Iakov Levi e Luigi Previdi

OCCIDENTE  E  ORIENTE  SEMITICO  NELLO  SPECCHIO  DI
  DIONISO  E  DI  APOLLO

SECONDA    PARTE



Parte Prima A

Parte Prima B


CAPITOLO  OTTAVO

 

APOLLINEO E DIONISIACO NEL MEDIO ORIENTE ANTICO



La  Mesopotamia

Prima che in Grecia, fu nel Medio Oriente antico che ebbe luogo un tentativo di organizzazione sociale che superasse la struttura tribale.
Nella Mesopotamia del terzo millennio A.C. furono fondate delle città - stato su di un modello che, se si fossse sviluppato ulteriormente, avrebbe potuto partorire una polis.
I sumeri si organizzarono entro le mura di città, con templi che facevano da centro amministrativo, e la società sumerica era divisa in classi ben definite, dove ognuno si accollava la sua parte di lavoro. Uno stato che avrebbe suscitato l’ammirazione di Platone.
Queste città degenerarono sotto la pressione delle tribù semi - nomadi, che incalzavano dai deserti occidentali e dal nord, e non ressero all’impatto. Verso la fine del terzo millennio Sargon l’Agade (2340 A.C.), figlio di un ceppo semitico – orientale, incorporò le città sumeriche dentro il suo impero e mise fine alle loro istituzioni “apollinee”.
Le città sumeriche persero la loro indipendenza, come succederà duemila anni dopo alle città greche sotto l’impatto macedone, e vennero incorporate nell’impero di Sargon I, e poi nell’impero babilonese.
 

L’Egitto:  un ibrido

La società egizia presenta, invece, degli aspetti che esigono un’indagine più attenta. Al contrario di quella mesopotamica, non aveva mai sviluppato quella struttura politico - sociale che aveva trovato la sua espressione nelle grandi città autonome della civiltà sumerica, ed era passata, direttamente, da una società tribale predinastica, a uno stato autoritario, mancando, così, di quella esperienza semi – democratica, che aveva, temporaneamente, caratterizzato le città -- stato della Mesopotamia.
Essa mancava, quindi, di uno degli elementi principali che caratterizzano una organizzazione apollinea. Però, anche se non sviluppatasi in polis, era certamente uscita da un’organizzazione che si basasse sul frazionamento delle fazioni tribali, e aveva canalizzato le proprie energie nella fedeltà a un super -- Stato, simboleggiato dalla figura del faraone. Invece che fedeltà al capo -- tribù, fedeltà allo Stato  (Stato = evoluzione apollinea) e alla sua rappresentazione antropomorfica nella persona del faraone come super - Padre (simbolo di una società tribale).
L’Egitto, uscendo dalle formazioni tribali predinastiche, aveva preso una scorciatoia attraverso l’esperienza apollinea, senza né esprimerla né maturarla, né superarla. Da un lato conservava tutti i simboli totemici di quelli che erano stati i nuclei tribali, e li assommava tutti senza scartarne nessuno, dall’altro primeggiava la figura di Ammon, dio sole re di tutto l’Egitto, versione egizia del dio ecumenico Apollo ( Erodoto identifica Ammon con Zeus (Hist., II/42) ma questo solo perché ai suoi tempi Apollo non era ancora diventato il dio principale dell’ecumene panellenica. Ammon era il dio del sole, e corrisponde dunque ad Apollo) Quindi una società non più tribale, con un’esperienza apollinea atrofizzata, in cui le energie apollinee, si scaricavano attraverso il culto del sole nella forma di Amon - Ra. Un culto apollineo, che non poteva arrivare a un equilibrio energetico soddisfacente, come nella polis greca, ma bensì veniva minacciato continuamente dalle pressioni dionisiache concomitanti. In contrasto alla Grecia, dove ci sarà un’evoluzione, una maturazione e una scelta tra apollineo e dionisiaco, in cui uno stampo mentale fu scelto e l’altro scartato e rimosso, in Egitto le forze in campo continuavano a essere presenti nel loro vigore originale, traducendosi in una mancanza di soluzione e un potenziale distruttivo. Solo la figura e l’autorità del faraone potevano conservare l’equilibrio di una società, che non era né carne, né pesce, che voleva abbracciare tutte le soluzioni senza scartarne nessuna, senza dover scegliere, e che, quindi, necessitava di una repressione continua e attiva, reagendo fobicamente davanti a ogni innovazione e cambiamento .
L’Egitto nacque quando Menes, il primo faraone, unì l’alto e il basso Egitto in un’unica equivalenza, e da allora non vi furono ulteriori sviluppi politici essenziali. All’insegna della paralisi delle istituzioni aleggiava la felicità dell’Egitto .
Quello che sembra, a prima vista, una calma elegiaca indisturbata, non è altro che il risultato di un precario equilibrio tra forze potenzialmente devastanti. L’immobilità non è, qui, mancanza d’azione, bensì il risultato di forze attive, che si neutralizzano a vicenda, dalla propria stessa violenza. Questa creatura rimase sempre un ibrido. Erodoto era particolarmente attratto dall’Egitto. Non sapeva come digerire questa strana creatura e ci dice:

Anche in quest’altra consuetudine gli Egiziani vanno d’accordo con i greci, con i soli spartani però, i loro giovani quando incontrano una persona più anziana cedono il passo, si scansano; e al loro appressarsi si alzano da sedere (Hist., II/80).
Erodoto cercava sempre di scoprire un parallelismo tra le divinità egizie e quelle greche, ed era ovvio per lui che Zeus fosse Ammon – Ra (II/42), Demetra e Dioniso corrispondessero a Iside e Osiride (II/123), Basti, la dea dalla testa di gatto adorata a Bubasti, fosse Artemide (II/59), il regno dei morti “Amente”, l’Ade (II/122).
Percepiva che vi fosse qualcosa di comune tra egizi e greci, ma la differenza era pur troppo evidente, con tutti quegli animali sacri, simboli totemici di uno stadio evolutivo da gran lunga superato dalla cultura greca.
Come abbiamo visto sopra (p.18) avevano adottato la monogamia, caratteristica del modus apollineo e dall’altro la circoncisione, peculiare della tribalità e della Legge del Padre , e tutti i simboli totemici tribali, nella figura dei numerosi animali che adoravano. L’elemento comune era appena percettibile e apparteneva al profondo, i numerosissimi elementi incompatibili, sparsi e ostentati alla superficie. Questo porta Erodoto stesso a contraddirsi, ma le contraddizioni non erano del padre della storia, bensì del modus mentale egizio stesso. Erodoto è obbligato a constatare, quasi suo malgrado : “Rifuggono dall’adottare usi del popolo greco, per dire in una parola, da nessun altro popolo al mondo accettano costumanze: così in generale gli egiziani se ne guardano bene” (II/91).
Eppure questo substrato apollineo, comune ai greci, era lì onnipresente:
Gli Egiziani sono anche i primi che ritennero come pratica religiosa di non aver contatto con donne nei templi e di non entrarvi, dopo il contatto, senz’essersi lavati. Quasi tutti, invece, gli altri uomini, eccetto Egiziani e greci, si uniscono alle donne nell’interno dei templi (II/64).
Infatti i greci, pur avendo nella vita di tutti i giorni dei costumi estremamente permissivi, non praticavano la prostituzione sacra, che era invece il culto principale dei popoli semiti del Medio Oriente. Il modus mentale apollineo aveva relegato la promiscuità alla vita normale, e la sacralità, legata ai templi, era diventata l’altro polo . L’Oriente semitico, in contrasto, nel suo modus mentale dionisiaco che implicava una continua repressione delle pulsioni non sublimate, lasciava aperta la valvola di scarico dell’orgia e dei culti della fertilità, relegandoli alla sacralità dei templi; le dee semite, Anat, Asherahat e Astarte erano infatti prostitute sacre.
e furono ancora gli Egiziani a formulare per primi la dottrina che l’anima dell’uomo è immortale, e, quando il corpo si dissolve, entra essa in un altro animale che, di volta in volta, viene al mondo[...]Di questa teoria si valsero alcuni tra i filosofi greci, chi prima, chi dopo; come se fosse stata la propria: io ne conosco i nomi, ma tuttavia non ne parlo (II/123).
I greci, staccandosi dalla fedeltà al clan e ai suoi riti esclusivi, avevano aperto la strada alla filosofia e alla metafisica, che cominciava a essere formulata nelle teorie dei primi filosofici presocratici. Il concetto d’immortalita’ dell’anima, ovvero di negazione della morte, era stato concepito in Egitto, e questo come amuleto apotropaico contro qualsiasi interferenza nell’equilibrio del loro ordine cosmico. Negare la morte, corrispondeva a negare la precarietà. Quando in Grecia uscirono dalla certezza del rito tribale, si trovarono esposti a quella stessa precarietà che in Egitto era stata esorcizzata attraverso la negazione della morte. Qui ci ricolleghiamo alla filosofia come amuleto apotropaico, pensiero magico e strumento per esorcizzare il vuoto lasciato dall’abbandono della fedeltà al clan. Erodoto trova un parallelismo con l’Egitto, che anch’esso, avendo fatto questo passo, si era creato una sua visione metafisica del mondo. Come in tutte le altre sue espressioni culturali, anche questa visione metafisica del cosmo e dell’aldilà in Egitto verrà congelata e rimarrà senza ulteriori sviluppi. In Grecia, invece, le prime teorie dei filosofi orfici saranno solo la prima pietra, sulla quale generazioni di filosofi costruiranno i loro edifici poliformi. Anche in questo campo trova espressione il compromesso energetico tra quello che gli egiziani percepivano come una realtà immanente, una verità assoluta, che appartiene alla sfera dionisiaca della Legge del Padre, e un’astrazione metafisica che appartiene alla sfera del modus apollineo.
Anche l’arte egizia tradisce questa consustanzialità tra apollineo e dionisiaco. Da un lato la tendenza a raffigurare il corpo umano seminudo e il gusto per l’arte figurativa sono sviluppi, che appartengono al modus mentale apollineo. Anche la tendenza naturalistica, nel descrivere scene della vita di tutti i giorni, con i pescatori, i contadini e le fanciulle delle pitture murali, sembrano preludere a uno sviluppo artistico promettente. Ma tutto, appena creato, si congela e, nei tremila anni che seguono le prime raffigurazioni, non ci saranno ulteriori sviluppi essenziali. Le raffigurazioni murali dei templi e delle tombe sono di serie e ricordano le teorie di vergini e santi dei mosaici delle chiese bizantine. Il seminudo si congela nella sua raffigurazione en face, mentre la testa e i piedi sono di profilo, creando un’impressione di astrazione e sintesi simbolica, estranee alle concezioni di armonia plastica apollinea.
Ma quello che, più di tutto, tradisce l’elemento tribale nella psiche egizia è quell’istituzione, che è il simbolo par excellence della tribalità, ed è la circoncisione . Essendo questo il segno più caratteristico delle cerimonie iniziatiche tribali, è il simbolo della sottomissione alle regole del clan e alla legge del Padre. Qui sta la differenza tra la fedeltà allo stato, che nelle società apollinee si sviluppa ad astrazione nell’idea di patria, e la fedeltà al capo che rappresenta il padre primigenio comune.
Il Faraone e la classe sacerdotale erano le istituzioni che rappresentavano l’equilibrio tra apollineo e dionisiaco. Con il crollo dell’equilibrio apollineo del tardo impero romano anche in Occidente fu sentito il bisogno di creare istituzioni parallele: La Chiesa e l’imperatore. Anche in Occidente, con il crollo dell’equilibrio apollineo del mondo antico, si era stabilito un equilibrio basato sulla repressione, e un ordine autocratico e repressivo manteneva quell’equilibrio sociale che, in mancanza delle soluzioni apollinee, si sarebbe altrimenti sgretolato. La differenza consiste nel fatto che, mentre per l’Occidente questa soluzione repressiva ed autocratica era stata una soluzione di ripiego e di divergenza da quelli che erano gli ideali del modus mentale occidentale, ovvero una regressione, per gli egiziani la soluzione raggiunta era l’ideale esistenziale: per gli Egizi, non esistevano equilibri  alternativi e l’autocrazia faraonica costituiva l’ordine ideale, l’alternativa al Caos (Henry Frankfort, The Birth of Civilization in the Near East, Anchor Edition, New York 1956, pp. 13 -- 24).
Il faraone non era dunque un tiranno, il rappresentante della classe dirigente, bensì la personificazione dell’equilibrio che reggeva il loro mondo: il faraone era l’Egitto stesso. Differenza sostanziale poiché, mentre l’equilibrio autocratico e repressivo in Occidente produce infelicità e tentativi perenni di sovvertire la situazione e di ottenere la libertà, per l’Egitto la teocrazia faraonica era il modello da raggiungere e perseguire, e  il suo mantenimento portava alla felicità, e consentiva l’esistenza stessa. Gli egiziani, a differenza dei servi della gleba feudali, non si sentivano schiavi, e non abbiamo notizie di sommosse sociali fino a che questi erano governati dai propri re .
I primi cambiamenti avvennero in Egitto sotto l’impatto della cultura ellenista, ma anche i re Tolomei adottarono molti atteggiamenti dei faraoni che li avevano preceduti, e in realtà adottarono il Pantheon egizio molto di più di quello che fecero i loro colleghi Seleucidi con la religione originale dei loro sudditi semiti. Solo l’invasione araba del settimo secolo mise fine definitivamente a quattromila anni di storia egizia.
 

Monoteismo egizio e monolatria semitica

Freud, nel suo saggio su Mosè e la nascita del monoteismo nell’Egitto di Ekhnaton, sostiene che il monoteismo sorse nel periodo di El Amarna (XIV sec. A.C.), come effetto secondario dell’imperialismo:

Mediante le conquiste della diciottesima dinastia l’Egitto è diventato un impero mondiale. Il nuovo imperialismo si riflette nello sviluppo delle rappresentazioni religiose...Sotto l’influsso dei sacerdoti del dio del Sole a On (Eliopoli), forse rafforzato da sollecitazioni provenienti dall’Asia, sorge l’idea di un dio universale Aton, il quale non sia più ristretto a un paese e a un popolo. Col giovane Amenofi IV giunge al trono un faraone il cui interesse più alto è quello di sviluppare questa idea di dio. Egli eleva la religione di Aton a religione di stato, grazie a lui il dio universale diventa l’unico dio[...]È il primo caso, e forse il più puro, di religione monoteistica nella storia dell’umanità[...] Già sotto i deboli successori di Ekhnaton (il nuovo nome assunto da Amenofi IV), tutto ciò che egli aveva creato crollò (“L’uomo Mosè e la religione monoteista”,  in Opere, a cura di Cesare Luigi Musatti in 11 volumi, Bollati Boringhieri, Torino 1989, vol.XI, p.383 - 8) .
Sempre secondo Freud l’idea del monoteismo di Ekhnaton fu quella che, per mezzo di Mosè, passò agli ebrei, che l’adottarono, nella sua forma originale, solo dopo una latenza di molti secoli. La supposizione di Freud che la causale della nascita del monoteismo in Egitto sia stata la formazione di un impero mondiale può spiegare al massimo come mai proprio in quel momento della storia egizia si sia espresso questo bisogno, cioè, quale sia stato lo stimolo, ma nulla spiega del bisogno latente che riuscì, così, a emergere. Altri imperi mondiali erano sorti prima del XIV sec. A.C. e altri ne sorsero dopo, dall’Impero Accadico di Sargon I, alla fine del terzo millennio (2350 - 2300 A.C.), all’impero persiano e a quello romano, senza che questo produca un bisogno di monoteismo, e ancora meno di spiritualità.
L’impero universale di Alessandro Magno produrrà anch’esso un bisogno di universalismo, e Apollo sarà il simbolo dell’ecumene panellenica, ma il monoteismo di Aton e la sua feroce interdizione del culto delle immagini, prese la strada della rinuncia pulsionale e dell’astrazione, cioè rappresentò una deviazione drastica dal modus mentale della società ibrida egizia. Il bisogno di universalismo del mondo panellenico non imboccò, invece, la strada dell’inibizione pulsionale, bensì si sviluppò all’insegna della moltitudine di rappresentazioni plastiche e dello sfogo pulsionale in tutte  le manifestazioni dell’espressione artistica e religiosa.
Bisogna quindi distinguere tra universalismo religioso, che appartiene alla sfera mentale del modus apollineo, e monoteismo, come evoluzione e sofisticazione di una monolatria che appartiene alla sfera mentale tribale – dionisiaca  .
L’impulso al monoteismo iconoclasta dei tempi di Ekhnaton va cercato in quello stesso strato della psiche egizia, in cui affondano le radici del bisogno di mantenere la circoncisione e i riti tribali superati. La corrente monoteistica egizia, la cui espressione era la proibizione del culto delle immagini e l’aspirazione all’astrazione, fa parte di quello strato della psiche che non si era mai evoluto ad organizzazione apollinea ed era rimasto, represso da energie enormi in antitesi all’equilibrio di quella strana soluzione ibrida, che abbiamo già definito sopra: “Una struttura a polis atrofizzata”. Il monoteismo eckhnatoniano rappresentò il riallacciarsi a una tradizione arcaica e superata. Dagli studi del valente antropologo Padre Wilhelm Schmidt, impariamo che una forma rudimentale di monoteismo è peculiare delle tribù selvagge, che credono in un "Signor Spirito". Secondo Reik (Mystery on the Mountain, New York 1959, p.54)il monoteismo ebraico si riallaccia a questo strato arcaico.

Anche per quello che riguarda l’arte, ai tempi di Ekhnaton vi fu una deviazione drastica dalla tradizione apollinea-atrofizzata : fu abbandonata la rappresentazione congelata delle immagini per abbandonarsi a un naturalismo sensuale, che richiama alla mente l’arte anti-classica e dionisiaca degli etruschi. La produzione artistica del periodo di Eckhnaton si riallaccia a quella del Basso Egitto, prima che questo sia stato riunito all’Alto Egitto, nella sintesi mentale e politica del Primo Impero.
Se da Menes in poi, il primo faraone, i re egiziani portavano la doppia corona, sintesi dell’unione dell’Alto e Basso Egitto, proiezione simbolica non solo della fusione tra i due regni ma anche della cosustanzialità tra apollineo e dionisaco nella sua versione egizia, Eckhnaton si cingeva solo di quella di quest’ultimo .
Il re eretico aveva dunque fatto la cosa più impensabile e destabilizzante possibile: aveva introdotto l’elemento della scelta nella sintesi del delicato equilibrio che garantiva l’esistenza della società egizia: Alto e Basso Egitto, apollineo e dionisiaco, coesistevano nell’immobilità di forze violente neutralizzantisi a vicenda. Anche una pressione molto più lieve della rivoluzione monoteistica di Eckhnaton avrebbe avuto conseguenze devastanti. E il re aveva scelto il dionisiaco.
Quest’uomo, spirituale, idealista, sofisticato, non capiva quello che stava facendo: aveva introdotto un toro infuriato in un negozio di ceramiche.
Non ci meraviglia che questo rigurgito (non si può chiamare altrimenti) di monoteismo dionisiaco, che altro non era che monolatria tribale evoluta e sofisticata, si sia esaurito subito ed abbia scatenato la reazione furiosa delle forze conservatrici. Queste mantenevano nella repressione l’unico equilibrio possibile a una società che, essendo pseudo-apollinea, si manteneva in un equilibrio precario. Non avendo consumato gli stadi di una società apollinea, non avendone così acquisito la maturazione, era particolarmente vulnerabile alla destabilizzazione causata da un rigurgito di energie dionisiache. I sacerdoti di Amon, che erano i custodi dell’apollineo nella figura del sole che essi adoravano, avevano guardato con terrore sorgere il sole dionisiaco di Aton e scalzare quello apollineo di Amon, minacciando l’antica sintesi tra i due, che era il segreto dell’equilibrio d’Egitto.
 

Monoteismo ebraico e cristianesimo

Secondo Freud, il monoteismo ebraico deriva da quello di Eckhnaton. Il crescente senso di colpa che gli ebrei sentivano per l’uccisione di Mosè, che cominciò a emergere sempre più pressante ai tempi del ritorno dall’esilio babilonese, dopo un periodo di latenza di sette secoli, fece si che qualsiasi forma di idolatria fu esclusa definitivamente dalle alternative possibili nell’ambito della cultura ebraica. Se prima dell’esilio (586 A.C.), insieme al culto di Jahvè venivano praticati culti di Baal e Astarti locali in ogni villaggio israelita, con il ritorno settant’anni dopo, il popolo ebraico si trincerò in un monoteismo esclusivo e intransigente . D’ora in poi chiunque tollererà culti estranei a Jahvè si estranierà dall’ebraismo, e questo stesso diventerà sinonimo di monoteismo. Secondo noi, già l'olocausto del regno d'Israele per mano degli Assiri nel 721 aveva innescato il senso di colpa e la regressione monoteistica. Infatti le prime riforme sono attribuibili a Ezkia, re di Giuda, nei primi anni dopo la distruzione del Regno Settentrionale.
Non così, secondo noi, per quello che riguarda le affermazioni di Freud sul cristianesimo:

 Nessun altro brano della storia religiosa ci è diventato così perspicuo come l’inizio del monoteismo nel giudaismo e la sua continuazione nel cristianesimo, a prescindere dall’evoluzione, ugualmente intelligibile senza soluzione di continuità, dal totem animale al dio umano col suo inmancabile compagno (ciascuno dei quattro evangelisti cristiani ha ancora il suo animale favorito)[...] la reintegrazione del padre primigenio nei suoi diritti storici fu un grande progresso, ma non poteva essere l’ultimo. Anche gli altri pezzi della tragedia preistorica premevano per un riconoscimento...Non è facile discernere che cosa mise in moto questo processo. Si direbbe che un crescente senso di colpa si impadronì del popolo ebraico, e forse dell’intero mondo civile di allora, precorrendo il ritorno del materiale rimosso. Da ultimo un uomo venuto da questo popolo ebraico[...]fornì l’occasione che provocò il distacco di una nuova religione, quella cristiana, dall’ebraismo. Paolo, un ebreo romano di Tarso, ricuperò questo senso di colpa riconducendolo correttamente alla sua fonte storica. Chiamò questa il “peccato originale”; si trattava di un delitto contro Dio, che solo con la morte poteva venire espiato. Con il peccato originale la morte venne al mondo. In effetto questo delitto meritevole di morte era stato l’uccisione del padre primigenio, successivamente deificato...Abbiamo già detto che la cerimonia cristiana della Santa Comunione, in cui il credente s’incorpora corpo e sangue del Salvatore, ripete il contenuto dell’antico pasto totemico, ma solo nel suo senso di tenerezza, esprimente la venerazione, e non in quello aggressivo. Tuttavia l’ambivalenza che domina il rapporto con il padre si mostrò chiaramente nel risultato finale dell’innovazione religiosa. Volta apparentemente alla riconciliazione col Dio Padre, finì col detronizzarlo e sopprimerlo. Il giudaismo era stata una religione del Padre, il cristianesimo diventò una religione del Figlio[...]Paolo, il continuatore del giudaismo, fu anche il suo distruttore[...]Paolo rinunciò a credere che il suo popolo fosse l’eletto e dovesse recarne il segno visibile, la circoncisione, così che la nuova religione poté diventare universale e abbracciare tutti gli uomini...veniva così ristabilito un carattere dell’antica religione di Aton...non era più strettamente monoteistica, assunse dai popoli circostanti numerosi riti simbolici, ripristinò la grande divinità materna e trovò spazio ove collocare, seppure in posizione subordinata, molte figure divine del politeismo. Soprattutto non escluse, come invece la religione di Aton e quella mosaica che venne subito dopo, la penetrazione di elementi superstiziosi magici e mistici[...]Il trionfo del cristianesimo fu una nuova vittoria dei sacerdoti di Ammone sul dio di Ekhnaton dopo un intervallo di millecinquecento anni (op.cit., pp.407 -- 413) .
Abbiamo riportato qui alcuni brani del saggio di Freud per analizzarli e discernere quello che secondo noi rappresenta un’analisi corretta, da quello che non lo è. Freud, come lui stesso aveva confessato, fu un pessimo lettore di Nietzsche  e, quindi, non condusse un’esplorazione delle correnti apollinee e dionisiache, che percorrono sommerse le diverse culture.
Come abbiamo dimostrato in Eva -Verginità e castrazione nel mito greco e nell'Oriente semitico  tutti gli elementi della mitologia cristiana erano già presenti in quella greca. La verginità di Maria aveva un precedente in quella di Pallade Atena, Artemide, ed Estia. Il parto verginale di Gesù fu una ripetizione di quello di Pallade Atena e soprattutto di quello di Persefone, dove la dea, dopo essere stata fecondata da Zeus in una concezione immacolata in quanto Zeus sotto forma di serpente rappresenta lo Spirito Santo, partorisce Dioniso in una grotta. Anche la rappresentazione del Presepe natalizio, in cui si vede il Bambino nella grotta, circondato da doni, ha il suo parallelo nei miti orfici sulla nascita di Dioniso. La Santa Trinità esisteva già nella triplice rappresentazione di Zeus come dio del cielo, degli Inferi e del mare; rappresentazione in cui ogni singola epifania si materializzò poi in un dio specifico: per il dio del cielo Zeus Hypsistos, come dio degli Inferi Zeus Chthonios, che diventò poi Ades, e come dio del mare Poseidone . Inoltre Dioniso appare come bambino e come secondo Zeus, con le parole di Kerenyi:
In altre storie egli (Dioniso) figurava come figlio di Persefone e veniva indicato con l’epiteto Chthonio (come Zeus)[...]Il padre del bambino viene chiamato anche Ades[...] La coppia regnante degli Inferi si dimostrò degna del suo popolo, i morti, anche perché essa era - almeno così si raccontava ai non iniziati - sterile come la morte. Il nome stesso  Ades, esprimeva soltanto qualcosa di negativo, adatto all’incolore quadro degli inferi e indicava uno solo degli aspetti di un grande dio. Ma si sa che allo sposo di Persefone spettava anche il nome di Zeus Katachthonios, “Zeus sotterraneo”. Quale Katachtonios, Zeus era il padre del Dioniso sotterraneo. Nella stessa qualità egli si chiamava anche Zagreo, “il grande cacciatore” e così si chiamava anche suo figlio. Tale identità è già stata menzionata a proposito di Zeus[...]nella maggior parte dei racconti Dioniso ha la parte del tenero fanciullo, figlio di sua madre, che però scomparve subito per essere sostituita da nutrici affettuose. Si riconoscono i due volti che anche Zeus mostrava: il volto del padre e dello sposo da un lato, quello del figlio e del bambino divino dall’altro. Non soltanto Zeus e Dioniso avevano questo doppio volto nella nostra mitologia, ma nessun altro dio sembrava quanto Dioniso un secondo Zeus (Karolyi Kerényi, Gli Dei della Grecia, Il Saggiatore, Milano 1962,  pp.192 -- 3).
Riportiamo questo brano per la sua importanza nel capire in quale equivoco sia caduto Freud, nel presentare il cristianesimo come una continuazione dell’ebraismo
Anche se il cristianesimo dichiara di essere l’erede di questo, un’analisi ravvicinata non può prendere per buona questa affermazione. I dogmi cristiani sono la trasfigurazione di miti greci orfici, come il brano citato da Kerenyi prova chiaramente.
Riassumeremo in breve quelle che furono le cause che portarono il mondo greco - romano ad appropriarsi della mitologia ebraica, continuando in realtà a vivere la propria evoluzione esistenziale, permeata di contenuti olimpici.
La ragione di questo riadattamento fu la crisi che colpì il mondo antico. Il mondo greco - romano era pervaso da un esaurimento esistenziale che lo portò a cercare di ridefinirsi. Come, nei tempi antichi e tuttora presso alcuni popoli, quando qualcuno veniva colpito da una grave malattia, cambiava nome per non essere riconosciuto dagli spiriti maligni, così il mondo greco - romano cercò di cambiare nome, per trovare rinnovato vigore esistenziale. D’ora in poi si chiameranno cristiani e, rinnegando la propria mitologia, presero in prestito quella dei vinti,i giudei,verso i quali nutrivano una profonda avversione per i riti arcaici che praticavano e per il loro rifiuto di assimilare il modus mentale apollineo. IL malessere esistenziale del mondo greco - romano, che come ha rilevato Nietzsche, comincia già a serpeggiare negli scritti di Platone, e arrivò a uno dei suoi apici nelle “Consolazioni” di Seneca, li portò a rivestire di una nuova pelle quei contenuti con i quali non volevano più identificarsi, poiché loro stessi non erano più gli stessi. Se gli antichi greci, pieni di salute e di vigore “vivevano” i propri dei, che erano la proiezione esterna della loro carica vitale, il tardo ellenismo non poteva più riconoscere in questi i protagonisti della propria giovinezza. Gli dei erano invecchiati insieme a loro. Gli dei che emergono dagli scritti di Luciano e degli altri scrittori della tarda antichità sono delle figure grottesche, caricaturali, che mal si adattano a diventare interpreti del bisogno di rinnovamento e di salvezza delle masse diseredate dell’impero romano.
Alessandro, aprendo l’Oriente alla cultura ellenica, aveva  preparato il terreno allo stupro culturale dei vinti, ma così facendo aveva anche messo a morte la grecità. Un modello culturale che vuole  essere adatto a tutti, finisce per non soddisfare nessuno: il generale è nemico non solo del particolare, ma anche dell’autentico. L’Oriente semitico era stato convertito a una cultura ecumenica panellenica di cui le masse potevano captare solo le manifestazioni epidermiche, e lo stesso Occidente greco - romano cercava nuovi stimoli  nel sincretismo culturale che era stato il risultato di questa fusione forzata. Così facendo non poteva che riflettere in uno specchio la propria immagine di stanchezza e depravazione. Da più di quattro secoli la grande tragedia greca era diventata commedia, la cultura era diventata l’adornamento della classi privilegiate, e appartenere al grande mondo culturale panellenico era diventato sinonimo di estraniazione.
Solo i giudei erano rimasti ferocemente attaccati alle loro tradizioni tribali, e per questo venivano considerati barbari e nella lingua di Tacito “gente che odia l’umanità”. Lasciamo che il grande storico latino dia liberamente espressione alla sua foga antisemita:
Le altre pratiche [dei giudei] sono perverse e infami e si sono imposte per la loro depravazione. Infatti la peggior feccia di questo mondo, dopo aver rinnegato le religioni patrie  , portava lì tributi e denaro: in questo modo la potenza dei Giudei crebbe, anche perché tra di loro sono sempre molto leali e molto disponibili al mutuo soccorso, mentre riserbano il loro odio più aspro a tutti gli altri. Siedono a mensa separati e, ancora separati, dormono: ma sono uomini di sfrenata libidine, abituati a non avere rapporti sessuali con donne di altri popoli e a considerare invece, tutto lecito tra di loro. Hanno istituito l’usanza della circoncisione, per riconoscersi tra di loro da questo segno distintivo. Coloro che hanno accettato di condividerne le abitudini, seguono la stessa pratica e come prima conseguenza imparano a disprezzare gli dei, a rinnegare la loro patria, a non tenere in alcun conto i rapporti di paternità, di figliolanza e fraternità. I Giudei tengono comunque molto a che il loro numero si incrementi: è proibito infatti, uccidere uno qualsiasi dei figli in soprannumero (Hist., V.5).
Per bocca di Tacito parla qui un’intera civiltà che, avendo superato i legami di sangue e di famiglia, rimprovera i giudei di averli mantenuti, ma guarda con odio, misto a invidia, a questa “lealtà e disponibilità al mutuo soccorso”, che essa invece aveva perduto. L’uomo occidentale, che è così orgoglioso di aver superato nella sua evoluzione il modello sociale tribale, e di aver creato un habitat mentale più vasto, nei momenti di crisi esistenziale si guarda indietro, si domanda se il prezzo da pagare in estraniazione sociale e mancanza di coesione non sia stato troppo alto, e guarda a questo passato “superato” di legami affettivi tribali con nostalgia.
Come disse Gide, il destino non apre mai una porta senza chiuderne un’altra. Superando i legami del clan era andata persa quella solidarietà sociale e affettiva che caratterizza il gruppo e le strutture sociali più primitive. Era andato perso quel “riconoscersi tra di loro” di cui parla Tacito. Anche della proibizione dell’infanticidio lo storico latino ne parla come se fosse un segno di inciviltà, ma anche da questo passo, sotto il profondo disprezzo, trapela l’invidia e la nostalgia.
L’odio - attrazione per i giudei portò l’Occidente a usurparne la religione. Dal momento che non riuscirono a imporre i propri modelli culturali tentarono di appropriarsi dei loro. Il mondo romano - ellenista, che aveva sottomesso la Giudea, saccheggiò, non solo il Tempio di Gerusalemme, ma anche la mitologia ebraica. Il rifiuto giudaico di collaborare a questa mistificazione diede al mondo greco - romano - cristiano la giustificazione manifesta per dare legittimazione all’antisemitismo virulento che covava dai contatti tra ellenisti e giudei. Tutti gli stereotipi antisemiti, così noti a noi alla fine del secondo millennio, erano già formati e pronti nel primo secolo, così che il cristianesimo dovette solo aggiungervi la sua legittimazione.
Ma i romani - cristiani, che d’ora in poi decideranno di essere il nuovo Israele, non potevano assorbire i contenuti mentali caratteristici di una tribù compatta, che non aveva voluto o potuto, per i propri motivi interni e le soluzioni esistenziali che aveva addottato, superare il proprio particolare habitat mentale.  Il cristianesimo diventò una religione ecumenica, come lo era stato il panellenismo dei primi tre secoli A.C., mentre il giudaismo rimase quello che era sempre stato: una società arcaica con il proprio passato mitico e il proprio Dio personale, proprio padre, prima che padre degli altri. I giudei non avevano motivo di barattare questo Dio specifico con un Dio che fosse pronto a diluire il suo amore e a dividerlo con tutta l’umanità, sul modello dell’ecumenismo di Apollo, e da qui il concetto di popolo eletto. "Popolo eletto" da Dio non è altro che l'inversione di "Dio eletto dal popolo" Infatti ogni popolo si elegge il suo dio particolare. In cambio si sentirono dire che questi aveva nel frattempo scelto qualcun altro, e che i loro riti, ai quali erano attaccati da quasi duemila anni, non erano più validi.
Come ci ha  mostrato Wellhausen e ha rilevato Freud, solo dopo l’esilio babilonese la religione ebraica da politeista divenne monoteista. Solo nel VI sec. A.C. i giudei, tornati dall’esilio, si trincerarono nella religione esclusivista che sarà la loro peculiarità e questa diventò quella che è tuttora. Il Dio d’Israele da totem tribale passò una metamorfosi in Dio universale, re di tutto l’universo, ma conservò, ciononostante, la particolarità monolatrica di Dio particolare, che si tradusse nel concetto di padre del popolo eletto.
Poiché il mondo greco - romano, diventando cristiano, disse di assorbire queste concezioni ebraiche di monoteismo, divenne luogo comune sostenere che il cristianesimo derivi dall’ebraismo.
Quello che, secondo noi, indusse Freud in errore fu la confusione tra il monoteismo universalista ebraico, che come lui stesso afferma deriva dal monoteismo di Aton, e l’universalismo ecumenico cristiano che ha le sue radici nell’ecumenismo panellenico di Apollo. Cristiani ed ebrei si trovarono, negli ultimi due secoli, a coabitare sotto lo stesso tetto di questa mistificazione: i cristiani per celare le proprie radici nel modus mentale olimpico, e gli ebrei, che attraverso le vicissitudini degli ultimi duemila anni erano diventati un popolo disprezzato, una minoranza cronica presso gli altri popoli, come estrema patetica rivincita. Minoranza disprezzata, si crogiolava nell’idea che il cristianesimo debba a loro le proprie origini. Freud, che aveva un forte narcisismo ebraico, cadde lui stesso nel tranello, malgrado la sua forza ed  elevatura intellettuale.
 

