Iakov Levi


Le migrazioni protostoriche e lo psichismo collettivo


April 30, 2004

L’inizio

La civiltà nacque nel Medio Oriente (1) .
Durante il periodo glaciale le correnti atlantiche di aria fredda, che oggi portano le piogge sull’Europa occidentale, si erano spostate verso sud, facendo dell’Africa settentrionale e del Medio Oriente, fino all’altopiano iranico, una fertile distesa di boschi e di pascoli. In Algeria e nel sud della Tripolitania i cacciatori del Paelolitico Superiore incisero sulla roccia figure di elefanti, bufali e giraffe, dove oggi non ci sono che sabbie aride, a testimonianza di quanto dovesse essere stato diverso da oggi l’habitat naturale di quei primi artisti preistorici. Verso la fine di questo periodo, il trasformarsi dei fertili territori di caccia dell’Africa settentrionale e del Medio Oriente in aridi deserti fu responsabile della migrazione dei cacciatori mesolitici verso quelle zone che continuavano a conservare una relativa fertilità. Il processo fu graduale, e possiamo supporre che avvenne in concomitanza ai cambiamenti climatici che, alla fine del quarto millennio, trovarono il Medio Oriente approssimativamente nella situazione attuale.
Nel quarto millennio a.C., le coste dell’Africa settentrionale, che oggi sono solo sabbie aride, conservavano ancora una relativa fertilità. Il nord della Libia rimase coltivato a vigne e ulivi, probabilmente come la Grecia di oggi, e popolato da numerose mandrie di bovini per altri mille anni se, come testimoniano gli annali delle campagne militari dei Faraoni in Nordafrica, il Faraone Sahure della V dinastia ( 2475 a.C.) contò centomila capi di bestiame e almeno duecentomila tra asini, capre e pecore, ma Ramsete III ( 1175 a.C.) poté portare in Egitto un bottino di soli 3600 bovini (2).
Il progressivo inaridimento della regione, che era già in una fase avanzata nel settimo millennio, trasformò i boschi e le praterie in steppe e finalmente in deserti, mantenendo abitabili solo le valli percorse dai grandi fiumi. Sotto la pressione di questi cambiamenti climatici, l’uomo migrò dagli altipiani, non più fertili, per concentrarsi nelle vallate bagnate dai grandi fiumi.
Da allora, le terre fertili dell’Egitto e della Mesopotamia sono circondate da deserti, unite da quella che chiamiamo “la mezza luna fertile”, poiché prende la forma di una mezzaluna, in corrispondenza del letto dei due grandi fiumi, Tigri-Eufrate, e la fascia fertile che dal nord della Mesopotamia si estende fino al delta del Nilo. Le due vallate, Mesopotamia e valle del Nilo, sono separate tra di loro dal grande deserto siro-iracheno, da quello dell’Arabia, dell’Egitto orientale e del Sinai.


Sono però unite lungo una fascia di terra che in alcuni tratti non è più larga di pochi chilometri: la Palestina. Qui, a differenza dell’Egitto e della Mesopotamia, scendono precipitazioni di 200-800 mm. annuali, concentrate esclusivamente nei mesi invernali, facendo di questa una zona semi-arida. Essendo i grandi deserti invalicabili, l’unico modo per viaggiare da una all’altra di queste grandi valli è attraverso questa fascia di terra che sir Flinders Petrie, il fondatore dell’archeologia moderna, denominò “la fibbia della civilizzazione”.

Come zona di passaggio tra i grandi imperi, che si susseguirono durante i secoli nella valle dei due fiumi, da una parte, e l’Egitto, dall’altra, era anche il percorso d’obbligo per gli invasori che dalla Mesopotamia, l’altopiano iranico e l’Anatolia scendevano alla conquista della valle del Nilo, rendendo praticamente impossibile l’indipendenza dei piccoli stati nazionali che tentavano di formarsi in Palestina.
Ittiti, Assiri, Babilonesi, Persiani, Macedoni, Seleucidi e Romani videro in questa striscia di terra un punto di passaggio obbligato sulla strada per l’Egitto, e questo la considerava un cuscinetto di difesa contro la minaccia di potenziali invasori settentrionali. Inoltre, era anche il ponte attraverso il quale avvenivano gli scambi commerciali e, durante tutta l’antichità, questa cintura di terra, costretta tra il mare e il deserto, era percorsa da carovane lungo le due strade internazionali che la tracciavano verticalmente: la Via Maris o via di Horus (Derech Haiam), lungo la costa, e la strada principale,  (Derech Hamelek), lungo l’altopiano giordano.
Fino al XII secolo a.C., l’unica bestia da soma era l’asino che, pur essendo molto resistente alle fatiche, non poteva però avventurarsi dentro il deserto, e  per le sue stesse limitazioni, imponeva un percorso fisso tra la Mesopotamia e l’Egitto. Solo dal XII secolo a.C. in poi, con l’addomesticamento del cammello, (3) , si formarono nuovi percorsi che potevano spingersi fino all’Arabia del sud, per caricarsi delle merci dell’Africa orientale, e più tardi dell’India. Fino all’epoca romana, quando furono introdotte nuove tecnologie marittime, le correnti del Mar Rosso rendevano difficile la navigazione, e le carovane di cammelli percorrevano la costa del golfo di Akaba, lungo la strada che verso Occidente si ramificava verso il porto di Gaza e a oriente risaliva verso  Damasco.
Nelle due grandi valli, la Mesopotamia da un lato e la valle del Nilo dall’altra, verso la fine del quarto millennio, sorsero, simultaneamente e in apparenza separatamente, le prime civilizzazioni. Le testimonianze dei contatti tra queste culture, che poi si svilupparono in civiltà, sono poche e trascurabili, ma senza dubbio ci furono, come si può dedurre da alcuni oggetti ritrovati in Alto Egitto (4), che indicano delle influenze mesopotamiche nel periodo delle prime dinastie egizie. Le influenze sembra siano state dalla Mesopotamia verso l’Egitto e non il contrario, ma non abbiamo motivo di supporre che una civiltà sia sorta sotto l’influenza dell’altra, bensì che lo sviluppo sia stato concomitante ma dietro la spinta di stimoli autoctoni e indipendenti.
Come ha evidenziato Frankfort, l’emergere della civilizzazione nel Medio Oriente non può essere spiegato come il prodotto dello stimolo di contatti con altre forme di cultura (5), e quindi deve essere considerato un unicum, un modello, sotto lo stimolo del quale si svilupperanno tutte le altre forme di civiltà. Le culture dell’Egitto e della Mesopotamia furono le prime ad emergere al di sopra di un livello universale di esistenza primitiva, sotto lo stimolo di fattori generati esclusivamente internamente.
 

Cultura e civiltà

Il dizionario della lingua italiana definisce “cultura” come “l’insieme dei valori delle tradizioni e dei costumi, che caratterizzano la vita sociale di un popolo” (6) . Una definizione simile si trova sotto la voce “civiltà”.
In cosa consiste dunque la differenza tra le due?
Le tribù di cacciatori mesolitici che, spinti dalla siccità, scesero dagli altipiani per concentrarsi nelle fertili valli bagnate dai grandi fiumi, avevano certamente valori, tradizioni e costumi comuni, come qualsiasi altro gruppo umano, ma non li definiremo per questo una civiltà. Anche dopo che abbandonarono la vita nomade per stabilirsi in insediamenti stabili, e fondarono i primi villaggi agricoli sulle rive dei grandi fiumi, non lo diventarono automaticamente.
La questione non è semplice, e anche se tutti saremo d’accordo nel definire la cultura egizia, quella greca e quella romana con il nome di civiltà, non tutti saremo ugualmente consensuali nel definire tale la cultura ebraica, quella araba antecedente l’impero Abasside, o quella delle tribù galliche e germane sottomesse dai Romani. Quindi, per definire un popolo “civiltà”, dobbiamo cercare qualcosa di più di “un insieme di valori e tradizioni” comuni a un gruppo sociale.
Ci sembra che, per fare luce su questo punto, si debba cercare il momento in cui un gruppo sociale smette di essere una grande famiglia o un patto di tribù, caratterizzate dalla fedeltà di sangue e dalla coesione del clan, per organizzarsi su un livello diverso. Questo è il momento in cui l’uomo supera la coesione del gruppo per diventare homo politicus. Vi fu un momento nella storia degli insediamenti egizi, sulle rive del Nilo, e di quelli sumeri nel sud della Mesopotamia, in cui avvenne questo passaggio. Quale sia stato lo stimolo che portò a tale sviluppo non è chiaro. La questione è doppia: come mai avvenne proprio nelle valli dei fiumi, in popolazioni completamente diverse nella loro estrazione etnica, e soprattutto come mai avvenne simultaneamente. Il fatto che vi siano stati dei contatti non è sufficiente a spiegare il fenomeno. Sembra che quello che abbia permesso l’evoluzione sia stato il fatto che, avendo smesso di essere delle popolazioni nomadi, abbiano così potuto superare la struttura sociale tribale, che è per queste una necessità, per evolversi in un’organizzazione sociale più ampia.
Per cercare di capire la questione dobbiamo cercare di liberarci dalle costrizioni dell’eredità del pensiero occidentale, che attribuisce automaticamente una connotazione positiva di carattere normativo, o morale, a qualsiasi organizzazione umana che sia strutturata sul modello mentale della polis greca e una connotazione negativa a qualsiasi organizzazione diversa, sulla scia dei Greci-Romani, che definivano barbari tutti coloro che si rifiutavano di adottare i loro modelli mentali. Una cultura può essere estremamente sofisticata ed evoluta, come la cultura ebraica, ed elevarsi a forme di astrazione e sublimazione altissime, senza però adottare i modelli mentali occidentali, e senza quindi “guadagnarsi” il titolo di civiltà. Come per i Sumeri in Mesopotramia, e per gli Egizi nella valle del Nilo, lo stesso passaggio da cultura tribale a civiltà avvenne, quasi due millenni dopo, tra i Greci, e probabilmente la cosa fu resa possibile dallo stesso fattore: non essendoci impedimenti climatici all’insediamento in un posto fisso e all’abbandono della vita nomade, si crearono le stesse condizioni per il superamento della struttura sociale tribale e la creazione di una vita politica.
La politica sarà d’ora in poi la caratteristica della vita sociale occidentale. Ai legami di sangue si sostituisce la contrapposizione degli interessi delle varie classi sociali, e alle faide tra i diversi clan  si sostituisce la lotta di classe.

Coesione e colpa

Il Dodds ha percepito la metamorfosi mentale che avvenne gradualmente nella psiche greca, e ha definito i due stadi dell’evoluzione ellenica come “civiltà di vergogna” e “civiltà di colpa”, avventurando anche una spiegazione sui meccanismi che causarono la trasformazione:

La famiglia era la chiave di volta della struttura sociale arcaica, la prima unità organizzata, il primo feudo del diritto. La sua organizzazione, come presso tutte  le società indoeuropee, era patriarcale [solo indoeuropee?]. Il capo della famiglia era il suo re [...] Verso il padre un figlio aveva doveri, ma nessun diritto; vivo il padre, era un eterno minorenne- condizione che durò in Atene sino al VI secolo, quando Solone stabilì qualche salvaguardia [...] Si ritiene che il sistema abbia funzionato, finché l’antico senso di solidarietà familiare rimase intatto [...]Ma col rilassamento dei vincoli familiari, quando l’individuo cominciò a rivendicare in misura sempre maggiore i suoi diritti e le sue responsabilità personali, dovevano sorgere quelle tensioni interne che da tanto tempo caratterizzano la vita familiare nelle società occidentali. Dall’intervento legislativo di Solone possiamo dedurre che queste tendenze si fossero manifestate apertamente nel VI secolo (7).
Il Dodds mette qui il punto di distacco tra quello che definisce la “civiltà di vergogna” da quella “di colpa”.
Il “rilassamento dei vincoli familiari” avrebbe provocato il senso di colpa che sarà, d’ora in poi, la caratterizzazione della struttura sociale occidentale.
È senz’altro esatto che il punto di distacco vada ricercato nella deviazione delle energie del singolo da una fedeltà assoluta ai legami di sangue, peculiare della struttura arcaica, verso qualcosa di diverso e di più vasto, ma la vera causa della metamorfosi non è tanto il rilassamento dei legami all’interno della famiglia, come afferma il Dodds, quanto il rilassamento dei legami tra la singola famiglia e le altre, ovvero, all’interno del clan. La famiglia monogama d’ora in poi costituirà, con la sua coesione interna, la base e il nucleo dello Stato, ma proprio per questo, non facendo più parte di un’unità allargata che fino allora aveva costituito la base del clan, si crea una struttura mentale di triade.
Nel nuovo isolamento del nucleo familiare basilare, costituito da un padre, una madre e relativamente pochi figli, il confronto non avviene più, come prima, tra il capo tribù, capo dell’orda, e l’insieme dei figli coalizzati tra di loro per spodestare il padre, ma il conflitto avviene all’interno della famiglia, limitato entro quello che diventerà lo schema edipico tradizionale della famiglia occidentale.
Nella società tribale il senso di colpa viene elaborato e diluito attraverso la coesione tra i fratelli che sono i membri dello stesso clan, e fa da cemento alla coesione del gruppo e alla sua conservazione.
Nella società monogama, invece, il senso di colpa viene sentito direttamente dal figlio, e non viene diluito tra i membri del clan, creando una pressione che può diventare insostenibile. Dove prima il padre distribuiva la sua attenzione tra molte donne, adesso, con una sola moglie, la confrontazione con il figlio diventa più diretta ed immediata.
Nella società poligama, desiderare la donna del padre non significa automaticamente commettere incesto. Giacobbe maledice Ruben, poiché costui violò il talamo paterno (Gn. 49,1), giacendo con la concubina del padre, che non era però sua madre. La cosa si risolse lì, con la maledizione generale del padre, e non sfociò nell’orrendo senso di colpa, accompagnato dall’autocastrazione (8), che nella Grecia del V sec. a.C., trovò la sua espressione e catarsi nella tragedia sofoclea di Edipo Re.
Nella struttura tribale il padre è una figura più distante dai figli di quello che lo sia la madre, dove ogni donna vive nella sua tenda in vicinanza dei propri figli, e possono passare molti giorni prima che padre e figlio entrino in contatto diretto. Inoltre, la tribù dei fratelli condivide l’aggressività verso il padre comune, ma non la passione per la stessa madre. Tutti questi fattori fanno della società poligama un habitat mentale meno insostenibile di quello proposto dalla struttura sociale della famiglia monogama.
Non a caso, quindi, la nascita della tragedia greca è concomitante al rilassamento dei legami del clan. L’impossibilità di alleviare il peso dei sensi di colpa attraverso la chiave dei legami affettivi e della coesione tribale, creò quella pressione insostenibile sul singolo, ora lasciato solo con sé stesso, che cercò la sua catarsi nella grande tragedia greca. La tragedia sofoclea fu la reazione psichica all’istituzione della polis.
Chi sostiene che la nevrosi sia un fenomeno occidentale, è parzialmente nel giusto, poiché la creazione della società che si basa sulla famiglia monogama, anche se non ha creato per sé il senso di colpa caratteristico della struttura edipica, ne ha però resa più difficile la soluzione, staccando il singolo dalla coesione della tribù dei fratelli, e lasciandolo solo a misurarsi con la fantasia della figura minacciosa del Padre. L’aggressività del figlio verso il Padre non è più condivisa dagli altri membri del clan, e di conseguenza il senso di colpa non viene più diluito. Il Padre non è più il capo dell’orda e quindi padre di tutti, ma bensì padre del singolo. La famiglia poligama, caratteristica delle strutture sociali tribali, crea una figura centrale di Padre, con molti fratelli, che possono condividere il peso della colpa, e questo è anche il cemento della coesione del gruppo. Perciò, in queste strutture sociali, la pressione dei sensi di colpa viene alleviata attraverso le soluzioni comuni, che noi chiamiamo riti, e difficilmente sfocia in nevrosi. Il singolo non è solo e trova la soluzione a queste pressioni attraverso la solidarietà con il gruppo: i riti tribali rendono superflua la psicoanalisi (9).
 

