Iakov Levi
BRUTTO E BELLO.
La nascita di un concetto
Gennaio 2002
L'articolo rappresenta il Capitolo Secondo di Occidente
e Oriente nello specchio di Dioniso e di Apollo
Musica ricavata da una materia tragica - non è più la
bellezza ad essere spiegata, ma il mondo: per questo dalla musica
sgorga il pensiero tragico che contraddice la bellezza (Friedrich
Nietzsche, Frammenti postumi, 3[41])
Non esiste un bello di natura.
Ma esiste certo il brutto perturbante...(F.Nietzsche, op.cit,
7[116])
Il perturbante è quella sorte di spaventoso che risale a
quanto ci è noto da lungo tempo, a ciò che ci è
familiare. (Sigmund Freud, “Il perturbante”, in Opere,
Bollati Boringhieri, Torino 1989, vol. IX, p.82).
Ogni capolavoro viene al mondo con una dose di bruttezza congenita.
Questa bruttezza è il segno della lotta del suo creatore per dire una cosa nuova in maniera nuova (Picasso)
Quella che, con il crollo del mondo antico, sfocerà in
Occidente in scissione assoluta tra bene e male era cominciata molti
secoli prima, come divergenza del concetto di sacro in due parametri
opposti: brutto e bello.
Il Dioniso dei miti orfici, il capro, antico totem delle tribù
greche, non era né bello né brutto, ne buono né
cattivo: era sacro, ovvero era sia una cosa che il suo opposto. In
latino sacer, in ebraico qaddosh, in arabo haram,
e persino in una lingua moderna come il francese sacré
definiscono tutte il concetto di sacro e sacrilego, santo e maledetto,
con un'unica parola.
Quando le tribù greche superarono la crudezza del rito totemico
e cominciarono a relegare sempre di più l'immagine del capro
alle province più lontane della psiche, l'immagine del dio
cominciò anche ad assumere una connotazione normativa: sempre
sacro ma, per la prima volta, brutto. Così nacque in Occidente
un concetto e, automaticamente, anche il suo opposto. Quando la
società greca scelse la strada della civilizzazione, alle
insegne dell'immagine di Apollo, e innescò un processo di
rimozione del pasto totemico e del rito tribale, quello che lo
rappresentava, il capro Dioniso, divenne indesiderato e quindi brutto,
superato e quindi ridicolo. Con l'esasperazione di questi parametri,
anche cattivo e, alla fine, con il crollo del mondo antico, addirittura
diabolico. Il suo opposto, ovvero tutto quello che divergeva
dall'immanenza dei riti tribali, la saggezza, l'educazione in quanto
civilizzazione, la contenutezza entro la canalizzazione dell'equilibrio
plastico, divenne normativamente positivo e desiderabile, e quindi
bello. Questo per i greci si tradusse in buono e in un nuovo concetto
di divino , e come tale passò anche al cristianesimo .
Prima nacque dunque l'idea del brutto, in quanto rimozione di quello
che non era socialmente desiderabile, e solo dopo e in antitesi ad
esso, l'idea del bello.
In Occidente, dal VI-V sec a.C. in poi, brutto sarà tutto quello
che ricorda il capro, il Dioniso divorato dai Titani, cioè il
peloso, lo sgraziato, l'animalesco e bello sarà il suo
contrario: l'ideale del corpo umano in antitesi alla bestia, il liscio
in antitesi al peloso, il tronco dritto in antiteso al gobbo, che
ricorda l'animalesco che cammina a quattro zampe, ecc.
Anche Freud cadde in questo equivoco. Come un nuovo Platone postula
prima un ideale di bello, a priori, e a secondo di questo classifica il
resto in bello o brutto. Infatti nel 1910, a proposito della vita
amorosa, scrive una frase molto interessante ed enigmatica:
I genitali stessi non hanno seguito
l'evoluzione delle forme corporee verso la bellezza, sono rimasti
animaleschi, e così anche l'amore è rimasto nella sua
essenza animale come è sempre stato ("Psicologia della
vita amorosa”, in Opere, Bollati Boringhieri, Torino 1989,
vol.6, p.431).
Sul modello di quale parametro Freud
stabilisce che i genitali non sono “belli”, se non appunto di quello
apollineo di un ideale di forme platonico del corpo umano, che è
l'antitesi dell'animalesco?
Dalle parole di Freud i genitali “non sono belli”, ovvero sono brutti,
poiché sono animaleschi, sono rimasti dionisiaci, e non hanno
passato la metamorfosi nella loro antitesi apollinea. Il capro,
l’animale totem degli antichi progenitori delle tribù greche,
sarà dunque il metro di misura intorno al quale ruoteranno, in
Occidente, tutti i parametri di brutto e di bello. Non ci risulta che
in qualsiasi altra cultura umana sia mai avvenuto lo stesso.
Il motivo è che nelle altre culture non avvenne un rinnegamento
così deciso del proprio animale – totem e una divergenza
così completa dal proprio passato tribale.
Gli ebrei, che il caso volle abbiano avuto, nella loro lontana
preistoria, lo stesso animale –totem dei greci, il capro o l'ariete,
forse poiché entrambe erano tribù di pastori che
pascolavano la pecora bianca, non crearono mai un'idea del bello che
fosse antitetica a quella dell'ariete. Al contrario, l’idea di sacro
rimase affine a quella dell'animale -- totem con cui si identificavano,
e non partorirono concetti di bello che divergessero dall'idea
dell'arcaico animale sacro, al punto che consideravano sacrilego
radersi la barba o i peli del corpo. Il Talmud ci racconta qualcosa di
velato in proposito, riportando un'antica leggenda:
Tutti in confronto a Sara sono come
una scimmia in confronto all'uomo, Sara in confronto a Eva è
come una scimmia in confronto a l'uomo, Eva in confronto ad Adamo
è come una scimmia in confronto all'uomo e Adamo in confronto al
Signore è come una scimmia in confronto all'uomo (Tal.Bab.,
Baba Batra, 58a).
Prima di accusare i saggi di misogenia e
scarso senso cavalleresco cerchiamo di capire che cosa intendessero. I
rabbini spiegano: poiché Dio creò l'uomo a sua immagine e
somiglianza e la donna solo dall'uomo. Ovvero Adamo assomigliava a Dio,
e questi è l'unico parametro valido per qualsiasi forma di
bellezza, ovvero più bello di lui non avrebbe potuto essere,
mentre Eva era stata creata dall'uomo, ed era dunque solo un misero
riflesso della bellezza maschile. E tutti quelli che sono stati creati
dopo di lei, che “è la madre di tutti i viventi”(Gn.3,20),
possono solo essere più brutti. Dunque, l'unico parametro di
bellezza e bruttezza corrisponde nella somiglianza a Dio. Questo
è l'unico bello che esista. Se il primo dio fu un’animale,
transustazione del padre dell'orda ucciso, e quindi un dio maschio,
bello è quello che gli assomiglia. Non le donne, Eva e Sara e
tutte le altre, sono belle, bensì solo gli uomini fatti a
immagine e somiglianza di Dio. I rabbini non potevano adoperare la
parola sacro, poiché Adamo era stato degradato a mortale, ma
questa sarebbe stata la parola giusta. Sia per gli antichi greci che
per gli antichi ebrei, bello era dunque il parallelo di sacro, e questo
per entrambi era associato al dio caprino. La parola divino è
una parola posteriore: all’inizio esisteva sola la parola sacro e
ancora oggi in ebraico esiste una parola sola qaddosh. Questa
parola indica sia la sacralità di Dio che dei suoi sacerdoti,
che del popolo dopo che è stato iniziato alle sue leggi, sia il
massimo dell'empio, la qaddeshà e il qaddesh, i
prostituti sacri.
È molto strano che gli ebrei, che rimossero ogni espressione
iconodula dal proprio modus mentale, proprio nel Talmud, estremo
strumento di rimozione e sublimazione, abbiano fatto la reattivazione
del concetto di immagine attribuendola proprio al Signore, e questa
immagine è bella, non solo ma viene associata attraverso la
parola “scimmia”, invertendo i parametri per nascondere il legame
associativo: una scimmia è brutta in confronto a Sara e Sara
è brutta in confronto a Eva e Eva e brutta in confronto a Adamo,
che a sua volta è brutto in confronto al Signore = come scimmie.