Chiarificazioni

Freud stesso ha puntualizzato come il grande innovamento di Ekhnaton non sia stato solo l’universalismo di Aton, bensì la sua esclusività

Egli aggiunse quell’elemento di novità per cui per la prima volta la dottrina del dio universale si volse al monoteismo, cioè all’esclusività. In uno dei suoi inni si annunzia espressamente: “O tu Dio unico, accanto a cui non ve n’è altro”. Insieme a questa esclusività sorse l’intolleranza religiosa e l’iconoclastia; “La persecuzione del re colpì con la massima durezza Amon, ma non solo lui. Dappertutto nel regno i luoghi di culto furono chiusi, proibito il servizio divino, i beni dei templi confiscati. Lo zelo del re si spinse al punto da ordinare un esame degli antichi monumenti per cassarvi la parola “dio” là dove fosse usata al plurale (S.Freud, op.cit., pp.350 -- 3).
La concezione di Aton, come dio del sole che nega l’esistenza di altri dei al di fuori di sé, non corrisponde certamente all’altro dio del sole, quello dell’ecumene ellenica, Apollo, il quale diventerà il dio principale, ma al quale saranno subordinati tutti gli altri dei dell’Olimpo. Dall'immagine di Apollo dio universale, dio del sole i cui raggi irradiano e danno vita a tutto il cosmo, verrà l’universalismo cristiano. Gesù Cristo avrà il primato come Apollo, e sarà a capo delle schiere degli angeli e dei santi come dio del sole e astro principale dell’universo. Basta richiamare alla mente la raffigurazione che fa Michelangelo nella Cappella Sistina di Cristo Giudice al centro del suo Giudizio Universale, per vedere l’immagine di Apollo al centro del cosmo, come astro solare nel massimo della sua epifania di luce e rivelazione, espressione dello sfogo pulsionale della vista e dei sensi, in antitesi assoluta con l’inibizione pulsionale  del tatto e della vista, peculiare della religione ebraica. L’interdizione assoluta del culto delle immagini della religione di Aton, che passò intatta all’ebraismo, non ha infatti nessun riscontro nel mondo iconodulo di Apollo che passò al cristianesimo.
Possiamo ora riassumere e fare luce sulla confusione: in Egitto il culto del sole era la sintesi dei due aspetti della psiche egizia. Il sole, nella sua epifania nel dio Amon era il simbolo delle correnti apollinee atrofizzate nel corso dell’evoluzione egizia, e a questo corrispondeva quello che, dalla Grecia classica in poi, sarà l’Apollo della civiltà ellenica. Egli è il primo degli dei del Pantehon egizio, ma la sua figura è concepibile solo insieme agli altri dei. Questa distinzione è essenziale in quanto essere il primo tra le schiere degli dei è non corrisponde ad essere il solo dio.
Come conseguenza dei bisogni di universalismo sentiti in Egitto nel corso della XVIII dinastia già questo dio aveva cominciato ad assumere alcuni aspetti universalisti.  Quello che realmente accadde nella nuova condizione mentale che si era creata, fu che l’altro aspetto della sintesi del culto del dio del sole, quello dionisiaco, emerse subitaneamente. La componente  dionisiaca della psiche egizia che era repressa ma onnipresente nell’equilibrio della sintesi con Amon come componente della fase psichica arcaica, emerse prepotente alla ricerca del primato.
Per capire meglio questa incompatibilità energetica tra Amon e Aton, Apollo e Dioniso, che diventerà incompatibilità tra Aton - Dioniso – Jahve, da una parte, e Amon - Apollo - Cristo, dall’altra, bisogna tenere in mente che tutti i popoli primitivi che sono organizzati ancora in struttura sociale e mentale tribale hanno un’avversione naturale per l’espressione plastica. Anche dove adorano gli idoli hanno la tendenza a fare delle immagini sintetizzate o astrattizzate. In arte queste culture non tendono mai alla rappresentazione della figura umana come appare all’occhio e neppure nell’armonia ideale delle forme, bensì solo come sintesi di un concetto.
Freud, nel suo tentativo di trovare una scorciatoia tra i riti totemici primitivi e i riti della Santa Comunione, prese la strada, che dall’Egitto di Aton conduce al cristianesimo, passando attraverso l’ebraismo, ma una strada del genere non esiste. La strada che conduce al cristianesimo comincia sotto lo stimolo dei contatti del mondo egeo con l'Egitto iconodulo di Amon, passa attraverso i miti orfici, l’evoluzione apollinea dell’ecumene panellenica e la crisi del mondo greco - romano.
Freud stesso aveva in mano la chiave alla soluzione, poiché lui stesso dice: “Il trionfo del cristianesimo fu una nuova vittoria dei sacerdoti di Ammone sul dio di Ekhnaton dopo un intervallo di millecinquecento anni” .
Amon era per l’Egitto l’equivalente di Apollo, come Aton era l’equivalente di Dioniso, e Freud stesso lega il cristianesimo alla figura di Amon. L’incompabilita’ tra Amon - Apollo - Cristo e Aton - Dioniso – Jahvé, avrebbe dovuto essergli evidente.

Dioniso,  Apollo e la figura di Cristo

La crisi che colpì il mondo antico, dopo secoli di evoluzione apollinea e di sincretismo dell'ecumene panellenica, si tradusse nella ricerca di una soluzione. Come il singolo, quando si trova la strada sbarrata verso un ulteriore sviluppo e si sente intrappolato in una condizione che gli provoca disagio e sofferenza, tende a regredire a uno stadio di sviluppo precedente, così i popoli. br>Il mondo greco - romano, aveva superato da numerosi secoli la struttura mentale tribale e i riti totemici e d’iniziazione delle tribù primitive. Le tracce rimanevano solo nei miti orfici e in alcune rappresentazioni arcaiche, ed era diventato la civiltà più evoluta che avesse mai conosciuto l’umanità. Questa ecumene pan--ellenica, attraverso un processo di stanchezza e di saturazione, era sfociata in degenerazione culturale ed estraniazione sociale. La compattezza e la coesione interna delle arcaiche tribù greche era solo una traccia mnestica e, nella nuova struttura dello stato, in un processo durato secoli, aveva lasciato il posto alle lotte di classe, all’asservimento e al latifondo. La religione era diventata uno strumento delle classi privilegiate e il conglomerato di popoli che formavano l’ecumene greco -- romana non aveva ormai piu’ le sue radici nella grecità classica. Il suo retaggio era un insieme di riti e credenze da cui era stato incoraggiato ad estraniarsi, per far posto al sincretismo cosmopolita delle classi dominanti.
A questo punto l’uomo occidentale si trovò davanti a una mangiatoia rotta, e il terreno era pronto per la rottura e la regressione. L’Occidente tentò di scrollarsi di dosso il fardello della cultura ellenica invecchiata e degenerata e, nel tentativo di uscire dallo stress esistenziale in cui si trovava, cercò di creare nuovi modelli a cui ispirarsi. Questi si rivelarono come nuovi nella forma esteriore, ma erano quelli ripescati dalla propria preistoria, come appaiono nei miti orfici.  Qui ci ricolleghiamo a quello che dice Freud sui riti cristiani della Santa Comunione e dell’Eucarestia, come un ripristino degli antichi riti totemici. L’antico dio - figlio dei miti orfici, Dioniso, che esisteva in un’unica consustanzialità con Zeus, dio - padre dei cieli e degli Inferi, Hipsistos e Chtonios, figlio, padre e re del mondo, rinnovò qui la sua epifania per venire nuovamente sacrificato.
Come Dioniso, come suo ultimo dono, lasciò il vino (cfr. p.3), così Cristo, come suo dono lasciò il proprio sangue, affinché venga incorporato in ogni celebrazione della Santa Comunione. Il pane sarà il suo corpo seppellito dai Titani e ritrovato da Demetra, la dea delle messi e quindi del pane. Cristo viene ucciso, al pari di Dioniso, come parte di un rito in cui si condensano riti totemici, riti d’iniziazione e culti della fertilità. La cultura apollinea ellenica ripercorre di colpo, all’indietro, tutta la strada che aveva fatto in quasi mille anni, da tribù a civiltà.
Ma centinaia d’anni di evoluzione apollinea non verranno cancellati né soppressi, bensì verranno integrati nella nuova trasfigurazione che la cultura greco - romana stava passando. Se Dioniso riebbe il primato per quello che riguarda i contenuti primigeni del nuovo ellenismo, Apollo ne fu però l’epifania cosmica: al terzo giorno risuscita come Apollo, dio della luce e di tutta l’ecumene, e sarà il nuovo dio sole di tutta l’umanità. Non più dio tribale e barbuto, come Dioniso – Pan, ma dio della bellezza nell’armonia ideale delle  forme. L’Occidente cristiano lo esporrà d’ora in poi nella sua nudità apollinea. L’Oriente cristiano invece nella sua veste di dio coperto e barbuto. L’Oriente ellenista dimostrò così di non aver mai assimilato completamente il modus mentale apollineo della civiltà greca e di essere sempre rimasto radicato al modus mentale dionisiaco, con  la sua avversione per il nudo e l’espressione plastica.
I Bizantini assorbirono il modus orientale, che invase persino la Grecia stessa, mentre l’Italia rimase il baluardo dell’Occidente greco - romano. Le divisioni dottrinarie che turbarono la cristianità nei primi secoli furono una conseguenza diretta della lotta tra il modus apollineo occidentale e quello dionisiaco orientale: tra plasticismo e colorismo, tra concezioni d’ideale delle forme platonico ed astrazione. L’Oriente tese al monofitismo, poiché non potevano assorbire l’idea ellenica della cosustanzialità tra divino e umano, mentre l’Occidente si assestò finalmente sul duofisismo, poiché questa dualità ben si confaceva al suo modus mentale. L’Oriente cristiano fu sconvolto da feroci crisi iconoclastiche che minacciarono di sgretolare l’impero bizantino, poiché questi rigurgiti di correnti dionisiache di stampo Aton - istico, altro non erano che il modus orientale che cercava di prevalere.
Le chiese orientali hanno conservato anche nella loro liturgia il vibrante strato dionisiaco che invece è stato anestetizzato nel rituale occidentale.
La Pasqua, che nella percezione popolare occidentale è stata degradata, con i suoi contenuti tragici di morte e Risurrezione, in confronto al Natale, ha conservato nel rituale orientale tutta la potenza tragica dei riti di morte e risurrezione del mito orfico di Dioniso, che in Oriente trovava il suo corrispondente nei culti di Adonis e Attis. Nell’Antiochia precristiana la morte e resurrezione di Adonis era rappresentata in forma drammatica. Il dio resuscitato era accolto con grida di gioia estatici per le strade della città e la folla gridava: “Coraggio credenti! Un dio è stato salvato, così noi saremo salvati dal nostro lutto” (James G.Frazer,  Adonis, Attis, Osiris, London 1914, p.212).
Il rituale della chiesa greco -- ortodossa della stessa Antiochia procede oggi alla stessa maniera: la settimana pasquale è celebrata in un grande lutto e finisce Sabato a mezzanotte. Al dodicesimo rintocco il vescovo appare alla folla ed annuncia l’Evangelium: Cristo è risorto! La folla prorompe in un grido: “Sì, è risorto” e tutta la città risuona di canti di giubilo e di fuochi di artificio (Hugo Hepding, Attis, Giessen 1903, p.167). Nell’oriente cristiano la celebrazione della morte e Risurrezione del Redentore è rimasta priva della mediazione apollinea, e si concentra sui contenuti dionisiaci della tragedia, poiché sono gli unici congeniti al proprio modus . La Grecia stessa, culla dell’apollineo, è stata invasa dal modus orientale, e il baricentro dell'apollineo occidentale si è spostato di un fuso orario all’Italia cattolica e ai suoi satelliti.
Quando le tribù germaniche furono convertite al cristianesimo, accettarono in realtà solo i contenuti dionisiaci del Cristo, e inconsciamente rifiutarono la versione apollinea della sua figura. Senza un vissuto di evoluzione apollinea, la nudità  ellenica e l’ideale platonico dell’armonia plastica delle forme erano loro completamente estranee. Nella raffigurazione che i popoli nordici danno della figura di Cristo manca completamente l’armonia di forme del Cristo cattolico. Anche dove questi viene rappresentato seminudo sulla croce l’elemento dominante è la sofferenza dionisiaca e il nudo si trasfigura in una smorfia di dolore. Il corpo del Redentore si contrae sotto la tortura, e la Salvezza non avviene attraverso la trasfigurazione nell’Apollo ecumenico, dio della bellezza e della luce, bensì attraverso l’accentuazione del dolore del pasto totemico originale. Mentre nel mondo cattolico, erede della grecità, la redenzione avviene attraverso la trasfigurazione di Dioniso in Apollo, cioè attraverso la sublimazione in espressione plastica delle pulsioni primarie, come nelle soluzioni apollinee della civiltà greca, per le tribù d'oltr'alpe e gli altri barbari che abbracciò il cristianesimo, compresi coloro che, membri dell’ecumene panellenica, ne avevano abbracciato le forme senza assimilarne i contenuti, il Cristo in croce rimarrà solo il proprio totem al palo della tortura. Il gusto sadico del sangue e quello macabro della morte sono quello che emerge dall’interpretazione del cristianesimo, da parte delle tribù che non avevano passato la mediazione e la sublimazione dell’apollineo.
Le tribù europee, dopo mille anni da quando erano state coercizzate entro la sfera culturale occidentale, rigettarono, in un rigurgito del proprio sé il modus apollineo che era stato loro imposto, e cacciarono dai propri templi le immagini dell’Olimpo cattolico. Con la Riforma non si limitarono, infatti, a scrollarsi di dosso l’autorità del papato, ma colsero l'occasione per rifiutare anche il concetto greco - romano della rappresentazione plastica del corpo umano, delle statue dei santi, trasfigurazione dei vecchi dei, e l’idea del sacramento del matrimonio, simbolo di una monogamia peculiare della grecità - romanità, che niente diceva alla loro psiche poligama e tribale.
Vediamo dunque che l’idea, abbracciata anche da Freud, che il cristianesimo derivi dall’ebraismo e che il monoteismo cristiano possa derivare da quello di Aton, è da considerarsi errata. L’unica cosa che hanno in comune è l’universalismo: quello ebraico - iconoclasta viene da quello di Aton, dopo una latenza di sette secoli, quello cristiano - iconodulo da Apollo, sullo stampo delll’universalismo dell’ecumene panellenica. Anche la tendenza al proselitismo del cattolicesimo e la volontà di convertire a questo tutto il mondo conosciuto, non è altro che la trasfigurazione della volontà greca, dal IV sec. A.C. in poi, di convertire tutto il mondo conosciuto di allora alla cultura ellenista. Come greci e romani consideravano “barbari” tutti coloro che si rifiutassero di abbracciare la cultura panellenica, il cui simbolo era Apollo, così la Chiesa considera selvaggi tutti coloro che rifiutano il messaggio di Cristo. Come scorciatoia, i missionari, più che di una conversione culturale, si accontentano generalmente del solo battesimo: il rito, che per sé ha più la connotazione di un atto di magia che di una metamorfosi culturale, simboleggia, così, l’atto di aderenza all’ecumene cristiana.

Sviluppo e regressione

Come ha ampiamente dimostrato T. Reik nella sua trilogia , Myth and Guilt, Mystery on the Mountain e The Creation of the Women and the Temptation, e in Pagan Rites in Judaism e Ritual, alcuni tra i miti e le festività ebraiche più importanti sono tracce mnestiche dei riti preistorici del pasto totemico e d’iniziazione delle tribù ebraiche primitive; la Festa delle Capanne (Succoth) è il ricordo delle capanne in cui venivano relegati gli adolescenti iniziati (T.Reik, Pagan Rites in Judaism, Farrar & Strauss, New York 1964, pp.19 - 26), l’uso quotidiano, durante la preghiera mattutina, dei filatteri e dello scialle rituale è il ricordo dei riti totemici, in cui i membri della tribù indossano la pelle dell’animale totem e si identificano con esso (Ibidem, pp.137 - 151), la Benedizione dei Sacerdoti (<Birkat Hacohanim), nelle ricorrenze più importanti, rappresenta l’identificazione del sacerdote con il totem (l’ariete) e la sua pantomima davanti a tutta la congregazione (ibidem). Questi riti si sono conservati dalla preistoria del popolo ebraico, congelati e immutati nel loro nucleo, quando ai contenuti arcaici ne vengono sovrapposti di più recenti.
Per dirla con le parole di Frazer, il grande antropologo che ci ha illuminati sui riti delle tribù selvagge dei nostri tempi, il presente è la guida migliore per l’interpretazione del passato poiché, mentre le più alte forme di religione passano come nuvole, le più basse stanno ferme e indistruttibili come rocce (James G.Frazer, The Golden Bough, London 1919, Vol.IV, p.83) .
Questi riti sono quello che rimane del rituale arcaico originario ed esiste una continuità ininterrotta lungo i millenni. Non essendo avvenuta una rottura con il proprio passato bensì un'elaborazione, la strada è sempre aperta verso un’ulteriore evoluzione. Le radici affondano nella lontana preistoria, e da lì succhiano il vigore che nutre l’albero.
Per l’Occidente la situazione è diversa. Il mondo greco - romano, avendo superato la struttura mentale e sociale del clan, aveva superato anche il bisogno dei riti tribali. Erano passati a uno stadio superiore di evoluzione e potevano godere così di una gamma infinita di possibilità. A differenza delle società strutturate sulla fedeltà ai legami di sangue, che si trovano legate nella camicia di forza rappresentata dalle costrizioni e la repressione della Legge del Padre, l’uomo occidentale trovò la strada dell’autoaffermazione e della libertà di scelta. L’Occidente aveva superato la struttura mentale tribale che aveva generato questi riti, e guardava con disprezzo i giudei e gli altri “barbari” che la mantenevano. Comprensibilmente si sentiva orgoglioso del cammino che aveva fatto: quando vennero la crisi e la rottura, la caduta avvenne da molto in alto.
Il ritorno al pasto totemico, nei riti dell’Eucarestia e della Santa Messa fu una regressione. Regredendo a uno stadio di sviluppo precedente, l’Occidente si trovò costretto a rinnegare la propria evoluzione e così si sbarrò la strada a un ulteriore sviluppo, trincerandosi in una situazione mentale che da un punto di vista fenomenologico ha tutte le caratteristiche del sintomo nevrotico. Dalla caduta del mondo antico può solo tentare di ricalcare i propri passi, e in alcuni segmenti della sua attività ogni tanto ci riesce, come durante il Rinascimento, ma in realtà, negli ultimi duemila anni, è stato solo un rincorrere la propria coda. Dalla caduta del mondo antico, non c’è stato più niente che non sia già stato detto prima: anche quando cambia la forma non cambia però la sostanza. Inoltre, per evitare ogni cambiamento e sbarrare la strada a ogni possibilità di evoluzione, venne istituito il dogma. Il cristianesimo inventò questo meccanismo, che era sconosciuto al mondo antico, come mezzo di repressione e per congelare qualsiasi attività intellettuale che avrebbe potuto fare una riattivazione del rimosso e minacciare le soluzioni raggiunte. Il dogma è il mezzo per disconoscere il proprio passato olimpico e impedire ogni tentativo di ritorno manifesto alle proprie radici: cristallizzare il presente e impedire sia passato che futuro.
Se l’ebreo può aspettarsi la punizione divina solo se trasgredisce a qualche precetto, poiché quello che gli viene chiesto è esclusivamente l’obbedienza e la conformazione ai riti attraverso i quali avviene l'identificazione con il gruppo, il cristiano viene minacciato di dannazione eterna anche solo se dubita, se diverge dal credo imposto. L’ebraismo non avrebbe potuto partorire un’Inquisizione poiché, fino a che il singolo si identifica con la collettività, le sue credenze personali non sono d’interesse pubblico. Spinoza, che fu il caso più clamoroso di scomunica della storia ebraica, fu scomunicato non perché le sue idee divergessero da quelle ufficiali, bensì poiché ripetutamente e pubblicamente si estraniava dai riti della comunità e contestava l’autorità dei delegati della congregazione. L’Inquisizione invece voleva portare il singolo a confessare i propri dubbi più intimi e nascosti, sintomo di quanto precario fosse in quel periodo l’equilibrio della psiche occidentale.
Non è un caso se l’Inquisizione sia stata attivata spietatamente proprio nella Spagna della Riconquista. Dopo secoli di continua esposizione al dionisiaco, nella figura di ebrei e arabi che costituivano una parte sostanziale della popolazione, e la cui cultura era in molti segmenti predominante, il modus apollineo non aveva davanti a sé che la repressione più spietata per depurarsi da queste influenze. Come Nietzsche aveva intuito: “Codesta inquisizione fu allora ragionevole, perché non significò altro che lo stadio di assedio generale che proclamato in tutto il regno della Chiesa, e che, come ogni stato d’assedio, autorizzava a fare uso dei mezzi più violenti”(Umano, troppo umano I, Adelphi, Milano 1977, p.308).
Si può paragonare questo rigurgito di repressione apollinea anti - dionisiaca, con la reazione dei sacerdoti di Amon contro le infiltrazioni dionisiache della religione di Aton, dopo la morte di Eckhnaton . In entrambi i casi c’era un equilibrio che andava ristabilito. La supremazia del sole Amon - Apollo andava reistituito in Egitto, come nella Spagna dell’Inquisizione, che doveva riconfermare la natura apollinea del Cristo, dio monista di tutta l’ecumenne.
Infatti, come la destabilizzazione del rigurgito dionisiaco di Aton minacciava di rovinare l’Egitto , così la Spagna poté diventare un impero solo dopo essersi depurata dalle correnti dionisiache del modus mentale ebraico - musulmano. E questo, non in quanto gli ebrei, e probabilmente neanche i musulmani, non sarebbero stati cittadini fedeli e leali al nuovo stato , bensì in quanto i cristiani non potevano tollerare una soluzione esistenziale (mentale) alternativa al loro monismo apollineo.
La prima cosa che fecero i sovrani cattolici Ferdinando e Isabella, dopo essere entrati in Granada e aver riunito tutta la Spagna, fu di decretare l’espulsione di tutti gli ebrei del regno. In questo senso il loro disumano operato fu un atto politico lungimirante.
Per dirla in linguaggio popolare “conoscevano i loro polli” e non quelli ebrei, bensì quelli cristiani. Per arruolare tutte le energie al servizio di uno Stato monolitico, che sarebbe diventato in breve tempo un impero, per dirla con le parole di Carlo V, “dove non tramonta mai il sole”, dovevano prima imporre a tutti i loro sudditi una formula esistenziale monista, alle insegne del sole di Apollo.
Anche Carlo V aveva, inconsciamente, percepito che un impero è legato al sole di Apollo. E infatti il sole di Amon, e non quello di Aton, era il simbolo imperiale dell’Egitto. Non Dioniso avrebbe mai potuto essere il simbolo dell’ecumene panellenica, bensì solo il sole di Apollo.
Ed ecco che la confusione seminata da Freud viene appianata. Il monoteismo di Aton non era sorto, come da lui sostenuto, come conseguenza del divenire l’Egitto un impero universale, bensì, al contrario, il sole di Ammon era stato l’insegna sotto la quale si era formato l’Egitto imperiale. Quello di Aton, essendo una corrente antitetica, poteva solo destabilizzarlo.
Il fecondo pluralismo culturale della Spagna medioevale, come quello dell’Egitto di Eckhnaton, fu sostituito, con la violenza, dal monismo di una società apollinea, e in questo caso forse è meglio adoperare l’espressione post - apollinea, che poteva ristabilire il proprio equilibrio solo attraverso la repressione.
Post - apollinea, poiché l'Occidente, fino a Socrate, non aveva mai adottato la censura, che fu proposta per la prima volta da Platone e, dopo la crisi del mondo antico, sfociò in dogma. Quando un equilibrio non regge più da solo non rimane che mantenerlo attraverso la repressione.
Gli Ateniesi avevano condannato Socrate per chiudergli la bocca.
Platone fece un cattivo servizio al suo maestro quando, codificando la censura, giustificò,così, i suoi assassini.
La Chiesa ha sostituito la libertà di espressione del mondo antico, il libero pensiero che era l’apice delle conquiste del mondo occidentale dopo che era riuscito a scrollarsi di dosso la Legge del Padre, con il dogma, l’anti - pensiero.
Che strano paradosso!
Proprio gli ebrei, che dichiarano il proprio asservimento alla Legge del Padre, non fanno altro che rimuginarla, contestarla, trovare nuove interpretazione, scrivere montagne di libri proprio per dimostrare la sua validità - invalidità, ed arrivare spesso a conclusioni che sono chiaramente proprio l’opposto dell’intenzione originale del testo. Nella Yeshivà, la scuola rabbinica, l’allievo più apprezzato e colui che fa le domande, colui che semina il dubbio.
Dall’altra parte la cultura occidentale, che ha dato al mondo la filosofia e la metafisica, si trova imprigionata entro le costrittive mura del dogma e i fedeli minacciati di “auto da fé” (il rogo), se solo dubitano. E’ famoso l’anneddoto su un allievo, particolarmente versato nell’interpretazione della Legge, che abbandonò la tradizione e diventò laico. Il suo rabbino gli chiese: “perché figlio mio hai abbandonato la Legge dei Padri ?”. E questi gli rispose: “È colpa tua, Maestro, poiché mi hai insegnato a dubitare” . Sembra che più sia intransigente il rito, più ci sia permissività intellettuale. Paolo, che ha sciolto i suoi fedeli dai 613 precetti della Legge ebraica ha interdetto il dubbio, pena la dannazione eterna.
La seconda e gravissima conseguenza dell’auto - estraniazione dell’Occidente dal proprio passato fu la mistificazione che fu costretto ad adottare, per quel che riguarda la natura della sua metamorfosi, nel passaggio dal mondo olimpico al cristianesimo. Se nell’ebraismo l’idea stessa di Dio si evolse dalla forma più primitiva del totem del clan, prima probabilmente un toro, poi un ariete, attraverso le varie fasi della monolatria di un dio tribale, specifico e crudele, geloso e vendicativo, fino alla spiritualità assoluta di un Dio che non si vede, il mondo greco - romano assunse un atteggiamento di estraniazione e riniego dai propri dei. Questi furono cancellati. Poiché avevano deluso furono messi a morte: non vi fu un’evoluzione, bensì una rottura. Non vi è nulla di più negativo per la psiche sia del singolo che di un popolo che l’estraniazione dalle proprie radici e il diniego del proprio passato.
Questo portò alla terza gravissima conseguenza: la delega della responsabilità.
Come abbiamo visto la rottura portò alla regressione, fino ai riti tribali preolimpici del pasto totemico, le cui tracce mnestiche erano rimaste nei miti orfici sulla morte e la resurrezione di Dioniso. Ogni tribù uccide il proprio padre - totem - dio, lo divora e lo fa risorgere. Nessuna tribù primitiva incolperebbe mai una tribù vicina dell’uccisione del proprio dio. Sarebbe un’incongruenza che svuoterebbe di significato i riti stessi. Il greco - romano, diventato ora cristiano, nella necessità psicologica di disconoscere la regressione avvenuta dopo molti secoli di incivilimento, delegò la responsabilità ed incolpò coloro che avevano mantenuto la struttura mentale arcaica, i giudei, del parricidio - deicidio. Delegando la responsabilità, non fu più necessario rimuovere il delitto.
Gli ebrei, che vivono la realtà rimossa del proprio parricidio -  deicidio in tutti i loro riti (S.Freud, “L’Uomo Mosè e la religione monoteistica: tre saggi”, in op.cit., vol.XI, pp.338 -- 453), furono accusati anche dell’uccisione del Dio occidentale. Questo, però, era in realtà l’unico delitto che non avevano commesso. Quando la Santa Sede decise di assolvere gli ebrei dall’accusa di deicidio avrebbe dovuto essere più specifica. Avrebbe dovuto dire: “È vero, siete deicidi, ma riconosciamo che Gesù Cristo, che è il nostro Dio, almeno nella fantasia, lo abbiamo ucciso noi. D’ora in poi ognuno sarà tenuto responsabile solo per il proprio deicidio e non per quello degli altri”.
L’incongruenza della tesi di un Dio sceso dal cielo a salvare l’umanità, attraverso il proprio auto - sacrificio, e ucciso da coloro che non lo riconoscono, salta agli occhi. L'acrobazia mentale fu resa necessaria dal rifiuto dell’Occidente di riconoscere la regressione ai propri riti tribali arcaici. L’Occidente che d’ora in poi ristabilirà il pasto totemico con ogni celebrazione della Santa Messa e l’Eucaristia, disconoscerà la sostanza del rito, che ha senso solo se si presuppone il parricidio - deicidio, e questo venne attribuito a qualcun altro.
In questa chiave di lettura, l’antisemitismo, che era già virulento nel mondo ellenista per l’incompatibilità culturale e mentale tra le due culture, tra polis e tribù, con lo stabilirsi in Occidente del cristianesimo, trovò la sua legittimazione ideologica.
 