Evoluzione della società greca

Il “rilassamento dei vincoli familiari”, per adoperare l’espressione del Dodds, pare, dunque, essere la conditio sine qua non, per la trasformazione di una cultura in civiltà, poiché solo allora il singolo può sollevarsi al di sopra degli interessi limitati del gruppo ristretto, della coesione tribale e della faziosità del clan, per perseguire interessi sociali e culturali più larghi.
Questa è anche la premessa per la creazione della metafisica, perché solo allora lo stress mentale, originato dalla perdita degli affetti e della coesione del clan, trova la sua sublimazione nella ricerca di verità più ampie e di valori più universalmente validi. I concetti di famiglia, di gens e di patria potestà continuarono ad essere presenti nella civiltà greco-romana, ma la novità consistette nel fatto che questi legami, dal V secolo a.C. in poi,  furono subordinati alla sovranità della Polis, e per i Romani a quella dello Stato.
A differenza della famiglia, del clan e della tribù, che sono un’esperienza diretta ed immanente, una realtà affettiva scontata come i genitori lo sono per il bambino, l’idea di Polis, di Patria e di Stato rappresentano un’astrazione.
Gli Eroi greci, che partono per la guerra di Troia, lo fanno in nome del patto tra le tribù achee, in nome di quella che la mitologia ci descrive come la vendetta della profanazione del talamo di uno dei “fratelli”.
Ci pare lecito dedurre che qui sia avvenuto uno spostamento della profanazione del talamo paterno da parte del figlio, motivo centrale dello schema edipico, a una profanazione da parte di uno straniero (Paride), del talamo di uno dei fratelli (Menelao). Anche qui vediamo come la coesione del gruppo, in questo caso il patto di sangue tra le tribù achee, risolva la tensione edipica, di cui il mito del ratto di Elena è lo spostamento. Non a caso Elena è passata alla storia come Elena di Troia, e non Elena di Sparta. L’inizio dell’epos, in cui la donna che viene fantasticata come la più bella del mondo viene rapita da uno straniero, non è altro che una variazione dello schema edipico come si svolge nella tribù arcaica, in cui i fratelli coalizzati tra di loro fantasticano di rapire la madre al padre onnipotente.
Il mito greco tradisce così i residui mnestici dell’antica rivolta dei fratelli dell’orda contro il padre primigenio (10). L’orda greca mette la città sotto assedio, rafforzamento simbolico del corpo irraggiungibile della madre, per rapirne la regina. Il corpo di questa, come lo spodestamento del Padre, è così, come in ogni società tribale, un affare collettivo.
La razionalizzazione che Elena sia stata la moglie di Menelao sparisce al di là della scena, sotto il concatenarsi serrato della parata degli eroi greci che sfilano sotto le mura di Troia. Sia la figura di Menelao che quella di Paride impallidiscono di fronte alla lotta che si scatena tra i protagonisti veri dell’epos: gli eroi greci da una parte e la figura del più potente dei troiani, il vero Padre di Troia: “il domator di cavalli Ettore”.
Il trionfo di Achille su di questi è la vittoria del caporione della banda dei fratelli sul Padre, difensore invincibile del corpo della madre, la città fortificata, ripetizione simbolica del corpo della regina, in nome di tutto il gruppo. Lo strazio che Achille fa del corpo dell’eroe troiano, e gli onori che vengono resi alla fine a questo corpo straziato, sono la comprova dei contenuti affettivi che trovano qui la loro espressione.
Come descrive Freud in Totem e tabù, i fratelli dell’orda si coalizzano per uccidere il padre, e una volta ottenuto il loro scopo, presi dal rimorso, onorano e adorano il corpo del padre morto. Il senso di colpa trova la sua catarsi nella fine simile che spetterà ad Achille, il caporione dei fratelli, che aveva preso su di se di compiere l’atto liberatorio e sacrilego. Con le parole di Teti al figlio: “...uccidendo Ettore, morirai tu stesso, poiché subito dopo Ettore è pronto il tuo destino” (Il. XVIII 96; 98;104).
Per questo Achille è la figura principale di tutta la guerra di Troia, e il suo destino era già stabilito fin dall’inizio, poiché se suo era il compito di sopraffare la figura del Padre, questo inevitabile misfatto non poteva venir lasciato impunito.
Nei miti greci, particolarmente quelli più arcaici, ogni pulsione particolare viene raffigurata separatamente e attribuita e un Eroe diverso. Vediamo così che, se la pulsione parricida viene rappresentata da Achille, quella incestuosa viene rappresentata da Ulisse. Questi infatti, è colui che escogita il marchingegno per la penetrazione di Troia, la città fortificata. Il cavallo, simbolo fallico maschile, penetra Troia dopo che vengono demolite parte della mura per lasciarlo passare, rappresentazione simbolica della “breccia” aperta nelle “mura” dalla deflorazione. Anche l’eruzione degli Eroi greci dal cavallo, dopo che questo aveva penetrato la città, rappresenta la eiaculazione e la consumazione finale dell’incesto.
Se Achille, il parricida, era stato punito con la morte, Ulisse, l’incestuoso, verrà punito con un’interminabile peregrinazione (11) . Vediamo come il mito dell’Iliade sia un’espressione delle tensioni edipiche e la loro soluzione come queste si rispecchiavano nella società greca, quando questa era ancora strutturata in un’organizzazione tribale, molti secoli prima che i Greci si sviluppassero a “civiltà”, e come diversamente queste tensioni troveranno la loro catarsi attraverso la tragedia sofoclea, nella Grecia del V sec a.C.
La realtà sociale descritta da Omero è ancora ben lontana dalla realtà di una fedeltà alla Polis, o a uno Stato e una Patria. La guerra si scatena in nome della coesione tra gli Eroi achei, secondo la razionalizzazione, “dopo che il talamo di uno di questi era stato profanato”. La profonda commozione che provavano i Greci a sentir decantare le gesta degli Eroi era in parte risvegliata dalla acuta nostalgia che provava il Greco per questi ricordi ormai rimossi di fedeltà di legami di sangue, e del misfatto primordiale compiuto dalla banda dei fratelli coalizzata, e non solo dal singolo, come nell’Oedipus Rex.
Come più invidiabile è la sorte di Achille, che compie il gesto in nome di tutti i fratelli, piuttosto di quella di Edipo, che è solo sotto il peso della colpa e di fronte al suo destino! Achille muore da eroe, e come tale viene ricordato. Edipo si mutilerà, accecandosi. Il senso di colpa, insostenibile poiché privato del sollievo dell’approvazione del gruppo, tramuta l’epos in nevrosi.
Quando Socrate, a cavallo tra il V e il IV secolo, acconsente a bere la cicuta e si rifiuta di fuggire poiché, se il cittadino riceve il bene dallo Stato, deve essere pronto a ricevere anche il male, pur di non sovvertirne le leggi: “...O pensi che possa sopravvivere, e non essere sovvertita, una città in cui le sentenze pronunciate non hanno efficacia, e possono essere invalidate e annullate da privati cittadini?” (Crit. 50,b), afferma un principio metafisico di sottomissione alla sovranità dello Stato che sarebbe stato assolutamente incomprensibile agli Eroi achei descritti da Omero.
Socrate riassume, con le sue parole, la metamorfosi, avvenuta nella società greca, il cui svolgimento si era completato nel 399, data del famoso processo:

Con tutta la tua sapienza non ti rendi conto che la patria è più preziosa sia della madre che del padre e di tutti i tuoi antenati, e più sacra più venerabile, più degna di considerazione da parte degli dei e degli uomini assennati; e che le si deve obbedire e servirla anche nelle sue ire, più che un padre? E che l’alternativa è fra persuaderla o eseguire i suoi ordini, soffrendo in silenzio se ci impone di soffrire, si tratti di essere battuti o imprigionati, o anche di essere feriti o uccisi se ci manda in guerra...se è un’empietà usar violenza contro il padre e la madre, tanto più lo sarà contro la patria (Crit. 51,b-c).
Quale differenza dalla concezione tribale dove la madre, il padre e gli antenati sono la patria! Gli eroi greci si chiamano ancora con il nome del padre: Achille è il pelide, Agamennone e Menelao gli atridi, ecc. Nel quarto secolo non vi è più quasi traccia di questi eponimi, e i compagni di Socrate vengono denominati ognuno con il suo nome personale.
Quando Agamennone fa un torto ad Achille, prendendogli la schiava in nome della sua autorità di duce, scatena la sua ira funesta poiché il pelide non è certamente pronto a subire un torto in nome di un’autorità che per lui  ha un valore molto relativo.
Agamennone è per gli Achei il primo tra i pari, uno dei fratelli, e non un’autorità suprema, come invece diventerà molti secoli dopo in Occidente il concetto di Stato, da Socrate al Machiavelli, che legittimerà ogni torto al singolo, purché questo avvenga per raison d’état.
 

Sfida e inibizione

A questo punto si pone la questione come mai non tutte le culture che ebbero la possibilità di abbandonare la vita nomade, e di superare così la struttura sociale e mentale tribale, fecero questo passo. Come mai non avvenne lo stesso per le tribù germaniche, galliche, elvetiche ecc. fino al loro incontro con i Romani, e in realtà neppure allora? Probabilmente la risposta sta nel fatto che le condizioni climatiche permettono un determinato sviluppo ma non lo impongono, e sono necessari altri fattori, affinché la metamorfosi venga consumata.
I Greci abbandonarono la struttura sociale tribale, ma non lo fecero appena la cosa si rese possibile, poiché sotto questo aspetto lo era stata molti secoli prima, bensì ci volle un periodo di evoluzione e maturazione, processi che per molte tribù non si verificarono mai. Per abbandonare una determinata posizione mentale ed evolversi, non basta che questo sia possibile, bensì che ci sia anche una mancanza di inibizione nell’abbandonare una fedeltà atavica, da una parte, e uno stimolo da stress dall’altra: quello che viene chiamato: “la sfida della natura”.
Per le popolazioni dell’Egitto e della Mesopotamia, la sfida della natura fu la necessità di imbrigliare le proprie energie allo sforzo comune delle opere pubbliche, necessarie a canalizzare le acque dei fiumi, là dove la mancanza di piogge precludeva ogni alternativa. Questo stimolo mancò alle tribù europee, che non si trovarono nella necessità di doversi organizzare in una struttura sociale che canalizzi le energie collettive in opere necessarie alla sopravvivenza comune.
Il secondo fattore è che il superamento della struttura sociale tribale necessita, oltre che delle condizioni climatiche che permettano l’abbandono della vita nomade e lo stimolo da stress che ne dia l’impulso, anche di un processo di maturazione che permetta il superamento mentale di tale struttura. È a questo punto che si riferisce l’inibizione. Se un popolo può abbandonare la struttura mentale tribale ma è inibito dal farlo, per esempio per la presenza di un opprimente senso di colpa che gli impedisca di abbandonare la Legge del Padre,  non potrà  superare il proprio tribalismo. Molte popolazioni, anche dopo che passarono da una vita nomade a una fissa dimora, non abbandonarono automaticamente la struttura sociale tribale e, anche dove la cosa avvenne, conservarono però la struttura mentale di questa, creando degli Stati ma rimanendo nella loro psiche una grande clan.
Così vediamo come, in Egitto e in Mesopotamia, l’abbandono di una organizzazione tribale fu non solo una possibilità ma, sotto lo stimolo della sfida della natura, forte e impellente per la loro stessa sopravvivenza, diventò subito una necessità. Per i Greci, le possibilità climatiche e la mancanza d’inibizioni maturò fino alla piena realizzazione di questa possibilità, in tutta la gamma dei suoi aspetti, mentre, presso le tribù germaniche, l’incontro con la civiltà greco-romana diede l’impulso ad amalgamarsi a questa, ma non riuscirono ad assorbirne il modus mentale.
L’infatuazione degli studiosi tedeschi del secolo scorso per la cultura classica non è altro che un sintomo da invidia di chi desidera ardentemente essere qualcos’altro. In realtà, anche dopo aver abbandonato la vita nomade e aver formato degli Stati, nel profondo della loro psiche le tribù germaniche ne conservarono il modus mentale.
L’esperienza di questo secolo ci mostra come la realtà tribale di fedeltà di sangue e di asservimento a un capo sia ben radicata sotto l’epidermide tedesca e mai abbandonata. Parlare di razza è come parlare di tribù. Se Mussolini parlava di fedeltà alla patria, Hitler parlava di fedeltà di sangue; Ein Volk, Ein Reich, Ein Fuhrer diventò il grido di nostalgia per l’antico capo dell’orda dei fratelli, che li guidi alle conquiste sotto il segno della coesione del gruppo, assoluta e indiscutibile. Da qui anche l’urgenza di espellere dal proprio tessuto sociale qualsiasi elemento che possa venire percepito come estraneo all’omogeneità del gruppo.
Per riassumere, chiameremo una cultura “civiltà”, solo dopo che questa si sia staccata dai legami affettivi della particolarità tribale, per evolversi in una concezione più allargata. Definiremo quindi “civiltà”, quella sumera, quella babilonese, quella egizia e quella greco-romana, ma non quella beduina, quella tedesca o quella vikinga, e nemmeno quella ebraica, per quanto sublimata e sofisticata quest’ultima sia diventata durante i secoli. In questo schema sono possibili variazioni e prodotti ibridi, dove elementi di tribalismo possono essere amalgamati in un determinato sviluppo, e diventare strati atrofizzati, ma parte integrale di una civiltà.
 