La leggenda ebraica insiste spesso sul fatto che Adamo era “bello” e
chi legga la raccolta di leggende ebraiche sulla creazione si
può fare l'immagine di un giovane Apollo, ma una di queste
leggende ci racconta che il Signore aveva creato Adamo con la coda,
ovvio simbolo del pene, e solo dopo la rimosse (Bereshit Raba,
14,10). Ebbe torto dunque Freud a considerare i genitali "brutti".
Quindi possiamo supporre che per “bello” i rabbini non intendessero
esattamente la bellezza apollinea così radicata nella psiche
occidentale.
Se queste associazioni fossero apparse nella condensazione
dell'immagine di un sogno, non avremmo avuto difficoltà a
decodificarle, e perfino Darwin avrebbe approvato.
Dio veniva prima ed era più bello di qualsiasi cosa, e
attraverso la catena associativa viene per quattro volte associato alla
scimmia, che anch'essa, nelle tracce mnestiche conservate
nell’eredità arcaica, veniva prima. È interessante notare
come l’umanità associ proprio alla scimmia l'idea antitetica a
quella di bellezza.
Perché si dice “brutto come una scimmia”?
La risposta è semplice: l’uomo associa a sè stesso l'idea
della scimmia, proprio perché noi tutti veniamo da questa, e
dichiarandola brutta prende le distanze dal proprio alter ego
rimosso. Paradossalmente è brutta proprio perché
assomiglia all’uomo, o meglio, all’immagine rimossa che ha di sè
stesso. Quindi, secondo questo parametro, il Talmud avrebbe dovuto
invertire il concetto: se quello che viene prima è più
bello di quello che viene dopo, si dovrebbe dire bello come una
scimmia. E forse l'allusione inconscia del testo è proprio
questa. L'umanità, ebrei compresi, associa l'idea di bello alla
scimmia e poi, nel processo di rimozione, inverte questo parametro e ne
prende le distanze.
Ma la cosa più strabiliante è stata quando abbiamo
scoperto un frammento semi-dimenticato, che risale a sette secoli prima
della citazione talmudica che abbiamo riportato sopra. Eraclito,
l’enfant térrible della filosofia occidentale, il filosofo
oscuro ed ermetico, dice: “La più bella delle scimmie è
brutta in confronto all'uomo e l'uomo più sapiente avrà
sembianze di scimmia in confronto del dio” (Frammento 72 da: Eraclito,
i frammenti e le testimonianze, edizione a cura di Carlo Diano,
Mondadori, Milano 1993, p.35).
I maestri del Talmud non conoscevano certamente Eraclito, che nel terzo
secolo della nostra era era stato quasi dimenticato. Il filosofo greco
era vissuto a cavallo tra il VI e il V secolo ed è come se
avesse voluto ricordare ai suoi compatrioti, che da lì a poco si
sarebbero avviati sulla strada della scelta apollinea, che in
realtà veniamo tutti dalla scimmia. I suoi aforismi erano
indecifrabili per i suoi contemporanei come, d'altronde, anche per noi,
ma basta introdurre un'inversione nella catena associativa
affinché il contenuto oscuro diventi chiaro. Eraclito è
colui che aveva detto: “Per il Dio tutte le cose sono belle, buone e
giuste, ma gli uomini considerano alcune cose essere ingiuste e altre
giuste”(Heraclitus, framm. 14 (A19), in Giorgio Colli, La Sapienza
Greca, vol.III: (A19), Adelphi, Milano 1996, p. 109).
Allusione al fatto che il sacer originale non aveva avuto
alcuna connotazione normativa. Intuiva quindi quello che era successo:
la separazione di un unico concetto in due parametri opposti.
Come esempio di come, quando si dice bello, si possano intendere cose
diametricalmente opposte si pensi a questo. La Bibbia ci racconta che
Mosè sposò una donna negra (Num.12,1) (la Bibbia italiana
traduce “etiope”, infatti nell’ebraico arcaico “etiope” era sinonimo di
negro). Nel commento a questo versetto Rashi dice: “sposò
una donna molto bella” e Miriam cominciò a sparlare di
Mosè poiché era gelosa della bellezza della cognata".
Ovvero, per gli antiche ebrei, negro, o etiope, era sinonimo di bello.
In Occidente, per molti secoli negro fu associato, invece, al brutto.
Solo adesso qualcuno può pensare che “anche una negra possa
essere bella”. Nell'"Inno a Nisibene”, datato al IV secolo d.C., viene
declamato: “I tre fratelli di
Babilonia sfuggirono non al fuoco che gli uomini avevano acceso, ma
dalla lascivia sfuggirono, poiché erano perfetti. Il loro fuoco,
fu esso a trionfare, può cambiare bambini neri in bianchi…”
(“THE NISIBENE HYMNS”, (Translated by Rev. J. T. Sarsfield Stopford,
B.a.), in Nicene and Post-Nicene
Fathers, Series II, Vol. XIII, Cap. VII). Nero viene associato a
lascivia peccaminosa e satanico, mentre invece bianco a purezza. Il
fuoco sacro (fuoco è sempre associato a erotismo) trasforma il
male (l'erotismo peccaminoso in contrasto a quello sacro, ovvero quello
acceso dagli uomini) in bene, bambini neri in bianchi.
Come comprova si può portare che negro, nelle immagini
medioevali del cristianesimo, era sinonimo di satanico. Ancora nel XIV
secolo, una donna posseduta da Satana viene liberata solo quando un
negro etiope esce dal suo corpo ( Michael Goodich, Violence and
Miracle in the Fourteenth Century, University of Chicago, Chicago
1995, pp.76-77). Le messe nere, quelle sataniche, sono il contrario di
quelle sacre. Nero è il contrario di bianco, il puro. Ancora
nell' “800 si discuteva se anche i negri avessero un'anima, e una delle
argomentazioni che razionalizzavano lo schiavismo che permetteva a
buoni cristiani di tenere schiavi negri, senza che questo pesasse sulla
loro coscienza, era che quelli non avessero un'anima, fossero figli di
Satana, e quindi fosse giustificato sfruttarli, ucciderli e torturarli.
La “sessualità sfrenata” dei negri, quella satanica, brutta in
antitesi all'ebbrezza di Apollo, era la giustificazione per qualsiasi
brutalità. L'esasperazione di questi parametri antitetici fu
proprio il crollo del mondo antico e il balzo verso l'astrazione del
Regno dei Cieli che fece il Cristo apollineo, in contrasto alla grande
caduta del Capro nel regno sotterraneo. Il razzismo “scientifico” del
XIX secolo non fu altro che il riallacciarsi a quei parametri che il
cristianesimo medioevale aveva sviluppato, sulla scia dei turbamenti
della decadenza del mondo antico.
Per gli ebrei, dunque, il bello rimase parallelo all'immagine rimossa
del Dio, l'ariete, che veniva prima: Il brutto è il suo
contrario. Per gli ebrei tutta l'arte occidentale è brutta,
sacrilega, anti-religiosa, come ogni immagine, e più è
antropomorfica, più viene considerata tale, poiché simile
all'immagine di Apollo, il dio della bellezza giovanile, plastico,
armonioso e lisciforme, al contrario del dio-caprino.
In completa antitesi, per i greci bello diventò, invece, tutto
quello che si allontana dall'immagine del dio caprino, ovvero il
giovane in età pre-puberale, quando i peli e la barba non hanno
ancora profanato le sue forme apolline. Questa è una delle cause
per le quali i greci si dedicavano con tanto entusiasmo
all'omosessualità, e questa era sempre la passione degli adulti
per un giovane imberbe. Il giovane, che acconsentiva ad essere
penetrato da un adulto, lo faceva non per lussuria ma per ricevere in
cambio la saggezza del suo amante . Quando Socrate vuole spiegare come
un oggetto ci richiami alla mente una persona amata dice: “Quando un amante vede una lira o un
mantello o qualsiasi cosa che il suo amato usa, percepisce la lira e
nella sua mente si forma l'immagine del fanciullo al quale la lira
appartiene, non credete?” (Fedone, 73d).