Da  Tacito...

Come abbiamo visto dalle parole di Tacito, l'ecumene greco - romana nutriva questo radicato antisemitismo, come mezzo di autodifesa da una riattivazione di impulsi dionisiaci repressi. Apollo, dopo aver trionfato su Dioniso, temeva la sua rivincita. La società occidentale, che ripone nell’equilibrio apollineo il proprio equilibrio e la propria salute mentale, ha in orrore la vicinanza del dionisiaco: e  nutre una fobia verso tutto quello che le può ricordare le pulsioni apparentemente superate,  ma in realtà solo rimosse.
Così il “riconoscersi tra di loro” di Tacito divenne sinonimo di tradimento, e da allora la società occidentale non si fida dei suoi ebrei, come a dire: “se sono fedeli tra di loro saranno sempre pronti a tradire lo stato, la polis, che li ospita”. Qualsiasi dimostrazione di patriottismo da parte degli ebrei non è creduta, poiché sono considerati, non solo stranieri, ma bensì dagli interessi antitetici a quelli dello stato (Vedi il caso Dreyfus ).
In Occidente, dove l’ideale dell’equilibrio cosmico che corrisponde a quello sociale e mentale rappresentato da Apollo, ricalcando la concezione platonica del bello come ideale iperuranico, vede in Dioniso - Pan la propria antitesi e il simbolo della minaccia che corre il suddetto equilibrio. Non a caso, quindi, l’antisemita rappresenta l’ebreo con il naso adunco, la barba e le forme caprine: non è forse questa l’immagine del dio caprino, antitesi di Apollo?
Così S. Giovanni Crisostomo, il Demostene dei dottori della Chiesa, rappresenta, nel IV secolo, gli ebrei e i loro profeti: “ Essi vagavano avvolti in pelli di pecora e di capra, destituiti, afflitti, tormentati, vagavano in deserti, sulle montagne e nelle caverne sulla terra” (“Homily XXVIII. Hebrews 11:37,38”, in Christian Classics Ethereal Library, at Calvin College. (Last updated on December 12, 1995). <http://www.ccel.org/fathers/NPNF1-11/Chrysostom/Acts/Acts-Hom26.html>)
Nel medioevo il diavolo era rappresentato come un grande capro.
Bernardo di Como, l’Inquisitore del XIV secolo, descrive un incontro di culto satanico in cui il Diavolo scendeva da una scala esponendo prima di tutto il suo deretano con la coda, che tutti i presenti baciavano, e subito dopo cominciava un’orgia sfrenata (Bernardo di Como, “De strigiis”, in : HISTORY OF THE CHRISTIAN CHURCH*, Cap. VII, “HERESY AND WITCHCRAFT”, in the Christian Classics Ethereal Library at Calvin College). Al Metropolitan Museum of Art di New York è esposto un enorme quadro di Hans Baldung Grien del 1510, intitolato “Witches Sabbath” in cui si vedono delle streghe nude di cui una cavalca una capra che vola in aria. Un quadro di Goya del settecento, oggi al Museo Lazaro Galdiano a Madrid, riprende lo stesso tema: un gruppo di streghe con bambini in mano, da sacrificare al Diavolo, rappresentato da un enorme caprone con grandi corna. Lo stesso tema è trattato da Goya anche nel quadro al museo del Prado Il grande Capro o Le streghe del Sabbath. Da allora e fino a oggi le orgie sataniche sono denominate “Sabbaths”, dalla parola Sabato, il giorno ebraico più sacro.
Sacralità, che per gli ebrei negli ultimi duemila cinquecento anni significa astinenza dagli antichi riti della fertilità e della prostituzione sacra, e dall’infanticidio rituale, nella psiche occidentale continua ad essere associata a orgia e questa al diavolo, il capro, e a ebraismo .  Non a caso quindi l’antisemita, da Tacito in poi, rappresenta l’ebreo come il simbolo della sfrenatezza sessuale. La barba e il caftano, che per l’occidentale rappresentano appunto le pulsioni dionisiache minacciose e uscite di controllo, rappresentano invece per l’ebreo la stessa cosa ma nel suo contrario: sono il simbolo della repressione e dell’inibizione che questi accetta su di sé in nome della disciplina del Dio-padre. Questo Dio-ariete, che nei secoli si trasfigurò in spiritualità assoluta, in nome della sua natura dionisiaca esige la repressione pulsionale più completa.
Più l’ebreo reprime le proprie pulsioni, in nome della coercizione divina, più l’Occidentale vede in questo la conferma di una vitalità minacciosa e di una sessualità sfrenata. Molti ebrei emancipati accusano gli ebrei tradizionali, dalla lunga barba  e il caftano, di riattivare, con la loro apparenza, l’antisemitismo, ma la storia ha dimostrato che più gli ebrei assomigliano ai gentili, nei loro modi e nel vestire, più questo aumenta, invece di diminuire.
Il motivo va ricercato nell’idea che l’uomo occidentale ha a priori dell’ebreo.
Se la sua apparenza esteriore corrisponde all’idea inconscia che si ha di questi, l’antisemitismo può rimanere sotto controllo, ma se l’ebreo si veste come un gentile, non può che peggiorare la sua situazione, poiché allora più che vestirsi, viene accusato di travestirsi. In questo casi viene accusato, in realtà, di essere Dioniso - Pan, ma di travestirsi da Apollo.
Mascherato, viene percepito come ancora più pericoloso .
Proprio come Shylock nel Mercante di Venezia di Shakespeare .

...A  Sartre…

Nella storia dell’Occidente, particolarmente dall’Illuminismo in poi, non mancarono uomini di buona volontà, che cercarono di porre resistenza ai bisogni oscuri della stessa propria psiche, e che cercarono di trovare una soluzione a quello che sempre di più, negli ultimi due secoli, viene percepito come un “problema ebraico”. Come gli ebrei erano un problema per l’ecumene ellenista, e poi per quella romana, sparpagliati in tutto l’Occidente, rimasero una spina nel fianco di una cultura , che per il proprio equilibrio precario, non poteva convivere con il modus di una diversa struttura mentale.
Come conseguenza, anche coloro che consideravano ingiusto discriminare contro gli ebrei, erano pronti ad accettarli, ma non la loro particolarità: pari, come uguali, ma non pari, come diversi. Da Kant a Hegel, agli ideologi delle teorie socialiste, l’Occidente imparò a considerare gli uomini tutti uguali, invece di accettarli per la loro diversità. Sotto la spinta degli eventi tragici di questo secolo, anche gli uomini di coscienza e gli intellettuali, che erano pronti ad una estrema mea culpa, non tralasciarono mai di lasciar trapelare, dietro le righe, la percezione che se gli ebrei non si fossero intestarditi a conservare la propria diversità, le persecuzioni non avrebbero potuto avvenire.
L’esempio più rivelante è quello di Sartre.
Nel suo saggio L’Antisemitismo (Mondadori, Milano, 1982 e 1990), il filosofo marxista si avventura nell’analisi dell’identità ebraica. Secondo la sua analisi il motivo principale della sopravvivenza di un’identità ebraica, va ricercato nel rifiuto degli altri popoli di assimilare a loro i propri ebrei. Quando dice che “i legami religiosi si rafforzarono fino ad assumere il senso e il valore d’un legame nazionale”( Ibidem, p.61), non contempla che nel giudaismo come in ogni società arcaica, i legami religiosi sono il legame nazionale.
L’anima primitiva non separa la religione dallo stato, o dalle altre espressioni di vita sociale. La religione non è un concetto astratto, un “optional”, come nella vita moderna, e non è neppure una fede, come il cristianesimo, pronta ad essere condivisa con altri, bensì è l’espressione collettiva degli affetti, dei terrori e dei terribili legami di sangue, di colpa e di terrore, che legano tra di loro i membri del clan. La religione, in questo caso, è l’insieme dei riti, che sono il risultato del passato, come la memoria collettiva lo ha elaborato. Essere ebrei, significa condividere la stessa preistoria, lo stesso passato rimosso.
Gli ebrei sono una nazione in quanto si considerano tutti fratelli, figli di uno stesso padre e complici dello stesso misfatto primordiale e, quindi, condividono lo stesso senso di colpa e la sensazione di un unico destino. Non a caso, la ricorrenza ebraica più importante è il Iom Kippur, il giorno dell’espiazione, malgrado, a differenza delle altre feste, non si ricolleghi ad alcun evento storico della nazione.
Non a caso la trasgressione di questo giorno comporta la punizione del Karet, l’estirpazione dall’appartenenza alla nazione, e non la pena di morte, come per le altre trasgressioni gravi. La ricorrenza più importante dell’ebraismo è, dunque, quella che si ricollega a un evento pre - istorico rimosso e chiunque si dissoci da questo, non può far parte della collettività e viene punito con l’estirpazione, per mano divina, dal popolo ebraico.
La forma stessa, che prende l’espiazione, testimonia della natura del peccato che va espiato. Ogni penitenza comporta, prima di tutto, l’impegno a non ripetere il misfatto.
Digiunando, i figli d’Israele si impegnano, così, a non ripetere un misfatto, la cui natura viene tradita dalla forma dell’espiazione. Si tratta, dunque, di un peccato di cannibalismo, quello che va espiato attraverso il digiuno. L’atto di cannibalismo primordiale, che segue il parricidio, e attraverso il quale la tribù dei fratelli diviene tale, e attraverso il quale cementa la propria identità e la propria coesione.
Nello stato d’Israele odierno, prodotto degli sforzi di un ebraismo laico che agli inizi rinnegava ogni forma di religione e di religiosità, e si vantava di essersi staccato completamente dalla religione dei padri per forgiarsi in una nazione nuova sullo stampo degli stati occidentali, la festività più solenne rimane pur sempre il Kippur. Questo e l’unico giorno dell’anno, in cui la radio e la televisione israeliana cessano ogni trasmissione, e le strade sono svuotate completamente da qualsiasi veicolo.
I pionieri socialisti, dell’inizio del secolo, e i kibbutzim che avevano tentato di cancellare questo giorno, in quanto considerato esclusivamente una ricorrenza religiosa, per concentrarsi esclusivamente sulle feste che si ricollegano direttamente al passato storico del popolo ebraico, hanno visto questa festività riemergere, carica di una vitalità sempre rinnovata.
Interessante notare che anche i nemici d’Israele, quando cercarono un tallone di Achille, in cui colpire a morte la nazione, credettero di averlo trovato in questo giorno.
Da un punto di vista strettamente tattico, attaccare Israele nel giorno di Kippur, fu certamente un errore madornale. Le strade erano vuote e la gente era tutta o in casa o concentrata nelle sinagoghe. Fu relativamente facile sapere dove trovare i riservisti da arruolare. Se gli arabi avessero attaccato, all’improvviso, Israele, dieci giorni prima, durante il Capodanno ebraico, o quattro giorni dopo, durante la lunga festività di Succoth, si sarebbe creato il caos più completo. Tutti i soldati arruolabili si sarebbero trovati o all’estero o negli affollatissimi ritrovi sul lago di Tiberiade  e a Eilat. Il solo tentativo di tornare alle proprie case e di accorrere ai centri di arruolamento avrebbe creato degli ingorghi stradali inestricabili, come alla fine di ogni festa, quando gli israeliani tentano di tornare tutti insieme, e avrebbe permesso ai siriani di arrivare a Haifa, mentre tutti erano ancora ingolfati nelle proprie automobili.
La decisione di attaccare durante il Kippur fu, dunque, dettata dalla percezione inconscia che il popolo ebraico, in questo giorno, si senta psicologicamente vulnerabile. Questo è il giorno, in cui il popolo ebraico cerca di venire a termini con il proprio senso di colpa e quindi si aspetta il castigo divino.
Ma quello che gli arabi, a pari degli occidentali, non avevano capito era, oltre all’errore di colpire in un giorno nel quale tutti erano facilmente reperibili, che da questo senso di colpa emerge, sempre nuovamente, una nuova coesione.
Circolava la voce, che fossero stati i consulenti militari russi a stabilire il Kippur, come giorno dell’attacco. Se questo è vero, non farebbe che confermare come la psiche occidentale fraintenda  la coesione e le risorse del popolo ebraico.
Questo equivoco è lo stesso che ha portato Sartre a non capire che quello che tiene unita un clan, e in senso più ampio, un popolo è il senso di appartenenza. L’antisemitismo non fa che rafforzare questa coesione, ma certamente, non la crea e non ne è la fonte. Sartre si riallaccia al concetto spinoziano che le leggi ebraiche siano state in passato le leggi dello stato e che, una volta cessato di esistere uno stato indipendente, queste leggi non abbiano avuto più senso.
Ma non a caso Benedetto Spinoza, l’ex marrano, fu scomunicato dalla congregazione.
Per gli ebrei il processo, descritto da Spinoza, era avvenuto esattamente all’inverso: la legge della tribù, quella del Padre, quando il popolo ebraico era diventato uno stato, era diventata anche la legge di questo. Cessato il popolo ebraico di essere uno stato, non solo la Legge non aveva perso di legittimazione, ma anzi aveva acquistato ulteriore validità, in quanto era ridiventata l’unica colla, a cementare l’unione dei fratelli. Sartre dice: “...ma questo transfer (dei legami religiosi ai legami nazionali) manifestò una spiritualizzazione dei legami collettivi e spiritualizzazione significa nonostante tutto indebolimento...”(Ibidem, p.61)
È vero esattamente il contrario: proprio i legami nazionali, che si “spiritualizzano”, cioè si sublimano al massimo, si rinforzano, poiché non dipendono più da fattori contingenti, come, per esempio, l’unità territoriale, la concentrazione in questa, l’uso della stessa lingua, ecc. Gli emigrati italiani in America conservano l’identità nazionale al massimo per altre due o tre generazioni, e poi si assimilano. Staccati dal loro territorio originale e perso l’uso giornaliero della stessa lingua madre, perdono anche l’autoidentificazione come italiani, mentre gli ebrei, proprio a causa di questa “spiritualizzazione” dei legami nazionali, cioè dei legami del clan, non dipendono più da fattori contingenti per mantenere la propria identità.
Per Sartre, come Hegel, Kant e Tacito prima di lui, l’idea di nazione e di legame nazionale è troppo staccata dalla realtà dei legami tribali emotivi ed affettivi e, quindi, “legame nazionale”, per loro, è legato a un concetto di stato e di patria che, nella società occidentale, sono diventati un simbolo e un’astrazione. Staccandosi dalla fedeltà tribale, l’Occidente ha scambiato dei contenuti emotivi concreti con dei simboli astratti: la patria, la bandiera, i confini, l’integrità del territorio: gli affetti sono diventati principi. “Legame nazionale” è per Sartre un’astrazione, quindi, fare la “spiritualizzazione di un’astrazione”, secondo lui, conduce inevitabilmente a un indebolimento.
Ma gli ebrei non hanno fatto la spiritualizzazione di un’astrazione, bensì di qualcosa di molto concreto, come la coesione del clan, la vitalità della quale, cementata ancora di più dal senso di colpa, è alla base della conservazione del popolo ebraico.
Sartre scrive:

Gli ebrei che ci circondano hanno con la loro religione appena un rapporto di cerimonia e di cortesia. Domandai ad uno di loro perché aveva fatto circoncidere suo figlio. Mi rispose: “Perché faceva piacere a mia madre, e poi perché è più igienico”. “E vostra madre, perché ci teneva?”. “Per via dei suoi amici e dei suoi vicini”. Comprendo che queste spiegazioni troppo razionali nascondono un segreto e profondo bisogno di riattaccarsi alle tradizioni e di abbarbicarsi, in mancanza di un passato nazionale, a un passato di riti e consuetudini (Ibidem, p.60).
Non potrebbe esserci equivoco più stridente.
Un ebreo laico, emancipato, e persino ateo, ha tutt’altro che un rapporto di cerimonia e di cortesia con la propria religione. Ha un rapporto di pudore, verso se stesso e i gentili che lo circondano, poiché ripete, malgrado la propria irreligiosità, dei riti che conservano una vitalità razionalmente inspiegabile. Un israeliano moderno, laico e ateo, non contemplerebbe l’idea di non circoncidere suo figlio, poiché non vede affatto nella circoncisione un’espressione di fede religiosa, bensì un segno di identificazione nazionale. Le ultime statistiche mostrano che praticamente tutti gli israeliani circoncidono i propri figli, malgrando molti si dichiarino laici e atei.
“Il passato di riti e consuetudini” è il passato nazionale, e non viene al posto di esso. Questi riti e consuetudini sono il motore e l’essenza dell’esistenza ebraica, più simile, semmai, a un sintomo nevrotico coercitivo, cioè a qualcosa che abbia una sua indomabile energia propria, che a una “consuetudine” dalle sembianze passive.
Le risposte che Sartre riceve alle domande sulla circoncisione sono simili alle razionalizzazioni che danno i selvaggi africani o gli aborigeni australiani quando sono interrogati dagli antropologi occidentali sui propri riti: sono le razionalizzazioni, che sono addotte a spiegare qualsiasi rito primitivo, il vero senso del quale è stato rimosso. I motivi veri sono relegati al subconscio comune del gruppo, ma proprio per questo conservano un’energia indomabile, che li rende indistruttibili.
Questi riti, e quello che veramente rappresentano, sono il passato nazionale: il vero, unico e comune passato nazionale, che distingue la peculiarità del gruppo. I miti e le razionalizzazioni vengono creati e le risposte qualunquiste date, per nascondere i motivi veri e rimossi, a chi cerchi di carpirne il significato, per difendere i segreti, i tabù della tribù, talmente irrivelabili ad orecchie non iniziate, che sono stati relegati al subconscio. La risposta qualunquista “è più igienico” o “per via degli amici”, mascherandosi dietro una parvenza di innocuità, depista interrogante e interrogato dalla immensa vitalità del rito, essenza vitale e magica della vita della nazione.
Sartre continua nello svolgimento dell’equivoco: “...la collettività ebraica è la meno storica di tutte le società, poiché non può serbare che la memoria di un lungo martirio, cioè d’una lunga passività....La storia di questa comunità è quella di una dissoluzione di venticinque secoli...” .
È vero esattamente il contrario. La storia di questa comunità è quella di una cementazione dei legami per venticinque secoli. Gli ebrei sono sopravvissuti, malgrado le persecuzioni, e non per merito di queste.
Il filosofo marxista continua su questa chiave, fino a stabilire che l’identità ebraica è, in realtà, solo una condizione dettata da una situazione comune, cioè quella delle persecuzioni e del fatto che gli altri vedono in loro degli ebrei. Basterebbe, per confutare questa visione limitata e completamente erronea, chiedere come mai anche comunità ebraiche, quasi mai perseguitate dai loro vicini, come gli ebrei yemeniti e in certi paesi arabi, abbiano, ciononostante, conservato per millenni una fortissima identità ebraica.
Il punto è ben altro. Sartre, come Tacito prima di lui, non riesce a contemplare una società, che non sia strutturata sui modelli politici di quella occidentale. Lo stress esistenziale, che ha portato l’Occidente ad adottare determinate soluzioni, lo ha anche condannato a rimanere prigioniero di queste. La soluzione apollinea, messa alle strette dai limiti del proprio stesso equilibrio, esclude, così, violentemente e con determinazione, le soluzioni alternative rimosse.
Ma l’esistenza stessa non ha bisogno di una giustificazione metafisica per essere.
Sartre, che è considerato l’ideologo dell’esistenzialismo, ha abbandonato qualsiasi pensiero trascendentale, solo per  inciampare nella metafisica. Quando dice che in una società senza classi non esisterebbe l’antisemitismo (Ibidem, pp.120 - 1), non capisce che la divisione in classi sociali è il risultato inevitabile dell’abbandono dei legami del clan e della coesione del gruppo, poiché una società che abbia abbandonato questi legami e abbia costituito un ordine sociale in cui questi sono stati superati, si è auto - condannata a uno stato di cose in cui si formano gruppi di uomini, accomunati da un altro genere di interessi e fedeltà. Gli uomini, la cui appartenenza a una tribù viene proibita o diventa irrilevante, si riuniscono, per tutelare i propri interessi, sotto l’ombrello dell’appartenenza a una stessa classe.
Nella società occidentale la lotta di classe diventa così inevitabile.
Nei paesi socialisti le classi sono state eliminate solo in apparenza, poiché una classe di burocrati del partito, ha in realtà sostituito la classe dirigente delle società capitaliste, creando un nuovo tipo di divergenza dall’interesse comune e seminato, così, il seme dell’inevitabile contro - rivoluzione.
Alla stessa maniera, l’unica cementazione che tiene unite tutte le diverse classi, sotto il tetto di una passione comune, è l’odio per quel gruppo, che ha conservato la struttura mentale del clan, con i suoi affetti e la sua coesione interna e che viene, quindi, considerato una minaccia all’incolumità delle soluzioni e degli equilibri faticosamente raggiunti in migliaia di anni di elaborazione.
Non a caso l’antisemitismo esplode virulento in periodi di crisi sociali, di depressione economica  e di lotte di classe. Quando l’equilibrio sociale di una società è in pericolo e si affaccia la prospettiva di regredire alle soluzioni abbandonate, quando la fame, la disuguaglianza tra ricchi e poveri, l’estraniazione reciproca e le crisi sociali mettono in dubbio la validità dello stato come alternativa alle vecchie fedeltà tribali rimosse, l’uomo occidentale si trova periodicamente davanti a una mangiatoia rotta: la tazza, che usava per bere si è frantumata e non ne ha un’altra che funga da alternativa.
Gli ebrei vengono, allora, accusati di essere la causa di questa rottura, poiché la loro organizzazione mentale è diversa e, con il loro esempio, rappresentano una tentazione a tornare a quella che viene considerata in Occidente una regressione mentale e sociale: con la loro coesione, sia questa reale o anche solo percepita come tale, rappresentano uno stimolo inconscio ad abbandonare soluzioni faticosamente acquisite.
Quindi l’antisemitismo, nella società occidentale, è inevitabile: è il prezzo che il greco, il romano e, ora, l’europeo, devono pagare per essere riusciti, o per avere semplicemente voluto, superare gli arcaici legami affettivi. A livello di società l’Occidente non potrà mai rinunciare a questa forma di difesa dal proprio richiamo della giungla, quando questo si fa sentire impellente, in momenti di crisi d’identità. L’antisemitismo non è altro, quindi, che un meccanismo di auto - difesa dalle proprie tentazioni. Soprattutto a questo livello, il tanto descritto “problema ebraico”, non è altro che una deficienza caratteriale occidentale.

….E Shakespeare

Mentre i filosofi si sono sempre preoccupati di trovare soluzioni al “problema ebraico”, nel Mercante di Venezia, Shakespeare denuncia sulla scena in maniera magistrale l’antisemitismo come un problema caratteriale della società occidentale.
Il succo di quest’opera, infatti, risiede nel contrasto tra il mondo decadente della Venezia di Antonio e la fiabesca Belmonte di Porzia, da una parte, e la tribù di Shylock, dall’altra (La parola “tribù” torna con molta insistenza nelle battute di Shylock, per esempio: “Sia maledetta la mia tribù, se gli perdono!” (I, iii); “Perché la sofferenza è l’insegna della nostra tribù” (I, iii); “Tubal, un ricco ebreo della mia tribù” (I, iii)Anche i veneziani si riferiscono alla tribalità ebraica di Shylock: “…ecco che arriva un altro della tribù” (III, i) ). Inizialmente, ci vengono presentate le prime due situazioni, con Antonio e Porzia accomunati da una misteriosa quanto incomprensibile “tristezza”, che fa riscontro all’odio di Shylock per Antonio. Ma mentre il disagio di Antonio e Porzia rimane misterioso e non trova nessuna giustificazione plausibile nel corso del dramma, ecco che Shakespeare ci fa intravvedere, dapprima da lontano, poi sempre più da vicino, come in un inesorabile crescendo, le ragioni dei sentimenti di Shylock: egli, ci spiega, è il prodotto dell’odio esercitato su di lui dalla società di Venezia, che qui funge da simbolo di un occidente in crisi di identità, che, come un organismo privo di forze, incapace di vivere la propria situazione esistenziale (e qui è la spiegazione della “stanchezza esistenziale” dei due protagonisti cristiani), vede nell’ebreo, appunto, un simbolo del pericolo di retrocedere a una organizzazione sociale e mentale precedente, e lo identifica come l’antitesi di quella soluzione apollinea che nei momenti di crisi è continuamente in pericolo .
Chi, ascoltando l’atto di accusa di Shylock contro l’antisemitismo di Antonio (Shylock, in I, iii, 104/127),  e la sua appassionata e orgogliosa difesa di appartenere a quella tribù di cui Tacito invidiava l’intima coesione affettiva, che trova il suo culmine nella frase: “…For sufferance is the badge of all our tribe…”(Ibidem, I, iii, 108)  non si sente commosso e spinto a prendere naturalmente le parti dell’ebreo? La risposta di Shakespeare arriva con la successiva battuta di Antonio: l’antisemita non è disposto a commuoversi di fronte a Shylock, proprio perché è antisemita, e commuoversi significherebbe identificarsi con l’ebreo, che è ciò che teme maggiormente, poiché ciò equivarrebbe a rimettere in gioco le proprie rimozioni. L’obiettivo di Antonio (e con lui, di tutta la società di cui egli è espressione) è invece ben altro: quello di espropriare l’ebreo Shylock dei suoi beni, e della sua stessa identità di ebreo: esattamente come il mondo greco – romano – cristiano sentì il bisogno di appropriarsi dell’identità stessa degli ebrei e di coercizzarli in tutti i modi nell’ambito della società apollinea. Questa è infatti la conclusione, tragica per l’ebreo, dell’opera di Shakespeare: privato dalla legge di Venezia dei suoi beni, della figlia e della sua identità, Shylock verrà battezzato fuori scena, a indicare che la sua esperienza esistenziale finisce nel momento preciso in cui il tribunale cristiano lo elimina come ebreo, e si appropria di ciò che è suo .
 

Antisemitismo apollineo e antisemitismo dionisiaco

Come abbiamo sostenuto nei capitoli precedenti, l’antisemitismo, di cui è permeato l’Occidente, dai tempi dell’ecumene ellenista e fino ai nostri giorni, è una fobia verso quella soluzione alternativa rimossa che rischia di riemergere e di mettere in dubbio le soluzioni mentali faticosamente conquistate. La precarietà di questo equilibrio non permette, quindi, una coabitazione con un gruppo di uomini, organizzati in una soluzione mentale incompatibile con quella occidentale. Il monismo diventa, così, in Occidente, l’unica forma di sopravvivenza contemplabile.
Come l’ecumene ellenica doveva convertire i “barbari” a un’unica cultura, affinché il proprio equilibrio precario non venisse minacciato, così anche oggi la società apollinea europea non riesce a contemplare una società, nella quale diverse soluzioni coabitino sotto lo stesso tetto. L’antisemitismo apollineo è, dunque, l’incapacità di contemplare una soluzione pluralista e si traduce, così, in intolleranza e odio per il diverso.
Ma, come ci ha insegnato l’esperienza di questo secolo, esiste un antisemitismo ben più feroce di questo: quello messo in atto dalle tribù germaniche, che nulla sanno di apollineo, di polis e di soluzioni plastiche.
Se la Chiesa cattolica, durante i secoli, teneva ai propri ebrei, per poterli umiliare pubblicamente e fornire la prova vivente dell’ira divina, ovvero dell’errore di una soluzione dionisiaca in opposizione a quella apollinea del cattolicesimo, non sancì mai il genocidio e la loro distruzione fisica.
L’antisemitismo, per le tribù teutoniche, si tradusse, invece, in bisogno di cancellarne persino le tracce fisiche.
Vediamo cosa dice Freud dell’antisemitismo:

non dimentichiamoci che tutti questi popoli che oggi eccellono nell’odio contro gli ebrei sono diventati cristiani solo in epoca tarda, spesso spinti da sanguinosa coercizione. Si potrebbe dire che sono tutti “battezzati male” e che sotto una sottile verniciatura di cristianesimo sono rimasti quello che erano i loro antenati, i quali professavano il barbaro politeismo. Non avendo superato il rancore contro la nuova religione che è stata loro imposta, l’hanno però spostato sulla fonte donde viene il cristianesimo loro pervenuto. Il fatto che i Vangeli narrano una storia che si svolge tra ebrei e tratta propriamente solo di ebrei ha facilitato questo spostamento. Il loro odio per gli ebrei è in fondo odio per i cristiani, e non vi è di che meravigliarsi se nella rivoluzione nazionalsocialista tedesca questa intima relazione tra le due religioni monoteistiche trova così chiara espressione nel trattamento ostile riservato a entrambi (Freud, op.cit, pp. 412 - 3)
È vero che i popoli al di là delle Alpi sono “battezzati male”, ma questo non significa che sono stati battezzati male al cristianesimo, come continuazione dell’ebraismo, ma bensì significa coercizzati entro il mondo apollineo greco - romano e le sue soluzioni.
L’odio è verso il mondo romano - ellenista che li ha coercizzati a lasciare il loro  modus tradizionale tribale, colorato da un politeismo della foresta, come descritto nelle fiabe dei fratelli Grimm, con i suoi folletti e i suoi spiriti, per presentare loro un mondo di statue e di espressione plastica, che non risponde alle loro esigenze esistenziali. Il modus tribale è antiplastico, e tende all’inibizione pulsionale, piuttosto che al suo sfogo. Presso le tribù, il totem della tribù si evolve a Grande Spirito , senza passare per lo sfogo pulsionale, che è nell’espressione plastica, come era successo alla cultura apollinea. Gli Indiani d’America adorano Manitù, il Grande Spirito invisibile, e così tutti i popoli, che sono rimasti attaccati ad una struttura mentale simile.
Quindi, più che di “barbaro politeismo”, Freud avrebbe dovuto parlate di “barbara monolatria”, che è certo più vicina, come direzione generale, alle radici della religione ebraica, ed è incompatibile con il sofisticato e civilissimo politeismo proposto dal mondo greco - romano, nella sua continuazione che è il cristianesimo.
La prova è che, con la Riforma, mille anni dopo essere stati convertiti al cristianesimo, i barbari d’oltralpe hanno rigettato il mondo panellenico-cattolico, con le sue statue e suoi santi, ma hanno conservato la figura del Cristo crocifisso, trasfigurazione di un Dioniso, ucciso e poi risorto, poiché questo li riallaccia al proprio passato tribale, al pasto totemico e ai riti iniziatici puberali. I greci avevano superato questo passato, attraverso l’elaborazione apollinea ma, con la crisi del mondo antico e la rottura, come abbiamo visto, vi erano ritornati. Gli dei olimpici avevano trovato la loro trasfigurazione nei Santi, e questi furono rigettati da quei cristiani, che nulla volevano più sapere del mondo olimpico a loro imposto .
Le “Indulgenze” e la corruzione della Chiesa furono l’occasione che aspettavano da mille anni, ma la rottura non avvenne solo con l’autorità papale, bensì con tutto un modus mentale che non erano riusciti ad assorbire. Nella stessa occasione ripristinarono il divorzio, simbolo di una poligamia che meglio si accordava al loro passato tribale, e rifiutarono la mediazione, simbolo di un vicariato, incompatibile con il rapporto diretto che ha il primitivo con il suo Dio. Il padre cattolico fu cacciato, e si scelsero un pastore che pascolasse le loro greggi, riattivazione di arcaiche reminiscenze di quando vagavano come pastori seminomadi che sono sempre strutturati sul modello del modus mentale e sociale tribale.
La Chiesa cattolica aveva fatto un’astrazione dell’idea del padre, e il sacerdote è il suo vicario, sul modello di una polis ecumenica, in cui i fedeli tutti sono cittadini, e la gerarchia ecclesiastica è  la trasfigurazione delle istituzioni politiche dello stato.
Le tribù germaniche rifiutarono quest’imposizione, e tornarono a essere fratelli sotto la guida di un pastore, primo ma uguale tra pari. Sulle orme dell’arcaica orda primitiva che si poneva sotto la guida del prescelto tra i fratelli.
La Chiesa si era arrogata l’autorità sulle anime, come l’ecumenismo apollineo pan-ellenico si era arrogato l’autorità culturale di quello che è civile e quello che è barbaro. Il mistero, il dogma, i Sacramenti e soprattutto l’autorità sul libro e alle sue vie d’interpretazione. Questo era il non plus ultra dell’incompatibile con la percezione tribale di parità tra tutti i membri sotto la guida di uno tra i pari.
Nietzsche percepì molto bene la fonte di questa incompatibilità tra tribù germanica e ecumene apollinea. Sentiamo cosa dice:
I “Tedeschi”: originariamente questo termine significava i “pagani”: è così che i Goti, dopo la conversione, chiamavano la gran massa dei membri della loro stirpe non battezzati, prendendo suggerimento dalla loro traduzione dei Settanta, in cui i pagani venivano designati con la parola che in greco significa “i popoli”: si veda Ulfila. Sarebbe pur sempre possibile che I Tedeschi trasformino a posteriori il loro antico appellattivo ingiurioso, diventando il primo popolo non cristiano d’Europa: che in ciò siano dotati in sommo grado costituiva per Shopenhauer un loro titolo d’onore.Così giungerebbe a compimento l’opera di Lutero, che ha insegnato loro (ai Tedeschi, N.d.R.) a essere antiromani (La gaia scienza,  par.146. Vedi anche par.358)
E ancora:
Si direbbe che alle razze latine inerisca il cattolicesimo in maniera molto più intima di quanto non accada per l’intero cristianesimo in generale a noi gente del nord; e che di conseguenza l’incredulità nei paesi cattolici debba significare qualcosa di molto diverso da quello che essa significa nei paesi protestanti, cioè una specie di rivolta contro lo spirito della razza, mentre da noi è piuttosto un ritorno allo spirito (o al non spirito…)  della razza. Indubbiamente noi, gente del nord, proveniamo da razze barbare anche per quello che riguarda la nostra disposizione alla religione: per questo noi siamo mal dotati (Al di là del bene e del male, par.48.)
L’odio dei cristiani “battezzati male” verso gli ebrei, non ha dunque niente a che fare con l’odio verso il cattolicesimo. Verso il cattolicesimo hanno un rapporto di rancore misto ad ammirazione, esattamente come avevano verso la cultura greco- romana, loro imposta.
A differenza degli ebrei, le tribù germaniche non avevano sublimato i propri contenuti tribali in una cultura spirituale altamente sofisticata, e a confronto con la cultura panellenica si erano trovati in condizioni di inferiorità. L’intenso desiderio di assorbire la cultura occidentale e di diventare, come i loro conquistatori, cittadini di una società forgiata sullo stampo mentale della polis e dello stato, aveva prodotto una intensa frustrazione esistenziale. Versare i contenuti della cultura classica nel vas della loro struttura psichica tribale era stato come versare del vino in un vaso pieno di latte.
Se gli ebrei avevano rifiutato questi contenuti, in quanto incompatibili con i propri, ma trovavano soddisfacimento all’interno della propria cultura, le tribù europee non erano nella stessa situazione. Il tentativo di rinnegare il proprio modus e di assorbire quello ellenico-cattolico provocò l’odio verso il cristianesimo, di cui parla Freud.
L’odio verso gli ebrei è di ben altra natura.
Le tribù germaniche vedono negli ebrei il proprio alter ego tribale, e la vicinanza a questi fa scattare la molla di una fobia ben più feroce ed immediata, poiché mancano della mediazione apollinea, caratteristica della cultura occidentale.
Di fronte a una struttura mentale simile alla propria, ma mancanti della sublimazione e della trasfigurazione spirituale esperimentata dall’ebraismo durante i millenni, e mancanti della mediazione apollinea occidentale, che mitighi il confronto, si trovano senza difesa e senza soluzione.
Sull’affinità tra ebrei e tedeschi Nietzsche era stato il primo a puntare il dito:
Il capolavoro della prosa tedesca è perciò, ovviamente, il capolavoro del suo massimo predicatore: la Bibbia è stata fino ad oggi il miglior libro tedesco. In confronto alla Bibbia di Lutero quasi tutto il resto non è che “letteratura”- una cosa che non si è sviluppata in Germania e che perciò non poteva né può crescere nell’intimo dei cuori tedeschi come invece è accaduto per la Bibbia (Ibidem, par.247).
E ancora: "Solo nella musica di Handel risuonò il meglio dell’anima di Lutero e dei suoi affini, il grande tratto giudaico-eroico che creò l’intero movimento della Riforma” .
La traduzione di Lutero è quella che meglio rende lo spirito tribale e arcaico delle antiche saghe ebraiche. Il popolo che aveva cacciato i “padri” e rintrodotto i “pastori”, come Abramo, Isacco e Giacobbe, sentirono che la Bibbia di un popolo di nomadi meglio li riallacciava alle proprie radici, piuttosto che l’ambiente soffuso di quiete pastorale della campagna romana di Tibullo, Ovidio, Orazio o alla visione del mondo aulica di un Cicerone, un Tacito e ancor di più di un Seneca e della letteratura sofisticata e decadente del tardo ellenismo, che per i tedeschi, secondo Nietzsche, non potevano altro, nella sua sottilissima ironia, che essere definite in senso dispregiativo  “letteratura”.
L’Azione e l’atto eroico biblici, le espressioni crude e condensate del Vecchio Testamento, vengono rese in tedesco meglio che in qualsiasi altra lingua occidentale. Lo stesso per quello che riguarda l’associazione Handel, Lutero-Riforma e tratto giudaico eroico.
Hitler stesso, in uno dei momenti di lucidità indotti dalle sue allucinazioni schizzoidi parlava di una strana “consanguinita” tra ariani e ebrei (I due lati opposti del suo cervello scisso): “Non sembra anche a voi che l’ebreo sia l’esatto opposto del tedesco in ogni aspetto, e pur sempre così a lui affine come un fratello di sangue?…Così affine e così diverso!”(G.Victor, Hitler: The Patology of Evil, Brassey’s, Washington 1998, p.144)
Nientedimeno che fratelli di sangue, il più saldo legame che possa esistere tra i membri della stessa tribù! L’associazione tra tribù, patto di sangue, ebrei e tedeschi, dalla bocca stessa di colui che personificava la scissione della personalità psicotica dell’anima teutonica in una imago e il suo alter ego.
Ed ecco che in questa scissione razza superiore e razza inferiore diventano intercambiabili. I tedeschi non sapevano più quale fosse la loro identità e quale l’immagine riflessa nello specchio. Nietzsche fu paradossalmente scelto a ideologo del nazismo, lui che era l’uomo meno nazista e meno antisemita che abbia mai partorito la germanicità. Sembra quasi l’eco di Hitler quando dice: “E gli ebrei sono senza dubbio la razza più forte, più tenace e più pura che viva oggi in Europa; anche nelle condizioni più difficili essi sanno raggiungere il proprio intento (meglio forse che in condizioni favorevoli) (Al di là del bene e del male, Adelphi, Milano 1977, p.164. (le parentesi sono di Nietzsche) .
Basta cancellare la parole “ebrei” e mettere la parola “tedeschi”, e il gioco è fatto.
Hitler e Nietzsche stavano parlando della stessa cosa, solo non sapevano se attribuirla agli uni o agli altri. Una volta introdotto il parametro di “razza” e vista, guardando nello specchio, la propria immagine sublimata nella figura degli ebrei, tutto era pronto per l’allucinazione paranoica. L’equazione razza = sangue, tedeschi = ebrei, razza superiore = razza inferiore fu scissa in due poli opposti come Dio nel primo giorno della creazione scisse l’amalgamento primordiale, firmamento-acqua terra, in poli opposti: “Sia il firmamento in mezzo alle acque per separare le acque dalle acque” (Gn.1,6) in quelle che la Bibbia chiama acque che sono disopra dalle acque che sono disotto, e così creare l’ordine dal Caos. Il Caos era esattamente quello che albergava nella psiche teutonica, e solo separando acque da acque in due poli antitetici, tedeschi ed ebrei, il nazismo creò un ordine nuovo dove le cose diventino finalmente chiare, e una nuova pseudo-lucidità rimuova il dis-ordine mentale che rischiava di provocare il crollo psicotico
L’affinità che lega tedeschi ed ebrei è molto maggiore, in un certo verso, della diversità. Si dice che la filosofia sia tedesca, come l’elaborazione mentale e il rimuginamento talmudico sono ebraici. Entrambi condividono l’avversione iconoclastica per le immagini, il plasticismo e le arti figurative., al punto che Calvino si scagliò veementemente contro l’uso cattolico di adorare le immagini (http://www.ccel.org/c/calvin/commentaries/work/0process-olb/BL_INSV5a.html). Entrambi eccellono nella musica, che è la forma di espressione non-mediata, che risucchia direttamente dagli strati dionisiaci della psiche. La differenza consiste nel fatto che i tedeschi non sperimentarono millenni di sublimazione e di trasfigurazione, come gli ebrei. Inoltre la cultura tedesca, con la sua filosofia e la sua musica rimase il retaggio di pochi, e non fece mai da comun denominatore per la sublimazione di un’intera nazione. Questo li ha lasciati privi della capacità di riempire di contenuti spirituali sublimati il vas del modus mentale tribale, in cui si trovano. A contatto con la cultura greco - romana si trovarono sopraffatti e nell’impossibilità di contrapporre una cultura alternativa soddisfacente, che succhiasse dalle radici del proprio modus mentale.
Il risultato fu l’odio e l’invidia per la cultura classica, diversa, irraggiungibile ed inassorbibile, da una parte, e una fobia per gli ebrei, che ricordavano loro, con la loro presenza, il proprio modus mentale tribale. La sublimazione e la spiritualizzazione che gli ebrei avevano fatto delle proprie radici tribali, non poteva che aumentare l’odio e l’invidia per questi.
Se l’Occidente aveva trovato la sua espressione nell’arte plastica e nell’edificazione di grandi cattedrali, e il proprio sfogo pulsionale in quello che si tocca, si vede e si costruisce con le proprie mani, gli ebrei avevano trovato la sublimazione dei propri contenuti mentali nello studio delle Scritture e nell’edificazione di elaborazione mentali super sofisticate. Il Talmud è per gli ebrei quello che le cattedrali sono per i cattolici.
Le tribù germaniche, nell’impossibilità di sublimare il proprio, cercarono di copiare quello degli altri, in questo caso le forme di espressione della cultura classica, di cui cercano, inutilmente di fare parte.
Ma l’idea platonica del bello non poteva coabitare nella psiche teutonica insieme a contenuti ben diversi: quale differenza tra le Vergini dipinte dagli artisti fiorentini e quelle raffigurate nelle chiese d’oltralpe, tra il Cristo nudo del Brunelleschi o di Michelangelo e quello che si contorce sulle croci tedesche.
Per questo motivo il Rinascimento non riuscì mai a valicare le Alpi. Solo in periodi di rigurgiti dionisiaci in Italia, con la loro espressione coloristica, come durante il periodo gotico e quello barocco, le tribù europee poterono trovare un’espressione artistica comune a quella del mondo apollineo, forse proprio perché era quest’ultimo che, in periodi di crisi, si lasciava ispirare dal contatto con le tribù d’Oltralpe.
Al di là delle Alpi non tentarono mai di costruire un palazzo Strozzi e neppure un S. Lorenzo fiorentino. Quattro secoli prima un’Europa ancora reminiscente della romanità aveva potuto assorbire e interpretare le volte a botta e i possenti muri delle cattedrali romaniche, ma la seconda più articolata ondata di fusione tra grecità e romanità, condita di un pizzico di dionisismo etrusco, rappresentati dal Rinascimento, era abortita in Val Padana: le cattedrali spagnole, francesi e soprattutto tedesche continuarono a riprodurre in pietra le foreste in cui scorrazzavano gli antichi goti, galli e germani.
Quindi vediamo che, se l’odio del mondo cattolico occidentale per gli ebrei è l’odio per il diverso, l’odio di questi “battezzati male” è, dunque, l’odio per il simile.
Come abbiamo potuto, purtroppo, constatare, quest’odio si è rivelato molto più immediato e feroce.
Lutero, che mise in atto la rottura con il mondo apollineo, fu anche colui che si scagliò con rinnovata foga contro gli ebrei.
Il motivo ci è ora chiaro: prendendo atto dell’inevitabile secessione dal mondo culturale greco-romano, si trovò a contatto ancora più immediato con il proprio modus tribale semi-represso, e la visione del proprio alter ego, nella figura degli ebrei, gli diventava, così, ancora più insopportabile.
Se all’inizio, percependo questa affinità ebraico-tedesca, Lutero aveva riposto in questa le sue speranze che gli ebrei avrebbero subito accettato la sua nuova versione dionisaco-tribale del cristianesimo, quando questi invece la rifiutarono si sentì tradito.
“Come? Mi era chiaro che una tribù di fratelli, come lo siamo noi, non avesse accettato il papismo cattolico, ma ora che vi propongo la “vera” versione del Redentore, osate ancora rifiutarla?!”
Così aveva scritto Lutero nel 1543:
Gli ebrei sono parenti di sangue [rieccoci al patto di sangue tribale] del nostro Signore; se fosse solo una questione di carne e di sangue, gli ebrei apparterebbero a Cristo più di noi. Ti prego perciò mio caro papista, quando ti stancherai di abusarmi come eretico, comincia a calunniarmi in quanto ebreo (Lutero, Opere, The Christian in Society, Philadelhia: Fortress Press, 1971, Vol.47, p.268)
È interessante notare che Maometto, novecento anni prima, si era atteggiato nella stessa maniera. Era sicuro che gli ebrei, percepiti con una struttura mentale simile a quella araba “pura”, fossero i più adatti di tutti ad accogliere il suo messaggio. Quando questi si rifiutarono, l’amore si trasformò in odio e le tribù ebraiche furono cacciate dalla penisola arabica . Così si esprime Lutero dopo aver capito che, dionisiaco o no, gli ebrei non avrebbero accettato il suo messaggio, come non avevano accettato quello di Maometto e di Paolo prima di lui :
Quindi, non deve essere considerata cosa da poco ma bensì della massima serietà cercare un modo (di agire contro di loro) e salvare le nostre anime dagli ebrei, ovvero dal diavolo e dalla morte eterna[…]Cosa dobbiamo fare noi cristiani con questo popolo reietto e condannato, gli ebrei? Dal momento che vivono tra di noi, non possiamo tollerare la loro condotta, ora che abbiamo capito le loro menzogne e la loro blasfemia. Così noi non dobbiamo estinguere la fiamma dell’ira divina, di cui parlano i profeti e nemmeno possiamo convertire gli ebrei. Con la preghiera e il timor di Dio dobbiamo adoperare misericordia per vedere se possiamo salvare almeno alcuni dalle fiamme. Noi non osiamo vendicarci. Una vendetta mille volte peggiore di quella che possiamo loro augurare li tiene già per la gola. Vi darò il mio consiglio: prima di tutto appiccate il fuoco alle loro sinagoghe e scuole e ricoprite di terra qualsiasi cosa non arda, così che nessuno veda più una pietra di esse. Questo deve essere fatto in onore di nostro Signore e della Cristianità, così che Dio possa vedere che noi siamo cristiani (sic!) e non condoniamo né tolleriamo simili pubbliche menzogne, maledizioni e blasfemie di Suo Figlio e dei suoi Cristiani. Poiché quello che abbiamo tollerato in ignoranza nel passato, e io stesso non ne ero consapevole, ci verrà perdonato da Dio. Ma se, ora che ne siamo informati, dovessimo proteggere e permettere una casa simile per gli ebrei, come esistono ora davanti al nostro naso, nelle quali mentono, blasfemano, maledicono, villipendiano e diffamano Cristo e noi, sarebbe lo stesso che se noi stessi facessimo queste cose e , ancora peggio.
Secondo, consiglio che anche le loro case siano rase al suolo e distrutte. Poiché essi conseguono in queste gli stessi propositi che nelle loro sinagoghe. Invece di case posano venire alloggiati sotto un tetto o nei fienili, come gli zingari.  Ciò farà loro capire che non sono i nostri padroni nel nostro stesso paese, come si vantano, bensì vivono in esilio e in prigionia, come essi stessi piangono e si lamentano di noi davanti a Dio.
Terzo, consiglio che vengano privati di tutti i libri di preghiera e scritti talmudici, in cui vengono insegnate simili idolatria, menzogne, maledizioni e blasfemie[…]
Quarto, consiglio che ai loro rabbini venga proibito di insegnare sotto la pena di morte[…]
Quinto, consiglio che vengano privati di qualsiasi salvacondotto e che non possano girare per le strade[…]
Sesto, consiglio che venga proibito loro di esercitare l’usura e che vengano deprivati dei loro tesori di oro e argento[…]poiché tutto quello che posseggono lo hanno rubato a noi.[...]
Settimo, comando di mettere loro in mano una vanga, una zappa e un piccone e che comincino a guadagnarsi il pane con il sudore della fronte come è stato comandato ad Adamo[…] (Lutero, ibidem, pp.269 - 93; Cfr. The Jews and Their Lies).
Vediamo come Lutero, dopo aver flirtato con gli ebrei, in quanto fratelli di sangue e alleati naturali contro il cattolocesimo, si vendica di loro come un amante tradito.
Quando Lutero mise in atto la sua riforma, con l’intenzione di tornare alle radici bibliche del cristianesimo, caduto il paravento apollineo che separava il nuovo cristianesimo dall’ebraismo, l’affinità emerse in molte manifestazioni, e Lutero constatò con suo sgomento che molti protestanti cominciavano a interpretare il riposo domenicale, come gli ebrei interpretavano quello sabbatico. Alcune sette protestanti come i Sabbatari di Carlstad e gli Anabattisti avevano cominciato anche loro a celebrare la domenica come giorno di inazione assoluta ed ecco dinuovo che si riaccende l’orrore fobico di Lutero, che dovette intervenire decisamente per impedire quella che gli pareva una giudaizazzione della Domenica . Non solo non era riuscito a convincere gli ebrei a diventare protestanti, bensi rischiava di vedere i suoi nuovi cristiani diventare ebrei.
Quindi, contrariamente a quello che dice Freud, l’odio dei tedeschi per il cattolicesimo (e non per il cristianesimo) e per l’ebraismo, anche se concomitante, è di natura completamente diversa.
Quando Freud dice che l’antisemitismo del nazionalsocialismo tedesco ha le sue radici nell’odio dei popoli germanici verso il cristianesimo, poiché considerano l’ebraismo l’origine di questo, è completamente fuori strada: la prova è che Hitler mando’ nelle camere a gas non solo gli ebrei, ma anche gli zingari , riallacciandosi all’associazione ebrei-zingari, già proposta da Lutero.
L’odio nazista per gli zingari è ancora più inspiegabile, poiché, tra tutti i popoli europei, questi sono proprio quelli dalla “razza ariana” più pura: emigrati dal subcontinente indiano all’inizio del secondo millennio della nostra era, questi sono gli unici veri ariani d’Europa, in quanto non si mescolarono con le popolazioni locali.
Così facendo, i nazisti tradirono la vera ragione del loro antisemitismo. Infatti, il loro odio per gli zingari può essere spiegato solo dal fatto che costoro conservano completamente una struttura sociale e mentale tribale, patriarcale, e sono rimasti seminomadi: ultima genuina tribù ariana. Quello che turbava i nazisti non era dunque un problema “di razza”, bensì un problema di struttura mentale: essi non potevano sopportare la vicinanza di un qualsiasi popolo che fosse rimasto strutturato secondo un tipo di fedeltà basata sul sangue, fosse questa reale (? non è il termine più adatto), come per gli zingari, oppure idealizzata e sublimata come per gli ebrei.
La loro vicinanza innescava una riattivazione del proprio alter ego rimosso, e ciò proprio perché, e anzi, a maggior ragione, il messaggio nazionalsocialista parlava, in realtà, di superiorità tribale: i nazisti volevano essere l’unica tribù del mondo.
Parlando di superiorità di razza, i nazisti intendevano superiorità della propria tribù su tutte le altre: Ein Volk, Ein Reich, Ein Fhurer, significa: un’unica tribù, che comanda da sola, con un unico capo, caporione dell’unica orda dei fratelli.
Se questo non fosse stato l’autentico significato del messaggio, parlare di razza sarebbe risultato grottesco persino per i tedeschi: tutti i gerarchi del Terzo Reich erano infatti l’esatto contrario del cosiddetto ideale ariano: brutti, piccoli, con occhi e capelli scuri: Hitler stesso, Heidrich, Rosenberg, Himmler, Heichmann,  erano tutti la caricatura del proprio ideale. Se l’inconscio collettivo tedesco non avesse percepito il vero messaggio, quando Hitler parlava di razza superiore le maestose adunate naziste sarebbero finite in una risata generale. Ma Hitler era un maestro di retorica, e sapeva benissimo che la sua fotografia stessa avrebbe potuto essere pubblicata come una caricatura antisemita, visto che poteva assomigliare di più a uno stereotipo da propaganda antisemita che a un dio vichingo. Charlie Chaplin si accorse di questa curiosa contraddizione, e nel suo film “Il grande dittatore” diede lo stesso volto sia al barbiere ebreo che al folle dittatore nazista Adenoid Hinkel, ridicolizzando quest’ultimo.
Il messaggio, al di là della rappresentazione, passava direttamente da inconscio a inconscio, e questo messaggio era: “io sarò il vostro capo, e sotto la mia guida elimineremo tutte le altre tribù. Alla fine il nostro sangue sarà quello che prevarrà.” Quando parlava di sangue tedesco, anche se apparentemente ne faceva una questione di patrimonio genetico, intendeva inconsciamente sangue ideale, ovvero organizzazione sociale, l’orda dei fratelli coalizzata sotto la guida del loro Primo tra i Pari.
La ribellione contro la figura del padre, nella traduzione di ogni rito iniziatico tribale, può essere consumata solo con l’uccisione di un membro di un’altra tribù, come meccanismo di canalizzazione dell’aggressività dall’interno verso l’esterno, verso gli stranieri, e per i primitivi gli stranieri sono i membri delle tribù vicine . Questo è il vero motivo per il quale nelle camere a gas gli ebrei si trovarono insieme agli zingari.

Italiani e tedeschi

A questo punto comincia a diventare chiaro anche un altro fenomeno che finora era rimasto oscuro, ovvero come mai in Italia, a differenza della Germania, l’antisemitismo non sia mai esploso in maniera feroce e virulenta.
In questi ultimi due secoli italiani e tedeschi avevano condiviso la condizione di nazione spezzettata e suddivisa in tanti piccoli staterelli, ed erano rimasti gli unici popoli d’Europa che non godevano di una sovranità nazionale comune.
A differenza della Francia, la Spagna, la Russia e l’Inghilterra, non erano riuniti sotto il tetto di un monismo politico che rispecchiasse la percezione di unità nazionale e di conseguenza, quando le scorribande napoleoniche per l’Europa portarono ovunque le nuove idee di libertà, uguaglianza e fraternità, queste, in Italia e in Germania, si fusero con aspirazioni irridentiste. Ma mentre le aspirazioni irredentistiche italiane, permeate dal nuovo spirito di uguaglianza, permisero agli ebrei emancipati di partecipare pienamente al movimento di liberazione nazionale, e non respinsero i propri ebrei bensì li integrarono, il nuovo nazionalismo tedesco sostituì il vecchio antisemitismo oscurantista cristiano-luterano con un antisemitismo di stampo romantico, irridente e razziale ancora più feroce. Per i giovani tedeschi che si ribellavano alle vecchie istituzioni, libertà e razzismo erano un’unica proposizione.
All’appuntamento con l’illuminismo settecentesco ebrei e tedeschi erano arrivati con intenzioni completamente diverse: gli ebrei percepivano la propria affinità esistenziale ai loro vicini e traevano da questa percezione più che la speranza, diremmo quasi la certezza che, smantellato dalle nuove idee l’antico antisemitismo clericale e oscurantista, e sostituito il vecchio ordine sociale di un’aristocrazia agraria abituata da sempre all’immobilismo con quello nuovo dell’emergente borghesia cittadina dinamica e vivace, sarebbero cadute anche le barriere che impedivano loro una completa integrazione (Riccardo Calimani, I Destini e le Avventure dell’Intellettuale Ebreo, Mondadori, Milano 1996, p.332).
Gli ebrei vedevano nell’antisemitismo tedesco “un equivoco” mantenuto in vita solo dalla superstizione clericale in combutta con la rigidità sociale della vecchia aristocrazia. Restituita “la ragione”, la naturale affinità tra tedeschi ed ebrei avrebbe dovuto emergere per forza. Heinrich Heine, il poeta ebreo che Freud definirà il suo coirreligionario (S.Freud, “L’avvenire di un’illusione”, in op.cit., Vol.X, p.479. Heine a sua volta, con lo stesso motto di spirito, aveva definito Spinoza) , scrisse che per lui la Germania era “ciò che l’acqua è per il pesce” e si considerava “un archivio di sentimenti tedeschi” (R.Calimani, ibidem). Nietzsche disse di lui:

Il più alto concetto del poeta lirico me l’ha dato Heinrich Heine. Cerco invano per tutti i millenni una musica altrettanto dolce e appassionata. Egli possiede quella divina cattiveria senza la quale io non riesco a figurarmi la perfezione - io giudico il valore degli uomini e delle razze a seconda del rigore che dimostrano nel tenere Dio indiviso dal satiro - e come sa trattare la lingua tedesca! Un giorno si dirà che Heine e io siamo stati di gran lunga I primi virtuosi della lingua tedesca (Ecce Homo, par.4).
 Per Gabriel Riesser, il primo ebreo eletto al parlamento tedesco, la Germania era “come l’orientamento dei miei sentimenti e dei miei pensieri, la lingua che parlo, l’aria che respiro” . Walter Benjamin, uno degli intellettuali ebrei più spiccati tra le due guerre scrisse: “ebreo e tedesco sono faccia a faccia come due estremi affini” (R.Calimani, ibidem).
In nessun posto come in Germania vi fu mai una così totale disponibilità degli ebrei ad assimilarsi alla cultura tedesca al punto da essere pronti quasi a qualsiasi rinuncia a detrimento della loro identità ebraica pur di venire considerati tedeschi. Molti ebrei erano pronti a introdurre l’usanza di recitare le preghiere in tedesco e al massimo si arrivò quando uno dei più importanti esponenti dell’ebraismo illuminista D. Friedlander  propose nel 1799 persino il battesimo alla religione protestante come estrema misura allo scopo di una completa integrazione, e quello che è più paradossale, senza vedervi una rinnegazione dell’ebraismo bensì solo una sua integrazione nell’habitat culturale tedesco .
A tal punto percepivano la comunanza tra ebraismo e germanesimo da poter confondere l’uno con l’altro senza sentire di rinnegare la propria identità ebraica.
Kant e Hegel avevano dovuto ammettere che, “anche se non se lo meritavano”, agli ebrei spettavano esattamente gli stessi diritti come agli altri. La condizione era, naturalmente, che si assimilassero ai loro vicini, e questo era esattamente il tipo di invito che gli ebrei tedeschi si aspettavano e lo accolsero a braccia aperte, solo per sentirsi nuovamente respinti da nuove ondate di antisemitismo, questa volta romantico, irridente, razzista e xenofobo.
Fin dalla metà del settecento ogni aspirazione degli ebrei tedeschi all’assimilazione era stata frustrata (R.Calimani, op.cit., p.346). Legislazioni a favore dell’emancipazione ebraica furono promulgate solo per essere susseguentemente ritrattate. I contraccolpi causati dalla sconfitta della Francia Napoleonica e la Restaurazione fecero sentire i loro effetti sulla appena nata emancipazione ebraica. Il nuovo assetto scaturito dal Congresso di Vienna non dette luogo a scenari omogenei. Gli ebrei di Amburgo e Francoforte si trovarono privati di tutti i diritti acquisiti e in tutta la Germania meridionale la loro condizione divenne più difficile. Solamente a Weimar, in Wurttenberg e nell’Assia, nonostante la Restaurazione furono prese misure emancipatrici. Nel giro di pochi anni tutte le speranze riposte nell’Illuminismo si svuotarono di contenuto. Ed ecco che già dai primi anni dell’Ottocento in concomitanza ai primi spasimi di Romanticismo, si cominciò già a parlare di razza. Herder scrisse: “Alla base della storia degli ebrei va individuata un’eredità di razza inalienabile che ha trasformato questo gruppo in un popolo asiatico in Europa”(Calimani, in op.cit. p.348). In un pamphlet apparso anonimo a Berlino nel 1803: “Contro gli ebrei” si legge:
Gli ebrei professano una religione finita e meritano lo stesso trattamento che si deve riservare agli zingari [sic! a proposito di zingari], che puzzano ed emanano un gas particolare [sic! A proposito di gas], possono mangiar lardo di Sabato per distinguersi dagli altri ma restano indistinguibili. Peggio di quelli che indossano il caffettano nero (Ibidem, p.353).
Nel 1812 Federico Guglielmo emise un editto che assicurò agli ebrei di Prussia la parità di diritti, ma ciò malgrado, dopo il 1815 il mondo ebraico fu costretto a vivere una rinnovata condizione di discriminazione: borghesi e nobili si schierarono contro gli ebrei e questi diritti furono aboliti. Nel 1819 a Berlino scoppiò un vero e proprio pogrom anti-ebraico che culminò in scorribande e atti di violenza al grido di Hep, Hep! (Hierosolyma perdita est). In Germania, al contrario dell’Italia, ogni ondata di irredentismo nazionalista fu accompagnato da un’ondata parallela di antisemitismo. Il motivo è chiaro: come i tedeschi cercavano di forgiare una nuova autoidentità, si sentivano automaticamente minacciati dalla vicinanza di un’identità ebraica, minacciosa proprio perché affine.
In Italia, invece, il Romanticismo dell’Ottocento si riallacciava agli ideali apollinei: patria, stato, democrazia, uguaglianza tra tutti i cittadini che convivono entro le mura della polis.  La musica di Verdi risvegliava la “speranza nei petti” di riedificare “di Sionne le torri atterrite”, parlava di libertà e di indipendenza, a differenza di quella di Wagner che risvegliava oscure associazioni di “sangue tedesco” e di eroi immolati in un’estrema orgia liberatoria.
In Italia scrivevano sui muri: W  V.E.R.D.I. (Vittorio Emanuele Re d’Italia): la figura del Padre si identificava con quello di un’unica patria italiana entro i propri confini naturali al di qua delle Alpi.
In Germania il romanticismo fu associato invece non all’emancipazione e all’uguaglianza tra tutti i cittadini, ovvero all’idea di sovranità e legalità, bensì a una tenebrosa passione e fedeltà al sangue comune, come ancora ai giorni nostri, nelle tribù selvagge, la coesione del clan viene cementata dal patto di sangue che i giovani iniziati stringono tra di loro. In questi riti viene letteralmente sparso il sangue comune, attraverso la circoncisione o attraverso un sanguinario rito parallelo, e questo cementa la coesione tra l’orda dei fratelli. Spargono il sangue comune e poi, a coronamento del rito, i giovani vengono mandati in missione a spargere quello di un nemico, appartenente a una tribù vicina. Come tribù vicina, il cui sangue debba essere sparso, furono additati gli ebrei. La musica di Wagner era ben diversa da quella di Verdi: non senso di giustizia e libertà dal giogo straniero, bensì superiorità xenofoba, coesione e ribellione dell’orda sotto la guida dell’Eroe, il primo tra i pari, ed espulsione di qualsiasi elemento percepito come estraneo all’omogeneità della tribù.
Ed ecco che gli italiani, quando ascoltavano il “Va’ pensiero” di Verdi, non avevano nessuna difficoltà ad identificare l’anelito alla libertà degli antichi ebrei sui fiumi di Babilonia con il proprio. Il Risorgimento, riallacciandosi agli antichi ideali apollinei di uguaglianza e libertà entro le mura di cinta di una polis comune, superava, come l’antico stato greco e dopo quello romano, i concetti di fedeltà al clan: l’ideale era dinuovo la patria e non il sangue comune, come stava accadendo invece al di là delle Alpi. Il feroce antisemitismo di Wagner non ebbe così alcun riscontro entro i confini della patria italiana.
È importante focalizzare questo punto.
Gli studenti tedeschi associavano gli ebrei ai propri oppressori e gridavano nelle università: “Hep, Hep” (Hierosolyma perduta est), ovvero prendevano in prestito il grido di guerra dei romani all’attacco di Gerusalemme per dirigerlo sulla tribù vicina, senza rendersi conto dell’abissale differenza tra un imperium romanum che si sentiva costretto a sottomettere un popolo particolarista e ostile, e un germanismo xenofobo che ne faceva una questione  razziale. I contenuti di questa passione erano ben diversi da quella apollinea. Infatti il suo vero significato era: “Anche se avete adottato completamente la cultura tedesca e anzi siete riusciti a eccellere in questa, noi vi consideriamo eterni nemici poiché appartenete a un’altra tribù, che nel linguaggio si tradusse: “a un’altra razza”.
Gli studenti irridenti italiani cantavano il “va pensiero” e associavano l’anelito ebraico alla libertà al proprio. Ed ecco che il romanticismo, l’apologia dell’irrazionale, in Italia, riallacciandosi agli strati della psiche del proprio Erlebniss subconscio, creando un nuovo senso di coesione tra i cittadini  sotto il tetto dell’ideale comune, fu anche la formula che permise agli italiani di superare il vecchio antisemitismo oscurantista della Chiesa. Mazzini il liberale, Garibaldi il rivoluzionario “socialista”, e un Cavour conservatore e illuminato che, se anche non avrà detto in punto di morte “libera Chiesa in libero Stato” lo avrà però certamente pensato, ri-instituirono l’ideale di democrazia per tutti in una patria comune. Per loro, come per la polis greca e lo stato romano che li avevano preceduti, l’ideale della patria e di una lingua comune (ovvero di una cultura nel senso di civilizzazione), erano al disopra di idee tribali e preistoriche di razza e di sangue. Durante tutto l’Ottocento l’unica stampa antisemita in Italia fu quella cattolica, che era anti- liberale e anti-italiana. Non a caso in un opuscolo antisemita apparso nel 1891 si legge:
Colla sinagoga trescava il Mazzini, i frutti del cui amori al Campidoglio di Roma non sono ignoti, colla sinagoga il Garibaldi, colla sinagoga il Cavour, colla sinagoga il De Pretis; ed umili servi della sinagoga sono stati molti di quei “grandi”, ai quali la dabbenaggine pubblica ha eretto ed erige lapidi, busti, e monumenti, per glorificarne l’amore alla “libertà” e alla “patria” (“Della questione giudaica in Europa”, Prato 1891, p.60.) .
Quindi anche gli antisemiti associavano gli ebrei con pattriottismo italiano e Risorgimento, anche se in senso denigrativo, confermandoci lo stretto legame tra ebrei e irridentismo. I nemici degli ebrei, in Italia, erano anche i nemici dello stato italiano: la Chiesa e gli elementi oscurantisti che rimpiangevano l’antico ordine.
Fino alle leggi razziali di Mussolini nel 1938, anche se esisteva un filo d’antisemitismo di stampo fascista nella stampa non ufficiale, che volta dopo volta veniva tenuta a freno proprio dal duce, i libelli antisemiti venivano quasi solo da parte clericale (Renzo De Felice, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, Enaudi, Torino 1993, pp. 27 sgg). Il Romanticismo italiano, riallacciandosi ai propri antichi ideali subconsci, si rivelò così più illuminato dell’Illuminismo che lo aveva preceduto.
In Germania l’aufgklarung  di Kant e di Hegel riuscirono a illuminare solo pochi metri al di là dei propri passi, e mentre al di là del Reno l’anticlericalismo volteriano era riuscito almeno a preparare la giustificazione ideologica della rivoluzione francese, in Germania, compiuti alcuni passi, adoperando molte parole, sulla scala del aufhebung  hegheliano, l’Illuminismo non fece altro che confermare e razionalizzare una visione luterana Cristo-centrica, che era l’unico ingrediente che ancora mancava alla miscela esplosiva del nazionalismo oscurantista tedesco.
Con i primi venti di Romanticismo, abbandonato qualsiasi tentativo di razionalizzare in chiave illuministica la propria essenza, al dunque, ognuno fu abbandonato alla realtà immanente della propria esperienza esistenziale subconscia: un Erlebniss apollineo per gli italiani e uno dionisiaco, tribale e tenebroso per i tedeschi.
In Italia si creoò subito un’identità tra irredentismo ed emancipazione. Carlo Alberto che si autoproclamò a paladino della causa dell’unione italiana fu anche tra i primi sovrani d’Europa che diede ai suoi sudditi ebrei la piena uguaglianza di diritti, e questa non fu mai revocata nel Regno di Sardegna e poi d’Italia, fino alle famigerate, dissonanti, leggi razziali di Mussolini (Gina Formiggini, Stella d’Italia stella di David, Ugo Mursia Editore, Milano 1970, pp.19 sgg.). A Trieste, dove gli ebrei rappresentavano la più alta concentrazione in una citta’ italiana, il 2% contro la media nazionale del 0.13% (De Felice, ibidem, p.13), presero subito le parti dell’irridentismo italiano: il tedesco era la lingua di Stato, lo slavo la lingua del popolo e dei contadini dell’entroterra, l’italiano la lingua degli irredentisti e molto spesso degli ebrei, che la sceglievano, da qualunque parte provenissero, forse per reazione all’antisemitismo di marca austriaca (R.Calimani, op.cit. p.298).
Alla spedizione dei Mille parteciparono numerosi ebrei, molti di piu’ della loro proporzione numerica nella popolazione generale, e nella guerra de 1859 tra i dodicimila arruolati, si contavano quattrocento ebrei (G.Formiggini, op.cit., p.30).
 