L’urbanizzazione

La prima città del mondo fu Gerico (12). Nel bel mezzo della valle del Giordano, i primi agricoltori neolitici del settimo millennio riuscirono, grazie alle abbondanti sorgenti di cui gode il luogo, a creare sufficienti surplus di prodotti agricoli. Una parte della popolazione fu in grado, così, di dedicarsi alla costruzione di un possente muro di cinta, che in alcuni punti raggiunge lo spessore di nove metri e mezzo, accompagnato da una torre del raggio di quasi nove metri. In un periodo, in cui non era ancora stata scoperta la possibilità di produrre i primi utensili di ceramica, e gli abitanti dovevano accontentarsi di usare utensili di legno e di pietra, il luogo fu munito di mura e fortificazioni di uno spessore da far invidia  ai castelli medievali.
Niente sappiamo nè della lingua nè dell’estrazione etnica di questi primi “cittadini”, poiché il nome di città è quello che gli archeologi danno a un insediamento quando questo viene circondato da un muro di cinta, e Gerico rimase un unicuum, nel Medio Oriente, per altri quattro millenni (13).
Alla fine del quarto millennio (3200 a.C) avvenne un fenomeno inesplicabile in tutto il Medio Oriente, straordinario per il suo vigore e per il breve lasso di tempo in cui si concretizzò. Dagli sparsi insediamenti agricoli predinastici sulle rive del Nilo, si organizzò una struttura sociale che prese subito la forma di uno Stato.
Qui il centro del potere fu, fin dall’inizio, concentrato nella figura del faraone, e non ci fu un passaggio graduale da centri cittadini politicamente autonomi. L’Egitto fu subito uno Stato, e poco dopo un impero.
Le prime dinastie allargarono la propria influenza alla Nubia, alla Libia e alle coste della Palestina, fino a Biblos, in Fenicia, dove dal quarto millennio in poi furono stabiliti dei capisaldi egizi. La peculiarità di questo fenomeno è tale che, con le parole di Sir Flinders Petrie, si può paragonare a un uomo che sia nato già adulto. La “civiltà” nacque immediatamente, in quanto gli sparsi villaggi dell’Egitto predinastico traslarono subito la propria coesione e fedeltà tribale e la sublimarono, dirigendola sulla figura del faraone, che rappresenterà anche l’astrazione dei concetti di Stato e di Patria. In queste condizioni, non ci fu alcuna difficoltà nell’arruolare le energie della collettività al servizio del faraone e dello Stato, poiché l’uno era anche l’altro. L’autoidentificazione dell’Egizio con il faraone era assoluta, poiché questi condensava in sé sia la figura del Padre tribale che quella dello Stato. Le energie dedicate al padre della tribù si fusero con quelle dedicate al concetto astratto di patria, creando una sintesi indistruttibile, come la lega tra due metalli che ne creano un terzo più forte di entrambi. Contenuti tribali di fedeltà al padre comune trovarono, paradossalmente, la propria espressione in una forma molto avanzata di rinuncia a qualsiasi identità di clan e di fazione. Lo stadio di evoluzione, in cui una fedeltà tribale viene sublimata ma ristretta ai concittadini abitanti dello stesso luogo cintato di mura di cinta, venne qui completamente saltata: niente più famiglia, clan, gens, ma nemmeno partiti politici che esprimano gli interessi di un gruppo di cittadini non più legati da un legame di sangue ma da interessi economici comuni.
Se il superamento della struttura tribale aprì ai Greci la possibilità di fare delle scelte, di organizzarsi in partiti politici e perseguire i propri interessi liberi dalle costrizioni delle imposizioni della famiglia e del Padre, non fu questo il caso dell’Egitto. Qui l’autorità della figura del Padre e dello Stato furono potenziati ai limiti del possibile, creando una civiltà che, avendo eliminato qualsiasi fazionalità di gruppo, può certamente essere definita tale, ma avendo “saltato” tutti gli stadi necessari che fanno di una civiltà il prodotto di una maturazione, si condannò così alla paralisi. Un uomo nato già adulto sarebbe destinato anche a non maturare ulteriormente, e come ha già notato Sir Flinders Petrie, tutti i modelli culturali e sociali che caratterizzarono tremila anni di storia egizia, erano presenti e completamente formati già dalla terza dinastia, prima della fine del quarto millennio.
Le città egizie venivano fondate dai Faraoni, e così usavano fare all’inizio di una nuova dinastia, come simbolo di autorità e di riaffermazione dell’ordine costituito, mentre nel resto del Medio Oriente e più tardi in Grecia, la città rappresentava la libertà e l’indipendenza da qualsiasi potere centrale: un’acquisita consapevolezza di autodeterminazione dei cittadini, che sposteranno a questa la fedeltà che precedentemente era stata focalizzata sui legami del clan.
In Mesopotamia, verso la fine del quarto millennio, i villaggi indipendenti nel delta dei grandi fiumi non solo crebbero notevolmente in dimensione, bensì cominciarono ad essere caratterizzati da un’attività febbrile di costruzione di edifici pubblici. Per la prima volta si può parlare qui di costruzioni monumentali. Anche qui, come in Egitto, si può tastare la nuova atmosfera di canalizzazione febbrile di tutte le energie in opere dirette al bene comune. La beneficiaria è la città, e a questa sono dirette le energie del cittadino che identifica il bene di questa con il proprio. La città, come sarà più tardi per i Greci, è città-stato. I templi sono centri amministrativi e i sacerdoti rappresentano la burocrazia  municipale. Anche se non si può parlare di una vera e propria democrazia, come sarà molto dopo nella polis greca, i cittadini delle città sumere sono uomini liberi che dedicano una parte del loro tempo a coltivare i campi del tempio, come mezzo tributario a favore della cassa comune, e da questa vengono finanziate le opere pubbliche.
Per comprendere l’importanza della città come fattore nel modellamento della società, non bisogna pensarla come una mera conglomerazione umana. La maggior parte delle città moderne ha perso il carattere peculiare che avevano le città dell’Europa Medioevale, della Grecia e della Mesopotamia. L’esistenza fisica della città è anche la rappresentazione delle affinità che dominano l’esistenza comune dei suoi abitanti. Le mura di cinta separano i cittadini dagli altri abitanti del paese, determinano le relazioni con il mondo esteriore, e producono un’autoidentità tra di loro e un orgoglio di appartenenza che sostituisce quello di appartenenza al gruppo etnico.
Il cambiamento, però, non fu senza svantaggi, specialmente in un paese come la Mesopotamia. La modesta vita del villaggio preistorico si inseriva nell’ambiente circostante, ma la città era un elemento in contrasto con l’ordine naturale delle cose, e i frequenti disastri ambientali non mancarono di rivalersi della sfida umana. In Mesopotamia le condizioni naturali, nella loro similitudine, sono molto diverse da quelle dell’Egitto. Cambiamenti improvvisi possono creare condizioni al di là del controllo dell’uomo. L’alta marea nel Golfo Persico può salire a quattro metri di altezza; raffiche di vento del sud possono sollevare i fiumi fino a un metro al di là delle sponde. Nevicate straordinarie in Armenia, o precipitazioni più a sud possono causare un’improvvisa inondazione. Una frana nella gola del Khabur può prima provocare un’otturazione e poi rilasciare all’improvviso un’enorme quantità d’acqua. Ognuna di queste circostanze può creare un flusso che i margini del piano non possono contenere. In tempi preistorici, quando gli agricoltori seminavano per approfittare di un raccolto dopo un’inondazione, era possibile adattare i villaggi a ogni nuova ridistribuzione, causata dalla natura, di acqua e terreno, anche se i villaggi venivano frequentemente distrutti. Ma grandi città permanenti, dipendenti dall’irrigazione e dal drenaggio, hanno bisogno di canali d’irrigazione stabili che necessitano di riparazioni e di una continua opera di vigilanza. Il Tigri porta con sé dei sedimenti, così che i canali possono facilmente venire bloccati. Anche con una regolare manutenzione, le acque salgono gradualmente sopra il piano ed è sempre pendente il rischio di un'inondazione. Nel 1831 il Tigri straripò improvvisamente, ruppe i propri margini, e distrusse 7.000 case a Baghdad in una sola notte.
La tensione tra la consapevolezza dell’imprevedibilità del comportamento dei fiumi, e la necessità di piegarli al soddisfacimento dei propri bisogni, furono quello che diede l’impronta alla società e alla religione mesopotamiche.
In Egitto, in contrasto, dove tutto era prevedibile a priori, un prevedibile dio-Faraone rappresentava anche tutte le forze divine della natura, mentre in Mesopotamia ogni città doveva incaricare il proprio dio specifico di proteggerli da un futuro sempre incerto. Per esorcizzare la minaccia dei fiumi che scorrono in una pianura piatta e senza alture naturali, furono costruiti templi su montagne artificiali di mattoni di argilla fatti asciugare al sole (Ziggurat), come sfida e scongiuro al terrore della pianura. Il mito biblico della torre di Babele è un’eco di queste torri elevate verso il cielo, a supplica e sfida in un’unica condensazione.
La sfida, lanciata dalla natura, fu accolta e superata dai Sumeri come dagli Egizi, ma la forma che presero le soluzioni fu diversa. Qui venne creato un Super-Stato, là delle città -- stato indipendenti: in entrambi i casi lo stress esistenziale, indotto dalla natura ostile, fu esorcizzato attraverso il superamento delle costrizioni della struttura sociale e mentale tribale in un organizzazione sociale più vasta e più efficiente che permetta di affrontare le difficoltà ambientali.
In Palestina, la sfida posta dalla natura era rappresentata dalla concentrazione delle piogge annuali in una stretta fascia, che dava ai suoi abitanti il monopolio sulla produzione agricola. Il bisogno di difendersi dalle tentazione dei seminomadi di invadere il seminato, particolarmente nei  frequenti periodi di siccità, e la minaccia delle improvvise razzie beduine creavano lo stimolo a munirsi di massicce fortificazioni, e sorsero numerose città-stato vicino alle fonti d’acqua e lungo le due strade internazionali attraverso le quali venivano mantenuti i contatti tra le civiltà dei grandi fiumi.
Le città-stato palestinesi erano diverse da quelle della Mesopotamia, in quanto non vi sono i grandi fiumi da canalizzare, e di conseguenza non fu sentito il bisogno di dedicarsi a opere pubbliche monumentali. La burocrazia cittadina non si sviluppò mai come nelle città sumere e, tranne che per le mura di cinta, quasi non si trova qui edilizia monumentale. Anche la scrittura tardò ad essere usata, e solo nel secondo millennio, accanto ai caratteri cuneiformi sillabici, invenzione mesopotamica dell’inizio del quarto, apparirono i primi caratteri alfabetici, come innovazione ebraico-canaanea che molto facilitò il suo impiego. In Palestina non sorsero mai opere come le Piramidi o i Ziggurat, e non si ha notizia di una organizzazione gerarchica della società.
Difficilmente possiamo parlare della “civiltà” canaanea del terzo millennio, poiché ne sappiamo troppo poco per concludere se anche qui fosse avvenuta quella metamorfosi mentale da tribù a stato, come si discerne, invece, chiaramente in Egitto e Mesopotamia. Senza il bisogno di intraprendere opere pubbliche monumentali, mancò anche lo stimolo ad inventare o usare largamente la scrittura, come invece avveniva nelle valli dei grandi fiumi.
Comunque sia, il fatto stesso di essersi organizzati in società autonome, ristrette entro le mura di cinta di un posto fisso, deve aver almeno gettato il seme per un graduale distacco dalla mentalità tribale che invece rimase l’unico modus vivendi dei seminomadi e dei beduini. Mancando documenti scritti autonomi che si riferiscono a questo periodo, non sappiamo neppure con sicurezza se questi “Cananei”, a cavallo tra il quarto e il terzo millennio, siano stati semiti o di qualche ceppo indoeuropeo, ma da qualche allusione come appare nei geroglifici Egizi della fine del quarto millennio, siamo propensi a pensare che si trattasse di semiti. Infatti le parole farina (Qamhu) e vino (Karmu) in egizio arcaico erano parole semitiche, allusione al fatto che in questo periodo la Palestina doveva essere stata molto più fertile che al giorno d’oggi ed era la terra per eccellenza del grano e della vigna.
 