Per Socrate era scontato che l'unico oggetto di amore possa essere solo
un fanciullo. L'immagine di questi era l'unica che poteva venire alla
mente nel processo associativo. Erodoto già settant’anni prima
di Socrate aveva detto: “[I
Persiani] si danno a ogni sorta di piaceri di cui vengono a conoscenza
e, tra l’altro, dai Greci hanno imparato a praticare l'amore verso i
giovani”(Hist., I/135). L’esauriente lavoro del Dover ha
dimostrato che nella Grecia classica i due parametri di bello e brutto
erano già ben radicati in stereotipi comuni: Il bello era il
giovane imberbe, quello ancora privo di peli. Con le parole del Dover:
Rappresentazioni di Ganimede e di
Titone, personaggi mitici la cui bellezza eccitava persino gli dei, ci
permettono di definire i criteri della bellezza maschile, e ci
permettono di vedere che gli stessi criteri sono soddisfatti in
ritratti di dei eternamente giovani (in particolare Apollo) e di
ragazzi o giovani raffigurati nell’atto di essere inseguiti,
corteggiati o abbracciati da comuni amanti mortali. Da questo possiamo
trarre validi motivi per catalogare come modelli di “pin-up” il grande
numero di giovani ritratti in varie pose su vasi di ogni tipo; in
particolare, il tipico giovane solo (di solito nudo, a volte in atto di
vestirsi o di svestirsi)…La documentazione positiva di queste
raffigurazioni è rafforzata da quella negativa delle scene in
cui il pittore ha voluto raffigurare il brutto, il discustoso e il
ridicolo: satiri (cfr. Senofonte, Simposio 4,19: “Se non fossi
più bello di te, sarei più brutto di tutti i sileni delle
rappresentazioni satiriche!”) (Kenneth Dover, L'omosessualit� nella Grecia antica, Einaudi, Torino 1985, p. 9).
Con il parametro “corpo umano bello in
quanto antitesi del corpo del capro brutto” viene superata dai greci
l’inibizione a mostrarsi nudi.
Kerenyi scrive a proposito di questa fase dello sviluppo della cultura
greca:
Nella città di Cnido, sulla
costa dell’Asia Minore, dove greci puri e non orientali
osarono per la prima volta esporre alla vista una Afrodite nuda -
la celebre statua dello scultore Prassitele - la conchiglia era
considerata come animale sacro alla grande dea dell’amore.» E
allo stesso proposito “....le etere veneravano la dea come una di loro,
sotto nomi di Afrodite Hetaira o Porne. In questa atmosfera ridotta
sorgevano opere d’arte che mostravano la bellezza della dea come
Kalliglutos o Kallipygos, colei che ha belle natiche, con la veste
sollevata, dopo che i nostri artisti poco a poco avevano ottenuto che
la nudità della dea al bagno non incutesse più un sacro
orrore agli spettatori» ( Karolyi Kerenyi, Gli dei della Grecia, Il Saggiatore, Milano 1962, p.65
e p.73) .
Quindi vediamo che, prima di evolversi in
società apollinea, anche i greci avevano avuto orrore del nudo,
esattamente come le antiche tribù semitiche e gli ebrei.
Quando Erodoto racconta, alla fine della prima metà del V
secolo, questo processo mentale, nella Grecia continentale, era
già stato portato a compimento. Infatti ci dice: “Per i Lidi,
infatti, come pure, in generale, per gli altri barbari, essere visto
nudo, anche per un uomo, è cosa che procura grande vergogna ” (Hist. I.10). Ovvero per i greci non
era già più una vergogna mentre per i Lidi, che non erano
altro che greci ancora permeati di influenza culturale persiana,
lo era.
Permissività sessuale e culto del nudo furono dunque uno
svolgimento concomitante al superamento della struttura sociale
arcaica.
Un pò alla volta ci diventa chiaro come mai il bello nella
cultura occidentale diventa anche sinonimo di divino e di morale,
e infatti per i greci i brutti erano anche i cattivi e i viziosi.
Quello che era sacro nei tempi antichi, ai tempi dei riti iniziali
arcaici, diventa prima brutto, poi ridicolo, profano e infine malvagio.
La sua antitesi prende il posto del divino, i parametri si capovolgono,
e per dare espressione a questa nuova normatività nasce una
nuova parola, divino, oltre a quella primordiale dal doppio significato
equivalente: sacro.
In epoca classica quella dei fanciulli imberbi, l’opposto del capro
peloso, diventa la bellezza ideale e questa viene elevata a estasi
religiosa. Senofonte ci racconta che:
C’era nell’esercito un certo Epistene
di Olinto, che aveva un debole per i fanciulli. Quand’egli vide
condurre al supplizio un bel giovinetto, appena giunto alla
pubertà, ma già armato di peltra, corre da Senofonte e lo
supplica di intervenire a favore del ragazzo. Senofonte si reca da
Seute e lo prega di risparmiarlo; gli parla della passione di Epistene,
raccondandogli che una volta, nella formazione del suo lochos (compagnia), aveva badato che i
componenti fossero belli; si dovette ammettere, però, che sia
lui che i suoi soldati avevano combattuto con valore. Seute domanda a
Epistene: “Saresti pronto a dare la vita per lui?”. Epistene porge
subito il collo e dice: “Se questo fanciullo accetta e me ne
sarà riconoscente, colpisci pure”. (Anabasi VII,
4, 7).
Senofonte ci tiene a specificare “ma già armato di peltra”,
ovvero: malgrado fosse già armato di peltra,
poiché, secondo i parametri apollinei, la peltra avrebbe dovuto
essere una ragione di repulsione e non d’amore.
L’implicazione è che il fanciullo era così attraente che
persino quella prima peltra, ragione d’orrore, non riusciva a
mitigare l’attrazione.
Nel Simposio, Platone propone, per bocca di Fedro, di costituire
eserciti composti solo da amanti e amati poiché questi si
vergogneranno a dimostrarsi codardi gli uni davanti agli altri,
combatteranno con valore e saranno pronti all'auto sacrificio (Simposio,
178e-179a).
Platone fa dipendere, dunque, anche il valore militare dall’Eros e
questo è quello di un adulto per un bel giovane, che lo
contraccambierà grazie ai valori morali di saggezza imparati da
lui. L’Eros, in senso di libido, viene risvegliato dalla
bellezza del giovane e questo induce gli Eroi alla “furia combattiva”
(179b). Orfeo avrebbe fallito la sua missione, e avrebbe perso l’amata,
poiché il suo non era vero amore. L’allusione di Platone
è che ogni amore per una donna non possa essere vero amore, e
Orfeo non era pronto a morire per lei, come invece gli Eroi greci che
erano pronti a sacrificarsi per i fanciulli amati (179d).
L’esempio seguente è quello di Achille che è pronto a
sacrificarsi per Patroclo:
Achille, figlio di Tetide fu onorato
(dagli dei) e mandato al posto che gli spettava nelle isole di Blesto,
poiché pur avendo saputo da sua madre che sarebbe morto appena
ucciso Ettore, ma se lo avesse risparmiato sarebbe ritornato a casa e
finito i suoi giorni in vecchiaia, egli coraggiosamente scelse di
andare e salvare il suo amante Patroclo, lo vendicò, e
cercò la morte non solo per sè stesso ma per venire
così riunito con colui che la morte aveva preso. Per questo gli
dei lo ammirarono così altamente da dargli onori speciali,
poiché aveva attribuito un così alto valore al suo amante
(179e-180a).
Ma qui Platone ci rivela ancora qualcosa:
Eschilo dice sciocchezze quando
riferisce che fosse Achille ad essere innamorato di Patroclo,
poiché egli (Achille) superava in bellezza non soltanto Patroclo
ma anche tutti gli altri eroi, essendo ancora imberbe, e inoltre molto
più giovane, secondo il racconto stesso di Omero. Poiché,
in verità, non esiste valore più ammirato dagli dei di
quello che deriva dall’amore; tuttavia essi ammirano ancora di
più e sono ancora più deliziati e benevolenti quando
l’amato è attaccato da affetto al suo amante di quanto l’amante
sia innamorato del suo favorito; poiché colui che ama, pieno
comè dell’essenza del dio, supera il suo favorito in
divinità (180a-b).