Fascismo e nazionalsocialismo

Non solo non mancarono neppure gli ebrei fascisti, ma questi aiutarono nel finanziamento dei primi gruppi fascisti e del “Il Popolo d’Italia”, che diventò uno dei giornali del partito, ed ebbero parte attiva nelle squadre di Italo Balbo (R.De Felice, ibidem, p.73). Tra i partecipanti alla fondazione dei fasci di combattimento a Milano, il 23 Marzo 1919, i famosi sansepolcristi, ci furono certamente almeno cinque ebrei, e tre ebrei figurano nel matirologio ufficiale della “rivoluzione fascista” (Ibidem) . Duecentotrenta ebrei  parteciparono alla marcia su Roma (Ibidem). A differenza dei loro correligionari tedeschi, che furono sempre frustrati nel disperato tentativo di partecipare agli eventi, al di qua delle Alpi ebraismo e patriottismo fu una formula che funzionò alla perfezione.
Gli ebrei della penisola, oltre all’autoidentificazione assoluta con gli interessi dello Stato italiano, ispirata e messa in atto dal processo storico per il quale le aspirazioni irredentistiche e liberiste avevano combaciato ed erano in simbiosi con le proprie, avevano anche assorbito il fascino della cultura apollinea circostante. Pur mantenendo la propria identità particolare di fondo, che trovava espressione nell’eco di un lontano passato comune e l’orgoglio di appartenere a un elite intellettuale e spirituale, gli ebrei erano orgogliosi anche di essere italiani e di avere legato il proprio destino a quello della nazione. Pur ricordando la Gerusalemme terrestre e l’antica particolarietà nazionale, si sentivano fortunati di essere stati trapiantati proprio nella terra che aveva dato quei doni che li circondavano: Virgilio, Dante, il Petrarca, Giotto, Brunelleschi, Michelangelo, Leonardo e così via, fusi nell’aria di tolleranza e di libertà che emanavano da quando gli italiani erano riusciti a prendere nelle proprie mani la propria sorte. Se già doveva esserci un esilio, questo era quello giusto. La Gerusalemme dei cieli per loro era proprio l’Italia.
Il messaggio apollineo di sublimazione, la sua ebbrezza, per ricalcare l’espressione Nietzscheana,  non poteva non essere penetrato nella ricettiva psiche ebraica.
Quando Musolini, nel patetico tentativo di mimare Hitler, introdusse nel 1938 le leggi razziali, alcuni gerarchi fascisti, tra cui Italo Balbo (De Felice, ibidem, p.241)  lo sconsigliarono in proposito, facendogli notare che non pochi “camerati” erano ebrei, e mal si addiceva l’idea di razza allo spirito del popolo italiano. Il Duce infatti comunicava con il popolo italiano parlando di Patria e di supremazia dello Stato: quando cominciò a parlare di razza introdusse una stonatura stridente e in realtà gli italiani, pur ripetendo la parola come pappagalli, non riuscivano a capire che cosa intendesse. Infatti non lo sapeva nemmeno lui. Il nazionalismo del primo novecento, unito al romanticismo di stampo d’Annunziano e al futurismo di un Marinetti aveva parlato di “razza italiana” ma intendeva una carica tutta spirituale che trascendeva ogni biologia delle razze (Ibidem, pp.28 -- 31). Quando Mussolini dopo il 1938 cercò di riallacciarsi a questi precedenti per giustificare la sua politica, dovette travisarne completamente i significati originali, poiché questi non erano mai stati usati in un contesto specificatamente italiano, come antisemitismo.
La cultura italiana, permeata di monismo apollineo, si trascinava dietro, negli strati più profondi della psiche, l’antico antisemitismo ellenico-romano, così fedelmente descritto da Tacito, che si esprimeva da sempre come antipatia e disgusto per il diverso, ma era estranea a qualsiasi idea di supremazia razziale o tribale. Se gli ebrei dimostravano di essere come gli altri, agli italiani andava bene così.
I romani, dopo aver esteso la pax romana a tutta l’ecumene ellenista riunificata, accordavano facilmente la cittadinanza romana senza curarsi dell’estrazione etnica del cittadino. Per loro l’unificazione era politica e culturale, sotto la sovranità dello Stato. Questo era anche l’unico parametro che li riguardasse. La loro intolleranza per la Giudea turbolenta e iconoclasta derivava dal fatto che lì non erano pronti ad accettare questi parametri. Rifiutarsi di mettere la statua di Caligola nel tempio di Gerusalemme era considerata ribellione politica. Paolo di Tarso, ebreo e fariseo, era anche un rispettato cittadino romano. Come ci raccontano gli Atti degli Apostoli un centurione non osava flagellarlo e lo stesso tribuno era terrorizzato dal aver messo un cittadino romano in catene (22, 25-9), malgrado fosse ebreo. Paolo, il vero fondatore del cristianesimo, si vantava di essere cittadino romano, ovvero di appartenere alla cultura ecumenica greco-romana, e solo a questa infatti era diretto il suo messaggio, e solo questa lo assorbì pienamente: un messaggio monista ed ecumenico che corrispondeva a quello dell’ellenismo, ma tale solo in senso culturale, certamente né razziale e neppure nazionale.
L’italianità, che si riallaccia a questi strati della psiche, riflette un monismo apollineo che da una parte è la sua debolezza ma dall’altra, con la ricchezza della sua cultura, anche la sua forza, poiché attraverso di questa può mediare la fobia antisemita di stampo ellenista e farle da filtro. Proprio la percezione di un’identità comune, rafforzatasi dallo slancio patriottico, servì da strato di protezione contro l’emergere di sentimenti antisemiti.
Possiamo, con un ragionevole grado di sicurezza, sostenere che il Risorgimento fu il momento, in tutta la storia italiana, in cui l’antisemitismo sia stato sentito di meno, o forse sentito affatto. Proprio perché fu il momento in cui gli italiani si sentirono più a loro agio a contatto con la propria autoidentità. Gli ebrei italiani, quando furono emancipati e si dimostrarono disponibili ad assorbire la cultura apollinea che li circondava, non incontrarono, a differenza di loro correligionari tedeschi, resistenza alcuna. L’idea di Stato, di unità italiana, era pronta ad assorbire chiunque si dimostrasse disposto a far parte dei cittadini della polis: malgrado le invasioni barbariche di decine di secoli e la mescolanza di sangue che ne era conseguita, l’antico modus mentale greco-romano nella psiche italiana era rimasto quello prevalente.
Mussolini aveva bisogno della legittimazione della monarchia, poiché questa rappresentava la Patria: il re, la regina, i principi, come nelle fiabe, erano il simbolo della Sacra Famiglia, che in Occidente sta per legalità. La rivoluzione fascista non venne a sovvertire l’ordine costituito bensì a proteggerlo. La Patria era quella: il re, il tricolore con l’emblema sabaudo nel mezzo, e per rendere il quadro ancora più conciliante, il duce, con lungimirante perspicacia politica, con i Patti Lateranensi riuscì a portare anche la Chiesa sotto il tetto del consenso comune. Alla minaccia del bolscevismo fu contrapposto l’emblema di Dio e Patria. Come era già successo in tuta la storia occidentale da Pisistrato in poi, quando lo stato apollineo si sentiva minacciato da destabilizzazione, reagiva affidando il potere a uno dei cittadini che diventava così un tiranno. Quasi fino alla fine, certamente fino alla guerra, il regime rimase uno strumento nelle mani della vecchia classe dirigente
In Germania invece un imbianchino sovvertì tutto l’ordine sociale costituito e questo era proprio anche il suo principale appellativo sulle masse: Hitler era la figura dell’Eroe, il primo e il vicario dell’orda dei fratelli rivoltosi, mandato in missione contro lo Stato, simbolo del Padre e del potere. Infatti il fuhrer sostituì anche tutti i simboli del vecchio ordine: cambiò l’inno nazionale e la bandiera e istituì la svastica, come simbolo fallico comune a tutta l’orda.
Dopo essere salito al potere con il tacito consenso esitante dell’aristocrazia, della plutocrazia e con quello molto meno esitante della piccola e media borghesia, terrorizzate dallo spettro del bolscevismo, subentrò alle prime due e le accantonò, poiché il suo scopo era di sovvertire tutto il vecchio ordine sociale per poter perpetrare la sua rivoluzione: quella della supremazia della tribù dei fratelli sui propri padri e su tutte le tribù vicine. Quello che Freud aveva chiamato il piu’ piccolo dei fratelli, delegato dall’orda a commettere il parricidio, Lloyd deMause ha chiamato Phallic Leader:

The Phallic Leader, like a shaman, is adept at entering into trance states himself--Hitler often called himself "a sleepwalker." Political meetings are easily seen as altered states of consciousness. A journalist reports getting "caught in a mob of ten thousand hysterics who jammed the moat in front of Hitler's hotel shouting, ‘We want our Führer!' I was a little shocked at the faces, especially those of the women[...]They reminded me of the crazed expressions I saw once in the back country of Louisiana on the faces of some Holy Rollers[...]They looked up at him as if he were a Messiah, their faces transformed." Switching into their social alter gave them a shot of dopaminergic power, exactly the same as taking amphetamines, that made them feel merged with both the Phallic Leader and the group, the nation, the Volk. Fichte described this merging as he felt it take hold of him When I thought of the Volk and saw it, and when the great feeling of it gripped me,  [...]when a great crowd moves before me, when a band of warriors passes before me with flowing banners[...]I feel the indestructible life, the eternal spirit, and the eternal God[...]I am immediately freed from all sins. I am no longer a single suffering man, I am one with the Volk (Lloyd deMause, Childood an History, Creative Roots, New York 1998, cap.5)
Dopo centinaia di secoli di migrazioni di popoli nell’Eurasia e di movimenti di popoli praticamente incessanti all’interno dell’Europa parlare di purità di razza è altrettanto stolto che parlare di purità di vento, eppure sia Hitler che Mussolini parlarono di razza.
Hitler intendeva coesione tribale.
Mussolini coesione sotto il tetto della stessa patria.
Entrambi si riferivano a un concetto.
Il messaggio del fuhrer, quando additò gli ebrei, fu assorbito facilmente poiché questi appartenevano invero ad una tribù diversa.
Il messaggio del duce, quando tentò una pantomima del suo collega doltr’alpe diventò subito dissonante poiché gli ebrei italiani, anche se appartenevano a un popolo diverso, dal momento stesso che si dimostrarono pronti ad assorbire il modus mentale italiano, la loro appartenenza etnica diventò irrilevante. Com’era irrilevante per Roma l’etnia dei suoi cittadini. Quello che era rilevante era l’inserimento di tutti in una sfera culturale comune che si traduceva nell’accettanza della sovranità politica dello Stato.
Paolo stesso, rivolgendosi ai Romani, sapeva bene quale corda toccare:
Ciascuno stia sottomesso alle autorità costituite; poiché non c’è autorità se non da Dio e quelle che esistono sono stabilite da Dio quindi chi si oppone all’autorità si oppone all’ordine stabilito da Dio. E quelli che si oppongono si tireranno addosso la condanna. I governanti infatti non sono da temere quando si fa il bene ma solo quando si fa il male…perciò è necessario stare sottomessi, non solo per timore della punizione, ma anche per ragioni di coscienza (Lettera ai Romani 13,1-7) .
Ed ecco che il Dio di Paolo è parallelo alla divinità della sovranità dello Stato. Il suo Cristo è Apollo. Ai tedeschi, invece, poco importava se gli ebrei fossero fedeli alle leggi dello stato e cittadini esemplari, poiché poco importava loro dello Stato per se: il concetto di entità sovrana, al di sopra dell’identità del clan, non era infatti mai stato assorbito dalla psiche teutonica: per loro gli ebrei, membri di una tribù vicina, erano stranieri a priori. Le mura di cinta della polis, che rappresentavano nella società occidentale gli interessi comuni, non avevano per loro nessun significato. Il Cristo tedesco e luterano aveva conservato la sua natura dionisiaca e anti-apollinea. Era rimasto esclusivamente il dio-Figlio ribelle e non aveva passato la trasfigurazione in Dio-Padre. Hitler, il fuhrer sarà la sua incarnazione. La rivoluzione nazional-socialista non fu altro, sotto l’aspetto psicologico, che la continuazione, dopo quattro secoli, della Riforma di Lutero che si era scrollato dalle spalle l’autorità della Chiesa e del Santo Padre, madre e padre dello stato apollineo.
Il nazismo fu anticristiano nel senso che distillò il mito dalla sua sovrapposizione apollinea, come aveva già cominciato a fare Lutero, per restituirgli il contenuto più arcaico: quello del rito iniziatico tribale il cui apice è rappresentato dalla Crocifissione e la sofferenza dionisiaca.
Nella psiche tedesca, invece di risorgere come Apollo e simboleggiare il Bene = Stato = ordine morale (cfr. Le parole di Paolo nella Lettera ai Romani e le parole di Socrate nel Critone), il Cristo risorse nuovamente come ribelle e caporione dell’orda. Il nuovo Messia invece di riconciliarsi con il Padre, come nella versione cattolica del cristianesimo, risorge come capo dei ribelli, per sovvertire nuovamente l’ordine costituito e costituirne uno nuovo, dove prevalga esclusivamente la Legge dei figli, quella del dis-ordine. Il fuhrer è l’incarnazione di questo nuovo Messia. Ai suoi fratelli propone una nuova Legge, dove verrà permesso qualsiasi sfogo pulsionale. Quello che prima, nel compromesso cattolico di una collaborazione tra Figlio e Padre, era considerato proibito e immorale diventò non solo lecito, ma persino precetto. Da qui la connotazione di orgia e distruzione che emana da tutte le manifestazioni della nuova religione nazional-socialista; Come ha puntualizzato Reik, parlando della conciliazione finale tra padri e figli che è la coronazione del rito della pubertà iniziatico: “Senza la cooperazione attiva della generazione paterna la fondazione della moralità è impensabile” (T.Reik, Il rito religioso, Boringhieri, Torino 1949, p.164).
I nazisti introdussero una permissività sessuale, che era stata la grande fantasia dei fratelli dell’orda prima di commettere il primo parricidio, tutto era permesso purché questo avvenga in nome della fedeltà di sangue e al fuhrer. Il Comandamento “Non uccidere”, riacquistò il suo senso più arcaico: “Non uccidere coloro che appartengono alla tua stessa tribù”. Ma uccidine il più possibile degli altri . Il nuovo ordine = moralità non sarà l’equilibrio raggiunto attraverso la sottomissione alla sovranità dello Stato, bensì attraverso la fedeltà assoluta al capo dell’orda e alla sua guida indiscussa, intesi a sovvertire qualsiasi moralità. I nazisti giuravano sul corpo del fuhrer e il suo sangue, in quella che è una reinterpretazione dell’Eucarestia e così si identificavano con lui. Non più consustanzialità tra Padre e Figlio, bensì  dei  figli tra di loro e il capo, contro il padre. Il giudaesimo fu additato per la sua connotazione di religione assoluta ed esclusiva di fedeltà al Padre. Sotto questo aspetto l’Olocausto non fu che la ripetizione del parricidio primordiale.
I veri cristiani furono giustamente inorriditi dal sovvertimento di tutti i valori che il nazismo rappresentava, poiché si trovavano davanti a una nuova interpretazione del cristianesimo stesso che invalidava completamente quella vecchia: orgia pulsionale invece che inibizione e particolarità tribale invece che ecumenismo apollineo. La Chiesa si rivelò qui nel suo momento peggiore: un Papa debole e conformista, spaventato dalla minaccia bolscevica (R.De Felice, op.cit., pp.123-4),  non vide il vero pericolo che rappresentava questa nuova eresia, la più terrificante davanti alla quale si sia mai trovata la cristianità.
Il vero pericolo non veniva dall’ateismo marxista ma dal nuovo Anticristo, che se avesse avuto la meglio avrebbe non solo eradicato il giudaesimo, la religione del Padre, ma anche il cattolicesimo, la religione del compromesso della consustanzialità tra Padre e Figlio e della canalizzazione apollinea attraverso la sublimazione delle pulsioni proibite, per instaurare un regime di orda dei figli, amorale, dedita a uno sfogo pulsionale ininibito, dionisiaca solo nel senso più selvaggio di un’eterna orgia di morte e distruzione. Una tribù senza un Padre che ne inibisca i movimenti e senza un Figlio che sia pronto a prendere su di sé l’espiazione e la pena di tutti. L’eterno sbranamento di un Dioniso, senza soluzione alcuna.
Non era infatti alla conoscenza dionisiaca Nietzscheana a cui anelavano i nazisti, bensì solo alla volgarizazzione della componente distruttiva di quelle pulsioni, che nessuna civiltà umana può permettersi di lasciar emergere ininibite e non sublimate, pena l’annichilimento. Se Hitler avesse vinto la guerra, dopo gli ebrei e gli zingari, sarebbe venuto il turno dei cattolici e del loro Cristo apollineo. Se i nazisti avessero vinto la guerra avrebbero anche portato a termine l’opera che Lutero aveva lasciato a metà e sul trono di S. Pietro avrebbero messo il proprio totem tribale nella figura di un Cristo resuscitato nuovamente come il Dioniso torturato e sbranato che si agitava negli strati più tenebrosi della loro psiche.
Già era venuto anche il turno degli omosessuali, e tra i cinque e i diecimila furono internati e massacrati nei campi di concentramento. Dopo, un pò alla volta, sarebbe venuto il turno anche di tutti gli altri, dei negri e di quelli solo troppo abbronzati, di quelli mezzi biondi o mezzi neri, di quelli blu e di quelli verdi, di chiunque non assomigliasse abbastanza alla loro confusa imago interna o, ancora peggio, vi assomigliasse troppo, e fino a che si sarebbero sbranati a vicenda e auto-divorati in un’orgia finale di auto-cannibalismo.
Come ha enfatizzato Freud, senza rimorso e inibizione a ricommettere il parricidio cannibalistico non può esistere né società né moralità; i fratelli dell’orda abbandonati a sé stessi si sarebbero massacrati e auto-divorati a vicenda (S.Freud, “Totem e Tabù”, in op.cit, vol.VII, par.5.) .

Da odio a paranoia

Nei paragrafi precedenti abbiamo visto come l’odio teutonico per gli ebrei derivi dalla affinità-attrazione dei tedeschi per quelli che vengono percepiti come il proprio alter ego rimosso. Per adoperare un’anlogia presa dal campo della fisica diremmo che due particelle con cariche elettriche di segno uguale, quando interagiscono, sviluppano forze repulsive.
Nella psicologia del profondo il fenomeno è conosciuto come omofobia, ovvero quando l’attrazione inconscia scatena odio come meccanismo di difesa dalle proprie tendenze rimosse. Le bande di teppisti che assalgono gli omosessuali o i travestiti e li picchiano a sangue, senza nessun apparente motivo, lo fanno poiché sono terrorizzati dalle proprie pulsioni omosessuali inconsce e rimosse. Da una parte sono loro stessi a ricercarli e dall’altra, una volta trovati, li assalgono brutalmente. Così facendo creano una distanza tra sé stessi e le proprie tendenze rimosse e, nello stesso tempo, “puniscono” la parte di sé stessi che odiano e che proiettano nella figura delle vittime.
Chi non ha tendenze omosessuali inconsce del cui riemergere abbia timore, non nutre neppure odio o ribrezzo quando le incontra negli altri. Sotto la pressione di circostanze particolarmente gravose questo impasto di amore-odio può esplodere in paranoia.
Vediamo in cosa può aiutarci  Freud nella comprensione del fenomeno:

Saremmo inclini a sostenere che l’elemento paranoico della malattia è costituito dal fatto che per difendersi da una fantasia di desiderio omosessuale il paziente reagisce precisamente con un delirio di persecuzione di un certo tipo…I pazienti le cui storie cliniche fornirono il materiale della ricerca erano uomini e donne diversi per razza, professione e ceto sociale: in ciascuno di questi casi vedemmo con sorpresa come al centro del conflitto morboso fosse chiaramente riconoscibile una difesa contro un deiderio omosessuale e come nel tentativo di dominare la loro omosessualità inconsciamente rafforzata tutti avessero subito uno scacco (S.Freud, “Un Caso di paranoia”, in op.cit., vol.6, p.384).
Lo scacco di cui parla Freud, sarebbe il punto di rottura, l’apice della crisi dopo della quale l’odio si tramuta in delirio paranoico. Vediamo come si svolge il meccanismo:
Nel delirio di persecuzione in cui il paziente proclama con forza: “Io non l’amo-io l’odio” la contraddizione, che nell’inconscio non potrebbe suonare altrimenti, non può tuttavia divenire cosciente nel paranoico in questa forma. Il meccanismo di formazione del sintomo nella paranoia implica che la percezione interna, il sentimento, siano sostituiti da una percezione proveniente dall’esterno.
Cosicché la proposizione “Io l’odio” si trasforma grazie ad un meccanismo di proiezione nell’altra: “Egli mi odia (mi perseguita) e ciò mi autorizza a odiarlo”. In tal modo il sentimento inconscio propulsore si presenta come conseguenza di una percezione esterna:
“Io non l’amo- Io l’odio perché  egli mi perseguita”.
L’osservazione non consente in proposito dubbio alcuno: il persecutore altri non è se non l’amato di un tempo (Ibidem, p. 389. Il grassetto è di Freud).
Ed ecco che, un pò alla volta, comincia a diventarci chiaro come, sotto la pressione dello scacco sociale subito da un’intera nazione, rappresentato dalla sconfitta subita nella Grande Guerra, la miseria generale che la seguì, l’iperinflazione degli anni venti, e la percezione di un vicolo cieco per quello che riguarda il destino della nazione, l’antico odio-attrazione per gli ebrei trasformò un intero popolo in paranoici posseduti da delirio persecutorio. Infatti i nazisti non additarono gli ebrei solo come una razza inferiore, bensì li accusarono di essere i nemici del popolo tedesco, coloro che avevano pugnalato la patria nella schiena durante la guerra mondiale, con il loro tradimento ne avevano causato la sconfitta e con le loro subdole congiure impedivano ai tedeschi di perseguire il loro grande destino. Gli ebrei, secondo l’ideologia nazista, andavano sterminati in quanto erano loro i persecutori del germanesimo e fino che fosse rimasto in vita anche un solo ebreo nessun tedesco avrebbe potuto sentirsi al sicuro. L’Europa doveva diventare Judenrein , affinché la nazione tedesca potesse riemergere dalla polvere.
Ed ecco come un’affinità temuta e rimossa diventò vero e proprio delirio persecutorio. E l’odio paranoico non conosce compromessi. Chi ne soffre allucina di combattere per la propria stessa sopravvivenza. Gli ebrei furono pargonati ai topi di fogna che portano la peste, ai bacilli del colera, alle peggiori  malattie che rischiano di sterminare l’umanità. Il paranoico, nella sua angoscia, reagisce mordendo fino all’osso poiché per lui è questione di vita e di morte: nel suo odio diventa amorale. Dal momento che ha davanti agli occhi la rappresentazione di un’allucinazione non può più vedere davanti a sé uomini, donne o bambini, bensì solo spiriti maligni, e “giustamente” è comandato di non sentire per essi alcuna pietà.
 