Staticità ed evoluzione

Mentre l’Egitto rimase omogeneo per tutti e tre i millenni della sua esistenza, espurgando violentemente le influenze straniere che gli erano state imposte durante le dinastie Hiksos, o qualsiasi tentativo di cambiamenti drastici, come ai tempi della rivoluzione religiosa di Amenophis IV (XIV sec.), e ritornando sempre, dopo periodi di crisi, ai propri immutati modelli culturali, la situazione in Mesopotamia fu diversa. Come abbiamo visto, la natura era qui meno benevola e prevedibile che in Egitto, che Erodoto acutamente definì “un dono del Nilo”. A differenza del fiume egizio, il Tigri straripa senza preavviso alcuno. Inoltre la valle dei due fiumi è meno isolata dell’Egitto, il cui governo centralizzato riusciva a meglio contenere la pressione dei nomadi dal deserto. Gli asiatici del Sinai si presentavano come mendicanti alle porte dell’Egitto e non rappresentavano una vera minaccia per il contadino, che viveva una vita indisturbata tra i canali e le piante di papiro, in un’atmosfera pastorale, sotto l’occhio vigile dei sorveglianti del Faraone.
In Mesopotamia le città sumere, spesso in conflitto tra di loro, erano vulnerabili, non solo alle scorribande dei nomadi del deserto occidentale e dalla penisola arabica, ma soprattutto alla continue pressioni delle popolazioni che dalla Siria settentrionale, dalla Grusia, dall’Armenia e dal Kurdistan avevano la strada aperta entro la valle dei due fiumi, senza che alcuno ostacolo naturale precludesse loro la via. Elementi etnici diversi poterono così mescolarsi tra di loro.
Le città democratiche dei Sumeri, già dall’inizio del terzo millennio, cessarono di essere tali. Come accadrà tre millenni dopo a Roma, il cittadino che veniva investito di poteri dittatoriali nei momenti di pericolo, per tornare a essere uno tra i pari quando questo cessava, non sempre delegava il potere alla fine delle ostilità. L’Ensi, che era responsabile della suddivisione degli allottamenti dei pezzi di terreno tra i cittadini e della divisione del lavoro e delle corvées, fu investito anche dei poteri della difesa e della politica estera, e questo accentramento del potere sfociò, sempre più frequentemente, nella dittatura.
Nel 2340 un alto ufficiale della città di Kish, Sargon fondò una città indipendente, Akkad, e intraprese un percorso che, attraverso la soggezione delle città vicine, portò alla formazione di un impero. Mille anni di vita urbana indipendente arrivarono così alla fine. Come succederà duemila anni più tardi in Grecia, dove un tiranno venuto dal nord metterà fine all’indipendenza delle città greche e fonderà un impero, così il conglomerato etnico che si era formato in Mesopotamia trovò una nuova struttura sociale sotto l’egemonia di un tiranno. Qui si formò il classico stampo evolutivo, che si ripeterà poi anche nella storia dell’Occidente, di passaggio dalla forma tribale dell’organizzazione dei clan alla struttura sociale della vita urbana, organizzazione democratica tra pari, all’emergenza di un’oligarchia locale, alla tirannia di uno dei cittadini, alla perdita finale dell’indipendenza e all’incorporazione in un impero. Questo stesso modello si ripeterà sia in Grecia, che nell’Europa medioevale, dove ai Comuni si sostituiranno le Signorie, che a loro volta verranno periodicamente incorporate in un regno o in un impero.
Una società egualitaria si era così gradualmente trasformata, e il potere assunto dal tiranno si rifletteva nelle vessazioni dei suoi burocrati su quelli che, da cittadini, si erano gradualmente trasformati in sudditi. Con Sargon, per la prima volta diventa dominante un elemento estraneo etnicamente alle popolazioni che formavano la civiltà urbana delle città Sumere. I Sumeri, che erano di estrazione forse indoeuropea, certamente non semitica, si mescolarono così ad elementi semitici che si erano infiltrati attraverso il Nord della Mesopotamia, forse dalla Siria e forse, in parte, dal deserto occidentale.
I documenti ufficiali e molti contratti verranno d’ora in poi scritti in Accade, che è una lingua che fa parte del ceppo definito semitico-orientale (14).  Il modello culturale di città-stato con il tempio sopraelevato, che era emigrato lentamente, durante i secoli, dal sud della Mesopotamia fino alla Siria, trovò ora la sua contropartita nell’infiltrazione linguistica che dalla Siria diventò dominante in tutta la Mesopotamia. Gli studiosi sono divisi nella loro opinione se l’avvento di Sargon l’Accade rappresenti una conquista straniera, poiché gli elementi semitico-orientali si erano da secoli mischiati ai Sumeri, e rappresentavano ormai un unico conglomerato etnico, ma in ogni caso il suo regno rappresenta senza dubbio un nuovo inizio. Nelle arti si esprime un nuovo spirito di magnificenza monumentale. Nella politica avviene un tentativo, assolutamente nuovo, di creare un’unità politica che includa in essa la città-stato, ma che superi i suoi limiti. La dinastia di Sargon e la prima di una successione di monarchi che consistentemente reclamano la sovranità su tutta la Mesopotamia.
La nuova idea di unità politica, che supera quella limitata di città-stato, si riallaccia ai concetti semitici di fedeltà al capo e alla sua stirpe. Come ha notato Frankfort: “ Tra la maggior parte dei popoli semiti la fedeltà al clan è sempre il legame politico più forte” (15). Secondo noi, la questione della fedeltà al clan non è tanto una questione etnica di semiti o indoeuropei, quanto una di struttura sociale. I Turchi, che non sono semiti, e così i mongoli, le tribù delle steppe asiatiche, i Galli e le tribù germaniche erano ugualmente fedeli ai loro clan, in quanto, essendo nomadi, questa è l’unica forma di fedeltà che conoscevano. Basta pensare agli Scozzesi che ancora oggi indossano il kilt, con il simbolo del clan, e agli Svizzeri, per i quali i moderni cantoni rappresentano la trasfigurazioine moderna dei clan originali al punto che hanno conservato l’immagine di un animale diverso come simbolo totemico di ogni gruppo.
Vediamo, così, come i legami della fedeltà di sangue, che erano stati superati dal modus mentale della città-stato, rientrano qui dalla porta posteriore, per amalgamarsi in un’unica sintesi con i concetti da cui erano stati superati. Una regressione mentale parziale, dunque, ma pur sempre un’evoluzione. Il vantaggio di questo nuovo prodotto sociale e mentale è la capacità di concepire la politica come l’interesse di  conglomerati più vasti, stati ed imperi, lì dove gli interessi campanilistici limitavano il panorama mentale e politico delle città indipendenti. Lo stesso modello si ripeterà in Grecia, dove la frazionalità delle città sarà anche la sua debolezza, e nuovamente nei comuni medioevali. In entrambi i casi sia democrazia che indipendenza non potranno essere mantenute a lungo.
L’impero di Sargon fu il primo di una serie, che si susseguirono al potere in Mesopotamia,  durante i due millenni che precedettero la conquista macedone.
 

Il secondo millennio

La fine del terzo millennio segnò per il medio Oriente anche la fine di un lungo periodo di  stabilità etnica e culturale. Come abbiamo visto in Mesopotamia, l’amalgamento tra Sumeri e Semiti orientali era avvenuto gradualmente e senza traumi improvvisi. Anche il passaggio da città-stato a impero era avvenuta come un’evoluzione naturale, ed era bastata una pressione limitata per soggiogare i frazionati centri politici a un potere centrale.
Le città-stato della Palestina erano riuscite a mantenere per mille anni l’equilibrio precario tra deserto e seminato, e gli abitanti uscivano ogni giorno a coltivare i campi intorno alle mura ciclopiche che li proteggevano, ed esigevano un pedaggio dalle carovane che solcavano le strade internazionali nella loro vicinanza.
La terra del Nilo aveva vissuto mille anni di beato isolamento, concentrando tutte le sue energie sulla figura del faraone, che impersonava l’Egitto stesso. Al di là del braccio orientale del delta nilotico esistevano per loro solo i barbari delle dune del Sinai. L’influenza egizia maggiore, al di là della valle del Nilo, era sentita nelle città della costa Fenicia, dove arrivavano per via mare, e Biblos fu da sempre un caposaldo egizio.
Intorno al 2200 a.C. avvenne qualcosa che cambiò tutto. Il cambiamento fu improvviso e violento e non risparmiò nessuno. I risultati sono chiari ed evidenti, le cause oscure e discusse. Alcuni studiosi parlano di un susseguirsi atroce di anni di carestia, altri di migrazioni di popolazioni nuove dal nord, che fecero alle civiltà della mezzaluna fertile quello che le invasioni dei barbari faranno all’impero romano nei primi secoli della nostra era. Quello che è chiaro è che nessuna diga tenne. I risultati più evidenti si notano in Palestina, dove tutte le città massivamente fortificate furono distrutte o abbandonate. Uno spesso strato di cenere marca la fine di alcune di esse. A Beit Ierach, sulle sponde sud-occidentali del lago di Tiberiade, una città con un muro di cinta dello spessore di otto metri, che era stato mantenuto per mille anni, venne improvvisamente abbandonata (16). A Gerico uno spesso strato di cenere marca la fine della prospera città del terzo millennio (17). A Megiddo, la città fondata sul più importante bivio della strada internazionale, il posto, che era fortificato da un muro di cinta dello spessore di otto metri, venne completamente abbandonato (18). La città di Arad, nel Neghev settentrionale, munita di bastioni e di torri monumentali, fornita di numerosi reservoir d’acqua, a causa della zona arida in cui si trova, fu distrutta e mai ricostruita fino all’epoca della monarchia giudaica (19), milleduecento anni dopo.
Ma forse la storia più strabiliante di tutte è quella di Ai: era questa la città più prospera della Samaria. Conteneva i templi e i palazzi più monumentali della Palestina. Una vasta città, secondo i termini di quell’epoca, si stendeva ai piedi di un’acropoli fortificata. La sua fine è marcata da uno strato di cenere tra i più spessi che siano mai stati rinvenuti in scavi archeologici, a testimonianza della violenza della distruzione. Ma le tracce del trauma si estesero molto più lontano. Dai risultati degli scavi è comprovato che la città non fu più ricostruita per i prossimi 1500 anni  (20).
Quando mille anni dopo gli Israeliti conquistarono la Palestina, la città era ancora solo una collina di macerie. La dettagliata descrizione biblica della conquista di Ai da parte di Giosuè (Gios., 8,1-28) descrive un fatto mai avvenuto, e gli Israeliti non poterono distruggere una città che era stata già distrutta più di milleduecento anni prima e da allora era rimasta nella sua desolazione. La spiegazione va ricercata nell’impressione traumatizzante che doveva aver fatto quella montagna di macerie sui nuovi abitanti israeliti, che ne attribuirono la distruzione a Giosuè, il conquistatore par excellence. Il nome stesso, Ai, significa in ebraico “cumulo di macerie”. La descrizione biblica si dilunga talmente in particolari proprio per allontanare il dubbio che una tale impresa possa essere stata compiuta da qualcun altro.
Parallelamente agli avvenimenti in Palestina, in Egitto con la VI dinastia si concludeva il Regno Antico ed anche qui si entrò in un periodo oscuro e turbolento che durò almeno 300 anni. Neppure l’Egitto riuscì a essere immune al terremoto che passava sul Medio Oriente. Questo fu però anche il primo a ritornare sulla strada conosciuta.

In Mesopotamia, l’impero Accade crollò sotto la pressione di invasioni di semiti occidentali, probabilmente dalla penisola arabica attraverso il sud della Mesopotamia.
Il risultato di tutto questo scompiglio furono vaste migrazione di popoli lungo tutta la mezzaluna fertile. Nei tre secoli che si susseguirono al crollo della civiltà urbana del Bronzo Antico la Palestina diventò quella che la Bibbia ci descrive come la terra dei Cananei, gli Amorrei, gli Hittiti, i Gergesei, i Perizziti, i Gebusei, e gli  Evei  (Deut. 7,1; 20,17; Gios., 3,10; 11,2-3). Una parte di questi erano di origine indoeuropea, come certamente lo erano gli Ittiti e probabilmente i Perizziti (forse i Frigi), gli Evei, e i Gebusei, che abitavano Gerusalemme ancora ai tempi di Davide, sulle soglie del primo millennio, e dai quali questi la conquistò (2 Sam., 5,6-9), mentre Uria l’Ittita era l’ufficiale al servizio di Davide, da cui questo rapì la moglie (2 Sam., 11,1-17).
Ma l’elemento dominante era costituito dai Cananei e dagli Amorrei, che erano semiti. La Bibbia definisce tutta la Palestina come Eretz Canaan, terra del Cananeo e dalle prime scritte in questa lingua appare chiaro che, dalla seconda metà del secondo millennio, su tutte e due le sponde del Giordano la lingua parlata era un’unica lingua  di cui faceva parte il cananeo, l’ammonita, il moavita, il fenicio e l’ebraico. Dialetti che non si distinguono quasi tra di loro.
Appare chiaro, dunque, che la distinzione tra Cananei, Ammoniti, Moabiti, Givoniti, Fenici, che la Bibbia chiama “Sidoniti”, ed Ebrei sia una distinzione geografica o sociale, ma non etnica. L’eco delle migrazioni di popoli della prima metà del secondo millennio si rispecchia nella saga biblica della famiglia di Nacor-Terah- Abram:

Terach prese Abram, suo figlio, e Lot, figlio di Aran, figlio cioè del suo figlio, e Sarai sua nuora, moglie di Abram suo figlio, e uscì con loro da Ur dei Caldei (21) per andare nel paese di Canaan. Arrivarono fino a Carran e vi si stabilirono. L’età della vita di Terah fu di duecentocinque anni; Terah morì in Carran (Gn., 11,31-2).
La migrazione dalla Mesopotamia verso la Palestina era cominciata già da Terah, padre di Abramo, che era migrato con la sua famiglia dall’estremo sud della Mesopotamia, Ur, antichissima città-stato sumera, fino a Carran, all’estremo nord della valle dei due fiumi, ai confini con la Siria (oggi in Turchia), lungo il percorso classico delle carovane. In seguito si vedrà come Abramo arriverà fino all’Egitto (Gn., 12,10). In due generazioni, la famiglia di Terah-Abramo avrà percorso tutta la mezzaluna fertile, dall’estremo sud della Mesopotamia, attraverso la Siria e la Palestina, fino all’Egitto, e da li ritornerà in Palestina.
Nel frattempo, dopo trecento anni di tumulti, a partire dal 1950 a.C., cominciano a ricostituirsi in Palestina le città fortificate che erano state abbandonate alla fine del periodo del Bronzo Antico, quasi tutte sui siti originali di quelle precedenti.
 