L’interpretazione platonica della saga
omerica è particolarmente interessante poiché svolge
davanti ai nostri occhi l’evoluzione che nel IV secolo vide
la libido di un uomo (Patroclo) per un bel giovane
(Achille), contraccambiata in amore spirituale, e quindi divino, del giovane verso
l’uomo che era innamorato di lui. Per Eschilo la furia di Achille era
ancora il prodotto della passione dell’eroe per Patroclo, mentre invece
Platone invalida questa tesi, e ci dice che il vero eroismo era quello di
Achille proprio perché non era infatuato di Patroclo come questi
lo era di lui, (e l’infatuazione libidinosa era sempre quella
dell’adulto per il giovane imberbe), bensì nutriva per il
proprio Erastes (l’amante adulto nella coppia), un amore profondo e
disinteressato indipendente dalla libidine. Questo, secondo Platone,
è il vero amore. Abbiamo dei seri dubbi che Omero, nell’VIII
secolo, interpretasse in maniera così soffusa e sofisticata la
saga achea, ed è rivelante vedere come Platone conduca la
libidine dalla sua natura concreta e passionale a livelli di astrazione
nuovi.
Quindi, un amore ideale della bellezza, come questa viene personificata
da un fanciullo, per il quale un guerriero greco è pronto a
morire, si trasfigura in eroismo e bellezza dell’anima quando si
distilla dalla componente libidinosa, che secondo Platone non
può esistere nell’amante giovane verso il suo patrono, per
tramutarsi in “furia eroica” di amore puro. Come i martiri cristiani
saranno pronti a sacrificarsi per l’idea del bello apollineo
trasfigurato in verità cristiana.
Afrodite, la dea dell’erotismo e dell’amore eterosessuale, viene
trasfigurata nella filosofia platonica. Esistono ora due Afrodite,
quella eterea, non nata da utero materno bensì figlia del Cielo,
che chiama celestiale, e la più giovane, figlia di Zeus e di
Dione che chiama quella popolare (180d). Su questa scia esistono due
tipi di Eros, quello celestiale e quello popolare o terreno. L’Eros non
è piu lodabile per sè, ma solo se induce ad un amore
nobile (181a). L’amore indotto dalla Afrodite popolare opera a secondo
del caso: questo è quello di uomini che amano donne o ragazzi
indistintamente e il loro amore è un amore fisico e non
spirituale. Inoltre la loro scelta è frutto del caso e l’oggetto
della loro concupiscenza sono persone prive di saggezza, poiché
essi mirano ad un determinato scopo senza curarsi se questo sia o no da
considerarsi nobile (181b). La fonte di questo Eros è nella
più giovane fra le due dee, di cui l’origine è nelle due
componenti, quella maschile e quella femminile. Ma l’altro Eros deriva
dalla dea celeste, la cui fonte non è nel femminile bensì
solo nel maschile, e in secondo luogo è più anziana e
purificata da qualsiasi lascivia. Coloro che che si ispirano a questo
Eros lo dirigono verso il maschio, attirati dalla robusta natura di
questi e dalla maggiore ampiezza mentale (181c). Persino nella passione
per i fanciulli si può notare che coloro che provano questi
sentimenti si innamorano solo quando diventano più maturi, e il
loro diventa un amore eterno, indipendente dalle peripezie della vita
(181d).
L’apologia dell’omosessualità diventa parallela a quella del
carattere e dello spirito. Quattro secoli dopo, nel II secolo della
nostra era, il concetto di un amore puro, staccato e distillato dalla
sua componente libidinosa, penetra dalla cultura greca anche
nell’ebraismo. Nella Mishnà, la legge orale, trascritta in
questo periodo, leggiamo la frase seguente:
Ogni amore che dipende da una cosa,
smette di esistere la cosa, finisce l’amore. Un amore che non dipende
da qualcosa non finisce mai. Qual’è l’amore che dipende da una
cosa? Quello di Amnon per Tamar (cfr.2 Sam, 13), qual’è l’amore
che non dipende da nessuna cosa (e quindi è eterno)? Quello di
Davide per Gionata (Masechet Avot, 5.16).
La connotazione di amore eterno e
disinteressato è non nella passione eterosessuale di Amnon per
la sorella, bensì in quello “platonico” di Davide per l’amico.
Se, secondo la definizione di Freud, ogni amicizia nasce
come una pulsione di natura omosessuale inibita nella meta, ecco
che anche l’amore platonico ebraico, dopo quattro secoli da quando
Platone aveva formulato il concetto, viene percepito come un amore
omosessuale, al pari di quello greco. Anche qui, come nella menzione
platonica di Orfeo (179d), l’amore vero viene dissociato da quello per
una donna, esattamente come nel Simposio di Platone. Per gli ebrei non
si creerà mai l’associazione amore = bellezza apollinea. La
bellezza per questi rimarrà associata a quella del dio caprino,
e da questa si svilupperà in spiritualità e idea
dell’anima.
Di Davide era stato detto: “…era
un ragazzo rossiccio di capelli e di bell’aspetto”
(1,Sam.,17,42), ma il bell’aspetto di Davide è esattamente
l’incontrario di quello di Apollo e la sua bellezza efebica. Era legata
al selvatico e al dionisiaco, non come nelle rappresentazioni figurate
occidentali dove viene rappresentato come un giovane Apollo con la
lira. La comprova è proprio che “era rossiccio di capelli”, admoni,
come Esaù (Gn., 25,25), che era Adom, rosso di capelli e di
peli, soprannominato Edom, ed era la personificazione del selvaggio e
dell’irruento. Se il Dioniso occidentale si era trasfigurato lentamente
in Apollo, e la musica orgiastica del primo, nelle melodie del secondo,
il dio-eroe ebreo è rosso di capelli, abbatte Golia con la
fionda e saltava e danzava davanti al Signore (2,Sam.6,16). Malgrado,
nell’elaborazione ebraica posteriore l’Eroe passi un processo di
addolcimento e la sua fionda si trasfiguri in lira, come l’arco di
Apollo si trasfigura in questo strumento musicale, Davide rimane una
figura dionisiaca in tutte le sue membra.
Ritorniamo ora a Platone e ai suoi fanciulli imberbi.
Alla fine del V secolo bello e buono erano un’unica sintesi, come ci
dimostra la frase ironica di Socrate accusato di corrompere i giovani: “Tutti gli Ateniesi dunque, a sentir
te, li fanno buoni e belli; tutti all’infuori di me: ci sono solo io
che li corrompo” (Apol., 25a). Nessuno poteva aver
accusato Socrate di averli fatti brutti, ma solo malvagi, quindi
l’equivalenza tra brutto e malvagio è implicata dalle sue
parole. Socrate fu probabilmente il primo che concepì l’anima
come sede della conoscenza e quindi della virtù:
non ti vergogni tu a darti pensiero
delle ricchezze per ammassarne quante più puoi, e della fama e
degli onori; e invece della intelligenza e della verità e della
tua anima, perché ella diventi quanto è più
possibile ottima, non ti dai affatto né pensiero, né cura?
(Apol.,29e)
Intelligenza, verità e anima, come
bontà e bellezza, appaiono in un’unica associazione.
Non solo dunque esiste un’anima, ma essa è completamente
dissociata dal corpo: “non del
corpo dovete avere cura, né delle ricchezze né di
alcun’altra cosa prima e più dell’anima”(30b). Da
dissociazione corpo e anima a farne due parametri morali antitetici la
strada è breve, infatti: “io
ho così grande speranza che morire sia un bene” (40c). “e anzi vedo manifestamente che per me
ormai morire e liberarmi da ogni pena e fastidio era la cosa migliore”(41d).
A questo punto sembra di sentire il Redentore: “per questo nessun rancore io ho con
coloro che mi votarono contro, né coi miei accusatori”
(41d). Il processo di Socrate contiene delle rassomiglianze
starordinarie con il processo di Gesù, come è presentato
nel Vangelo.
Nel Fedone, l’immortalità dell’anima diventa una certezza
filosofica.