Mussolini e il nazismo

Crediamo di essere riusciti ad analizzare i motivi per i quali le leggi razziali di Mussolini, a differenza di quelle di Hitler, furono considerate poco più di una nuova bizzarria del regime fascista. Ma c’è un’altro punto, non privo d’importanza, che vogliamo provare a dissezionare: il ruolo che abbia avuto la personalità stessa del duce sulla decisione di introdurre in Italia queste famigerate leggi. La stampa fascista si gettava unanime contro l’antisemitismo hitleriano traducendo in parole esplicite l’incompatibilità tra italianità e antisemitismo:

Il razzismo è fuori della storia, la rinnega, o per meglio dire la trascura, la ignora, è indifferente dinanzi ad essa. La riduce, al più a sottoprodotto della propaganda…Si capisce come questo modo di considerare le cose sia lontano dal nostro. Il razzismo urta contro tutte le nostre convinzioni. Un italiano parlerà di stirpe, di famiglia, ma è difficile quando si riferisce ai suoi simili, che si serva correntemente della parola razza. Perché l’italiano è impastato di storia, e proprio la sua storia gli dice che una civiltà complessa e durevole non nasce da una razza; ma, se mai, dal concorso delle razze e delle genti (M.Rivoire, “La razza contro la storia”, in Il popolo di Lombardia, I Settembre 1934 (riportato dal De Felice, op.cit., p.123).
Fino al 1936 il duce non solo ebbe solo espressioni di cordialità, di simpatia e di ammirazione per gli ebrei, ma persino intervenì numerose volte presso il Cancelliere tedesco affinché mitigasse il suo antisemitismo (R.De Felice, op.cit., pp.76 sgg.). Dopo l’ascesa dei nazisti al potere era diventato quasi il paladino non solo della causa ebraica ma perfino del sionismo (ibidem).
Quest’uomo ammirava sinceramente gli ebrei.
Non riusciva neanche a capire che cosa fosse questo “benedetto” antisemitismo! (Ibidem, p.126.  l’espressione è di Mussolini), Anzi disprezzava profondamente i tedeschi proprio per questo:
Trenta secoli di storia ci permettono di guardare con sovrana pietà talune dottrine d’oltre Alpe, sostenute dalla progenie di gente che ignorava la scrittura con la quale tramandare i documenti della propria vita, nel tempo in cui Roma aveva Cesare, Virgilio ed Augusto (De Felice, ibidem, p.137).
Ovvero considerava la mancanza stessa di ogni sentimento antisemita nel popolo italiano un segno di superiorità su i suoi vicini nordici.
Come fu possibile un simile voltafaccia?
Il De Felice riassume il suo saggio dicendo che è ovvio che Mussolini non credeva neanche ad una delle fandonie antisemitiche propagandistiche di cui la stampa fascista cominciò a tempestare gli italiani dal 1938 in poi e che tutto fu il risultato dell’opportunismo politico reso necessario dalla sua alleanza con Hitler . Questa è solo la spiegazione esterna del fenomeno, poiché anche la sua stessa alleanza al dittatore tedesco va spiegata, e non possiamo accontentarzi di analisi storiosofiche materialistiche che necessariamente fungono da razionalizzazioni post factum di quelle che sono invece le vere cause del comportamento umano, il loro motore interno, quelle nascoste ma anche quelle reali.
De Felice dice, calcando la mano sul dittatore italiano, che almeno Hitler ci credeva nelle sue “buone” ragioni  razziste ed antisemite, mentre invece il duce non avrebbe potuto portare a sua difesa nemmeno la buona fede (ibidem). Su questo punto siamo d’accordo, ma non riusciamo ad immaginare che un uomo come Mussolini, a cui senza dubbio stava a cuore il benesssere, perlomeno “spirituale” degli italiani e, anche se vedeva le cose attraverso le lenti di una deformazione mentale e di una assoluta incomprensione storico-culturale, era dopotutto un patriota, abbia potuto trascinare l’Italia in una tragica avventura come questa solo per motivazioni di carattere oppurtunistico-utilitistico.
Il duce aveva le sue ragioni, anche se completamente inconsce.
Qui dobbiamo necessariamente inoltrarci nell’analisi psicologica, poiché nessun’analisi di costellazioni politiche non può fornire una soddisfacente spiegazione. Non dobbiamo dimenticare che Mussolini era una personalità immersa in un’auto-infatuazione narcisistica, come non è difficile diagnosticare osservando tutti i filmati dell’epoca in cui lo si vede in atteggiamenti teatrali di auto-compiacimento. A differenza del suo collega teutonico, che manteneva sempre uno sguardo magnetico dal messaggio di tragicità fatale, sempre teatrale, ma mai da commediante, Mussolini non esitava di farsi fotografare come se stesse facendo le smorfie davanti allo specchio.
Lui stesso faceva il pagliaccio e poi viveva nell’eterno sospetto di non essere preso abbastanza sul serio. Nella sua personalità dovevano convivere urtandosi sia la componente megalomanica del suo carattere che il dubbio di non essere preso abbastanza sul serio. Non era un fanatico e nemmeno uno stupido. Se sotto sotto probabilmente sospettava di dire delle grossolanità, viveva nel terrore che se ne accorgesero anche gli altri. Voleva piacere agli italiani. Voleva essere amato a tutti i costi. Dopo diciassette anni da quando si era impadronito del potere, probabilmente cominciava a percepire che in una società apollinea, con un’eredità di valori millenaria, anche il potere di un dittatore ha i suoi limiti.
La società occidentale in momenti di crisi era abituata ad affidare le sue sorti nelle mani di un tiranno, ma dal momento che questa era una soluzione in controcorrente al modus mentale radicato nella propria psiche, i cittadini erano sempre stati restii ad abbandonarsi alla lascivia di un’orgia di sottomissione al capo. Anche se ammirato ed ubbidito, un capo di Stato al di quà delle Alpi difficilmente avrebbe potuto essere adorato e idolatrato. Il duce, anche se deteneva il potere assoluto, doveva dividere la sottomissione degli italiani con gli altri due lati del triangolo della trinità apollinea: il re e il papa. A differenza di Hitler non aveva neppure tentato di operare una trasvalutazione di tutti valori. Come abbiamo affermato sopra, la sua non era stata una vera rivoluzione e la sua autorità non era certo radicata in un patto di sangue arcaico e indissolubile: doveva sempre guardarsi dietro le spalle per vedere se veramente gli italiani lo stessero seguendo.
Mussolini, anche se non tollerava il senso umoristico negli altri, strumento sempre pericoloso per una dittatura, non era esente lui stesso da questa qualità. Si dice che in un momento di particolare lucidità abbia mormorato: “non è che sia impossibile governare gli italiani, è che semplicemente non ne vedo lo scopo”.
Forse si domandava lui stesso fino a quando sarebbe durato il pur sempre fragile consenso che gli permetteva di tenere il potere. E così guardava con invidia il suo “collega” d’oltralpe: voleva essere anche lui idolatrato al di là dei limiti della ragione, detenere il potere assoluto non solo in forza di una contingenza creatasi, forse in via del tutto provvisoria, da un turbamento negli equilibri sociali e mentali, bensì in grazia di una fedeltà indiscussa alla sua persona, come stava succedendo in Germania.
Voleva essere amato dagli italiani come Hitler era amato dai tedeschi. Voleva essere seguito con la stessa fiducia cieca e la stessa dedizione.
Fu questo aspetto inconscio della sua personalità che oscurò la sua capacità di valutazione. E allora cominciò a parlare di razza.
Se aveva funzionato per Hitler, forse avrebbe funzionato anche per lui.
Quello che non aveva capito era che il dittatore tedesco aveva sfruttato una costellazione psicologica fortemente radicata nel modus mentale teutonico, ma non l’aveva creata lui. Non era stato lui a fare dei tedeschi una tribù barbarica, le si era semplicemente messo a capo. I contenuti mentali che furono proiettati sullo schermo dell’ideologia nazista erano là da sempre che aspettavano di venire canalizzati in una forma articolata. Quando Mussolini cominciò a parlare di razza agli italiani non trovò un partner con il quale dialogare. Era come se avesse chiesto loro di fare la danza della pioggia in segno di  fedeltà verso la sua persona.
Quando parlò di ebrei, la connotazione negativa risuonava nell’aria, come risuonavano ancora nella psiche le parole di Tacito: “…le altre pratiche [dei giudei] sono perverse e infami e si sono imposte per la loro depravazione…” (Hist.,V.5), ma lì si parlava di rito, ovvero di cultura “infame”, di rito tribale in antitesi con cultura apollinea.
Ma parlare agli italiani di razza?!
Forse si poteva argomentare, sulla scia di un’interpretazione traslata delle parole di Tacito e adoperando lo stesso codice inconscio del dialogo nazista, che aveva introdotto l’equazione tribù = razza, che gli ebrei sono una razza diversa, in quanto avevano conservato lo stampo mentale della particolarità tribale il: “…tra di loro sono sempre molto leali e molto disponibili al mutuo soccorso…hanno istituito l’usanza della circoncisione per riconoscersi tra loro da questo segno distintivo” dello storico latino. Ma usando questo codice si arrivava all’ovvio paradosso: se gli ebrei erano gente infame ed inferiore poiché avevano conservato il modus mentale tribale e i suoi riti invece di uniformarsi alla cultura ecumenica pan ellenica, e questo era il vero motivo dell’antisemitismo di Tacito, allora questo parametro era valido anche per i tedeschi, e anzi ancora di più, poiché erano stati proprio loro a fare una reattivazione esasperata dei parametri di particolarità tribale, fedeltà di sangue, sottomissione assoluta al capo dell’orda ecc.
Tacito parlando dei nazisti non si sarebbe certamento espresso favorevolmente. Quindi, o tutti coloro che rimangono attaccati ai parametri della mentalità tribale sono di una “razza” inferiore o non lo è nessuno.
Gli italiani confusi non sapevano se gli ebrei fossero una “razza” inferiore o no. Se lo erano loro, lo erano ancor di più i tedeschi, poiché la loro mentalità era ancora più antitetica alla propria di quello che lo fosse quella di quei pochi ebrei, loro vicini, che conoscevano. Quello che sapevano con certezza era che loro, gli italiani, pronipoti dell’imperium romanum, non erano una razza di sicuro. Gli italiani, infatti, non ebbero mai, lungo la loro storia, il bisogno di definirsi come razza, per i motivi che abbiamo ampiamente sostenuto sopra. Una società veramente apollinea non sentirà mai il bisogno di sentirsi una razza. Anzi, gli italiani non capivano questa esigenza negli altri popoli. Leon Poliakov, in Il mito ariano scrive:
Verso il 1840 Carlo Cattaneo ironizzava sull’eccellenza e la nobiltà del settentrione” e sopra “le magiche peregrinazioni degli Ariani”. Carlo Troia si chiedeva come mai improvvisamente la scienza internazionale avesse fatto fuoco e fiamme per l’India; da parte sua, egli preferiva popolare l’Europa a partire dal Medio Oriente, conformemente alla tradizione (Editori Riuniti, Roma 1999, p.78).


Questa tradizione aveva radici antiche: il sommo poeta, Dante Alighieri, per assicurare la massima nobiltà alla stirpe di Enea, ne ricordava l’ascendenza, citando Virgilio: “L’Asia, con gli avi più vicini, cioè Assaraco[...]L’Europa, con l’avo più antico, cioè Dardano; e l’Africa, con l’ava più antica, cioè Elettra” (Dante Alighieri, De Monarchia, II, 3), e a ciò aggiungeva le diverse provenienze geografiche delle sue tre donne: Creusa di Troia, Didone di Cartagine e  Lavinia d’Italia. Tutto questo per Dante era il segno della massima nobiltà del sangue: “O a chi rimarrà ancora nascosto il segno della predestinazione divina in quel triplice confluire in un uomo solo del sangue di ogni parte del mondo?”   insomma, la massima nobiltà per Dante è assicurata dall’essere un incrocio di più razze possibili. Come osserva giustamente Poliakov: “Dal punto di vista della dottrina germanica, un tale segno era infame, un peccato contro la razza, in quanto faceva di Enea un triplice meticcio. Ma a questo proposito gli italiani moderni restavano all’epoca di Dante”(Ibidem, p.81).
Paolo, che con il cattolicesimo aveva articolato la nuova versione dell’ecumenismo apollineo era ebreo e cittadino romano. Come abbiamo visto sopra per l’ecumene greco-romana non vi era contraddizione alcuna nel suo status sincretista e neanche Tacito non avrebbe avuto niente da ridire contro un ebreo che aveva rinunciato alla circoncisione e ai riti tribali (i 613 precetti della Legge) per diffondere una versione universalista della fede, in simbiosi assoluta con il modus mentale occidentale. Se la cultura apollinea e monista italiana andava difesa attraverso delle leggi contro la tribalità dionisiaca avrebbe avuto molto più senso dirigerle contro i tedeschi stessi. E infatti proprio il famigerato Giovanni Preziosi, che fu il portavoce fino al 1938 del dissonante e debole filo antisemita del fascismo, e che si autoelesse a ideologo del razzismo italiano, ancora nel 1916, nella seconda edizione della sua opera più importante, La Germania alla conquista dell’Italia, i suoi strali sono per il pangermanesimo e per la politica tedesca di predominio sul mondo e sull’Italia in particolare, e non vi è accenno alcuno all’antisemitismo (R.De Felice, ibidem, p.46).
Proprio il prototipo dell’italiano razzista non aveva fin’ora avuto niente da dire contro gli ebrei e tutte le sue difese erano erette contro le tribù teutoniche doltr’alpe: vedeva venire dal nord la minaccia alla “razza” italiana. La Chiesa stessa aveva dei motivi molto più concreti di temere per la propria stessa sopravvivenza i nazisti piuttosto che gli ebrei. La Riforma aveva scosso le fondamenta dell’ecumenismo cattolico molto di più di quello che avrebbe mai potuto fare un ebraismo che non chiedeva di meglio che essere lasciato a sé stesso, e adesso la vera minaccia veniva proprio da un nuovo luteranismo tribale e anti-apollineo che stava spingendo questi parametri ai loro estremi.
Ma Mussolini aveva la sua agenda personale.
Su ispirazione di un capo-tribù emerso dalle nebbie della preistoria teutonica, che attraverso il suo magnetismo primitivo era riuscito a creare un’unica simbiosi tra sé e il suo popolo, e nell’illusione che anche solo toccandolo sarebbe stato travasato di una parte del potere magico-divino, cominciò a parlare di razza, ovvero, “se faccio come lui, sarò lui”. Il mana di Hitler, lo sguardo magnetico  del capo dell’orda, che riesce a pietrificare in brivido gelido chi lo guarda. Davanti a lui Mussolini tornava a essere bambino.
Ma, come abbiamo visto, gli italiani non sono tedeschi.
Questo Mussolini, accecato dal suo narcisismo, dimenticò di saperlo.
E qui  tradì la sua vera natura, quella di un leader provinciale, dotato di un certo carisma, di un’astuzia psicologica e politica non indifferente e una certa dose di sex-appeal a cui gli italiani non potevano rimanere completamente insensibili, ma privo di qualsiasi comprensione profonda della psiche del suo popolo e incapace di afferrare  la portata dell’eresia esistenziale in cui lo stava trascinando.
A questo si aggiunse una totale incomprensione di strategia globale, ma su questo non ci soffermeremo poiché quello che c’interessa è l’analisi psicologica delle forze in campo.
Quello che Hitler stava facendo in Germania, a prescindere dall’immoralità della sua filosofia, aveva una sua logica interna, e questo è stato discusso nei paragrafi precedenti. Se il dittatore nazista voleva riuscire nei suoi scopi “doveva” fare quello che faceva: le leggi razziali e la guerra erano per il tribalismo teutonico delle tappe necessarie. Se a Mussolini, invece, fosse stata a cuore l’italianità, la sua cultura e il fascismo stesso, e avesse capito veramente le poste in gioco, avrebbe dovuto agire in maniera ben diversa. Gli  interessi degli italiani erano quelli della civilizzazione occidentale di cui facevano parte e a cui avevano dato, secondi solo ai greci, il contributo maggiore. Questa cultura non poteva convivere con il nazismo. Se i tedeschi avessero vinto la guerra sarebbe stata la vittima principale, più ancora degli ebrei, i cui superstiti avrebbero potuto lasciare l’Europa e sopravvivere culturalmente in America, in Palestina (come infatti avvenne) o da qualche altra parte. La cultura ebraica non ha mai avuto bisogno di un suolo sotto i piedi per sopravvivere, è quella del libro, e i libri si possono portare dietro; se anche vengono bruciati si possono sempre riscrivere, non sono degli oggetti, sono delle idee, appunti esterni di contenuti interni, e le idee non si possono distruggere. Nessun falò di libri, e la storia ebraica è piena di questi roghi, ha mai impedito agli ebrei di sviluppare il proprio intelletto, questo risucchia le proprie energie dall’inibizione pulsionale e la sua sublimazione . Se anche viene bruciato un libro della Torà o del Maimonide ce ne sarà sempre una coppia da qualche altra parte, e se anche così non fosse i concetti non possono venir sradicati, distruggendo l’oggetto sul quale sono stati trascritti. Da quando fu distrutto il tempio di Gerusalemme gli ebrei rinunciarono a costruirne un altro e questo fu un fattore estremamente positivo per la psiche ebraica .
Non così per la cultura apollinea. Se va perduta una statua del Donatello o viene distrutto un quadro di Raffaello non si possono ricopiare, ma, ancora più essenziale, le opere d’arte dell’occidente fanno parte di un contesto culturale e geografico.
Il Partenone di Atene, S. Pietro, il Duomo di Modena o Sant’Ambrogio di Milano sono opere che possono essere capite e gustate solo in situ, sul posto stesso dove sono state costruite. La cultura occidentale non avrebbe potuto lasciare l’Europa per trasferirsi da un’altra parte. Se i nazisti avessero ottenuto il loro scopo, avrebbero imposto il loro stampo mentale tribale, luterano, barbaro e iconoclasta su tutta l’Europa. Come già avevano cominciato a fare in Francia, e dopo il 1943 anche in Italia, avrebbero saccheggiato chiese e musei per portare a Berlino il succo della cultura occidentale, per sollazzare un pubblico che nel migliore dei casi sarebbe andato a sfilarvi davanti con l’espressione ottusa di un’orda inquadrata in una disciplina da bestie da circo. In questo habitat mentale non solo sarebbe andato distrutto o vanificato tutto quello che c’era, prodotto del lavoro culturale di decine di secoli, ma non avrebbero neppure potuto venire create opere nuove. Se nell'Italia fascista la spinta apollinea era così forte da permettere una certa continuità produttiva almeno nel campo della pittura, l’Europa nazista, paralizzata dalle costrizioni del regime, non produsse un solo artista degno di nota, né ne avrebbe potuto produrne in seguito.
Quindi, quando Mussolini si alleò a Hitler commise, fra gli altri, un crimine culturale contro il popolo italiano stesso: quello di lesa maestatis contro lo stato apollineo e tentata tribalità.

Gli occidentali tra ebrei e tedeschi

Possiamo spingere oltre la analisi comparata tra italiani/tedeschi, e ripercorrere alcuni momenti fondamentali delle rispettive storie dei due popoli, per vedere quali soluzioni essi abbiano elaborato di fronte a problemi simili.
Il rapporto tra italiani e tedeschi comincia sotto il segno della reciproca incomprensione, come simboleggia il resoconto dell’incontro tra il vescovo di Cremona Liutprando, che rappresentava l’imperatore tedesco Ottone  e l’imperatore Niceforo Foca, alla fine del X sec. Liutprando
 

venne accolto malissimo; l’imperatore Niceforo Foca gli disse che il suo padrone non era affatto un imperatore, ma un barbaro e aggiunse: “Voi non siete romani ma longobardi!”. Al che Liutprando ribatté che non aveva nessuna voglia di discendere da un fratricida come Romolo e dalla sua banda di ladroni e schiavi fuggitivi. “Voialtri – proseguì – che vi chiamate kosmocratores, cioè imperatori, discendete da questa nobiltà; ma noi, Longobardi, Sassoni, franchi, vi disprezziamo, tanto che quando vogliamo insultare un nostro nemico gli diciamo semplicemente: tu, Romano!” (Liutprando da Cremona, "Relatio de legatione Costantinopolitana", 12 in: A. Barbero, C. Frugoni, Medioevo. Storia di voci, racconto di immagini, Laterza, Roma e Bari 1999).


Questo scorcio di dialogo ci appare paradigmatico, e ci sembra degno di un’analisi approfondita: per l’imperatore romano un ‘barbaro’ non può essere un vero imperatore, ma solo un "padrone", perché non si può essere evoluto in maniera convincente al livello apollineo di ‘homo politicus’. Il disprezzo di Niceforo è dovuto proprio a questo. Per lui, come per tutta una civiltà essere "romano" non significa discendere da una certa nobiltà o avere nelle proprie vene un sangue "puro", ma essere integrato in maniera convincente nell’ecumene apollinea ed essere disposto ad accettare i contenuti sociali e mentali dell’Imperium Romanum. Se i giudei avessero acconsentito ad accogliere nel tempio di Gerusalemme la statua dell’imperatore Caligola, probabilmente i romani sarebbero stati ben contenti di considerare eventualmente anche loro cittadini romani, piuttosto che ribelli turbolenti da domare a tutti i costi e con grande impiego di energie.
Ma ancora più interessante è la risposta che dà Liutprando: egli sembra dire, “è vero, siamo tribali. Ma voi, che vi ritenete tanto superiori a noi, discendete da una massa di criminali. Vi dichiarate nobili (“...vi chiamate kosmocratores...”) solo perché è la vostra struttura sociale che vi definisce come tali, ma la vostra nobiltà non può essere autentica, poiché non è una vera nobiltà di sangue. Sembra proprio che senza sangue per i tedeschi non ci sia storia, insomma. Per essere ancora più caustico, Liutprando rievoca poi la storia di Romolo e Remo. Romolo e Remo, allattati da una lupa, l’animale totemico simbolo del patto di fedeltà tribale dei fratelli, scelsero strade diverse, al punto che mentre Romolo supera la struttura mentale arcaica e fonda una polis, Remo, l’alter ego  del fratello, rimasto legato alla antica struttura, si fa scherno di lui e oltrepassa, per divertimento, i sacri confini delle mura della neonata città. Romolo lo punisce con la morte: la nuova fedeltà della polis oltrepassa, nega e capovolge quella arcaica del patto di sangue tra i fratelli, e la raison d’état può richiedere anche di fare quello che nella clan è considerato il crimine per eccellenza contro l’umanità: uccidere un fratello. La storia del fratricida Romolo sotto le mura della città da lui appena fondata condensa allora questo messaggio: di fronte alla polis non esistono più fratelli e clan, ma solo cittadini e classi. Questo sarà l’unico parametro. I tedeschi, quindi, pur romanizzati, considerano l’essere "romani" il peggiore insulto. Non ne vogliono sapere di essere assimilati a una banda di fratricidi, e ci tengono a farlo sapere.
La mancanza di comprensione del carattere del popolo tedesco è comune a molti. Ecco come si esprime, per esempio, L. Poliakov:

Ogni storia nazionale è per definizione particolare e irriducibile alle altre, ma la singolarità della storia tedesca sono in contrasto con la gamma delle particolarità storiche delle altre nazioni europee che si manifestano soprattutto ai suoi inizi, nei quali restano iscritte fino ai nostri giorni. In effetti, un manuale di storia inglese, italiano o russo riporta nel suo primo capitolo, come nei seguenti, ciò che avveniva un tempo nel suo suolo natale; un manuale di storia tedesca tratta quasi sempre, a titolo introduttivo, dell’espansione germanica, cioè di avvenimenti che ebbero luogo, quindici o venti secoli fa, in Italia, Francia, Spagna e comunque fuori della Germania... da questo momento, e fin dalla scuola primaria, i tedeschi erano portati a interessarsi dagli antenati degli altri popoli, cioè a gettare sull’Europa intera una sorta di mira possessiva. Questo internazionalismo sui generis[...] trova ancora oggi il suo riflesso nella varietà della denominazione dei "Tedeschi" nelle diverse lingue[...]questo dialogo fra Germania e i paesi vicini dura fin dal Medioevo e l’identità imprecisa dei tedeschi agli occhi dell’Europa non contribuiva molto a dare loro un’idea chiara di loro stessi (Poliakov, op. cit., pp. 82-83).
Poliakov mette il dito sulla particolarita’ mentale dei tedeschi, ma non la fa risalire alle su radici vere. Di conseguenza ne emerge un disagio che non è focalizzato. E’ il disagio che gli europei occidentali sentono quando si avvicinano a una cultura come quella tedesca, che non ha passato gli stadi di evoluzione apollinea. In questo caso l’imbarazzo è ancor maggiore, perché questi non sono selvaggi di un continente inesplorato, ma sono da due millenni protagonisti della storia europea, e ammettere la loro diversità sarebbe come segnare una lacuna nelle capacità ecumeniche della società apollinea. Ma mentre gli intellettuali occidentali cercano di razionalizzare le differenze tra tedeschi e altri europei nel senso che abbiamo visto, cercando di far rientrare la "Grande Germania" nell’alveo di tutti gli altri popoli europei, gli intellettuali e gli scienziati tedeschi razionalizzano, nell’altro senso, non perdendo occasione di dichiararsi superiori dal punto di vista razziale ai "meticci" siano essi italiani, spagnoli, ecc...Anche questa è appunto una razionalizzazione perché nasconde dietro a nebulosi motivi razziali l’essenza della questione concreta: la presenza di un’istanza psichica diversa alle soglie del subcosciente. I filosofi apollinei occidentali hanno sempre sentito con grande imbarazzo questa specie di "eccezione" che il popolo tedesco, ma pur sempre europeo, rappresenta per loro. Mentre sono stati  spesso pronti a percepire inconsciamente negli ebrei l’essenza stessa del dionisiaco da loro rimosso, risulta nei confronti dei tedeschi una resistenza di segno opposto, che si esprime nel tentare di reprimere il senso di disagio quando ricontrano la stessa struttura nella psiche teutonica. Gli intellettuali europei quando affrontano questo argomento, preferiscono, come nel caso di  Poliakov, trincerarsi dietro a strane considerazioni sulla struttura dei programmi scolastici delle scuole germaniche.
Esiste un’opera minore di Tacito, La Germania, che colpisce molto qualora la si esamini mettendola a confronto con quanto Tacito afferma, nelle Storie, sui giudei.
Quello che emerge, infatti, è che tutto quello che secondo Tacito è un difetto ignominioso tra gli ebrei, diventa motivo di lode tra i germani.
Vediamo qualche esempio: sui germani ci informa che essi
reputano non conveniente alla grandezza degli dei costringerli fra le pareti di un tempio o raffigurarli con fattezze umane: dunque consacrano loro boschi e foreste e chiamano con il nome di dei quella entità misteriosa che solo la devozione religiosa rende percepibile (Tacito, La Germania, Newton Compton editori, Roma, 1995, pp. 35 - 37).
Degli ebrei aveva detto:
 
I giudei...concepiscono un solo dio, esclusivamente con il pensiero: sono sacrileghi coloro che raffigurano immagini degli dei con tratti umani e usando materiali deperibili. Questa loro divinità sta sopra ogni cosa, è eterna, non può essere raffigurata né mai si estingue. Nelle loro città, per questi motivi, non esistono simulacri né tantomeno dei templi; e non usano questa forma di adulazione né verso gli dei né verso i Cesari (Hist., V.5).
Inoltre, di contro alla commovente devozione dei germani, gli ebrei sono “gente fanatica, ma non autenticamente religiosa” . Dei Germani apprezza la loro sobria vita, sottolineandone nello stesso tempo la pigrizia:
 
 Nudi in ogni altra parte del corpo, trascorrono intere giornate davanti al focolare acceso...Dormono spesso fino a giorno fatto...Dopo i lavacri, i pasti: ognuno ha un suo sedile e una sua mensa separati. Poi si armano e vanno a occuparsi dei loro affari e non meno spesso dei conviti. Nessuno considera vergognoso passare tutta la notte e tutto il giorno a bere (La Germania, pp.43-47).


Ecco invece, come racconta le stesse caratteristiche tra gli ebrei:

Siedono a mensa separati, e ancora separati, dormono, ma sono uomini di sfrenata libidine...Si dice che abbiano eletto al riposo il settimo giorno, nel ricordo di quel settimo giorno che aveva visto la fine delle loro sofferenze. Poi, con l’abitudine alla pigrizia, consacrarono all’ozio anche un anno ogni sette.


Riguardo ai costumi sessuali, i germani hanno qualcosa da insegnare anche ai Romani, infatti:
 

 [...]presso i Germani i matrimoni hanno una severa regolamentazione, e non vi è tra le loro consuetudini una che potrebbe essere maggiormente lodata. Essi, infatti, praticamente unici tra i barbari, sono paghi di una moglie ciascuno: fanno eccezione in pochissimi, non certo per la loro sensualità, ma perché la loro nobiltà rende ambito il connubio da parte di molte famiglie .
Invece, gli ebrei sono “...abituati a non avere rapporti sessuali con donne di altri popoli e a considerare, invece, tutto lecito tra loro”.
Ma Tacito raggiunge il ridicolo, quando afferma che, per i Germani: “Limitare il numero dei figli o uccidere qualcuno di quelli nati in soprannumero è considerato infamante: Presso di loro hanno maggior valore i buoni costumi che altrove (presso i romani, Nd.R.) le buone leggi”.  Degli ebrei, infatti, usando quasi le stesse parole, aveva detto: “I Giudei tengono comunque molto a che il loro numero si incrementi: è proibito infatti, uccidere uno qualsiasi dei figli in soprannumero” , e dal contesto in cui ne parlava, non era certo per lodare in loro il senso della famiglia.
 Tacito visse in un’epoca che lasciava preludere una grande crisi e che sarebbe sfociata nel crollo dell’impero romano. Tacito avvertì questo senso di malessere e ad esso cercò di reagire. Nel caso degli ebrei, quindi, egli vide un nemico mortale da combattere in ogni modo. La sua ambivalenza nei loro confronti, che abbiamo già rilevato, si risolse in un odio antisemita. Ma nel caso dei germani, la stessa ambivalenza si risolse in ammirazione incondizionata . Mentre i giudei erano per Tacito e per tutta la società romana dei suoi tempi l’esempio da non seguire, i germani rappresentavano l’opposto. Egli non si stanca mai di lodarli.
L’ambivalenza verso il mondo arcaico tribale si era risolta nel massimizzare l’odio nei confronti degli ebrei, ma adesso questa stessa ambivalenza pendeva, per i germani, dall’altra parte della bilancia. Non ci risulta che questa asimmetria nel pensiero di Tacito sia stata finora rilevata. Ci sono alcuni indizi che lo stesso scrittore latino ci lascia per risolvere questa problema.
Da Tacito apprendiamo infatti che la sua avversione è messa in relazione al rifiuto a piegarsi ai parametri occidentali. Cosa che pero’non imputa mai ai germani. Questi ultimi possono avere tutti gli stessi difetti dei giudei, ma non vengono mai accusati di rifiutare di mettere una statua dell’imperatore nel tempio, pur osservando che non ammettono il culto delle immagini. L’odio antisemita si spiega proprio in questo punto del suo pensiero: Tacito ha percepito che questa è una tribù irrimediabilmente spiritualizzata, e fatica sprecata sarebbe per i romani cercare di farne un popolo simile a loro. Tacito odia gli ebrei e non i germani proprio per la sublimazione che ai suoi tempi era gia’ molto avanzata. I germani invece li vede come pieni di forza e vigore esistenziale, proprio perché li reputa adatti a ricevere i contenuti della civilizzazione romana, in quanto è convinto che la loro tribalità, essendo ancora a uno stadio rozzo, potesse essere mediata attraverso il medium apollineo. I germani dovevano apparirgli simili ai romani delle origini, che Tacito pateticamente indicava ai suoi concittadini come esempio a cui tornare .
La descrizione che egli fa dei germani ricorda molto quelle storie, molto popolari in Europa dal XVIII secolo in poi, sul mito del cosiddetto ‘buon selvaggio’: si prova un misto di curiosità, orrore e invidia; lo stesso sentimento che gli occidentali provavano nei confronti non tanto del dionisiaco, ma del mondo animale. La reazione nei confronti del dionisiaco, gli occidentali lo svelano quando hanno a che fare con gli ebrei. Sembra quindi proprio che Tacito avesse percepito, in qualche modo, la maggiore spiritualità degli ebrei sui germani, e la considerava il vero ostacolo alla loro integrazione nel tessuto apollineo. Del dionisiaco egli era disposto ad accettare solamente quegli aspetti selvaggi, satireschi, in cui da molti secoli ormai Dioniso era stato relegato. Abbiamo descritto l’involuzione che subì il concetto stesso di dionisiaco, dai tempi della tragedia, in cui la sapienza stessa era prima di tutto la sapienza di Dioniso, a quelli della relegazione del dionisiaco allo scurrile e al barbarico. Se Tacito avesse compreso questa involuzione, forse non si sarebbe espresso nei termini che abbiamo visto. Ma l’Occidente, per cominciare a capire questo punto ha dovuto aspettare fino a Nietzsche. Allo stesso modo, adesso possiamo capire perché gli occidentali abbiano eletto proprio gli ebrei, piuttosto che i tedeschi, come alter ego tribale rimosso.
I tedeschi, pronipoti degli antichi germani tanto ammirati da Tacito, rappresentavano un primo elemento di falsificabilità dell’ecumenismo apollineo, come si esprimerebbe il filosofo Popper. Ammettere che Apollo aveva perso giocando, se non in casa, perlomeno vicino a casa, sarebbe stato come prendere atto della minaccia onnipresente del risorgere di correnti dionisiache anche in loro stessi.
Ci sono dei vistosi contro-esempi al complesso delle razionalizzazioni su ebrei e tedeschi che, possiamo dire non a caso, procedono di pari passo. Abbiamo visto che Cattaneo e Carlo Troìa ironizzavano sulla presunta nobiltà del sangue germanico, e sappiamo che tanto l’uno quanto l’altro – che difendeva la ‘primogenitura’ del Medioriente semita rispetto agli ariani nel processo di civilizzazione dell’Europa – erano genuinamente filosemiti. Non è poi un caso che questi grandi intellettuali fossero parte del movimento del Risorgimento italiano, di cui abbiamo isolato le peculiarità psicologiche, in rapporto ai movimenti contemporanei sviluppatisi al di là delle Alpi. Possiamo allora dire che in questo, come in altri, Apollo poté liberare i cavalli della sua sapienza, senza dover ricorrere alla frusta della rimozione.
 