Un giovane leone è Giuda (Gn., 49,9)

Nella tradizione biblica, le genealogie e le parentele tra i vari popoli sono raccontate attraverso le storie dei singoli eroi. Avviene dunque una personificazione, dove il nome di una tribù, o di un ramo di questa, vengono fatti risalire ad un antenato, che diventa padre di….I Semiti vengono da Sem, i Camiti da Cam, gli Edumiti da Edom, gli Israeliti da Israele, I Giudei da Giuda, i Beniamiti da Beniamino e così via.
Questa è un’estensione del concetto ancora più primitivo in cui un clan elegge a proprio totem un animale, che viene considerato il padre di tutto il clan e ne prende il nome, non solo, ma persino ne imita la voce e si attribuisce le sue peculiarità (22). Tra gli Indiani d’America un clan è quello del lupo o dell’orso, e tutto il clan sono i figli del lupo o dell’orso e ne acquistano anche le qualità, coraggio, forza ecc.
Lo stesso avviene per le tribù selvagge dell’Africa e dell’Australia, e oggi abbiamo a nostra disposizione esaurienti ricerche di valenti antropologi che da un secolo a questa parte si occupano di studio comparato tra le varie culture selvagge.
Una traccia mnestica di questa situazione primaria, di molto antecedente lo stadio di sviluppo culturale raggiunto dalle tribù ebraiche ai tempi delle saghe dei patriarchi, la troviamo nella benedizione di Giacobbe ai suoi figli in punto di morte, dove non solo la presupposizione è che la tribù erediti anche le qualità dell’avo dal quale discende, ma queste sono, in alcuni casi, associate a un animale:

“Un giovane leone è Giuda, dalla preda, figlio mio sei tornato; si è sdraiato, si è accovacciato come un leone e come una leonessa; chi oserà farlo alzare?” (Gn., 49,9); “Issacar è un asino robusto, accovacciato tra un doppio recinto” (49,14);
“Sia Dan un serpente sulla strada, una vipera cornuta sul sentiero che morde i garretti del cavallo e il cavaliere cade all’indietro” (49,17);
“Neftali è una cerva slanciata che dà bei cerbiatti”(49,21);
“Beniamino è un lupo che sbrana: al mattino divora la preda e alla sera spartisce il bottino” (49,27).
La traccia mnestica emerge esplicita dal testo nella sua forma originale, quella più arcaica, omettendo persino il “come” che avrebbe potuto generare l’impressione di una metafora. Gli antichi non parlavano per metafore, e l’espressione era molto concreta: Un giovane leone è Giuda, Beniamino è un lupo (23) ecc . La benedizione di Giacobbe è forse l’espressione di uno dei sedimenti più arcaici che emergono in tutta la Bibbia che, in poesia molto più che in prosa, lasciano emergere dal rimosso tracce mnestiche antichissime. Le saghe bibliche, non solo quelle espresse in poesia, raccontano qualcosa che, come disse Freud parlando del mito e della religione in generale, se anche non raccontano di una verità materiale, ci descrivono il nucleo di una verità storica (24), ovvero ci consegnano in forma deformata il messaggio di un’avvenimento che è rimasto impresso nella psiche del singolo, del clan o del popolo e che ne ha poi determinato lo sviluppo.
Quando la Bibbia ci racconta delle benedizioni di Giacobbe, non possiamo prendere per valido che Giuda abbia avuto le qualità del leone, Beniamino quelle del lupo, Naftalì del cerbiatto e Issakar di un asino, e ancora meno che queste sarebbero eventualmente passate in eredità ai loro discendenti, ma la verità storica esiste ugualmente, ed è quella che queste tribù avevano avuto come totem, come padri primigeni, i suddetti animali, e che i loro discendenti si sarebbero inconsciamente percepiti come figli del leone, del lupo del serpente e del cerbiatto.
L’allegoria e le sovrapposizioni metafisiche sono completamente estranee alla mentalità primitiva, che traduce in immagini figurate solo concetti concreti. Le interpretazioni allegoriche delle immagini bibliche risalgano solo a quando, dopo molti secoli e su influenza ellenista, gli Ebrei cominciarono a pensare in questi termini. La benedizione di Giacobbe fu composta quando le tribù d’Israele erano già da tempo solidamente inserite nel panorama palestinese. Le profezie del patriarca sono la descrizione della situazione al tempo della composizione, quando le tribù di Giuda e di Efraim erano le più forti, quella di Simeone era già sparita e i Leviti non avevano un’eredità come gli altri. Ciononostante, nel poema appaiono elementi molto più arcaici dei tempi del patriarca stesso che si erano conservati dalla lontana preistoria: Giuda è un leone, Beniamino un lupo, Issakar un asino, Dan un serpente, Naftali un cerbiatto e, forse il più importante e quello celato, Giuseppe, il padre di Efraim e Menashé, un toro  (25).
Anche se il poema fu inserito nel testo molto molto più tardi del tempo della sua composizione, dopo la secessione del regno unito (se un regno unito ci fu) e prima dell’indebolimento del regno settentrionale (26), contiene tracce mnestiche di saghe antichissime che risalivano alla realtà preistorica delle tribù ebraiche. Quando i figli d’Israele nel deserto si sentirono abbandonati da Mosè, che era salito sul monte e tardava a ritornare, si fecero un vitello d’oro, non fecero altro che reattivare l’immagine dell’arcaico totem della tribù di Efraim dopo che Jahveh, il cui simbolo totemico era l’ariete (27), e Mosè suo servo, avevano deluso. Efraim (Giuseppe) è un toro, e quando quattrocento anni dopo la monarchia unita si lacererà secondo lo stampo della federazione di patti tribali arcaici, Geroboamo rifece due vitelli (tori) ripeté le stesse parole che il testo aveva attribuito ad Aronne: “Ecco, Israele, il tuo dio, che ti ha fatto uscire dal paese d’Egitto” (Es., 32,4. Cfr. 1, Re, 12,28).
L’associazione tra il vitello d’oro e le tribù di Giuseppe non era sfuggita neanche ai rabbini medioevali, poiché Rashi nel suo commento al quarto versetto del trentaduesimo capitolo dell’Esodo dice: “c’era lì il profeta Mica con una platera su cui Mosé aveva scritto “fa salire il toro” ovvero prendi con te le ossa di Giuseppe dal Nilo e buttale sul fuoco e ne verrà  fuori il vitello”. L’associazione tra i vitelli fatti da Geroboamo e l’animale totem appare nel testo quando “l’uomo del Signore” che va a Betel a redarguire il re dice: “Anche se mi dessi metà della tua casa, non verrei con te e non mangerei né berrei nulla in questo luogo, perché mi è stato ordinato per comando del Signore: non mangiare e non bere nulla…”(I, Re, 13,8-9).
Freud ha spiegato come il mangiare in comune rappresenti  l’identificazione con il proprio totem, il padre della stirpe (28). Se il toro era l’animale simbolo della tribù di Efraim (Giuseppe) ecco che diventa chiaro perché il Signore aveva comandato “all’uomo del Signore”, che veniva dalla Giudea, di non toccare cibo o bevanda a Betel, nel territorio della tribù di Efraim, dove adoravano il vitello.
Una conferma indiretta alla nostra costruzione la troviamo quando Wellhausen attribuisce la storia del vitello d’oro nel deserto alla fonte Eloista (E) della composizione biblica (29), che fu compilata nel regno d’Israele, dopo la secessione dalla monarchia unita.
Tutto ci ricollega dunque a Efraim, la tribù centrale del regno settentrionale.
L’associazione vitello – Efraim - regno d’Israele emerge vivida nelle parole del profeta Osea, sulla soglia della distruzione del regno settentrionale per mano degli Assiri:

Ripudio il tuo vitello, o Samaria!
La mia ira divampa contro di loro;
fino a quando non si potranno purificare
i figli d’Israele?
Esso è opera di un artigiano,
Esso non è un dio;
Sarà ridotto in frantumi
Il vitello di Samaria. (Os., 8, 5-6).

La psicoanalisi e gli scavi archeologici hanno restituito alle saghe bibliche parte del valore che era stato loro tolto dalla critica letteraria della fine del secolo scorso. Gli studiosi di critica letteraria avevano restituito al solido terreno la cronologia dei libri della Bibbia, ma la psicoanalisi ha dimostrato il nucleo arcaico di verità preistorica che si è conservato in queste saghe, anche se deformato in maniera da renderlo irriconoscibile (30).
Se Wellhausen ci ha fatto notare che i racconti dei Padri rispecchiano una realtà storica posteriore alla monarchia unita, e quello che è stato scoperto da allora non ha fatto che confermare i risultati della sua indagine letteraria, ecco che con la scoperta della biblioteca di Ugarit, la città cananea sulle coste della Siria, risulta che alcune leggende messe per iscritto quivi nel XV e XIV secolo hanno risvolti che ricordano in tutto le storie dei Padri. Anche l’anno sabbatico aveva le sue precedenti nei culti degli altri popoli semitici occidentali, anche se non era stato tradotto in riposo della terra.
A Ugarit è stato scoperto un testo liturgico designato a un culto della terra che avveniva ogni sette anni come espediente magico per evitare carestie, e che consisteva nella celebrazione della nascita e l’entrata trionfale degli dei della fertilità Shahar (aurora) e Shalim (pace?), il cui avvento era inteso a portare abbondanza di cibo e di vino (31).
Ancora di più, nelle tavolette trovate nel palazzo di Mari, in Mesopotamia settentrionale sulle rive dell’Eufrate, che risalgono al XVIII secolo, sono nominati sia gli Ebrei (Habiru-Hapiru) sia specificatamente la tribù di Beniamino (Banu-Iamina) (32). Dal momento che Banu-Iamina significa letteralmente “figli della destra”, ovvero “figli del sud”, dall’usanza antica di orientarsi volgendo il viso verso il sorgere del sole, abbiamo una conferma della supposizione che l’origine di questa tribù fosse nel sud della Mesopotamia dove, essendo semiti occidentali, potevano essere penetrati solo dalla penisola arabica.
Nel X - IX secolo il primo redattore del regno settentrionale d’Israele, quando mise sulla pergamena la prima versione ebraica di queste leggende, le adattò al panorama politico e culturale che aveva davanti agli occhi, ma non inventò ex novo le storie stesse. Giuseppe era un toro, il vitello d’oro al posto di Jahveh, il montone, i due vitelli a Dan e a Betel, ecco che l’antico totem tribale, anteriore di un millennio alla narrazione, emergono nel racconto.
Anche la storia di Abramo, prototipo delle tribù ebraiche di pastori che vagavano ai margini del seminato all’inizio del secondo millennio, anche se messa per iscritto e adattata alla realtà del X- IX secolo, era già entrata da tempo nell’habitat culturale tramandato da padre in figlio. La verità materiale non è quella di un uomo, di nome Abramo, che improvvisamente è stato chiamato in missione da una vocazione interna, per influenza della quale abbia abbandonato la casa paterna e cominciato a migrare, credendo in un solo dio, introducendo per primo la circoncisione per i suoi figli e così via. Ma dietro a questa saga si nasconde nondimeno una verità storica che è nostro compito riscoprire, che è ancora più importante che se fosse la realtà materiale dell’esistenza di un uomo chiamato Abramo.

Abramo

Abramo è il primo di qualcosa, un prototipo, quello che Mircea Eliade, un’antropologo che ha studiato attentamente i riti delle tribù selvagge, chiama un eroe culturale (33), la figura mitica che ha introdotto per prima un’usanza con la quale tutta la tribù si identifica, nel nostro caso, la circoncisione, l’iconoclastia, la credenza in un dio che non era allora certamente l’unico dio del mondo, ma fu posteriormente identificato con il dio della tribù. A lui viene attribuito il vagare stesso, l’essere nomade poiché, secondo la tradizione, i suoi padri erano stati residenti fissi. Lui fu il primo “che passò il grande fiume”, l’Eufrate, verso Occidente.
Secondo Wellhausen (34), la figura di Abramo è stata creata posteriormente a quella degli altri due padri, poiché le storie di Isacco e Giacobbe contengono elementi più realistici e storici di quelle del primo patriarca, e probabilmente invero fu così. Ciononostante, ci sembra che la figura di Abramo contenga una “verità storica” che ci vuole svelare qualcosa in più di quello che ci raccontano le figure degli altri due patriarchi.
La sua figura sembra far parte del contesto culturale, non solo delle tribù ebraiche, ma di tutto il conglomerato di popoli semitici nord-occidentali che erano in movimento lungo la mezza-luna fertile, in contrasto a quella dei popoli sedentari della stessa regione.
Se da una parte la maggior parte della sua storia si svolge lungo il percorso stabile dei semi-nomadi ai margini del seminato Sichem – Gerusalemme – Hebron -- Beer Sheba come quella di Isacco e di Giacobbe e in questo contesto è la ripetizione di quella del primo, dall’altra la sua figura è collegata agli eventi della grande guerra dei cinque re dell’Oriente che invadono la valle del Mar Morto e dopo sarà collegato, anche se solo en passant, agli eventi del gran cataclisma geologico che in epoca preistorica aveva colpito la stessa zona di Sodoma e Gomorra.
Quando Abramo si separa da Lot, la Bibbia ci racconta: “Allora Lot alzò gli occhi e vide che tutta la valle del Giordano-prima che il Signore distruggesse Sodoma e Gomorra-; era come il giardino del Signore, come il paese d’Egitto, fino ai pressi di Zoar” (Gn.13,10). Al lettore incredulo dei suoi tempi il redattore spiega: prima che il Signore distruggesse Sodoma e Gomorra. Interiezione obbligatoria poiché altrimenti non sarebbe stato creduto.
La valle di sale del Mar Morto è tale da centinaia di migliaia di anni, da quando in epoca del Paleolitico di mezzo, il cataclisma geologico aprì la fenditura che dal Libano arriva fino al Sud-Africa. Esistevano già i primi uomini, come prova un pavimento di ciottoli verticale, emerso dagli scavi di Ubaidia (35), a sud del lago di Tiberiade, ma ai tempi di Abramo, qualsiasi sia l’epoca storica nella quale lo si voglia introdurre, la valle era già tale.
La Bibbia non avrebbe mai associato un cataclisma geologico di quelle proporzioni a Isacco o a Giacobbe, ma ad Abramo, che sembrava emergere dai fumi della preistoria, l’eroe culturale, sembrava possibile. Il patriarca fu associato a tutto quello che agli occhi dei contemporanei del redattore potesse sembrare incredibile, remoto, nebuloso. Se lui veniva dalla lontana Ur dei Caldei (vedi nota 21), poteva ugualmente essere stato testimone del terremoto di zolfo e di sale. Mentre Isacco e Giacobbe rimarranno sempre degli eroi locali (36), il cui mondo era limitato tra Sichem e Beersheva, Abramo era associato a tutto l’habitat culturale della mezza luna fertile.
Il quattordicesimo capitolo della Genesi di cui Abramo e il suo intervento nella grande guerra sono al centro, ci presenta un’immagine della figura del patriarca che stona in confronto a tutte le altre sue storie. Questa saga non appartiene al resto ed è fuori dal contesto limitato delle altre sue vicende.
I quattro re che invadono la Palestina dall’Oriente sono il re di Sennar (Babilonia), il re di Ellasar, che non è chiaro dove sia,  comunque non in contesto palestinese, il re di Elam, che era ancora più a oriente della Babilonia e si estendeva fin sull’altipiano iranico e il re di Goim, che vuol dire popoli e non è il nome di un posto bensì vuole probabilmente significare: il re di molti popoli. Non c’è da meravigliarsi se i re di tutto il Medio-Oriente coalizzati siano riusciti a sconfiggere cinque piccoli re della Palestina. Qui Abramo non solo si trova coinvolto in quella che allora deve essere stata una guerra mondiale, ma persino, dopo aver organizzato