Già Erodoto quando parlava del dio greco, senza specificare
quale, intendeva automaticamente Apollo. Quando Creso deve spiegare a
Ciro chi lo avesse indotto a muovere la sua disastrosa guerra ai
Persiani risponde: “Il dio dei
Greci”( Hist., I/ 87). Il dio delfico non solo
già dall’inizio del V secolo era diventato il dio principale, ma
diventa, un pò alla volta quasi l’unico dio. Socrate chiama a
testimonianza della propria sapienza (quella di sapere di non sapere)
il dio delfico (Apol., 20e) che è l’unico detentore della
sapienza e della verità (23a). In tutta l’Apologia Socrate si
riferisce ad Apollo come se fosse l’unico dio e il solo al quale deve
rispondere delle sue azioni. Nel Critone, l’ultima frase di Socrate,
prima di essere condotto a morte è: “questa è la via lungo la quale
Dio ci conduce” (Crit., 54e): se non fossimo nel IV
secolo, avremmo potuto supporre di essere già in pieno
cristianesimo.
Platone trattò l’amore che nasce in seguito allo stimolo della
bellezza visiva come un caso speciale di quella forza che spinge
l’umanità a cercare la visione della “forma” o “idea” immutabile
e eterna del “bello”. Con le parole del Dover:
È particolarmente importante il
fatto che egli veda la filosofia non come un’attività da
perseguirsi nell’isolamento della meditazione e comunicata dal maestro
ai suoi discepoli attraverso lezioni ex cathedra, ma come un processo
dialettico che può senz’altro cominciare dalla rispondenza da
parte di un uomo adulto allo stimolo procurato da un giovane in cui la
bellezza fisica si combina con quella dell’anima (op.cit. p.14).
La bellezza fisica, in questo stadio, si
combina a quella dell’anima, ma siamo ad un passo a che la bellezza
diventi una qualità dell’anima stessa abbandonando il corpo che
ne era stato il veicolo. Se uniamo quello che ci racconta Platone di
Socrate a quello che ci ha raccontato Senofonte di Epistene qualche
decennio prima, abbiamo già davanti agli occhi la sintesi di
quella che è stata la lunga strada di Apollo, da quando
minacciava i novizi sotto le mura di Troia a un passo dall’apparizione
del Salvatore.
Il greco, Epistene, era pronto a sacrificarsi per il proprio ideale di
bellezza, che è lo stesso di anima, sapienza e verità di
Socrate, come il romano sarà pronto a farlo per lo Stato, come
il cristiano sarà pronto a immolarsi per la fede: tutti avevano
in mente la stessa cosa, trasfigurata in epifanie diverse: l’ideale
apollineo.
Platone nel Fedone, attraverso una costruzione filosofica, codifica
l’antidionisismo.
Il corpo, unico strumento di conoscenza dell’esperienza immanente
dionisiaca, non solo non è più tale, bensì
impedisce la vera conoscenza: la conoscenza pura può essere
ottenuta solo separando il corpo dall’anima e spetta solo a
quest’ultima (Foed., 65a-d). Non solo, ma quella che era
conoscenza assoluta e appartenente al dio caprino, in quanto Es
indisturbato dalla presenza dell’Io inibitore, diventa, invece,
conoscenza = bellezza = bontà-giustizia assoluta, solo in grazia
della sua separazione dal corpo (65e-66e).
Platone inventa qui l’astrazione come strumento di rimozione
dell’immanente.
Questo nuovo assoluto, dissociato completamente dal dionisiaco e
proiettato in astrazione, diventa il regno indiscusso di Apollo. “La verità è purificazione”
(Foed., 69b), purificazione dal corpo e dall’Es. Platone, per
bocca di Socrate, nel Fedone, come aveva già cominciato a fare
nell’Apologia, non parla più di dei, bensì di dio, il
dio, e questi è sempre Apollo. Febo “il dio che purifica”. Che
strano paradosso! I progenitori della civiltà greca avevano
visto proprio nel corpo e nell’esplosione delle pulsioni dell’Es
l’unico mezzo di purificazione.
Vediamo qui tutte le fasi di passaggio del processo passato dalla
civiltà greca: sacralità del totem-capro-Dioniso,
consustanzialità con Apollo, il dio educatore, scissione tra le
due divinità in concetti antitetici, ascesa di Apollo a
divinità dalla connotazione normativa positiva e parallelamente
degradazione di Dioniso a un concetto normativo negativo: nuova
equazione: Apollo = divino = bello = sapiente = verità= anima,
ancora un piccolo passo e siamo già alla fede e alla figura del
Cristo.
L’anima verrà d’ora in poi associata alla bellezza di Apollo.
È un nuovo elemento, antitetico alla sessualità sfrenata
di Dioniso e dei suoi satiri.
Comincia così a delinearsi, per la prima volta, anche una
connotazione normativa negativa della sessualità, poiché
venendo associata a questo dio viene anche completamente dissociata da
Apollo, la sua bellezza e la sua appena trovata “anima” .
Nasce qui, per la prima volta, il famigerato amore “platonico” come
istanza antitetica ai sensi e alla sessualità, viene così
dissociato dal dio caprino, e dato ad Apollo per volare in cielo
insieme al suo carro solare.
Il V secolo aveva generato l’associazione sole = Apollo. Il IV,
l’associazione Apollo sole, unico vero dio, detentore dell’unica
verità in quanto staccata dal corpo e l’azione depistante dei
sensi, connotazione normativa morale, divina. Altri dei continueranno a
muoversi sullo schermo della psiche occidentale, ma solo ad Apollo
Platone attribuisce degli ideali. L’ecumenismo pan-ellenico
dell’ellenismo vedrà salire questo dio solare sempre più
in alto e spodestare tutti gli altri dei.
L’inizio della discesa
Nietzsche aveva capito, ma non aveva
capito di aver capito. Vediamo dove lo aveva portato la sua intuizione:
Una questione fondamentale è il
rapporto del greco col dolore, il suo grado di
sensibilità.-questo rapporto rimase uguale a se stesso?
Oppure si capovolse? -- la questione se in realtà il suo
desiderio sempre più forte di bellezza, di feste, di
divertimenti, di culti nuovi non si sia sviluppato dalla mancanza,
dalla privazione, dalla melanconia e dal dolore. Posto cioè che
proprio questo fosse vero -- e Pericle (o Tucidide) ce lo lascia
intendere nel grande discorso funebre -- da che cosa discenderebbe
allora il desiderio opposto, che si manifestò cronologicamente
prima, il desiderio del brutto, la buona e dura volontà, di
pessimismo nel greco antico, di mito tragico, dell’immagine di tutto il
terribile, il malvagio l’enigmatico, il distruttivo e il fatale che si
cela in fondo all’esistenza…Che cosa indica la sintesi di dio e capro
nel satiro? Per quale esperienza interiore, obbedendo a quale impulso
il greco dovè immaginare come satiro l’invasato uomo primordiale
dionisiaco? E per quanto concerne l’origine del coro tragico: ci furono
forse in quei secoli, in cui il corpo greco fioriva e l’anima
greca spumeggiave di vita, rapimenti endemici? Visioni e allucinazioni
che si comunicavano a intere comunità, a intere adunanze cultuali
(“Tentativo di Autocritica”, in La Nascita della Tragedia,
Adelphi, Milano 1972 e 1977, p.8).
Nietzsche non conosceva ancora gli studi
fatti dagli antropologi a cavallo del secolo sul totemismo e i riti
d’iniziazione tribale, ma aveva intuito perfettamente la nostalgia dei
greci per i propri riti arcaici superati, il desiderio del brutto, che
si manifestò cronologicamente prima, e il contenuto vitale e
immanente del pasto totemico, la prima rappresentazione tragica
dell’umanità.
Nietzsche aveva intuito che il dio caprino e la sua “bruttezza”
venivano prima, che questa era l’istanza autentica e non mediata e da
lì era cominciato il lungo cammino verso la civiltà. Ci
conferma quello che ci aveva raccontato Erodoto e dirà dopo di
lui Freud: Apollo era venuto dopo Dioniso, come l’Io era venuto dopo
l’Es, come il bello era venuto dopo il brutto.
Quello che Freud chiamerà: le pulsioni e il loro destino.