A  cavallo del millennio

Intervistando i sopravvissuti di quell’infausto periodo della storia italiana, la generazione che ha passato sulla propria pelle la triste esperienza di essere stati discriminati dalle leggi razziali, abbiamo ricevuto l’impressione che la percezione generale fosse che all’antisemitismo ufficiale del regime non abbia corrisposto un parallelo sentimento antisemita da parte della popolazione. Questo punto è stato ribadito più volte dal De Felice nella sua opera ed è confermato dalle conversazioni avute con i sopravvissuti.
La cosa strana è che quelle stesse persone che hanno fatto queste asserzioni hanno per lo più espresso la sensazione che, invece, in questi ultimi due decenni si possa percepire come una corrente sotteranea di antesimitismo latente, che non esisteva durante il fascismo. Non abbiamo svolto una ricerca scientifica in questa direzione, ma questa è la percezione generale. Se questa percezione corrisponde a verità, e tutto suggerisce questa possibilità, questo è un fenomeno sul quale conviene soffermarsi.
Oggi, infatti, l’antisemitismo sembra essersi raffinato nei suoi mezzi: non ci si definisce magari apertamente antisemiti, ma ci si dichiara anti -- sionisti, si contesta il diritto alll’esistenza di Israele come nazione sul modello occidentale, si insinua il dubbio che il Congresso americano sia un’organizzazione in mano al capitalismo ebraico, e così via. Come mai proprio in un periodo storico come questo, quando la popolazione ebraica italiana è ai suoi minimi storici, all’insegna di un’unità europea che è supposta diminuire le tensioni invece che aumentarle, e di un’apparente tolleranza predicata e insegnata dalle autorità stesse dello stato, si avverte una sottile corrente sotterranea, espressione di un disagio sub-cutaneo, appena percepito?
Sul perché gli italiani dal risorgimento al fascismo siano sempre stati estranei all’antisemitismo crediamo sia stato chiarito, come mai sembra che proprio oggi comincino a condividere questa forma influenzale con il resto degli europei, dopo che per centocinquant’anni erano riusciti a superare il contagio e a sollevarsi al disopra del vecchio antisemitismo clericale della chiesa cattolica, che in forme più o meno gravi aveva mantenuto in vita, a fuoco basso, l’antico antisemitismo apollineo dell’ecumene greco-romana?
Il monismo apollineo si era dimostrato al suo meglio in contrapposizione alla barbara tribalità ininibita di un germanesimo che aveva perso i lumi della ragione. Forte di millenni di civilizzazione era riuscito a mediare il proprio antisemitismo latente. Come abbiamo visto il sentimento romantico-irredentista, creando un nuovo senso di autoidentità, aveva persino fatto da antidoto a questo antisemitismo millenario. Forse oggi gli italiani, cittadini di un’Europa unita, cominciano a sentire il disagio di un’auto-identità messa in questione, che sta perdendo in chiarezza, immersa in una più vasta unità dalla non meno sbiadita e incerta identità.
In questo caso, come da sempre, più la propria autoidentità si fa problematica, più emerge il perturbante aspetto rimosso che prende, come da sempre, la forma che noi abbiamo ormai imparato a focalizzare e che abbiamo definito: antisemitismo.
 

Quello che non vide Nietzsche

Già in Al di là del bene e del male, Nietzsche apparentemente accusa gli ebrei:

 Gli ebrei – un popolo “nato per la schiavitù”, come dice Tacito e con lui tutta l’antichità, “il popolo eletto tra i popoli”, come essi stessi dicono e credono – gli ebrei hanno realizzato quel prodigio del rovesciamento dei valori, grazie al quale la vita sulla terra ha acquistato per un paio di millenni una nuova e pericolosa attrattiva – i loro profeti hanno fuso in una sola parola come “ricco”, “cattivo”, “violento”, “sensuale”, e per la prima volta hanno dato un conio d’obbrobrio alla parola “mondo”. In questo capovolgimento dei valori, in cui rientra l’uso della parola “povero” come sinonimo di “santo” e “amico”, sta l’importanza del popolo ebraico: è con esso che comincia, nella morale, la rivolta degli schiavi (Al di là del bene e del male, Adelphi, Milano 1977, p.94)
 in questo paragrafo, Nietzsche attribuisce l’inizio di questo rovesciamento di valori in cui ricco viene definito automaticamente come malvagio, già ai profeti, che nella Bibbia si scagliano contro i potenti del regno di Israele e di Giuda. Quello che Nietzsche non poté capire fu il contesto mentale e culturale dei regni di Giuda e Israele antecedente l’esilio.
Con l’instaurazione della monarchia unita, già alla fine dell’XI sec. a.C. si era creata una tensione tra il potere regio che rappresentava il nuovo tentativo delle tribù di Israele di instaurare una sovranità nazionale, sovratribale che implicava il passaggio ad una vita sedentaria con l’abbandono del culto di Jahvè, il dio dei pastori, per abbracciare i culti pagani, di tutti i popoli sedentari di agricoltori e tra i profeti che erano i paladini del dio del deserto Il dio dei pastori era anche il dio dell’unità del clan.
In una società di pastori seminomadi esiste un’uguaglianza sociale tra tutti i membri, che si considerano tutti figli dello stesso padre, mentre invece in una società sedentaria avviene un allentamento di questi legami e di questo senso di unità, che produce una divergenza tra ricchi e poveri e le classi sociali, come avverrà anche in occidente.
Una società tribale è una società senza classi.
Quando i profeti si lanciano contro i ricchi, lo fanno in quanto per loro, uguaglianza sociale era sinonimo di cementazione dei legami tribali che caratterizzavano gli israeliti prima dell’istituzione della monarchia, e volevano restituire Israele alla purezza della vita del nomade, antecedente l’instaurazione di questa. La lotta dei profeti contro la monarchia era in un contesto sulle priorità nazionali, la lotta tra polis e tribù, in cui questi prendono le parti della prima, e non come avverrà più tardi in Occidente, nel contesto di una lotta di classe all’interno di una polis, in cui prendessero parte per una classe piuttosto che per una altra.
Ben diversa sarà la situazione dopo il primo esilio, solo allora si creerà quella classe sacerdotale di cui parla Nietzsche in seguito. Nella Genealogia della morale (Adelphi, Milano 1977, pp.22-25) , Nietzsche riprende il motivo del rovesciamento dei valori, questa volta in un contesto più appropriato: attribuisce la nascita del ressentiment agli ebrei, come conseguenza della loro condizione di vinti, che li avrebbe portati a ribaltare i valori del bene = aristocratico = vincitore, i valori dell’Imperium romanum, con quelli di vinto = debole = buono. E invero, un trasfigurazione di Jahvè il dio vittorioso, specifico del popolo ebraico, in un dio universale, dopo l’esilio ci fu, ma al contrario di quello che sostiene Nietzsche, malgrado diventasse il dio di tutta l’umanità, esso continuò a conservare l’altra sua peculiarità, di essere cioè considerato il padre specifico della tribù, in quella che diventò l’idea del popolo eletto.
Come Nietzsche stesso ammette nell’Anticristo (par. 25), questo fu un accorgimento per poter mantenere il vecchio Jahvè, che altrimenti, con la parole di Nietzsche, “lo si sarebbe dovuto abbandonare”, e con lui mantenere anche l’unità nazionale, che altrimenti sarebbe andata persa, sotto il peso della sconfitta militare e politica. È vero: “il suo concetto diventa uno strumento nelle mani degli agitatori sacerdotali” ma questi erano quello che era rimasto ai giudei al posto dei re, e questi rappresentavano anche la volontà di sovranità del popolo ebraico che ormai era sfuggita di mano. Anche dopo, fino alla sconfitta finale ai tempi di Adriano, i giudei non cessarono mai di ribellarsi ai romani, in rivolte sanguinose, in cui il valore militare e la forza rimasero pur sempre il modello per i giovani ebrei che si armavano volta dopo volta, nel futile tentativo di cacciare i romani dalla Giudea. Il capo della più grande rivolta nel 130 D.C., Bar – Kochba, esigeva dai suoi soldati di tagliarsi il dito mignolo come prova di crudezza e di disprezzo per il dolore.
Anche quando la sconfitta finale definitiva, dopo due secoli di lotta, la frustrazione non si tradusse in ressentiment, bensì in sublimazione, e quelle energie che erano andate a combattere i romani furono canalizzate nella costruzione del grattacielo spirituale del Talmud. Quando i persiani invasero la Palestina nel 614 d.C., gli ebrei presero le armi in loro favore nell’ultimo, patetico tentativo di liberarsi dell’odiata Roma, ma nuovamente furono sconfitti.
Nella lotta: “Roma contro Giudea, Giudea contro Roma” (Genealogia della morale, Adelphi, Milano 1977, p.40) , vinse Roma e non la Giudea. A p.40 leggiamo: “ Roma sentiva nell’ebreo qualcosa come contronatura stessa, per così dire il suo monstrum antipodico”, non per i motivi addotti da Nietzsche, bensì perché l’ebreo si intestardiva a rifiutarsi di far parte dell’ecumene ellenista, come dopo si rifiutò di abbracciare il cristianesimo, che ne era l’ultima trasfigurazione. “Se a Roma si inchinano davanti a tre ebrei e un’ebrea…”(ibidem, p.40), questo non fu il risultato di una congiura giudaica, bensì l’ultima vendetta dell’Occidente sugli ebrei, che rifiutavano in blocco tutto il modus mentale greco- romano- cristiano: “se Maometto non viene alla montagna, la montagna va a Maometto, se voi non accettate i nostri valori, noi li trasfigureremo fino a che sembreranno i vostri, e voi subirete anatema, poiché non accettate quel che noi decidiamo debbano essere i vostri valori”.
Infatti, il cristianesimo derubò gli ebrei perfino del nome, e d’ora in poi saranno loro a dichiararsi il vero Israele. Nietzsche stesso aveva definito una “farsa filologica” quella perpetrata dal cristianesimo sul Vecchio Testamento:
voglio dire il tentativo di svellere il Vecchio Testamento dalle midolla degli ebrei con l’affermazione che esso non conterrebbe nient’altro che gli insegnamenti cristiani e che apparterrebbe ai cristiani come al vero popolo d’Israele, mentre gli ebrei lo avrebbero soltanto arrogato a se stessi (F. Nietzsche, Aurora, Adelphi, Milano 1977, p.62)


Non dunque la vendetta giudaica su Roma, per la sconfitta subita, bensì la beffa dopo l’insulto dei vincitori sui vinti. Come abbiamo sostenuto, il mondo antico crollò sotto il peso delle proprie tensioni interne, e non fu il cristianesimo ad avvelenarlo, bensì il veleno era già da lungo tempo nell’organismo e si faceva strada con il passare del tempo. Secondo Nietzsche “Il cristianesimo fu il vampiro dell’imperium romano”(L’Anticristo, p.88)  e  “Il cristianesimo ci ha defraudato del raccolto della civiltà antica”(ibidem, p.92) . Ma in realtà, questo stava già marcendo nelle aie e nei magazzini.
Il cristianesimo fu il nome che prese quello che N. definisce il veleno che ormai aveva invaso tutto il corpo, la cancrena che con le parole stesse di Nietzsche “era nel corpo della civiltà occidentale dai tempi di Socrate” (Crepuscolo degli idoli, Adelphi, Milano 1977, cap. “Il problema Socrate”),  e ormai aveva finito il suo cammino distruttivo all’interno dell’organismo. Come Nietzsche stesso ha enfatizzato, “non si perisce mai per opera di altri, ma soltanto  di se stessi” (ibidem, p.108) e, spiega Freud, ogni organismo muore per cause interne (“Al di là del principio del piacere”, in Opere, vol.IX, p.224. e pp.230 – 235). Il cristianesimo in realtà fu l’ultima salvezza, senza di esso le cose sarebbero andate molto peggio. Il cristianesimo, salvò, trasfigurandolo quello che era rimasto del mondo antico.
Nell’accusare gli ebrei, Nietzsche cadde nella trappola tesagli da Tacito e da tutti gli ellenisti antisemiti che odiavano gli ebrei per la loro fedeltà tribale, inconfondibile, anche se sublimata. La vendetta del mondo greco – romano – cristiano consistette proprio nel dichiararsi ispirati dall’ebraismo. Questa fu la risposta al rifiuto degli ebrei di inserirsi nell’ecumene panellenista apollinea, come aveva fatto invece tutto il resto del Medio Oriente semita. Così, per i romani, gli unici semiti = barbari rimasero gli ebrei, isolati, e con le parole di Tacito, “gente di provato odio verso l’umanità”. Nietzsche li accusò di essere stati l’utero che generò il cristianesimo, ma questo nacque nell’utero dell’odio panellenista verso gli ebrei, e germogliò sul suolo del ressentiment di una cultura estraniata dalle proprie radici. Allo stesso modo, è esatto dire che “Il cristianesimo [non] ci ha defraudato di quello [il raccolto] della civiltà islamica” (ibidem, p.92), che Nietzsche, come tedesco, con il suo gusto dionisiaco vede  come molto più raffinata della società post-apollinea, rappresentata dall’Inquisizione spagnola. Come abbiamo rilevato nei capitoli precedenti, questa splendida società pluralista, non poteva coesistere con il mondo monista post-apollineo.
Allo stesso modo, “[Non] furono i tedeschi a defraudare l’Europa dall’ultima grande messe di civiltà che fosse data all’Europa dei raccogliere”(ibidem, p.93), bensì la civiltà del Rinascimento crollò per via del rigurgito dionisiaco che ne minò l’equilibrio al suo interno e che era quello stesso che aveva minato l’equilibrio apollineo del mondo antico. Fu la lotta interna tra apollineo e dionisiaco che decise le sorti dell’occidente e che ne diressero il fato, e mai fattori esterni, certamente non gli ebrei, che erano occupati per la propria lotta per l’esistenza, nel contesto della problematica delle proprie tensioni interne. Nietzsche avrebbe dovuto saperlo, lui che aveva scoperto la tensione tra apollineo e dionisiaco e inoltre l’inizio della decadenza greca dai tempi di Socrate e Platone  e il suo sfociare nel cristianesimo.
L’ebraismo viveva da sempre la  conflittualità all’interno della sola sfera dionisiaca tra il bisogno di sfogo e la repressione. Non vi è alternativa apollinea nel modus mentale ebraico, vi è solo sfogo dionisiaco o inibizione e repressione, e la dialettica esistenziale si svolge esclusivamente tra questi due poli della stessa istanza psichica.
Il ressentiment stesso fa parte solo del contesto mentale di una società divisa in classi sociali, e questo, come abbiamo visto, fa parte della sfera del modus apollineo. Con il crollo degli equilibri si producono diffidenza ed estraniazione.
L’anatema dei profeti era diretto verso una società che voleva abbandonare la semplicità di vita e di uguaglianza sociale del seminomade e non era inteso come strumento di ressentiment di una classe sociale di estraniati. L’altro equivoco nietzscheano arriva al culmine quando dice che “il primo cristianesimo maneggia soltanto idee ebraiche e semitiche, (vi rientrano il mangiare e il bere dell’Eucarestia, un’idea così tristemente abusata dalla Chiesa, come tutto ciò che è ebraico)” (L’Anticristo, cit., p.42). Proprio l’Eucarestia, che è un rito che si ricollega direttamente al pasto totemico di Dioniso, viene propinata come un rito ebraico. Il sangue di Dioniso, tramutato in vino, è donato all’umanità, e il suo corpo, raccolto da Demetra, la dea delle messi e del pane, tramutato in rito ebraico!
Fortunatamente, Nietzsche era genuinamente filosemita, altrimenti sarebbe stato facile passare da questo alla famigerata accusa di omicidio rituale, del quale gli ebrei furono accusati per secoli. Il rituale ebraico proibisce in assoluto l’ingerimento di qualsiasi tipo di sangue (“il sangue è l’anima”: vedi Gen.,9,4; Deut.,12,23), al punto che un ebreo ortodosso è comandato di immergere nel sale per ore qualsiasi pezzo di carne, prima che gli sia consentito di cibarsene, e, aperto un uovo, se scopre anche una minima traccia di sangue, deve disfarsene e gli è proibito adoperarlo in qualunque modo.
Ma l’equivoco si svolge addirittura in ideologia (Umano, Troppo Umano II, Adelphi, Milano 1977, p.174), quando Nietzsche dispiega la genealogia del senso di colpa. Wellhausen aveva scomposto il mito biblico della cosmogonia a seconda delle due fonti: Jahvista (J) e Sacerdotale (Q), e aveva correttamente messo a nudo la manipolazione della fonte sacerdotale, ma entrambe queste versioni si basavano su una fonte ancora più antica, che era la saga orale della preistoria del popolo ebraico. Analizzando il mito biblico, Reik (Myth and Guilt, Braziller, New York 1975.) è arrivato alla conclusione che questo mito trattava del peccato originale come un atto di aggressione arcaico, sulla scia delle scoperte di Freud (Totem e Tabù), verso l’albero come personificazione del corpo di Dio padre stesso. Quest’atto di aggressione cannibalistico era il peccato originale e la fonte del senso di colpa.
In questo contesto, il senso di colpa che ne consegue non è certo una particolarità ebraica. Quest’atto di aggressione primordiale appare in un modo o nell’altro nella mitologia di tutti i popoli e il racconto del giardino dell’Eden è la versione ebraica di quello che è un mito comune a tutta l’umanità.
In entrambe le versioni, quella jahvistica e quella sacerdotale, il peccato è limitato a un atto di aggressione cannibalistica verso il corpo del dio. L’Albero della conoscenza è l’Etz Ha-d'at, come Adamo conobbe Eva sua moglie (Gn.4,1), e la radice è la stessa, ma anche come i sodomiti volevano conoscere gli ospiti di Lot, con la chiara intenzione di sodomizzarli (Gn.19,5), il verbo usato è lo stesso. La conoscenza avviene dunque in un contesto genitale, ma non specificatamente eterosessuale. Il peccato originale era il peccato di evirazione e cannibalismo sul corpo di dio-Padre, per incorporarne la conoscenza, esattamente come questo peccato viene perpetrato da Crono sul corpo di Urano, e nella sua inversione nell’atto cannibalistico di Crono nei confronti dei suoi figli. In entrambi i casi l’uomo primordiale evira il padre e lo cannibalizza per appropriarsi della sua conoscenza, l’ostruso sapere sessuale che spetta solo ai padri.
Nella saga biblica il peccato originale non è connesso al rapporto eterosessuale; il mito biblico non condanna la conoscenza per sé, bensì la conoscenza genitale , che è collegata all’aggressione cannibalistica verso l’albero per appropiarsi delle sue peculiarità, della sua “conoscenza”. Evirazione e cannibalismo dei figli verso il padre. Le saghe bibliche della cosmogonia e del diluvio universale sono miti comuni a tutta l’umanità. Nella Bibbia sono stati censurati e sono diventati piu’ ermetici.
Ma, ancora più importante, è che l’atto sessuale non è considerato peccato da tutta la tradizione e la legislatura ebraica. L’unico peccato mortale è l’adulterio, ovvero quello che commette l’uomo esclusivamente con la donna di un altro. La causa è chiara: per impedire vendetta e spargimento di sangue all’interno del clan. Il cristianesimo considera invece peccato mortale qualsiasi rapporto sessuale al di fuori del matrimonio.
Nell’ebraismo, il Nazir (ovvero il Nazireo, come Sansone), votava di non bere vino e non tagliarsi i capelli, ma l’astinenza sessuale era ed è tuttora severamente proibita.
Quindi, il rapporto sessuale nella tradizione ebraica non è mai considerato impuro. Neppure la classe sacerdotale ebraica poteva né voleva introdurre un parametro così antitetico al modus mentale ebraico. Nietzsche su questo argomento pecca di insipienza. Le sue supposizioni si basano su un argomento a priori che siano stati gli ebrei a contaminare l’Occidente con il senso di colpa per tutto quel che riguarda la sessualità. Il parametro dell’astinenza e della verginità era sempre stato uno dei due poli del’atteggiamento del greco verso la sessualità: promisquità nella vita giornaliera, ma verginità nelle cellae dei templi. Le dee greche più importanti erano Atena e Artemide, che erano anche dee vergini, mentre le dee semite erano tutte prostitute sacre. A questo paramentro si riallacciò il cristianesimo: la verginità delle dee, ovvero alla sacralità della verginità.
Ugualmente per quel che riguarda il diluvio universale. Questo mito appare anch’esso nella mitologia di tutti popoli, dai sumeri ai babilonesi ai greci. È vero che nella saga ebraica appare Jahvè come un dio terribile, che ne è la causa, ma questa è la condensazione di un rito iniziatico arcaico, in cui Jahvé l’iniziatore, spaventa a morte i suoi figli che rinascono dopo il diluvio.
Nella stessa maniera, Apollo, nelle tracce mnestiche della saga iniziatica greca, fa strage nel campo degli achei, per un’offesa subita. Ed è anche il dio che emerge dal diluvio universale e sconfigge il Pitone. Apollo è la condensazione sia dell’iniziatore che dell’iniziato che, come Noé emerge dal diluvio. La saga è la stessa solo che gli ebrei la censuraraono fino a renderla irriconoscibile. Non vediamo la differenza tra l’ira di Jahvé e l’ira di Apollo, o l’ira di Poseidone contro Ulisse per un insulto, o l’ira di Zeus verso Prometeo.
L’ira degli dei per la hybris degli uomini non è certo un’invenzione ebraica.
L’unica cosa di cui si può accusare gli ebrei in questo contesto, è di naivetée : Jahvè, così presto a irritarsi, così permaloso, è anche però presto nel calmarsi e nel perdonare, a differenza degli altri dei, che non si arrendono tanto facilmente alle suppliche umane. Questa naivetée li ha portati a creare l’immagine di un dio misericordioso, sullo stampo dell’immagine di un dio padre, patrono della tribù, che deve necessariamente perdonare i suoi figli per perpetuare la propria discendenza.
La classe sacerdotale post-esilica manipolò la mitologia ebraica per poterla conservare. Gli arcaici significati originali erano stati nel frattempo dimenticati. Se le antiche saghe parlavano di numerosi dei e di arcaici riti iniziatici, di storie in cui Jahvè appariva insieme ad altri dei, il popolo ebraico si era emancipato, asserragliandosi in uno stretto monoteismo, era stato messo di fronte alla scelta tra due possibilità : o cancellare completamente le proprie saghe, o modificarle per renderle accettabili nel contesto del nuovo modus mentale. Invece che estraniarsi dal proprio passato, come i greci – romani - cristiani, e i popoli tedeschi e scandinavi, che rinnegarono i propri dei e li misero a morte, dicendo : « noi non siamo loro », gli ebrei manipolarono i testi per mantenerli in vita, e Jahvé assunse quelle peculiarità che gli permisero di rimanere a casa sua.
Anche un adulto rimuove le proprie reminiscenze infantili sotto la pressione di un nuovo principio di realtà. Rimuovere non significa necessariamente rinnegare. Le reminiscenze inconsce continuano a esercitare la loro azione sulla vita psichica e a influenzare i comportamenti e le decisioni attuali che rientrano a fare parte del modus di un individuo come di un popolo.
La Aufhebung di Hegel : è il nucleo di un concetto superato, al servizio di un’idea più evoluta che proviene da questo. Solo se si crea un conflitto insanabile tra reminescenze inconsce e esigenze attuali si crea una crisi, una rottura, o in altre parole, una nevrosi. Il popolo ebraico inserì le proprie reminescenze nel nuovo contesto che si era creato, e fu uno sviluppo e non una rottura. Il prezzo da pagare fu la manipolazione degli antichi testi, come il prezzo che paga l’adulto è la rimozione delle proprie memorie infantili.
Per i popoli come per gli individui, l’importante è rimanere fedeli a se stessi.
 

Lo scacco nietzschiano

Non è un caso che il filosemitismo di Nietzsche si rinforzasse di pari passo con la sua risolutezza ad istituire “un regime dionisiaco” in Europa, e risanarla così dalla sua decadenza. Nietzsche arriva perfino ad augurarsi che gli ebrei prendano il potere in Europa, per imprimere così il proprio carattere nell’europeo, e si rattrista solo a constatare che quelli invece non abbiano la minima aspirazione al riguardo, bensì solo il proprio inserimento nella cultura europea (e Nietzsche vide in questo un’attenuazione dei sani istinti ebraici ) (Al di là del bene e del male, op.cit., pp. 64-65). Cosa aveva portato Nietzsche, non solo a rigettare e disprezzare l’antisemitismo, ma persino ad augurarsi che gli ebrei volessero compiere un coup d’état culturale come unica panacea alla soluzione della decadenza europea?
Nietzsche vedeva, nell’ebraismo contemporaneo, la controcorrente al filisteismo e alla corruzione esistenziale dell’uomo occidentale. Per parafrasare il Vangelo: “la salvezza viene dagli ebrei” . Se Nietzsche aveva accusato gli ebrei della classe sacerdotale del I sec. A.C di essersi staccati dalle proprie radici dionisiache, che trovano invece piena espressione nel Vecchio Testamento, e di avere preparato così l’avvento della “cosa funesta”, il cristianesimo, riscatta completamente l’ebraismo contemporaneo da questa accusa, e si aspetta dagli ebrei europei del suo tempo di contribuire al risanamento dell’Europa, come i loro avi dell’età romana avevano contribuito, preparando il cristianesimo, alla sua degradazione.
Nelle ultime lettere della sua vita, Nietzsche si firma “Dioniso” (a Overbeck), “Il Crocifisso” (a Peter Gast), e nella sua ultima invettiva contro il cristianesimo, si firma “L’Anticristo”(cit., par. 88). Se la sua attitudine verso il cristianesimo era stata di condanna univoca, quella verso il Cristo stesso era stata ambivalente (ibidem, p.53). Non contro Cristo, infatti, si era gettato Nietzsche, bensì contro i suoi discepoli, che ne avevano trasmesso il messaggio nella sua versione apollinea, ovvero anti-dionisiaca.
In una delle sue ultime lettere dopo il crollo finale, datata 6 Gennaio 1889, scrivendo a Burckhardt, Nietzsche si descrive come il Cristo, che viveva in povertà, come il figlio di Dio che si trasfigura in Dioniso e opera come anticristo, e postula: “io sono tutto quello che c’è nella Storia” in un “Nota bene” di questa lettera, aggiunge: “ho ordinato di incatenare Caifa e Guglielmo, Bismarck e tutti gli antisemiti”.
Quindi, unisce in un’unica associazione, il prete ebreo Caifa con l’imperatore tedesco, con Bismarck e con tutti gli antisemiti. Ovvero: Caifa e la classe sacerdotale ebraica, che secondo Nietzsche preparò l’avvento del cristianesimo, vengono associati ai filistei tedeschi e a tutti gli antisemiti.
Cosa avevano in comune costoro? Ora ci è chiaro: erano lo strumento di repressione di ogni istinto dionisiaco. Secondo Nietzsche, i preti ebrei avevano trasfigurato l’ebraismo, come i seguaci di Cristo e tutti i dirigenti della cultura occidentale avevano trasformato la civiltà greco–romana, e prodotto la decadenza, e per Nietzsche la decadenza non è altro che il rinnegamento delle proprie radici dionisiache. E di questo infatti accusa i tedeschi. Vedeva in loro solo la volgarità di pulsioni dionisiache rimosse, senza nessuna canalizzazione come medium di sublimazione.
Sentiamo cosa dice:

E perché non dovrei andare fino in fondo? Mi piace fare piazza pulita. Passare per spregiatore par excellence dei Tedeschi fa parte della mia ambizione. Già a ventisei anni ho avuto modo di esprimere la mia diffidenza per il carattere tedesco (terza Inattuale, p71)-- per me I Tedeschi sono impossibili. Ogni volta che provo a immaginarmi un tipo di uomo che vada contro a tutti i miei istinti ne viene fuori un tedesco. Quando voglio “sondare” un uomo, per prima cosa osservo se ha in corpo un qualche senso della distanza, se ovunque vede il rango, il grado, l’ordine fra uomo e uomo, se sa distinguere: è questo che fa il gentilhomme; in tutti gli altri casi si appartiene senza scampo alla categoria cordiale, ah!, così bonaria della canaille. Ma i Tedeschi sono canaille--ah! sono così cordiali…Il rapporto con i Tedeschi degrada, il Tedesco livella…Eccettuati I miei rapporti con alcuni artisti, e innanzi tutto con Richard Wagner, non ho mai passato mai una buona ora con dei Tedeschi…[...]Insomma i Tedeschi non hanno piedi, hanno solo gambe…I Tedeschi non hanno alcuna idea della loro volgarità, ma questo è il superlativo della volgarità-- non si vergognano neppure di essere dei semplici Tedeschi…Parlano di tutto, credono di essere loro a decidere tutto, temo che anche su di me abbiano preso le loro decisioni…-La mia vita intera è la prova de rigueur di queste affermazioni. Vi cercherei invano un segno di tatto, di delicatesse verso di me. Da parte di Ebrei si, mai finora da parte di Tedeschi (Ecce Homo, Adelphi, Milano 1977, pp.123 -- 4).
Gli ebrei contemporanei, invece, secondo Nietzsche, si riallacciavano direttamente alle antiche radici, scavalcando direttamente l’eredità sacerdotale, che aveva prodotto un Paolo e i suoi funesti disegni.
Ora ci è anche più chiara l’ambivalenza di Nietzsche su Cristo, il dio in croce, morto come Dioniso, ma rinato come Apollo, la cui figura era stata arruolata dai suoi continuatori per sradicare ogni essenza dionisiaca, nucleo esistenziale del mondo antico. Anche per Nietzsche, quindi, che auspica la salita degli ebrei d’Europa come antidoto al filisteismo post-apollineo, era  valida la formula: ebrei = dionisiaco, e da qui il suo filosemitismo, attivo fino all’esasperazione. Nietzsche vedeva se stesso come Dioniso, Cristo / Anticristo, ovvero Cristo dionisiaco, in contrasto al Cristo apollineo (“il Crocifisso”), in quanto era stato Dioniso a essere stato divorato, e negli ebrei i suoi unici veri seguaci, in quanto avevano conservato la propria essenza dionisiaca antiapollinea.
Per riassumere: Nietzsche aveva erroneamente concepito il cristianesimo come il prodotto di un ebraismo sacerdotale staccatosi dalle proprie radici dionisiache, e immerso in un ressentiment da vinti. Questa percezione errata gli era venuta dalla similitudine del meccanismo degli sconfitti socialmente, nell’ambito delle tensioni di una società apollinea, mentre invece gli ebrei vivevano la propria realtà esistenziale, e non avevano intrapreso dialoghi di nessun genere con la cultura che li aveva sopraffatti militarmente. Questa disfatta militare non si era mai tradotta in disfatta esistenziale, e quindi continuava a persistere l’odio, ma questo non si era mai tradotto in ressentiment.
L’odio per i romani e per la cultura greco – romana apollinea era aperto, violento e senza nessun compromesso, e quindi gli ebrei non adottarono mai una strategia mentale di schiavi e di sconfitti. Come a Iotapata (la fortezza ebraica espugnata da Vespasiano nel 68 A.D.), e Massada (rocca espugnata da Silva nel 73), alla sconfitta seguì il suicidio dei difensori.
La censura dei testi, intrapresa dalla classe sacerdotale, di cui Nietzsche ebbe notizia dalla lettura di Wellhausen, la trasfigurazione del dio di Israele in tiranno del suo popolo erano stati degli espedienti interni, ai quali gli ebrei avevano acconsentito inconsciamente, come strumenti per la propria sopravvivenza nazionale e per la propria cementazione nelle nuove condizioni che si erano create. Infatti, attraverso questo accorgimento, il dio – padre di una tribù compatta diventò il dio – padre di un popolo disperso, e ne mantenne così la coesione. Quello che era stato un dio locale, legato al luogo, un dio “in situ”, come tutti gli dei primitivi, compreso l’ebraismo descritto nell’Antico Testamento, diventò necessariamente un dio universale, poiché dispersi e universali erano diventati gli ebrei. Il tormentato dialogo tra Occidente ed ebrei, non ebbe mai la sua controparte in un dialogo tra ebrei e Occidentali.
Questo dialogo rimase un monologo, per mezzo del quale l’Occidente discute da sempre solo con se stesso.
Gli ebrei furono da sempre una controparte immaginaria. Come si lamenta Nietzsche: “gli ebrei potrebbero avere già in questo momento la preponderanza, anzi il vero e proprio dominio oggi sull’Europa, ed è altrettanto certo che essi non lavorano e non fanno piani a questo scopo”(Al di là del bene e del male, cit., p.165), e questo meraviglia Nietzsche.
Ciò non deriva da una “attenuazione” degli istinti ebraici, ma da una mancanza di volontà da parte di questi a intavolare un dialogo che non ha ragione di essere.
Se “desiderano solo essere assorbiti e risucchiati dall’Europa, in Europa” (ibidem, p. 165), è perché nelle condizioni attuali (ai tempi di Nietzsche), questa era una necessità pragmatica per la propria sopravvivenza. Cambiate le condizioni (ai nostri giorni), e riconquistata la propria indipendenza, gli ebrei hanno rinunciato a inserirsi in un panorama, che nel frattempo per loro è diventato soltanto un grande cimitero.
Nietzsche aveva bisogno degli ebrei affinché facessero da esempio ai popoli d’Europa su che cosa voglia dire essere ricollegati alle proprie radici dionisiache.
In ciò Nietzsche vide giusto. Vide cioè che gli ebrei vivevano una realtà esistenziale dionisiaca, anche se repressa canalizzata e sublimata. Vide negli ebrei la continuità esistenziale, la mancanza di estraniazione dalle proprie radici, che invece avevano minato la cultura occidentale.
Ma a causa di questa essenza dionisiaca, invece di essere portati ad esempio, gli ebrei furono massacrati. Nietzsche non aveva contemplato che non si può indirizzare una cultura artificialmente in una direzione piuttosto che in un’altra.
Capì la fenomenologia, la diagnosi, ma non la sua prognosi.
Se, come abbiamo enfatizzato nei capitoli precedenti, l’antisemitismo occidentale era nato come meccanismo di difesa dal proprio substrato dionisiaco rimosso, è ovvio che il problema non avrebbe potuto essere risolto riproponendo una soluzione non solo scartata, ma mantenuta nella sua rimozione attraverso un investimento energetico continuo.
E proprio i tedeschi, con la loro cultura filistea e pseudo-apollinea non mediata, erano i  più vulnerabili a un rigurgito di dionisismo barabarico, che si tradusse in fobia verso gli ebrei (e come abbiamo visto, verso gli zingari), rappresentazione esistenziale di un dionisismo sublimato, e a loro precluso.
Caifa era stato messo in catene dalla fantasia di Nietzsche, insieme all’imperatore tedesco, a Bismarck e a tutti gli antisemiti, poiché questi avevano messo in croce il Cristo – Dioniso, il suo dio prediletto, con il quale adesso egli si identifica. Quindi, gli antisemiti diventano ora i veri Anticristo, i nemici della Buona Novella dionisiaca e i suoi stupratori.
In un’unica allucinazione, Nietzsche condensa il doppio senso del suo messaggio: all’immagine di un Cristo trasvalutatore di tutti i valori del mondo antico, agitatore politico venuto a minare e distruggere il nucleo dionisiaco dell’essenza occidentale, si sovrappone Dioniso stesso, personificazione di questi valori, in croce, con cui Nietzsche si identifica. In questa istantanea, antisemiti sono gli assassini di Dioniso, il vero dio, il prete ebreo Caifa lo consegna al martirio come i continuatori dell’imperatore tedesco e di Bismarck consegneranno gli ebrei ai forni crematori e alle camere a gas: sia questo che quelli sono gli assassini del dio, gli stupratori della verità e della vita, ma Nietzsche non poteva sapere che questo assassinio simbolico, perpetrato sui valori dionisiaci, si sarebbe realizzato poi come assassinio reale, perpetrato su uomini in carne e ossa.
L’allucinazione di Nietzsche si traduce in una realtà non meno allucinatoria. I tedeschi, assassinando gli ebrei, tentarono di assassinare il Dioniso rimosso che abitava dentro di loro e diventarono solo una caricatura grottesca del dio, del dionisiaco, e dei valori cari a Nietzsche. Nietzsche aveva auspicato un’Europa in cui i valori ebraici avrebbero preso il sopravvento. Non aveva previsto la reazione fobica di una cultura che si sentiva minacciata dalla presenza di questo dionisiaco. La fobia si trasformò in paranoia, e questa produsse il genocidio.
Nietzsche era, dopotutto, un inguaribile ottimista. Aveva decodificato, con le sue intuizioni folgoranti, l’enigma della tortuosa mente occidentale. Credeva che indicare la via sarebbe bastato. Ma la mappa che egli aveva disegnato fu stracciata da coloro che non potevano più trovare la strada: “Chi brucia i libri prima o poi brucia anche la gente”, aveva detto Heine. Gli antisemiti, ovvero gli anti-dionisiaci, si vendicarono di lui, eleggendolo a proprio ispiratore, e non avrebbero potuto trovare vendetta più sottile. Il vero ressentiment, quello di una cultura che non riusciva a venire a termini con il problema della propria identità, fu il catalizzatore dell’esplosione paranoica genocida.
Non il ressentiment sottile degli schiavi contro i propri padroni, e dei vinti sui vincitori, ma quello frastornante e violento di un popolo consumato dalla frustrazione di non potere più ricollegarsi alle radici della propria identità.