[...] i suoi uomini esperti nelle armi, schiavi nati nella sua casa, in numero di trecentodiciotto, e si diede all’inseguimento fino a Dan. Piombò sopra di essi di notte, lui con i suoi servi, li sconfisse e proseguì l’inseguimento fino a Cobe, a settentrione di Damasco (14,14-15).
Ovviamente il testo non stà raccontandoci una realtà materiale, poiché è inconcepibile che un capo tribù come Abramo, che stava attento a trattare con i guanti gli abitanti delle città fortificate della Palestina conscio di essere perennemente in inferiorità di forze, improvvisamente sia intervenuto con trecentodiciotto uomini ed abbia deciso delle sorti di un conflitto di proporzioni mondiali, nel contesto dell’inizio del secondo millennio: come gli Stati Uniti quando sono intervenuti nel conflitto mondiale e hanno deciso le sorti della guerra. Ma noi non licenzieremo l’episodio come se fosse il risultato di una fantasia. Abbiamo davanti una “verità storica” (vedi nota 24), anche se deformata e il cui significato reale è stato celato. Per decodificarlo, dobbiamo racimolare tutti i reperti archeologici dal testo, sparpagliati lì sulla superfice, e chiederci quale sia il loro vero significato.
Ci viene raccontato di città palestinesi, governate da re che si trovano in guerra con importanti città del resto del Medio Oriente e di una tribù di pastori semi-nomadi che interviene in modo decisivo. Anche l’atmosfera generale di lotta tra titani (si parla di tutto il Medio Oriente) appartiene più al contesto psicologico del diluvio universale e della distruzione del mondo che a quello dei lenti movimenti tra Hebron e Beer Sheva e la storia di un Abramo, che costretto dalle difficoltà ad emigrare in Egitto nasconde l’identità della moglie per paura (Gn.12,11-20) ed entra in trattative solenni con Efron l’Iittita per acquistare un lotto mortuario per la moglie, il quale prima propone di darglielo gratuitamente e poi glielo fa pagare profumatamente (Gn.23, 1-15) (37).
Dopo quattro capitoli, gli stessi sodomiti, che erano stati salvati dall’intervento del patriarca, minacciano Lot e i suoi ospiti,  Abramo non fa niente per intervenire, e lascia che “i due uomini”  (38) che avevano lasciato le sue tende agiscano da soli.
Quindi, Abramo si sentiva più debole dei cittadini di Sodoma e non più forte. Ma il racconto è lì, inserito nel bel mezzo, che tratta di una lotta tra giganti e Abramo che distrugge tutti in una notte.
Questa è la traccia mnestica del terremoto etnico che aveva scosso tutto il Medio Oriente alla fine del terzo millennio e che aveva provocato la distruzione delle possenti città fortificate della Palestina. Come abbiamo visto, il subbuglio era durato tre secoli e dal caos provocato erano emerse, e forse ne erano anche state la causa, le tribù semi-nomadi di semiti nord-occidentali che percorrevano all’inizio del secondo millennio le strade della mezza luna fertile. In diretta associazione, nei capitoli seguenti, Abramo stringe un patto di sangue con il Signore e gli viene promessa una numerosa discendenza, e gli viene anche cambiato nome che ora sarà “il padre di una multitudine di popoli” (Gen., 17,4). Qui la figura del patriarca rappresenta la personificazione della cultura del pastore seminomade che emerge all’inizio del secondo millennio dagli spostamenti etnici della fine del millennio precedente.
Da questa cultura il Signore promette che usciranno grandi popoli. E questa promessa era particolarmente solenne proprio perché era in contrasto alla realtà materiale di debolezza dei pastori che vagavano ai margini del seminato.
Se Abramo fosse stato così forte da poter anniettare i quattro re d’Oriente, che a loro volta erano stati sufficentemente potenti da sconfiggere tutti i popoli della regione,
[...] i Refaim ad Ashtarot Karnaim, gli Zuzim ad Am, gli Emim a Save-Kiriataim e gli Hurriti sulle montagne di Seir, fino a El-Paran (che è nel Sinai). Poi mutarono direzione e vennero a Ein Mishpat, cioè Kades, e devastarono tutto il territorio degli Amaleciti e anche degli Amorrei (Gen., 14,5-7)
e subito dopo sconfiggono in un colpo la coalizione dei cinque re palestinesi, non avrebbe avuto bisogno delle promesse del Signore e si sarebbe preso tutta la Palestina, chiudendo i conti con le odiate città cananee fortificate.
In realtà questa promessa non sarà mai mantenuta, poiché la cultura del pastore semi-nomade, anche quando i figli d’Israele si insedieranno in Palestina, diventeranno residenti fissi e costituiranno dei regni indipendenti, non potrà mai competere con gli imperi mondiali entro i quali verrà volta dopo volta incorporata.
Una traccia ancora più illuminante è quella che emerge nel versetto 13: “Ma un fuggiasco venne ad avvertire Abram, l’Ebreo, che si trovava alle Querce di Mamre l’Amorreo, fratello di Escol e fratello di Aner i quali erano alleati di Abram”. Come mai il redattore si sente in dovere di specificare “Abram, l’Ebreo”, non sappiamo forse chi sia Abram? Non è certo questa la prima volta che il testo ce lo presenta!
Possiamo ora supporre che il posto giusto di questo capitolo sia all’inizio della storia della famiglia di Abramo, quando questa faceva parte di tutto il conglomerato di semiti nord-occidentali, una parte dei quali sarebbe diventato residenti fissi e una parte, della quale faceva parte anche Terah e Nahor, che invece sarebbero rimasti semi-nomadi, o lo sarebbero diventati dopo il cataclisma culturale dell’ultimo quarto del terzo millennio.
Questa è la prima volta che nel testo appare la parola “ebreo”. Rashi, tremila anni dopo, spiega: “ebreo, ovvero che viene dall’aldilà del fiume” (39).  Nella Bibbia, il fiume per antonomasia è l’Eufrate. Quindi Ebrei sono coloro che hanno passato questo fiume, che marca anche il confine tra la Mesopotamia e la Siria-Palestina. Ma anche i Cananei e gli Amorrei, di cui il versetto ci dice che erano alleati di Abramo, appartenevano allo stesso ceppo semitico nord-occidentale, parlavano esattamente la stessa lingua ed erano emigrati, un secolo prima di Abramo, o forse in concomitanza con il clan del patriarca, dal nord della Mesopotamia.
Nel lasso di tre secoli, dal 2250 al 1950 c’erano state almeno due ondate di migrazione. La prima a cui appartengono i popoli citati nel quattordicesimo capitolo che non menziona, infatti, i Cananei. E almeno un’altra ondata a cui appartenevano i Cananei e altri popoli ricordati in altre parti della Genesi, come i Perizziti, gli Hevei, gli Amorrei (13,7), i Gerghesei e i Gebusei.
I popoli che avevano invaso la Palestina nella prima ondata, gli Ittiti e gli Hurriti, di estrazione indo-europea, e altri popoli ricordati nel testo (14,5-6) e che a differenza dei primi due non saranno più ricordati nella Bibbia, all’inizio del secondo millennio avevano completato il processo di insediamento e urbanizzazione della Palestina. Gli Ittiti e i Hurriti si fusero con gli altri popoli, i Refaim, gli Zuzim e gli Emim, che vengono nominati solo nel quattordicesimo capitolo, forse anch’essi di estrazione indo-europea (qualche dubbio sussiste per i Refaim che sembra una radice semita). Quando venne l’ondata di migrazione dei semiti nord-occidentali, gli Amorrei, di cui faceva parte anche la famiglia di Terah-Nahor, i primi si fusero ultimamente con gli abitanti precedenti in un unico conglomerato e con altri popoli parimenti esclusi da questo capitolo, ma che vengono enumerati dopo come parte dei sei popoli votati dal Signore allo sterminio (Es., 23,23), e tutta la Palestina verrà denominata nella Bibbia come Terra del Cananeo (Eretz Canaan). Mentre gli Ittiti, i Hurriti e gli Amorrei sono nominati nei documenti cuneiformi fin dall’inizio del secondo millennio, i Cananei cominciano ad essere menzionati per la prima volta solo nei documenti egizi del XV secolo, e più che un popolo la definizione ricopre una zona geografica che comprende la Palestina e la costa fenicia fino a Ugarit, la parte più occidentale della Siria. Gli Ittiti continueranno ad apparire sporadicamente. Abramo acquista da uno di questi la sua tomba in Hebron, che era da loro abitata (23,3-20), Esaù si sceglieva tra di loro le sue donne (Gn. 27,46) e ancora ai tempi di Davide erano mercenari al servizio del re. Gli Hurriti vengono menzionati sporadicamente nella Bibbia (40), come traccia mnestica dimenticata, e non appaiono nella lista dei popoli votati allo sterminio, poiché ai tempi dell’invasione israelita del XIII secolo avevano smesso di esistere come entità etnica separata. Gli Amorrei, invece, che entreranno in questa lista insiema ai Cananei, gli Hittiti, i Gergesei (41), i Perizziti, i Gebusei, e gli Evei, ai tempi descritti nella narrazione del quattordicesimo capitolo della Genesi erano ancora semi-nomadi e questo trova espressione nel versetto che ci dice che Abramo “l’Ebreo” era alleato degli Amorrei.
La vicenda più complessa era stata proprio quella di questi ultimi, il cui nome stesso per molti secoli era stato sinonimo di semita. Appaiono per la prima volta nei documenti mesopotamici del ventiquattresimo secolo e il nome accadico Amuru stava per definire i semiti occidentali, in contrapposizione ai semiti orientali di cui gli Accadi facevano invece parte. Probabilmente, erano stati i nomadi che avevano minato l’egemonia accade-sumera in Mesopotamia destabilizzando il vecchio ordine del terzo millennio.
Ma da dove venivano queste federazioni di tribù semite occidentali?
La tendenza degli studiosi contemporanei è di far risalire ogni invasione semita del seminato alla penisola arabica (42). Il motivo sarebbe che questa zona, per l’aridità che le è particolare, non può contenere una popolazione in espansione e quindi che questi “surplus” umani periodicamente invadano la mezza luna fertile. Se le cose stanno così, gli Amorrei venivano dalla penisola arabica, che per gli Accadi-Sumeri si trovava a occidente, erano penetrati in Mesopotamia e da lì avevano passato il grande fiume per continuare a vagare in Siria-Palestina. A questo ceppo appartiene anche la famiglia di Terah-Nahor, dalla quale verrà Abramo. Questo spiegherebbe l’affinità linguistica, che è anche l’unico strumento che possediamo per definire i popoli, tra tutti i semiti occidentali: Ebrei, Arabi, Cananei, Aramei, Babilonesi, e anche la traccia mnestica riportata dalla Bibbia che la famiglia di Terah veniva da Ur “dei Caldei” all’estremo limite meridionale della Mesopotamia. Per gli abitanti amorei di Mari, come abbiamo visto sopra, i Beniamiti erano “figli del Sud”, ovvero erano stati una delle ultime ondate di immigrazione dalla penisola arabica. Ed ecco che si spiega così anche la tradizione che Beniamino fosse il "più piccolo” dei figli di Giacobbe.
La realtà materiale che ci racconta il quattordicesimo capitolo non è quindi quella di un uomo, Abramo l’Ebreo che con trecentodiciotto uomini sconfigge i quattro re d’Oriente. La verità storica è però non meno importante ed è la seguente:
Nel contesto dei cambiamenti etnici e culturali che stravolsero il Medio Oriente alla fine del terzo millennio, la Palestina fu invasa da parte di popolazioni nomadi indo-europee che venivano dal nord (Ittiti, Hurriti, Zuzim, Emim) forse unite a tribù semite, i Refaim, o forse queste si trovavano già sul posto. Questi popoli cominciarono un processo di insediamento che all’inizio del secondo millennio era già avanzato.
Una seconda ondata di immigrazione venne dall’aldilà del fiume, l’Eufrate, questa volta di semiti nord-occidentali. Una parte di questa ondata sopraffece numericamente e culturalmente gli abitanti locali, si amalgamò a loro, e a partire dal XV secolo tutto il paese fu chiamato "terra del Cananeo", che solo verso la fine del Nuovo Impero egizio (Late Bronze) diventò la definizione -- tetto per questi semiti -- occidentali. Una parte rimasero ancora semi-nomadi, e la Bibbia li definisce Amorrei,  Amuru, che però ai tempi dell’invasione israelita della fine del secondo millennio erano giŕ diventati agricoltori e furono inclusi nella lista dei popoli da sterminare. Infatti, a partire dal XIX secolo fondano delle città fortificate, che superano in estensione quelle del terzo millennio, in Siria (Mari, Katna)  (43) e fino alla Galilea, dove la città di Hazor  (44) è un classico esempio, e il regno di Heshbon l’Amorreo, che fu distrutto dalla tribù israelite (Nm.21,26-30; 32,37; Deut. 2,24-30) solo qualche secolo dopo gli avvenimenti descritti nel XIV capitolo della Genesi.
Una parte rimasero pastori semi-nomadi poiché le valli fertili erano già state occupate dall'ondata d'immigrazione precedente, continuarono a migrare ai margini del seminato, e furono chiamati Ebrei, "coloro che avevano passato il fiume", anche se il fiume non erano stati i soli a passarlo.
Durante questa seconda ondata di migrazioni, certamente prima che avvenisse la distinzione culturale tra Amorrei, Ebrei e Cananei, vi fu un tentativo dei popoli residenti della Palestina di ribellarsi all’egemonia mesopotamica. Infatti, il versetto ci dice: “Per dodici anni essi erano stati sottomessi a Chedorlaomer, ma il tredicesimo si erano ribellati” (Gn., 14,4). E ribellarsi al governo centrale, a quei tempi era molto semplice: bastava non mandare le tasse dovute, e questo era l’atto di ribellione che attivava la spedizione militare. E infatti l’anno dopo appare Chedorlaomer con i suoi eserciti.
Nel Medio Oriente antico, l’occasione per smettere di mandare le tasse dovute era quando si cambiavano le dinastie regnanti, che era generalmente accompagnato da un periodo d’instabilità. Se guardiamo nella cronologia mesopotamica, l’ultimo periodo d’instabilità del terzo millennio fu prima della salita della III dinastia di Ur nel 2113 (45). Chedorlaomer e i suoi eserciti, principe di questa nuova dinastia, una volta consolidato il suo potere, invase la Palestina per ristabilire l’ordine. Possiamo supporre con un certo grado di sicurezza che gli eventi raccontati nel quattordicesimo capitolo della Genesi si riferiscano a questo periodo.
Alla fine del ventiduesimo secolo le ondate di migrazioni semite, di quelli che “avevano passato il fiume”, non si era ancora amalgamata ai residenti delle città palestinesi dell’ondata precedente, ed erano nello stadio di passaggio da semi-nomadi a residenti. Ed ecco che si spiega come la maggior parte dei nomi dei popoli sconfitti siano indo-europei. Le tribù di semiti nord-occidentali emigrate di recente, di cui Abramo l’Ebreo è la personificazione, si unirono ai residenti fissi e li aiutarono a respingere l’invasione dei re d’Oriente. Gli Amuru, secondo gli studiosi, furono quelli che misero fine alla terza dinastia di Ur nel 2004 (46).
Possiamo supporre che tra la ribellione e la reazione Mesopotamica sia passato molto più di un anno. I tempi biblici sono quello che sono. Se la ribellione avvenne intorno al 2113, possono essere passati alcuni anni prima della spedizione militare degli eserciti di Chedorlaomer. La guerra stessa durò qualche decennio, se solo nel 2004 venne inferta la sconfitta finale da “Abramo l’Ebreo” e i suoi alleati Amorrei, che diedero il colpo finale alle dinastie di Accadi–Sumeri che regnavano in Mesopotamia. Questa è la guerra di giganti che viene descritta nel quattordicesimo capitolo della Genesi, che doveva aver fatto un effetto traumatico sui contemporanei, dal numero dei re e dell’estensione geografica narrata.
L’ Abramo qui descritto non è certo lo stesso che nel XIX –XVIII secolo vagherà come pastore semi-nomade ai margini del seminato. Dagli Amuru verrano i re delle prime dinastie babilonesi che governeranno tutta la Mesopotamia, di cui anche Hammurabi farà parte. Questo spiega tutta l’atmosfera di apocalisse arcaica del capitolo che è in stridente contrasto con l’atmosfera pastorale di tutte le altre vicende del patriarca. Gli avvenimenti del quattordicesimo capitolo della Genesi antecedono di almeno due secoli quelli descritti negli altri capitoli e associati ad Abramo e ai patriarchi.
Nel frattempo, i Cananei, i Perriziti, e gli altri semiti, compresi gli Amuru palestinesi, avranno concluso il loro assestamento e saranno diventati i “Cananei” veri e propri. Abramo, Isacco e Giacobbe rimarranno gli unici “Ebrei” della regione. E questi non sono più gli alleati degli Amorrei, e non sarebbero certamente intervenuti per salvare i re delle città palestinesi, i loro arcinemici.
Vediamo dunque che la Bibbia adopera per la prima volta la parola “ebreo” e questa è sinonimo di pastore seminomade. Come tali, e in una connotazione solo dispregiativa, verranno denominati i figli d’Israele da chi non faceva parte della cultura semi-nomade: la moglie di Putifar (Gn., 39,14), il coppiere del Faraone (Gn.,41,12), e Mosè quando il Signore gli insegna come deve spiegare al Faraone di chi è il dio colui che lo manda (Es., 3,18).
I figli d’Israele non si definiscono mai come tali. Infatti nel versetto dell’Esodo è il Signore che deve spiegare a Mosè di chi si tratti: “il Dio degli Ebrei”, non dei figli d’Israele. E lo stesso ritorna quando il testo parla per bocca di Mosè: “Vide un Egiziano che colpiva un Ebreo” (Es., 2,11); “Il giorno dopo uscì di nuovo e, vedendo due Ebrei che stavano rissando…” (Es., 2,13). Forse questa è una delle prove di come Freud sia stato nel giusto quando ha avanzato l’ipotesi che Mosè non sia stato ebreo ma egizio (47). Mosè, l’Egizio, infatti, vedeva i figli d’Israele come Ebrei.
La stessa espressione è adoperata da Mosè per spiegare a sua volta al Faraone di chi si tratti (Es., 5,5). E fino ancora a Giona, dopo seicento anni, quando deve identificarsi di fronte a chi non lo è, dice: “Sono Ebreo e venero il Signore Dio del cielo, il quale ha fatto il mare e la terra” (1,8). Gli Ebrei non si identificano mai come tali, proprio perché per loro essere semi-nomadi è la condizione naturale, e adoperano questa espressione solo in simbiosi con la definizione loro attribuita dai residenti fissi.
Quando Jahveh dice a Mosè: “Io sono il Dio degli Ebrei”, il testo adopera questa espressione poiché sapeva inconsciamente che il Signore stava parlando a Mosè, un Egizio. È Mosè, l’Egizio,  vede “un Egiziano che colpisce un Ebreo” e dopo “due Ebrei che stavano rissando”. Se Mosè fosse stato ebreo lui stesso il testo avrebbe detto: “Vide un Egiziano che colpiva un figlio d’Israele” e “due figli d’Israele che stavano rissando”. Ebreo vuol dire “che ha passato il fiume”, ovvero “non dei residenti del paese”, Gher, straniero, e nessuno definisce sè stesso uno straniero a meno che non stia parlando con stranieri.
Tutto ciò non vuol dire che i versetti biblici sopracitati ci stiano raccontando di eventi reali (realtà materiale, secondo Freud), ma che l'inconscio collettivo abbia conservato le tracce mnestiche di una situazione arcaica, che si sono poi tradotte nella narrativa biblica (realtà storica).