Nietzsche fa risalire l’inizio della decadenza greca già
dall’epoca classica e le istituzioni democratiche, ovvero da quando i
greci avevano rinunciato al senso tragico, come trovava la sua
espressione ancora nella tragedia eschilea, per assestarsi in un
equilibrio che rappresentava da un lato l’apice, dall’altro la fine del
dionisiaco autentico e radicale. Il passaggio non era stato subitaneo.
La metamorfosi era avvenuta nella rappresentazione stessa del coro dei
capri, e probabilmente fu percepita quando Sileno, da dietro la sua
maschera tragica aveva cominciato a ridere. Il satiro diviene
gradualmente satirico. Il pubblico quando se n’era accorto era
già troppo tardi, e invece di piangere, stava già
ridendo.
Ascoltiamo quello che ha da dirci Nietzsche sulle prime pietre, sulle
quali solo dopo è stato costruito il grande tempio di Apollo:
L’antica leggenda narra che il re Mida
inseguì a lungo nella foresta il saggio Sileno, seguace di
Dioniso, senza prenderlo. Quando quello gli cadde infine fra le mani,
il re domandò quale fosse la cosa migliore e più
desiderabile per l’uomo. Rigido e immobile, il demone tace;
finchè costretto dal re, esce da ultimo fra stridule risa in
queste parole: “Stirpe miserabile ed effimera, figlio del caso e della
pena, perché mi costringi a dirti ciò che per te è
vantaggiosissimo non sentire? Il meglio è per te assolutamente
irragiungibile: non essere nato, non essere, essere niente. Ma la cosa
in secondo luogo migliore per te è-morire presto” (La
nascita della tragedia, op.cit., p.31).
La risata del Sileno non è ancora
satirica, è orribile, è tragica. Questa era l’anima greca
originale, che fu nascosta dalla sovrapposizione dell’arte apollinea.
Apollo venne, dunque, per far dimenticare Dioniso e la sua
tragicità autentica. Tra i satiri dal pene in erezione
delle dionisiache rurali e cittadine e il Sileno interrogato dal re
Mida si apre un baratro molto più profondo che tra quello tra
Sileno e il dio delfico al massimo del suo splendore.
Tragico e autentico
“E
allora? Se i greci ebbero proprio nella ricchezza della loro
gioventù la volontà del tragico e furono pessimisti; se
fu proprio la follia, per usare un’espressione di Platone, a portare
sulla Grecia le sue benedizioni maggiori” .
La follia di Nietzsche (e di Platone) sarebbero dunque le energie
originali, non mediate che trovano il loro sfogo nel pasto totemico e
nell’orgia dionisiaca. Questa è l’anima autentica del greco. A
queste energie che scaturiscono dal profondo attribuisce il merito
della creatività greca. E invero le energie che provengono dalla
libido dell’Es, essendo questa la provincia psichica primaria, sono
quelle che danno la spinta ascensionale, che Freud ha definito Eros,
che è all’origine della vita e la mantiene. Dal momento che l’Io
è un’organizzzazione che si sviluppa posteriormente, come
risultato dell’evoluzione (p.13) e cerca di porsi in contrasto alla
libido dell’Es, meno l’individuo è sviluppato e più
queste energie originarie sono fresche e vitali.
Ma abbiamo imparato anche che nell’Es appare un impasto della libido
con la pulsione di morte: sadismo-distruzione-autodistruzione. Ne
deriva che ogni vitalità sfrenata contiene anche una carica non
indifferente del bisogno di uccidere e di morire.
Se l’Eros è fresco e vitale, in concomitanza lo sarà
anche questo impasto con la pulsione di morte. Ed ecco che si spiega la
tragicità nitzschiana. Infatti questa è esattamente
l’antitesi del pessimismo decadente, “romantico”, di cui parla
Nietzsche. E' il pessimismo di chi, a contatto con le forze
spumeggianti della vita, entra anche automaticamente in contatto con la
realtà esistenziale della pulsione di morte. È la vita
vera: la presa di contatto con la morte attraverso il veicolo dell’Eros
e non come conseguenza del suo indebolimento. In vecchiaia la morte
soppraggiungerà quando la pulsione di morte avrà il
sopravvento su di un Eros ormai esaurito, ma quando la vita “spumeggia”
il contatto avviene come parte della miscela vitale. È l’altro
polo del pessimismo nichilista che è il prodotto della
stanchezza e della vecchiaia. Solo così ci diventano chiare le
parole del saggio Sileno, il capo dei satiri, al re Mida: per lui la
morte non è quella che viene con la stanchezza e la vecchiaia ma
quella che si trova in un unico impasto con l’Eros. Ecco il desiderare
la morte come il massimo dei beni, e a cosa se non alla parola
desiderio si associa di più la parola Eros?
Quale baratro tra questo desiderio di morte, come estrema e paradossale
espressione dell’Eros, e quella desiderata da Socrate per poter
liberarsi dell’Eros stesso!
Quando Nietzsche dice che prima di Platone, “obbedendo a quale impulso il greco
dovè immaginare come satiro l’invasato uomo dionisiaco?”
La risposta è quella che abbiamo dato. Il satiro invasato,
trasfigurazione dell’orgia primordiale in cui tutte le forze dell’Es
erano scoppiate in un Super-orgasmo, è la personificazione
dell’avvenimento originale, che più autentico di questo non
potrebbe esserci.
Freud aveva chiamato il pasto totemico, che ricalca l’orgia parricida
primordiale, la prima rappresentazione tragica dell’umanità, ma
non vide che l’elemento tragico non è presente solo nella
rappresentazione dell’evento primordiale in cui si fuse lo sfogo
ininibito di tutte le pulsioni in quello che costituiranno appunto
tutte le componenti della tragedia, ovvero la pulsione che non
può se non uscire di controllo e perpetrare il fato,
bensì anche nell’inevitabilità che con l’espressione
ininibita delle pulsioni dell’Es emerga insieme all’Eros anche la
pulsione di morte. L’impasto pulsionale stesso, che fa parte della
realtà esistenziale, costituisce per sé una tragedia, se
così si può chiamare l’inevitabilità dell’essenza
umana.
Nietzsche nulla sapeva della pulsione di morte di Freud, e la sua
intuizione folgorante rimase nebulosa. Insisteva sull’associazione
vitalità-senso tragico, poiché sapeva che è
così, sapeva anche che quando i greci persero parti della loro
vitalità “spumeggiante” persero anche il senso tragico. Oggi noi
abbiamo capito: evolvendosi avevano anche emarginato al rimosso parti
vitali di quella provincia psichica che Freud ha chiamato Es.
Cancellarono un’intera regione dalla mappa topografica. Relegarono alle
cantine sotterranee dell’inconscio non solo l’orgia primordiale e dopo
il pasto totemico, ma anche la capacità di lasciare emergere
alla coscienza quell’impasto pulsionale Eros-pulsione di morte che
riempiva la loro anima di senso tragico.
Quando Nietzsche si chiede: “ci
furono forse in quei secoli, in cui il corpo greco fioriva e
l’anima greca spumeggiava di vita, rapimenti endemici? Visioni e
allucinazioni che si comunicavano a intere comunità, a intere
adunanze cultuali?”, la risposta è si. Dopo relegarono
tutto ai sotterranei blindati, e con Socrate e Platone buttarono
definitivamente in mare anche la chiave.
Ai giorni nostri il distacco è diventato così assoluto
che ogni immersione nell’Es e liberazione dalle briglie dell’Io viene
catalogata come allucinazione psicotica. Con la nascita della
civilizzazione nacque, così, anche la malattia mentale.
Nietzsche non conosceva Freud, ma Freud avrebbe dovuto conoscere
Nietzsche. Freud aveva riscoperto l’orda primordiale, il pasto totemico
e l’impasto Eros-pulsione di morte. Se non si fosse astenuto da
Nietzsche sarebbe riuscito ad articolare le sue scoperte in un tutto
più organico, come ci pare di essere riusciti a fare noi.
