizzate e non sublimate, non possono essere lasciate libere di sfogarsi a loro piacimento: incontrollate, minaccerebbero qualsiasi struttura sociale.
Dioniso, essendo un dio legato a pulsioni primarie e rappresentando quello che, nella società greca, erano rimasti i ricordi tribali repressi, con i riti totemici di cannibalismo e resurrezione a loro appartenenti, non avrebbe mai potuto essere un dio civilizzatore e svilupparsi poi in un dio ecumenico. Apollo, invece, essendo l�espressione di una società, che ha abbracciato concetti più ampi, può diventare il simbolo di qualcosa di universale, che si estende al di là della particolarità di un popolo specifico, fino all�umanità intera, coniando concetti di cosmopolitismo ed ecumenismo, estranei alla realtà esistenziale del clan e dalla tribù: attraverso l�apollineo una cultura realizza il processo di trasfigurazione in civiltà.
Dionisiaco vuol dire tribale, particolare, orgia pulsionale e quindi anche il suo contrario: repressione pulsionale e inibizione, in contrasto a canalizzazione e sublimazione. Una società, che conosce solo questi parametri, potrà organizzarsi unicamente sulla base della repressione e prendere per valida solo la legge del capo. La democrazia sarà per essa un�assurdità e sinonimo di anarchia .
La repressione porta all�inibizione pulsionale, e questa risulta nella repulsione dalla rappresentazione figurativa e dall�esposizione del nudo . Una società, che non abbia passato il processo di trasfigurazione apollinea, difficilmente rappresenterà un dio nudo: il Cristianesimo orientale, permeato di contenuti dionisiaci antiapollinei, non espone mai la figura di Cristo nella sua nudità apollinea, come fa invece il Cattolicesimo occidentale. Il Cristo orientale è sempre completamente vestito e barbuto, versione del Dioniso - Pan peloso, piuttosto che dell�Apollo liscio e plastiforme. L�arte orientale quindi può solo essere coloristica e mai plastica.
Il caso ha voluto che gli Arabi siano venuti a contatto con l�Occidente, mentre questo passava una fase coloristica. La conquista araba del settimo secolo, in cui le truppe del Profeta dilagarono in tutto l�Oriente ellenizzato, li mise a contatto diretto con i Bizantini e, quindi, poterono ispirarsi all�arte bizantina, che corrispondeva completamente al loro gusto antiplastico e coloristico. Non a caso, quindi, la Moschea di Omar, a Gerusalemme, assomiglia tanto a Santa Sofia di Costantinopoli.
Sette secoli prima, invece, quando gli Arabi Nabatei erano entrati in contatto con le città elleniste della Transgiordania, cosparse di edifici dalla martellante possenza plastica, questo incontro produsse una creatura ibrida anche se affascinante: Petra, la città scolpita nella roccia, con capitelli e colonne greche scolpite, strappate in situ direttamente dalla roccia, invece che costruite, e in mezzo all�atmosfera coloristica e rarefatta, da fiaba gotica, del deserto. L�intenzione e i mezzi usati avrebbero dovuto produrre un effetto plastico, sull�esempio delle città greche alle quali s�ispirarono, ma il risultato fu un intenso effetto coloristico: fulgido esempio di come il modus mentale orientale, estraneo all�apollineo, possa tradurre impulsi, riflessi da questo, esclusivamente in effetti consoni alla propria esperienza esistenziale.

Monogamia apollinea e poligamia dionisiaca

Dal modello apollineo abbiamo finora isolato due caratteristiche particolari:
1) l�idea di Stato, in contrapposizione alla concezione di fedeltà tribale. 2) La permissività sessuale e lo sfogo pulsionale, che in arte si manifesta nell�arte figurativa plastica e l�esposizione del nudo. Con il crollo dell�equilibrio apollineo e del mondo antico la permissività sessuale verrà relegata all�altro polo, ma i semi del modello dell�astinenza erano già stati seminati molti secoli prima, quando dee vergini abitavano i templi dell�Occidente, in contrasto alle prostitute sacre semitiche.
Ma vi è un�altra particolarità, che è quasi esclusiva dell�Occidente apollineo, e questa è la monogamia in contrasto alla poligamia, che è una condizione sociale scontata in tutte le culture che siano rimaste strutturate sulla fedeltà al clan e ai legami tribali.
Parlando degli Egiziani Erodoto dice: �...quelli che abitano nelle paludi adottano le stesse costumanze degli altri e, in particolare, ognuno di essi vive con una moglie sola, come fanno i greci...� (Hist. II/92). In seguito vedremo come la monogamia degli Egiziani si ricolleghi alla loro struttura sociale parzialmente apollinea.
Malgrado la Bibbia ci presenti un giardino dell�Eden dove vi è una coppia composta da un solo uomo e una sola donna, con la cacciata dall�Eden ci presenta una situazione dove tutta l�organizzazione sociale ruota intorno alla poligamia. Gli ebrei accettarono formalmente la monogamia solo nel medioevo, nell�undicesimo secolo, sotto l�influenza della società occidentale in cui vivevano, quando un rabbino francese, Rabbi Gershom, mandò una lettera a tutte le Diaspore, minacciando la scomunica a chi non avesse accettato l�imposizione della monogamia. La poligamia era già diventato un fenomeno molto raro, dopo mille anni di coabitazione con i modelli europei, ma quegli ebrei, come nel lontano Iemen, che non avevano mai assaggiato l�esperienza di una diaspora occidentale, rifiutarono l�imposizione dei rabbini. Era un�ingiunzione troppo assurda per chi non fosse mai venuto in contatto con i bizzarri modelli occidentali. Da un nucleo familiare composto da un uomo e più donne si formano le tribù e poi le nazioni. Per le tribù semitiche una camicia di forza come la monogamia sarebbe inconcepibile. La famiglia monogama limita il numero dei figli e quindi l�espansione della tribù . Inversamente in una società che pone lo Stato al di sopra della struttura tribale, la poligamia viene percepita come una minaccia. Una famiglia allargata, che si sviluppa in fazione tribale, e la coesione di sangue che lega i suoi membri tra di loro sono un�alternativa all�autorità dello Stato e quindi ne minano le basi. Così� si spiega il fatto che, negli stati occidentali, la bigamia e la poligamia vengano considerate infrazioni penali. Il peccato è di lesa maestà. Se così� non fosse, ci si potrebbe accontentare di considerare la bigamia un�infrazione civile, senza coinvolgere lo stato in quello che dovrebbe venire considerato un affare privato tra i cittadini. Come l�adulterio viene considerato un�infrazione al codice civile, che può essere impugnato dal coniuge leso, così� avrebbe dovuto essere la bigamia. Lo stato occidentale moderno, che ha depenalizzato i rapporti tra gli omosessuali, al punto da permettere in certi paesi occidentali persino il matrimonio tra di essi, e le scelte sessuali degli adulti consenzienti, non lascia libertà di scelta su questo argomento. La famiglia monogama è la base della società apollinea e dello stato; niente compromessi su questo argomento. Le mura di cinta della Polis vanno difese dalle forze centrifugali, che la poligamia innescherebbe al loro interno. Su questi tre pilastri si basa la società occidentale, e queste sono le componenti di quella che viene percepita, in Occidente, come la civiltà: ogni deviazione viene considerata segno di imbarbarimento e innesca, automaticamente, una reazione fobica, che si esprime in intolleranza verso tutto quello che esula da questi parametri.

Parte Seconda



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