Abramo nella tradizione ebraica è considerato il primo ebreo, il primo Gher, come viene definito anche uno straniero che si converta all’ebraismo. Molti di coloro che decidono di entrare a par parte del popolo scelgono il suo come nome ebraico. L’accento è sul divenire ebreo; la tradizione biblica implica che prima fosse stato qualcos’altro. Anche la leggenda ci parla di una rottura che avvenne con il proprio passato e ci racconta di come il padre Terah sia stato fabbricante di idoli. Un giorno Abramo il fanciullo distrusse tutti gli idoli del padre, tranne quello più grande, e mise il bastone nella sua mano. Quando Terah ritornò alla sua officina e vide lo scempio provocato dal figlio si adirò e chiese che cosa fosse successo. Abramo rispose candidamente che il più forte degli idoli aveva distrutto tutti gli altri. Terah si adirò ancora di più e chiese come fosse possibile che una statua di terracotta potesse fare una simile cosa. Abramo, colto in fallo il padre, disse: “se un idolo di terracotta non può distruggere altri idoli, come può creare il cielo e la terra?”
La leggenda è molto tarda, trascritta per la prima volta nel Medio Evo nell’VIII secolo da Ben Sira, ma è molto significativa poiché contiene un significato latente che per noi è molto più importante di quello manifesto. Come ci ha mostrato Freud, proprio le tracce mnestiche più arcaiche passano in eredità, sono indistruttibili e premono per un riconoscimento anche a distanza di millenni. Se le prime generazioni riescono a rimuovere un contenuto, dopo una latenza di secoli riemerge in una leggenda che gli da piena espressione, e alla fine viene talvolta persino riconosciuta come verità storica.
Noi non crediamo che Abramo abbia distrutto gli idoli del padre, nè che sia stato il primo ad emigrare, nè certamente che sia stato il primo a credere in un dio unico, ma il fatto che la sua figura sia stata associata a questi concetti, e in più alla circoncisione, fa di lui quell’eroe culturale delle tribù ebraiche di cui abbiamo parlato sopra. Abramo divenne la personificazione del semita nord occidentale “che aveva passato il fiume”, ovvero che aveva abbandonato i grandi centri urbani della Mesopotamia per vivere una vita antitetica a quella delle città, il centro stabile, con un tempio come centro amministrativo, e una fedeltà agli abitanti del luogo invece che la solidarietà di sangue, peculiare dei nomadi.
A differenza degli abitanti dei centri stabili, che hanno una tendenza naturale al politeismo, i nomadi hanno la tendenza alla monolatria, ad adorare il dio della tribù, personificazione del padre primigenio del clan, anche se non negano l’esistenza di altri dei per altri clan. L’immagine che ci da la leggenda di un Abramo che distrugge tutti gli idoli nella bottega del padre e ne lascia uno solo che è anche il più forte, non va presa come una dichiarazione di monoteismo, che diventerà peculiare del popolo ebraico solo dopo millecinquecento anni, dopo l’esilio babilonese (586 a.C), ma è una dichiarazione di rifiuto della cultura urbana  e della fedeltà alle mura della città fortificata. Esattamente l’antitesi della dichiarazione di Socrate prima di morire (Crit., 51,b-c). Subito dopo comincia a migrare e diventa Abramo l’Ebreo, “colui che ha passato il fiume”.
Socrate sarà accusato di non credere agli dei, ma l’intenzione dell’accusa era quella di “non credere agli dei della polis”, ovvero d’infedeltà alle sacre istituzioni dello stato. Socrate nega l’accusa ma accetta di morire proprio per dimostrare la sua fedeltà a queste istituzioni. Abramo invece non nega. All’autorità della città contrappone quella di un dio da cui solo riceve istruzioni, e questo dio gli ordina di lasciare il paese, mentre Socrate rimarrà nella sua beneamata città poiché questa rappresenta per lui l’unico valore. Anche Socrate ascoltava la sua voce interna, e questa era personificata da Apollo, il suo dio, quello della cultura urbana della polis.
Per questo Abramo diventa il padre di tutti i convertiti, di coloro che rifiutano un’identità per abbracciarne un’altra, di chi è pronto a lasciare la città e le sue istituzioni per cominciare a migrare “al di là del fiume”.
L’autoidentità di un clan è molto più forte e concreta di quella delle istituzioni dello stato, queste ultime cambiano e si trasformano, quella ai legami di sangue invece rimane stabile, ancorata negli strati più profondi della psiche. Quando i Romani vennero a contatto con i Giudei, reagirono molto violentemente davanti a questa struttura psichica, antitetica alla loro. Tacito scrive:
Le altre pratiche [dei Giudei] sono perverse e infami e si sono imposte per la loro depravazione. Infatti la peggior feccia di questo mondo, dopo aver rinnegato le religioni patrie (48), portava lì tributi e denaro: in questo modo la potenza dei Giudei crebbe, anche perché tra di loro sono sempre molto leali e molto disponibili al mutuo soccorso, mentre riserbano il loro odio più aspro a tutti gli altri (Hist., V.5)
Chi rinnega le religioni patrie per Tacito è la peggior feccia di questo mondo, e Socrate sarebbe stato d’accordo, anche se non si era espresso proprio in questi termini. Abramo fece esattamente questo, rinnegò la cultura urbana dalla quale veniva e distrusse gli idoli nella bottega del padre. Nelle leggende mediovali e nei commentari dei rabbini, la figura di Abramo si ingigantisce in confronto a quella degli altri patriarchi. Più la realtà esistenziale del secondo esilio prende inesorabilmente piede nella coscienza del popolo ebraico, più la sua figura viene anteposta anche in rapporto agli altri eroi della nazione, Davide e Salomone, i re, eroi culturali di un popolo di residenti fissi, come lo erano nel frattempo diventati gli Ebrei del primo millennio a.C.
Più la realtà, peculiare della separazione e della distinzione degli Ebrei dagli altri popoli fra i quali vivono, viene percepita come una missione e viene fatta di neccessità virtù, più la figura di Abramo acquista importanza e diventa più importante  di quella del primo uomo. A lui si riallaccia l’emigrare, la sfida alle mura della polis, la fedeltà a una missione interna in contrasto alle leggi dello stato.
Le leggende posteriori, tessute intorno alle saghe delle storie della Genesi, così ci raccontano:
E Nimrod disse (ad Abramo) inchiniamoci al fuoco-gli rispose (Abramo)- inchiniamoci piuttosto all’acqua che spegne il foco- gli disse (Nimrod)-inchiniamoci pure davanti all’acqua-gli disse- inchiniamoci allora alle nuvole che portano l’acqua-gli disse- inchiniamoci pure alle nuvole- gli rispose- inchiniamoci allora al vento che porta le nuvole- gli disse-inchiniamoci pure al vento-gli disse (Abramo)- inchiniamoci allora agli uomini che sopportano il vento- gli disse Nimrod-tu ti prendi gioco di me, io mi inchino solo davanti al fuoco e ora ti butto nella fornace e che venga il tuo dio, davanti al quale tu t’inchini e ti salvi lui  (49).
Abramo fu buttato nella fornace ma il Signore lo salvò e provò cosi la supremazia della verità del patriarca. Così ci dicono i rabbini del Basso Medioevo: “Abramo è considerato l’inizio del mondo e prima di lui era il caos e il mondo non doveva considerarsi creato” (Sefer Gvurot Haschem, V)
Come abbiamo visto sopra, l’espressione Ur dei Caldei (Gn., 11, 28 e 31) è un’interiezione anacronistica che appartiene alla prima metà del primo millennio e non del secondo, poiché solo allora i Caldei appaiono per la prima volta sulla scena della storia. Ciononostante, i rabbini medievali sfruttarono quest’associazione Abramo-Caldei per dare espressione alla percezione che il patriarca fosse stato il vero eroe culturale del popolo ebraico. Riporto una leggenda che  ci illumina su come la figura del patriarca viene percepita dopo duemila anni dalla sua apparizione:
[Tra i Caldei] era il caos [culturale] e non c’è in loro creazione alcuna e non c’è più caos dei Caldei. Ed ecco che lì nasce Abramo che è la pietra di fondazione e per lui è stato creato il mondo. C’è qui una similitudine strabiliante con il modo in cui Israele sia diventato un popolo in Egitto, il paese più depravato di tutti, e lì è nato il popolo santo, così è stato per Abramo nostro padre, che è la pietra di fondazione, è nato in terra dei Caldei che di loro è stato detto che il Signore si pente ogni giorno di averli creati poiché sono il popolo del caos e non esiste in loro creazione alcuna. Il fatto che Abramo sia nato proprio a Ur dei Caldei è un fatto miracoloso, poiché Abramo è l’inizio del mondo e prima di lui era tutto caos e il mondo non poteva considerarsi creato. Perciò fu associato Abramo ai Caldei, che sono da considerarsi una creazione che non è una creazione, poiché ogni inizio prima di lui non è da considerarsi tale ed è il vuoto (Hee’der). Infatti per qualcosa un inizio si chiama inizio, poiché prima di lui c’era un vuoto da riempire. Perciò non poteva nascere Abramo in un altro paese poiché altrimenti non sarebbe stato considerato un inizio, e poiché Abramo è l’inizio di tutto è nato proprio in quel posto [che per la sua depravazione] dove sarebbe stato considerato l’inizio [ovvero l’antitesi], poiché prima dell’inizio non c’è niente, e chi capisce capisce (ibidem).
Abramo è il primo, e come tale non ha padre prima di lui: “Ha detto il Signore: Io non solo ti libero dal precetto di “onora il padre e la madre” bensì ti ordino di lasciare il tuo paese e la casa di tuo padre, e Terah non sarà considerato tuo padre” (Sefer Gur Arieh,  Bereschit, 11,32). Queste eleborazioni posteriori del mito biblico non ci trasmettono una realtà materiale. Come ha rilevato Wellhausen, la figura del patriarca è la più evanescente e la meno reale di tutti i personaggi biblici, ma il nucleo della verità storica è che l’inizio della storia della nazione viene attribuito a un eroe culturale che aveva rotto con tutti i precedenti  esistenti, e diventa la personificazione “di coloro che hanno passato il fiume”.
Dopo essere usciti dall’Egitto, anche se l’Esodo non fu un evento reale ma uno fantasticato, ed essersi insediati in Palestina, gli Ebrei per molti secoli smetteranno di essere tali, diventarono figli d’Israele e poi Giudei o Israeliti, a seconda di quale dei due regni facessero parte. Tornarono dall’esilio babilonese come soli Giudei, dopo che le dieci tribù consorelle del regno settentrionale erano andate perse per sempre, ma quando dopo la distruzione della Giudea da parte dei Romani dovettero riprendere a vagare ai margini del seminato, la figura di Abramo, l’Ebreo, fu riattivata e ri -- investita di energie nuove.
Secondo Wellhausen le storie dei patriarchi furono scritte per la prima volta nel regno d’Israele dopo la secessione, poiché rispecchiano un clima pastorale e geo-politico che apparteneva alla situazione esistenziale del X-IX secolo e non prima. Ma se non fosse esistito un nucleo mnestico comune a tutti gli Ebrei che parlava di un eroe culturale che vagava ai margini del seminato agli albori della storia della nazione, le sue leggende sarebbero andate perse insieme alla caduta del regno settentrionale, che era anche quello più immerso nel politeismo dei suoi vicini. Invece, le leggende di Abramo non solo rimasero parte essenziale del patrimonio culturale dei Giudei tornati dall’esilio babilonese, ma dopo il secondo esilio furono reattivate e ingigantite e a questi fu attribuito tutto l’ordine morale che li accompagnerà  nel loro lungo esilio.
Ebbe torto Freud, quando disse che i patriarchi erano probabilmente degli antichi dei o eroi cananei (50). È vero esattamente il contrario: i patriarchi, e soprattutto Abramo, erano dei ebraici, in antitesi completa agli dei cananei, in quanto erano gli eroi culturali dei pastori semi – nomadi, in contrasto a quelli dei residenti fissi.
 