Nietzsche aveva intuito anche un altro punto: che sublimando le proprie
pulsioni e canalizzandole attraverso gli insegnamenti di Apollo era
andata persa l’intensità originale delle emozioni, la loro
autenticità:
e se, d’altra parte e inversamente,
proprio ai tempi della loro dissoluzione e debolezza, i Greci si fecero
sempre più ottimisti, superficiali istrionici, e anche
più smaniosi per la logica e la logizzizazione del mondo,
cioè a un tempo più “più sereni” e “più
scientifici”, non potrebbe essere forse la vittoria dell’ottimismo, il
predomininio della razionalità, l’utilitarismo pratico e
retorico, come la democrazia stessa, di cui esso è
contemporaneo- un sintomo di forza declinante, di vecchiaia
approsimantesi? (ibidem).
Il desiderio di autenticità
porterà Nietzsche a ispirarsi al dio caprino nella sua ricerca
di una formula che restituisca l’umanità alle radici della
propria essenza, là dove solo si può ritrovare se stessi
e conoscere la verità della sintesi gioia-tragicità. La
conoscenza dionisiaca, in chiave nietzscheana, è anche l’unica
forma di conoscenza auspicabile, poiché, estraneatosi dalla
propria realtà esistenziale, l’uomo occidentale sarà
destinato alla decadenza. Infatti, guardandosi indietro, aveva visto
che nel processo di civilizzazione non tutte le energie di Dioniso
erano state sublimate in arte e avevano prodotto l’ebbrezza di Apollo.
Una parte non indifferente era andata persa per strada, invece che
sublimata era stata rimossa, e queste energie erano andate consumandosi
nel mantenere la rimozione attraverso la razionalizzazione.
La smania per la logica e la logizzizazione del mondo erano
infatti non solo la conseguenza della rimozione ma anche il mezzo per
mantenere, attraverso la razionalizzazione, il distacco da quelli
strati della psiche che erano stati rimossi. In questo caso al posto
dell’arte, prodotto sublime della canalizzazione delle energie, la
civiltà aveva ricevuto invece una ben misera cosa, la filosofia.
Socrate associava ancora la sua filosofia alla musica (Foed.,61a)
ma il legame era ormai diventato molto flebile, solo una traccia
mnestica di quello che era stata una volta. La società apollinea
aveva infatti tentato di arruolare la musica all’immagine del dio
delfico, e a questì attribuì la lira, ma questo era stato
all’inizio un atto di violenza perpetrato sul corpo peloso del dio
caprino. Le Baccanali, infatti, entravano in orgasma danzando al suono
del flauto e del tympanon (kettledrum), gli strumenti musicali
più antichi.
Per gli ebrei la musica rimase associata al capro.
La Bibbia ci racconta che il padre della musica era stato Jubal
(Gn.4,21), che in ebraico significa ariete; Keren Haiuvel
è il corno dell’acclamazione, il Giubileo, Iuvel, al suono del
quale avverrà la redenzione. Chi quest’anno (2000) accorre a
Roma o a Gerusalemme per festeggiare il Giubileo, sappia almeno che va
a festeggiare la grande festa del capro, accompagnata dai suoni rauchi
del corno di montone.
Il re Davide, che nelle rappresentazioni d’arte occidentale viene
rappresentato come un giovane Apollo, che canta accompagnandosi alla
lira, era invece ben lungi dall’essere tale. La Bibbia ci racconta che
Davide danzava con tutte le forze
dinnanzi al Signore…Mentre l’arca del Signore entrava nella
città di David, Mikal, figlia di Saul, guardò dalla
finestra; vedendo il re Davide che saltava e danzava dinanzi al
Signore, lo disprezzò in cuor suo (2 Sam.,6,14-16).
Danzava con tutte le sue forze…saltava e
danzava, e in maniera così sregolata da suscitare il disprezzo
della moglie. Ovvero, la musica per gli antichi ebrei rimase associata
alla scarica motoria e alla danza, e il Signore veniva festeggiato come
Dioniso veniva festeggiato dalle Baccanali. Infatti il dio ebraico
rimase un dio caprino
Per i greci invece la musica, la più primaria delle espressioni
umane, fu dissociata dal dio caprino e attribuita al dio delfico.
Così diventò arte, e ai tempi di Platone, invece di
accompagnare la scarica orgiastica, accompagnò il torpore della
filosofia.
La musica platonica è già associata all’ordine morale
apollineo: Giustizia = musica; ingiusto = non
musicale (Foed., 105d).
Più le energie venivano deviate da Dioniso verso Apollo e
più perdevano di intensità e la musica da ruggito
diventava melodia. Con la vittoria della filosofia venne degradata a
suoni di accompagnamento alle speculazione filosofiche che erano sempre
meno vere e sempre più belle. Nel Simposio, dopo che Agaton
termina il suo discorso, Socrate lo loda e dice: “La bellezza delle tue parole e delle
tue frasi non poteva che toglierci il respiro” (198b).
Non l’acume, non la sottigliezza, non la perspicacia, bensì la
bellezza.
Ora possiamo capire anche un’altra leggenda greca: Apollo punisce il
satiro Marsia, scorticandolo, poiché si vanta di suonare il
flauto meglio del dio, e punisce il re Mida, attaccandogli delle
orecchie da asino, poiché si rifiutava di riconoscere la
superiorità musicale del dio delfico sui Sileni e sul dio Pan .
Il re Mida è quello stesso che aveva rincorso il Sileno per
chiedergi qual’è la verità, la sapienza. Voleva sapere
dunque qual’ è la conoscenza dionisiaca, quella immanente.
Disdegnava l’oracolo di Apollo per quello di Dioniso. Per Mida, la
musica, quella vera, rimase quella del dio Pan e dei Sileni, si
rifiutò di piegarsi alla mistificazione di Apollo, e quindi fu
punito dal dio. Anche la natura del castigo che Apollo infligge al
satiro Marsia ci dice qualche cosa: lo scortica, ovvero gli toglie la
pelle.
Nei riti tribali totemici i partecipanti indossano la pelle
dell’animale-totem con il quale si identificano. Il satiro rappresenta
la condensazione dell’animale con il partecipante al rito. Apollo lo
scortica, ovvero lo depriva della sua identificazione con il capro,
Dioniso, e tutto ciò nel contesto del vanto del satiro di
suonare meglio del dio delfico. Il castigo inflitto al re Mida non
è di molto diverso: “vuoi continuare ad identificarti con il
capro, ebbene invece della pelle di questo ti attacco delle orecchie
d’asino”
Gli animali, da cui viene l’uomo, non conoscono sublimazione ed
ebbrezza, la loro scarica avviene solo attraverso il potenziamento
delle possibilità dell’Es. L’Io o non esiste o è rimasto
atrofizzato dopo i primi accenni di sviluppo.
Il cristianesimo chiamerà il capro, il diavolo, la Bestia.
All’intuizione di Nietzsche, che allontanandosi da Dioniso fosse andata
persa una buona parte di autenticità, corrisponde la conclusione
di Freud: “Sensazioni che
per i nostri progenitori erano dense di piacere sono diventate per noi
indifferenti o addirittura intollerabili”(“Lettera ad Einstein”,
in op.cit., vol.XI, p.628). E questo lo scrive ad Einstein, che gli
aveva chiesto cosa si può fare per evitare quella guerra che
entrambi sapevano si stava avvicinando in maniera inesorabile. La
rinuncia imposta dalla civiltà ai piaceri primordiali stava per
esplodere in un’orgia d’impasto pulsionale Eros-pulsione di morte, in
un’ancora più triste ripetizione dell’esplosione della pentola
chiusa ermeticamente dell’Es e le sue pulsioni all’inizio della
preistoria umana.
Nietzsche si rifiuta di prendere in considerazione che nessuna
società può mantenersi sulla base dello sfogo pulsionale
dionisiaco. Le pulsioni dell’Es, senza la canalizzazione e la
sublimazione dell’Io rischiano di minare la stabilità di
qualsiasi struttura sociale, e di far crollare il tempio di Apollo che
vi è stato costruito sopra. Freud aveva avuto il sospetto che la
felicità dell’uomo fosse minata dai suoi stessi sforzi per
ottenerla. Qualche anno prima della sua lettera ad Einstein aveva
detto:
La civiltà umana poggia su due
pilastri, di cui uno è il controllo delle forze della natura,
l’altro è la limitazione delle nostre pulsioni. Il trono della
regina è retto da schiavi in catene… Le esigenze pulsionali
insoddisfatte fanno sì che egli avverta con un senso di
oppressione costante le pretese della civiltà (
“Resistenze alla Psicoanalisi”, in op.cit., vol.X, p.55).