Continuazione

Nella sua introduzione all’antologia delle opere di Nietzsche, Sergio Moravia riassume i motivi per i quali la lucida opera demolitrice di Nietzsche non poté essere seguita da una altrettanto lucida opera edificatrice di una sintesi come soluzione esistenziale:

L’opera annunziatrice, o addirittura costruttiva voluta da Nietzsche non aveva spazi visibili di sviluppo all’interno della prospettiva nietzscheana. In effetti, verso quali obiettivi poteva Nietzsche volgere il suo progettato Magnus Opus, una volta scritto quello che aveva scritto negli ultimi testi pubblicati? Non poteva ovviamente volgerlo verso obiettivi di tipo religioso–metafisico: Dio è morto, i principi e i valori trascendenti sono stati o distrutti o ricondotti genealogicamente alle sorgenti terrene; non poteva neppure credere molto alla percorribilità di itinerari di tipo anarco – vitalistico. Invero, essi erano stati suggeriti negli scritti morali del 1886–87, e sono presenti anche nell’Opera mai scritta. Ma questo percorso spesso indicato, non è mai sviluppato. L’appello all’individuo e agli istinti era stato, in un altro contesto, molto fruttuoso. Ma né l’individuo (biologicamente inteso), né gli istinti, potevano rappresentare la base adeguata per il nuovo messaggio. Perché ciò fosse stato possibile, Nietzsche avrebbe dovuto essere stato Freud, e magari un Freud liberato da quelle pastoie positivistiche che resero così difficile e ambiguo lo sviluppo della stessa psicoanalisi. Ma Nietzsche non è Freud. Non può distendere in un discorso organico e fondato le pur geniali intuizioni o la dimensione istintuale inconscia dell’uomo. Non può, in particolare, collegare in modo soddisfacente il piano degli istinti biologicamente intesi con il piano degli atti culturali, e quello dell’individuo con quello della comunità (F. Nietzsche. La distruzione delle certezze, a cura di S. Moravia, La Nuova Italia, Firenze 1976,  p. LXVII).
Quello che l’autore chiama “lo scacco finale di Nietzsche”, non è solo
l’illegittimità, l’inutilità, l’assurdità di tentare di costruire chicchessia a livello intellettuale. Può emblematizzare cioè l’impossibilità e l’insensatezza dopo la grande crisi della civiltà occidentale moderna (indotta anche da Nietzsche e da altri pensatori ma non solo da loro) di volere edificare un nuovo essere, una nuova condizione per l’uomo con mezzi filosofici (Ibidem, p.LXIV) .
Ma vi è qualcosa di più. Nietzsche, in realtà, aveva usato il suo bisturi da chirurgo per isolare la cancrena che invadeva la società occidentale, ma questa faceva parte integrante dell’organismo stesso, poiché non aveva messo radici casualmente, ma come conseguenza inevitabile dello sviluppo che questa società aveva intrapreso, e senza il quale non avrebbe avuto una propria identità, ovvero non sarebbe semplicemente esistita.
Quando le tribù greche si organizzarono a polis, abbandonarono l’arcaica fedeltà alla legge del padre, e i legami e gli affetti del clan, intrapresero anche la strada dell’astrazione e quindi della rimozione degli affetti più genuini e vitali. La parola “tribale” divenne un insulto, “fedeltà di sangue” simbolo di barbarie. Ma il sangue è quello che scorre nelle vene. Patto di sangue quando lo si mescola a quello degli altri membri del clan, e si diventa così un corpo solo. Autoprivandosi di questo affetto vitale essenziale, l’uomo occidentale creò per la prima volta nella storia dell’esistenza umana una scissione tra se stesso e gli altri.
Per l’uomo primitivo, il clan dei fratelli era un corpo solo, quindi non esisteva una divergenza di interessi tra il singolo membro e gli altri. Per lui la vita scorreva da sola, senza bisogno di astrazioni e filosofia. Non esisteva nemmeno una divergenza d’identità tra sé, gli altri, e perfino tra la natura che lo circondava.
Le sue verità sensoriali erano anche l’unica verità che lo interessava. Le pietre e gli alberi avevano un’anima come la sua. Quindi, niente distinzioni come soggetto e oggetto, pensante e pensato. Non esisteva una divergenza tra sentire e pensare, e questo era un unico flusso energetico.
Distaccatosi da questa realtà esistenziale, l’uomo poté solo sostituirle con la costruzione di quei modelli illusori che Nietzsche riuscì così lucidamente a demolire.
Senza questi modelli non può esistere la società occidentale. Distrutta la sintesi, l’analisi restituisce la società al primo gradino: la tribù, ed eventualmente l’orda primitiva. A differenza del singolo, che attraverso l’analisi può ricostruire una migliore sintesi, la società non è in grado di operare una simile metamorfosi, bensì solo imboccare una via che, anche se diversa, si basi sugli stessi presupposti, perché questi sono anche i presupposti della propria identità, e questa è l’unica che conosce.
Nietzsche può analizzare la genealogia della morale occidentale, ma non può cambiare niente, perché lo sviluppo intrapreso da questa società era l’unico possibile.
Come non si può cambiare il moto dei corpi celesti analizzandone la fenomenologia, così non è possibile cambiare il corso della storia della società solo perché se ne è svelato il meccanismo.
Il singolo, attraverso la conoscenza, può acquistare un grado più alto di libertà individuale, quando gli vengono aperte le porte dell’autorealizzazione, all’interno del datuum, del principio di realtà nel quale egli si trova. La società non possiede questa libertà, ed è destinata a svilupparsi secondo il percorso impostole dalle forze che premono su di essa nelle varie direzioni. Nessuna analisi della fenomenologia di queste forze potrà mai modificare la dinamica del movimento. Non leggi di natura bensì casualità di una fenomenologia, che, non conoscendo nessun principio di non contraddizione, cede alle pressioni che subisce e si muove in una direzione piuttosto che in un’altra. Nietzsche può maledire il cristianesimo a suo piacere, ma questo, come abbiamo visto, non fu una causa, bensì un risultato. Non una nuova forza emersa dal nulla, ma una conseguenza, la metamorfosi di un corpo sotto la forza delle pressioni interne ed esterne che si esercitavano su di esso. Inveire contro di esso è come inveire come il maltempo! Si può auspicare il bel tempo, ma non lo si può programmare né costruire. Il meglio che può fare il singolo è conoscere le condizioni meteorologiche e muoversi al meglio all’interno di esse.
Gli ebrei, nel corso della loro esistenza, furono esposti a forze che ne determinarono lo sviluppo, tanto complesso questo, quanto complesse erano state quelle.
La società occidentale fu esposta ad altre forze e pressioni, e quindi il suo sviluppo fu diverso, antitetico.
Il destino volle che si creò un’incompatibilità tra le diverse soluzioni intraprese.
 

Quello che vide Shakespeare

Potrà sembrare strano, a questo punto, che l’intuito piu’ sottile sul meccanismo dell’ antisemitismo sia venuta da un drammaturgo inglese dell’età elisabettiana, che nulla sapeva di correnti apollineee e dionisiache, di sublimazione e di “Roma contro Giudea, Giudea contro Roma”, e che già i suoi critici, dai contemporanei, fino a quelli recentissimi, accusavano di “scarsa cultura”.
Shakespeare aveva percepito chiaramente l’aspetto sotterraneo di questa corrente dionisiaca che emergeva dall’inconscio in una rappresentazione figurata di tutto ciò che è antitetico al modello apollineo della società occidentale. Aveva capito che questa era la proiezione di passioni inconsce che veniva incontrata da un controinvestimento pulsionale, in una lotta che trova la sua espressione nella figura di Antonio-Apollo il rappresentante del bene e della luce, contro il dio caprino Dioniso-Shylock, rappresentante di foschi istinti rimossi. Shylock-Dioniso, rappresentante del diavolo, sembra avere la meglio fino all’ultimo momento, quando la luce e il bene della giustizia veneziana trionfano su di lui e lo rimandano nei sotterranei dell’inferno, da dove era emerso.
Il Mercante non è quindi una  tragedia, ma una commedia, la rappresentazione della lotta tra bene e male, in cui il bene trionfa come un deus ex machina, in accordo con le aspettative di una folla perennemente minacciata da ciò che non vuole sapere né sentire: la propria essenza pulsionale. Se nella tragedia avviene un’identificazione dello spettatore con Dioniso e le sue pulsioni, e il dio-eroe è destinato a morire dopo avere completato la sua missione parricida, nella commedia invece, nel Mercante, Shylock, come Dioniso muore, ma l’identificazione della folla è con l’altro polo, Antonio-Apollo; Shylock non è l’eroe, bensì la sua antitesi.
Questo sviluppo rispecchia la metamorfosi della società occidentale, dai tempi di Eschilo, in cui l’uomo non aveva ancora rimosso la propria essenza dionisiaca, bensì si identificava con questa ed era pronto ad accettare le conseguenze e la pena che accompagnano questa identificazione. Nella Venezia di Antonio, questa identificazione era sentita come una grave minaccia, e dunque rimossa, e il diavolo viene lasciato emergere solo per venire negato e rinnegato energicamente. Non a caso si parla con tanta insistenza di carne, traccia mnestica dell’antico atto cannibalistico, in cui il dio viene trucidato e divorato.
L’inversione è chiara: Dioniso-Shylock esige una libbra di carne, poiché questa è proprio la sua carne, che esige, dopo che era stata divorata nell’antico rito: e così emerge dalla rimozione per riappropriarsi di ciò che, anche secondo l’opera shakespeariana, è suo di diritto. Ma infine il diritto di Apollo trionfa nuovamente su quello di Dioniso, ed è questa la giustizia che sarà celebrata.
Shakespeare dunque ci parla della vittoria di Apollo su Dioniso (la saggezza apollinea trionfa sulla pulsione dionisiaca di divorare). Shakespeare crea sulla scena la rappresentazione figurata dei due poli nella loro antitesi, adoperando chiaramente lo stereotipo caricaturale di Shylock = Dioniso = capro = ebreo.
Così facendo, egli sembra dare in pasto alla sua folla la preda a cui questa anela, ma quanto più spinge all’estremo la rappresentazione stereotipata, tanto più in realtà crea la caricatura di coloro nei cui abissi viene creato tale stereotipo, e quella che sembra la caricatura dell’ebreo, diventa alla fine la caricatura dell’antisemita.
Shylock perde la bella figlia, perché bellezza e soavità non spettano a lui, rappresentazione figurata della bruttezza e della malvagità. Egli viene lasciato anelare ai suoi prodotti fecali (il denaro), e anche di questi viene infine privato, come atto di nobile giustizia apollinea. La figlia lo deruba degli anelli e dei gioielli, poiché anche questi non gli spettano. Tutto ciò che si associa a beltà, nobiltà e valore, spetta di diritto ai cristiani; la figlia trasfigura nella sua persona un’origine dionisiaca in bellezza apollinea, come un brutto anatroccolo che si trasformi in un cigno , e in una Porzia/Nerissa, le dee greche che rappresentano l’ideale del bello e dell’apollineo. Porzia, Nerissa e Gessica rappresentano infatti l’antica triade verginale olimpica, ripristinata per dare il premio all’eroe apollineo.
Nella tragedia eschilea, apollineo e dionisiaco erano i poli di un’unità, una sola realtà esistenziale. Il pubblico non era composto da spettatori, ma da protagonisti. Vivevano nel tremore delle membra e del pianto la propria esperienza esistenziale. Nella tragedia non esisteva caricatura o derisione. Nella commedia, invece, il pubblico deride e si fa scherno delle  proprie rimozioni e cosi’ riesce anche a esorcizzarle.
Shakespeare sembra avere creato esattamente l’opera che tutti si aspettavano da lui. Ma quando finalmente Shylock apre la bocca, il suo grido di dolore si ripercuote, come una martellata sul pubblico: questo non è più lo stereotipo che parla, bensì l’ebreo, e le sue parole sono un atto di accusa contro l’uso che il mondo apollineo ha fatto della sua figura, a uso e consumo dei propri bisogni, senza curarsi della realtà umana ed esistenziale che così facendo ha calpestato . Per un momento, Shakespeare fa uscire l’uomo dalle vesti del protagonista della commedia, come per avvertirci: “attenti, vi ho dato quello che volevate sentire, ma se credete che dietro lo stereotipo non ci sia l’uomo, vi sbagliate. La caricatura siete voi, con i vostri bisogni tenebrosi”.
Antonio infatti aveva detto: “Il mondo è un teatro dove a ciascuno tocca recitare una parte” (I, i). Ovvero Shakespeare ci avverte che si trattava solo di teatro e di parti, come in una rappresentazione apollinea, da Euripide in poi. Non è realtà, vita vera, come invece è la tragedia eschilea. E Shylock recita la parte assegnatagli fedelmente, fuorché in questa scena, dove Shakespeare ci mette all’improvviso di fronte a un colpo di scena, spogliando Shylock della sua parte e presentandoci l’uomo nella sua verità, libero dalle vesti che altri gli avevano imposto. Cade la maschera, si spoglia della pelle di capro di cui lo avevano rivestito, e si rivela come lo specchio delle altrui proiezioni, riflettendo l’immagine di chi guarda. L’antisemita razionalizza la sua passione, e si preclude da solo la possibilità di giungere a sbrogliare un nodo cruciale della sua costituzione psichica.
Ma la presa di posizione del grande drammaturgo inglese fu talmente imbarazzante per l’occidente antisemita, che questo sentì il bisogno di correre ai ripari: ed ecco che lo stesso Shakespeare venne accusato di antisemitismo, lui che attraverso la sua arte ne aveva svelato il meccanismo reale. Ogni volta che si parli del Mercante, o ci si accinga a rappresentarlo sulla scena, gli intellettuali occidentali, si sentono in dovere di criticare quest’opera per il suo presunto antisemitismo. Gli antisemiti non possono perdonare a Shakespeare di essere stato al di sopra di questa tenebrosa passione, e di avere sollevato il velo, alzando il sipario, sugli stereotipi che la caratterizzano. Estrema ironia: non vogliono mettere la sua effigie sulla moneta dell’Euro, la moneta dell’Europa unita, perché, a causa del suo presunto antisemitismo, non ne sarebbe degno.
Sottilissimo meccanismo di vendetta!
I nazisti elessero Nietzsche a loro precursore, per vendicarsi del suo filosemitismo e del profondo disprezzo nei confronti dei tedeschi e del loro filisteismo. I nazisti non potevano certo convivere con il filosemitismo militante di Nietzsche, e perpetrarono una radicale mistificazione dei suoi scritti, così i dirigenti europei non possono convivere nemmeno con la semplice percezione che Shakespeare sia stato anche solo al di sopra degli stereotipi così radicati nella psiche europea.
E così, Shakespeare non avrà la sua effigie sulla moneta ufficiale dell’Europa unita. Questo grande uomo non è considerato sufficientemente un “buon europeo”, e, guarda caso, perché era “antisemita”.

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Epilogo

Freud aveva avuto il sospetto che la felicità dell’uomo è minata dai suoi stessi sforzi per ottenerla, per lo meno per quello che lo riguarda come collettività. Nel 1924, riflettendo sulle resistenze alla psicoanalisi  aveva detto:
 

La civiltà umana poggia su due pilastri, di cui uno è il controllo delle forze della natura, l’altro è la limitazione delle nostre pulsioni. Il trono della regina è retto da schiavi in catene… Le esigenze pulsionali insoddisfatte fanno sì che egli avverta con un senso di oppressione costante le pretese della civiltà (“La Perdita della realtà nella nevrosi e nella psicosi”, in op.cit., vol.X, pp.39 -- 43).


E ora ci è più chiara anche la frase che abbiamo riportato sopra (p.6) “Trattenere l’aggressività e comunque malsano, porta alla malattia”, e così dicendo non ci aveva altro che confermato la saggezza biblica: “Un’attesa troppo prolungata fa male al cuore, un desiderio soddisfatto è albero di vita” (Prov. 13,12)
Ma non porta forse alla malattia anche il predominio assoluto delle forze dell’Es?
Non ci ha insegnato forse lui stesso che il ritiro delle energie dalla sfera dell’Io e la regressione a una psiche dominata esclusivamente dalle pulsioni dell’Es porta alla perdita del principio di realtà, all’allucinazione e alla psicosi? (“La Perdita della realtà nella nevrosi e nella psicosi”, in op.cit., vol.X, pp.39 -- 43).

Freud, nei suoi scritti, non parlò mai di apollineo né  di dionisiaco. La sua attitudine verso Nietzsche non può essere definita altro che “perturbante”. Si sentiva attratto dall’uomo Nietzsche, come emerge dalle numerose menzioni che compaiono nei suoi scritti, e d’altra  parte, si faceva un punto d’onore di non averlo mai letto, come in un sospetto tentativo di non sentirsi l’”epigono” del suo grande precursore.
Freud non parlò mai di dionisiaco, ma parlò di “Es”; non parlò mai di apollineo, ma parlò di “Io”. Ma il parallelismo tra i concetti introdotti da Nietzsche e le istanze psichiche postulate da Freud era troppo evidente per non essere notato.
L’unica concessione che fece al dunque fu questa:

gli eventi della storia, gli influssi reciproci tra natura umana, sviluppo civile, e quei sedimenti di avvenimenti preistorici di cui la religione è il massimo rappresentante, altro non sono che il riflesso dei conflitti dinamici tra l’Io, l’Es e Super-Io, studiati dalla psicoanalisi nel singolo individuo: sono gli stessi processi ripresi su di uno scenario più ampio (“Autobiografia”, poscritto del 1935, in op.cit., vol.X, p.139).
Una delle cose che più turbava Freud era il legame enigmatico tra la psiche dell’individuo e la psiche della collettività. In "Totem e Tabù" , afferma:
Senza l’ipotesi di una psiche collettiva, di una continuità della vita emotiva degli uomini, che permetta di prescindere dall’interruzione degli atti psichici, dovuti alla transitorietà dell’esistenza degli uomini individuale, la psicologia dei popoli in generale non potrebbe sussistere. Se i processi psichici di una generazione non si prolungassero nella generazione successiva, ogni generazione dovrebbe acquisire ex novo il proprio atteggiamento verso l’esistenza e non vi sarebbe in questo campo nessun progresso e in sostanza nessuna evoluzione ("Totem e tabu", in op.cit., vol.VII, pp.160 -- 161).
Nel 1921, quando si occupa della psicologia delle masse (“Psicologia delle masse”, in op.cit., vol.IX, p.304.) fa dipendere l’autoidentificazione degli individui che costruiscono un’organizzazione simile dalla assunzione collettiva dello stesso ideale dell’Io (Super-Io). Questo spiegherebbe il fenomeno per il quale un massa, e per estensione anche un’intera collettività, interagiscono come se si trattasse di un singolo e con la stessa fenomenologia delle azioni psichiche dell’individuo. Questo sarebbe il meccanismo per mezzo del quale la psicologia del singolo, moltiplicata per il numero dei membri di una collettività, si traduce in “anima collettiva”.
Nella lezione 30 dell’Introduzione alla Psicoanalisi, mentre si occupa del problema della telepatia, Freud ritrova lo stesso filo della problematica della psiche collettiva.
Il processo telepatico consisterebbe nel fatto che un atto mentale di una persona suscita il medesimo atto mentale di un’altra persona”(“Introduzione alla psicoanalisi”, in op.cit., vol.XI, p.167).
E ancora: “È noto che rimanga un mistero come venga a formarsi una volontà collettiva tra grandi comunità di insetti. È possibile che si formi attraverso questa trasmissione psichica diretta. Nulla vieta di supporre che questo sia il metodo originario, arcaico di comunicazione tra gli individui, e nel corso dell’evoluzione filogenetica esso sia stato sopraffatto dal metodo migliore di comunicare che si avvale di quei segni che gli organi di senso sono in grado di captare. Ma chissà che il metodo più antico non sia rimasto sullo sfondo, e si affermi ancora in certe condizioni, per esempio nel caso di una folla eccitata dalle passioni (Ibidem, p.168).
 Quindi, una “storia comune”, che passi da padre in figlio per mezzo di una trasmissione inconscia del pensiero, ma ancora di più, un’esperienza esistenziale, una formazione culturale, non è altro che l’insieme delle soluzioni esistenziali intraprese da una collettività sotto lo stress della sfida esterna.
Nel suo “uomo Mosè”, alla fine della sua lunga e produttiva vita, Freud lascia da parte le esitazioni interiori e lega finalmente l’Es dell’individuo a quello della collettività (“L’uomo Mosè e la religione monoteistica”, in op.cit., vol.XI, pp.418 -- 419). Questa volta, attraverso la filogenesi, che definisce “un’eredità arcaica”. Di questa eredità arcaica Freud aveva già parlato un anno prima, in Analisi terminabile e interminabile (in op.cit., p.523), e lì l’aveva attribuita non solo all’Es ma anche all’Io, poiché:
 È certo che una parte considerevole di ciò che per noi è ereditario fu acquisito dai nostri progenitori. Quando parliamo di “eredità arcaica”, normalmente pensiamo solo all’Es, supponendo, a quanto pare, che all’inizio della vita individuale l’Io non esista ancora. Eppure non dobbiamo trascurare il fatto che l’Es e l’Io sono originariamente una cosa sola, e non si tratta da parte nostra di mistica sopravvalutazione dell’ereditarietà se riteniamo attendibile l’ipotesi che per l’Io non esistente siano già determinate le direzioni dello sviluppo, le tendenze e le reazioni che esso in seguito metterà in risalto. Non si potrebbero spiegare altrimenti le particolarità psicologiche di certe famiglie, razze, nazioni , perfino nel loro atteggiamento verso l’analisi. Ma  c’è di più: l’esperienza analitica ci ha indotti alla persuasione che perfino contenuti psichici ben determinati come il simbolismo non hanno altra origine che la trasmissione ereditaria; inoltre, in base a diverse ricerche sulla psicologia dei popoli, ci vien fatto di supporre che anche altri sedimenti non meno specifici dell’antica evoluzione umana siano presenti nell’eredità arcaica.
In questo modo diventa chiaro come alla psiche del singolo individuo corrisponda anche una psiche collettiva, che proiettata in una rappresentazione figurata si traduce in dionisiaco o apollineo .

Sul perché la psiche occidentale abbia intrapreso una via piuttosto che un’altra, scartandola dalle proprie soluzioni esistenziali, e sul perche’ invece la psiche ebraica non abbia mai contemplato questa alternativa, e abbia invece potenziato al massimo la via dionisiaca, canalizzando tutte le energie in una dialettica tra i due poli della stessa istanza psichica, repressione e sublimazione, non e’ completamente chiaro, ma ci pare di avere puntato il riflettore su alcuni aspetti finora rimasti nebulosi.
Nietzsche e Freud sono i due più grandi uomini della nostra epoca.
Freud non riuscì mai a venire a termini con il proprio essere ebreo. Freud, l’ebreo, era turbato dalla sua stessa attrazione irrazionale verso le proprie radici. Lo scienziato positivista era “dionisiaco” suo malgrado, e tentava inutilmente di esorcizzare questo dionisismo attraverso la sua scienza. Attratto da Nietzsche, lo respingeva per paura di essere condizionato nella sua “obiettività scientifica”.
Le verità esistenziali delle intuizioni di Nietzsche lo terrorizzavano, rischiando di minare la sua fede nel dogma della razionalità scientifica e dell’immanenza dell’osservazione empirica. Intuito versus empirismo, Erlebniss versus osservazione scientifica.
Solo nella fase più tarda della sua vita, Freud “si arrese” e dichiarò di sentirsi ebreo, anche se lui stesso non seppe precisare che cosa questo realmente significasse . Il proprio ebraismo rimase sempre per Freud qualcosa di presente, immanente ma irrazionale, come il proprio dionisismo (vedi: Un'analisi del dissenso tra Freud e Jung. La genealogia di un turbamento, in Dialegesthai, rivista telematica di filosofia).
Nietzsche, tedesco, allattato e cresciuto nel grembo di un antisemitismo luterano feroce e radicale, tradusse la propria oscura attrazione per gli ebrei in filosemitismo esasperato e irrazionale: è il sentimento più forte che emerge dall’intero Corpus nietzscheano.
Aveva Nietzsche identificato consciamente ebraismo con dionisismo?
Pare di no. Una realizzazione conscia di questa associazione, avrebbe smussato le sue dichiarazioni esplosive di filosemitismo militante. Per Nietzsche gli ebrei non erano solo un “oscuro enigma”, come per Hegel, un problema filosofico dalla difficile soluzione come per tutti i filosofi occidentali.
Gli ebrei, per Nietzsche, erano sia il problema che la soluzione.
Da loro si attendeva la salvezza.
Li accusava di essere alle radici di tutto il male (il cristianesimo) e di tutto il bene; loro avevano avvelenato l’Europa, ma loro erano anche gli unici che avrebbero potuto salvarla.
Alla visione Cristocentrica di Hegel, Nietzsche sostituì una visione ebraico-centrica, ai suoi occhi gli ebrei erano la personificazione della salvezza dionisiaca. Il messaggio messianico cristiano fu così solamente spostato, non rinnegato. Il nuovo messia sarebbe stato Dioniso incarnato negli ebrei.
L’unico sospetto che emergeva timido nella mente di Nietzsche, e che lo turbava, era che forse gli ebrei non avevano nessuna disposizione a incarnare la figura del Salvatore per redimere l’Europa. Fu solo sul suolo delle speranze messianiche di Nietzsche che si può capire sia il suo filosemitismo che il suo presunto antisemitismo.
Come il bambino fa dipendere dalla figura del padre onnipotente sia tutto il bene che tutto il male, così l’attrazione irrazionale per gli ebrei era la causale che dava origine alle sue esplosioni antiebraiche, come strumento della sua avversione per il cristianesimo: antiebraico e insieme  filosemita militante. Questo dualismo può essere compreso solo sullo stampo dell’ambivalenza infantile verso la figura paterna.
Come abbiamo visto, la convinzione che attribuiva all’ebraismo l’inizio del cristianesimo aveva origine nell’ignoranza. Né Nietzsche, né tantomeno tutti gli altri filosofi occidentali conoscevano l’ebraismo alle sue radici. Gli ebrei, dai loro primi incontri con l’Occidente furono da sempre presi in prestito dagli occidentali come strumento/pretesto di un monologo dettato dalla conflittualità emotiva dell’autoidentità occidentale.
Se Nietzsche fosse vissuto ancora mezzo secolo, avrebbe potuto toccare con mano la futilità del suo monologo patetico con gli ebrei. Gli europei assassinarono il designato messia dell’europeità. Gli ebrei presero il destino nelle loro mani e diventarono il messia solo di loro stessi.
Freud si illudeva di salvare l’umanità attraverso una scienza di cui negava energicamente la sostanza: una scienza “ebraica” suo malgrado. Nietzsche si illudeva di salvarla attraverso la persona fisica degli ebrei: Dioniso resuscitato. Entrambi si nutrivano di fantasie messianiche. Al di là di ogni filosofia, la vita si rivelò più forte. Sia Nietzsche che Freud avrebbero dovuto prevederlo. L’Erlebniss vitale dell’Occidente lo fece precipitare nuovamente nella propria fobia antidionisiaca, e l’Erlebniss esistenziale ebraico, il filo della propria identità nazionale, li riportò a conquistarsi l’indipendenza, e da popolo disperso ripresero nel sangue, e con la forza, quella Giudea che era stata loro carpita nel sangue e con la forza. Il motto romano Iudaea capta diventò il motto ebraico Iudaea restituta. Ci si aspettava dagli ebrei che salvassero l’umanità. Ma questi, seguendo il proprio Erlebniss, si dimostrarono molto più efficaci nel salvare solo se stessi. Il monologo occidentale con gli ebrei fu svuotato di qualsiasi controparte immaginaria e si rivelò esattamente per quello che era sempre stato: un fantasma.

Link to: Parte Prima

Links
Il Culto del Bambino e le accuse di Omicidio Rituale
Nietzsche e la psicoanalisi
I Numeri sacri e il loro simbolismo
Senza confini: il caso borderline dell'Europa unita

Iakov Levi: [email protected]
 

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