E ora ci è più chiara anche
la frase che abbiamo riportato sopra: “Trattenere l’aggressività e
comunque malsano, porta alla malattia”, e così dicendo
non ci aveva altro che confermato la saggezza biblica: “Un’attesa troppo prolungata fa male al
cuore, un desiderio soddisfatto è albero di vita” (Prov.13,12).
Ma non porta forse alla malattia anche il predominio assoluto delle
forze dell’Es? Non ci ha insegnato forse lui stesso che il ritiro delle
energie dalla sfera dell’Io e la regressione a una psiche dominata
esclusivamente dalle pulsioni dell’Es porti alla perdita del principio
di realtà, all’allucinazione e alla psicosi?
Quelle culture che si sono organizzate sotto il dominio della Legge del
Padre e della tradizione sono difese da questo rischio, poiché
ricevere su di sè una legge indiscussa, la coesione del gruppo e
le sue regole, preclude anche una regressione al caos. I riti
iniziatici tribali, e dopo la Legge, fungono da sbarramento alla
tentazione dell’Es di disarcionare l’Io. Ma una società come
quella occidentale, una volta superate le costrizioni della
trascendentalità della Legge, superato il rito tribale, e
messasi in condizione di poter scegliere, era sempre in pericolo.
Platone questo lo aveva capito.
Così si spiega da una parte la sua lucidità nel capire
che fu proprio la follia a portare sulla Grecia le sue
benedizioni maggiori (p.30), dall’altra la sua determinazione a
impedire qualsiasi manifestazione del dionisiaco al punto da codificare
una Repubblica ideale sotto l’insegna della repressione e della censura
(Resp.,378-380). Per Platone la soluzione apollinea e la
rimozione del dionisiaco erano l’unica strada per bloccare ogni
regressione che avrebbe minato la società, e la filosofia fu lo
strumento per raggiungere lo scopo. Questo spiega le acrobazie
dialettiche nelle quali si spinge pur di arrivare alla meta. I
paradigmi che costruisce nel Fedone per provare la superiorità
dell’anima e la sua immortalità sono la prova che la meta
esisteva prima, e la catena dialettica è solo il mezzo per
arrivarvi a tutti i costi.
Ma la sua catena di sillogismi è molto bella. La bellezza
del dialogo è lo scopo, non la sua attendibilità. Usa la
bellezza come velo per nascondere la verità, che come abbiamo
visto prima era dionisiaca, quindi brutta, e rischiava di minare la
stabilità sociale così cara a Platone.
Da qui anche il legame tra bellezza, verità e filosofia.
Platone sapeva che la follia, il dionisiaco, sono molto più
veri, nell’unico senso possibile, ovvero autentici, ma doveva trovare a
tutti i costi una verità alternativa che facesse da strumento
prima, e da legittimazione dopo, per l’ordine sociale.
Vuole fare il bene dell’umanità a spese della verità
dell’immanenza esistenziale.
P.S. (8 Dic. 2005)
Come ci racconta il mito greco, Ganimede, il fanciullo bello e liscio, fu rapito in cielo poiché Zeus si era innamorato di lui. Il mito greco ci dice esplicitamente che il fanciullo fu rapito in quanto il dio se ne era innamorato.
Orbene, anche nella mitologia ebraica c'è qualcuno che fu rapito in cielo dal dio - Padre: il profeta Elia (2RE, 2) La Bibbia non ci dice niente del motivo di questo rapimento, poiché dopo il ritorno dall'esilio babilonese le antiche saghe ebraiche furono manipolate nel tentativo di renderle irriconoscibili. L'editore monoteista non poteva parlarci di un innamoramento omosessuale di Dio per il profeta. Quindi, questa parte fu sterilizzata dal testo.
Ma la parte più interessante è quella in cui il profeta Elia viene descritto:
Domandò loro: 'Com'era l'uomo che vi è venuto incontro e vi ha detto simili parole?'. Risposero: 'Era un uomo peloso; una cintura di cuoio gli cingeva i fianchi'. Egli disse: 'Quello è Elia il Tisbita ' (2 RE 1, 7-8)
Un'immagine questa che ci ricorda quella di Giovanni Battista.
Elia era facilmente riconoscibile, in quanto era particolarmente peloso. Dio si innamora di lui, in quanto peloso, come Zeus si era innamorato di Ganimede, in quanto fanciullo e liscio. Abbiamo qui un'altro esempio di come i concetti di bello, desiderabile ed eroticamente eccitante in Occidente e nell'Oriente semitico fossero agli antipodi.
Elia, dunque, ci ricorda Giovanni Battista, in quanto peloso, come il capro Dioniso, Padre primigenio dell'Occidente, che in Occidente
e Oriente nello specchio di Dioniso e di Apollo ho paragonato a Jahveh, l'ariete, Totem e padre primigenio dei clan della tribù di Giuda.
A questo punto, se teniamo in mente che Elia era riconoscibile in quanto peloso, ci diviene chiaro un paragrafo del Vangelo di Matteo, che altrimenti sarebbe incomprensibile:
Allora i discepoli gli domandarono: "Perché dunque gli scribi dicono che prima deve venire Elia?". Ed egli rispose: "Sì, verrà Elia e ristabilirà ogni cosa. Ma io vi dico: Elia è già venuto e non l'hanno riconosciuto; anzi l'hanno trattato come hanno voluto. Così anche il Figlio dell'uomo, dovrà soffrire per opera loro". Allora i discepoli compresero che egli parlava di Giovanni Battista. (Matt., 17, 9-13)
Giovanni Battista, come il profeta Elia, era peloso. Entrambi rappresentavano l'incarnazione del padre primigenio, la Bestia. Giovanni Battista, come ci dice il Vangelo, "veniva prima" del Cristo, come il Padre viene prima del Figlio. Elia ritornerà alla fine dei tempi e ristabilirà ogni cosa. "Risolverà le questioni irrisolte", come ci dice il Talmud. Nella tradizione ebraica è dunque l'incarnazione del Padre che ritornerà alla fine dei tempi, mentre per la tradizione cristiana è il Cristo, il Figlio dell'uomo, il protagonista della Seconda Venuta. Ogni tradizione è fedele a sé stessa: per gli ebrei la vittoria finale spetta al Padre, mentre per i cristiani spetta al Figlio.
Tuttavia, La tradizione ebraica ci nasconde qualcosa. Ci nasconde che prima della stesura finale del testo biblico, dopo il ritorno dall'esilio babilonese e le riforme monoteistiche che ne conseguirono, esisteva un'altra versione della figura di Elia, in cui questi non incarnava l'immagine inconscia della figura del Padre, ma quella di un dio - Figlio. Questa versione fu rimossa ma le tracce rimangono. Elia viene rapito in cielo dal dio - Padre, come Ganimede viene rapito in cielo da Zeus, dio - Padre. Ma soprattutto, la rappresentazione del carro del sole è quella di Apollo che, come il Cristo, rappresenta il dio - Figlio (cfr. The Chariot of the Sun and the Messiah).
Un'altra traccia è rappresentata dal fatto che Elia è l'unico profeta in tutta la bibbia che opera miracoli a favore del singolo (1 Re, 17, 13 - 20). Egli infatti resuscita il figlio della vedova come Gesù resuscita Lazzaro, e ne moltiplica il cibo come Gesù alle nozze di Cana.
Nella tradizione veterotestamentaria i miracoli vengono operati esclusivamente a favore dell'intera comunità, essendo questi l'epifania del padre tribale onnipossente che vuole spaventare, ammonire e meravigliare l'orda fraterna. Colui che resuscita un morto singolo rappresenta, dunque, un dio - Figlio, che opera come sfida al Padre tirannico e onnipossente. Il Vangelo sovrappone al contenuto latente di sfida al Padre, un'interpretazione manifesta di azione in nome del Padre. Non vi è dubbio che il significato latente e inconscio di Gesù ed Elia che resuscitano i morti e moltiplicano i pani è quello di sfida e ribellione contro il Padre, in nome dell'orda fraterna.
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