La circoncisione

L’altra istituzione che viene attribuita ad Abramo è la circoncisione.
Freud dice che fu Mosè a imporre per primo la circoncisione agli Ebrei (51). Questa, infatti, come testimoniano i post mortem eseguiti sulle mummie egizie, era un’usanza della valle del Nilo e solo gli Egiziani la praticavano tra tutti i popoli civilizzati. Come scrive Erodoto: “Mentre gli altri popoli, tranne quelli che l’hanno imparata da loro, lasciano gli organi genitali così come sono, gli Egiziani praticano la circoncisione” (Hist., II.36). Il padre della storia ci conferma anche che “i Siri di Palestina”, ovvero i Giudei, l’avevano imparata da loro (II.104).
Ma la circoncisione fa parte dei riti della pubertà iniziatici come questi vengono praticati ancora oggi tra i popoli selvaggi e come è usanza presso quelli che hanno conservato una struttura mentale tribale. Gli Arabi si circoncidono, lo fanno nell’epoca della pubertà, come anche nelle tribù selvagge, e non credo si possa sostenere che abbiano ereditato questa usanza dagli Egizi. Questi avevano conservato l’usanza dagli stadi pre-dinastici anche se, strutturati ormai a residenti fissi e a Stato, questa non aveva più ragione di essere. Gli Egizi avevano come norma di vita di non scartare mai nessuna possibilità esistenziale, bensì di assommare il tutto e conservare anche riti che avevano perso di vigore, in una cristallizzazione e sintesi che rappresentavano l’equilibrio del cosmo stesso.
I Cananei all’inizio del secondo millennio non si circoncidevano più. Quando avevano abbandonato il nomadismo e la struttura mentale tribale avevano lasciato cadere anche questa abitudine, che deve le sue origini ai riti della pubertà tribali (52). Ed ecco che l’usanza viene attribuita ad Abramo il padre di Isacco e d’Ismaele, l’Ebreo e l’Arabo. Anche in questo contesto, il patriarca è l’eroe culturale che impone l’usanza tribale della circoncisione sui suoi figli, Ebrei e Arabi. Anche su questo, Tacito avrà qualcosa da ridire:

Hanno istituito l’usanza della circoncisione, per riconoscersi tra di loro da questo segno distintivo. Coloro che hanno accettato di condividerne le abitudini, seguono la stessa pratica e come prima conseguenza imparano a disprezzare gli dei, a rinnegare la loro patria, a non tenere in alcun conto i rapporti di paternità, di figliolanza e fraternità. I Giudei tengono comunque molto a che il loro numero si incrementi: è proibito infatti, uccidere uno qualsiasi dei figli in soprannumero (op.cit.)
Il segno distintivo, il marchio di appartenenza al clan e del segno di sottomossione all’autorità del Padre. Come scrive Freud:
La circoncisione è il sostitutivo simbolico dell’evirazione, che un tempo il padre primigenio nella pienezza del suo potere assoluto aveva inflitto ai figli; chi accettava questo simbolo mostrava con ciò di essere pronto a sottomettersi al volere del padre anche se questi gli imponeva il sacrificio più doloroso (53).
Ed ecco che Abramo viene associato alla figura del padre primigenio che impone la circoncisione alla tribù di figli, come segno di distinzione e di accettanza del Patto, che è la Legge del Padre. La circoncisione, il Patto, è la condizione per la garanzia di una numerosa discendenza, promessa dal dio-Padre ad Abramo (Gn., 17). Come nessun’altro dei patriarchi biblici Abramo è Avraham Avinu, Abramo nostro padre.
Anche supponendo che la circoncisione sia stata ri-instituita da Mosè, come sostiene Freud, sulla scia dell’usanza egizia e dopo un lungo periodo in cui era caduta in disuso, Abramo, sia questi mai esistito o no, è il vero padre del Patto e del popolo ebraico.
 

Ebrei e Cananei

Avevamo lasciato “Abramo l’Ebreo” quando era ancora alleato di Escol e di Aner, gli Amorrei, a cavallo tra il terzo e il secondo millennio. Ma presto questa situazione era cambiata. Gli “alleati di Abramo” smisero di essere tali quando cominciarono a ristrutturarsi nella loro nuova condizione di cittadini, parallelamente a quanto stava accadendo in Mesopotamia dove, con la caduta della terza dinastia di Ur, gli Amorrei fondarono il primo regno babilonese.
Nel primo quarto del secondo millennio, con la ricostituzione di città fortificate nei pressi delle fonti e lungo la strada internazionale, riemerse l’antica tensione tra agricoltori e seminomadi.
Le saghe dei patriarchi riflettono fedelmente la situazione di conflitto tra i residenti fissi e i pastori che migravano sulle colline della Giudea e della Samaria, fino a Beer Sheba.
Quando Giacobbe manda Giuseppe a trovare i suoi fratelli, questi si trovavano a Sichem e poi si spinsero, ancora più a nord, fino a Dotan, la fertile valle al limite settentrionale del percorso di migrazione, a pascolare i greggi del padre, dopo che gli agricoltori locali avevano terminato la mietitura e potevano permettere ai pastori di salire sul seminato. Nel frattempo, Giacobbe e Giuseppe si trovavano probabilmente ancora nei dintorni di Hebron (Gn.37,12-18). All’inizio della migrazione estiva, i fratelli di Giuseppe avevano portato le greggi dalle zone aride del Neghev settentrionale verso i pascoli estivi tradizionali.
Il racconto dello stupro di Dina, da parte di Sichem ben Camor, e la terribile vendetta di Simeone e Levi sugli abitanti di Sichem, riflette questa tensione tra gli abitanti delle città canaanee fortificate, che erano agricoltori, e i pastori semi nomadi, che pascolavano ai margini del seminato (Gn. 34, 1-31) [vedi Supplemento].
Probabilmente la verità storica, che portò al saccheggio di Sichem, non fu il fatto dello stupro di Dina, quanto la realtà di vita di uno dei periodici anni di siccità, che colpiscono la Palestina. In condizioni di siccità, il pastore non può scendere nel Neghev, poiché spesso le piogge si arrestano, e il deserto non riceve nemmeno i 200 mm. annuali di pioggia, necessari a far germogliare il minimo indispensabile al mantenimento delle greggi. I pastori non hanno altra alternativa se non quella di premere sul seminato ed entrare in conflitto violento con gli agricoltori, che vedono il proprio raccolto minacciato e distrutto.
In periodi di ripetuta siccità e carestia, mentre le città cananee pativano la fame, i pastori si vedevano costretti ad emigrare fino alle porte dell’Egitto e a dipendere lì dalla benevolenza egizia. Abramo scende in Egitto “perché la carestia gravava sul paese” (Gn.12,16) e di nuovo Giacobbe fu costretto a fare lo stesso (Gn.42,1-3 e 46, 1-27).
Il pastore seminomade vive, dunque, dei prodotti delle greggi e usa l’asino come bestia da soma. Non si occupa di commercio, poiché il raggio delle sue migrazioni è troppo limitato, e non produce utensili di terracotta, bensì li compra dai residenti degli insediamenti fissi, barattandoli con la lana e i formaggi delle sue pecore, come fanno ancora oggi i beduini del Neghev, che comprano i loro utensili a Hebron e a Beer Sheva.

Come abbiamo visto in precedenza, la distinzione tra Ebrei, Amorrei e Cananei non è una distinzione etnica, poiché entrambi parlavano la stessa lingua, abitavano lo stesso paese, ed erano emigrati dalla stessa valle dei due fiumi. L’eco dell’origine mesopotamica di Abramo e dei suoi discendenti non ci deve indurre in errore. La saga biblica delle migrazioni lungo i percorsi della mezzaluna fertile non era particolare dei figli di Terah. Anche i cittadini delle nuove città fortificate canaanee erano dello stesso ceppo di semiti nord --occidentali e si erano mossi lungo lo stesso percorso. Quindi, la distinzione tra Ebrei e Cananei, che fa la Bibbia, è una distinzione sociale e non etnica. Questa diventò distinzione culturale, quando coloro che passarono a una vita urbana, con il conseguente rilassamento dei legami di sangue e del clan, furono denominati “cananei” e coloro che mantennero il modello di vita seminomade furono definiti “ebrei”.

Di Noè, il padre comune,  era stato detto: “Ora Noè, coltivatore della terra, cominciò a piantare una vigna” (Gn., 9,20), e questo si ricollega alla nostra analisi precedente: i semiti occidentali, uscendo dalla penisola arabica erano penetrati in Mesopotamia e lì avevano preso le usanze dei residenti fissi, l’agricoltura, di cui la vigna è il simbolo. Continuando a migrare da lì verso la Siria e la Palestina, e ritornando ad essere nomadi, avevano perso queste abitudini, ma qualcosa era nondimeno cambiato, perché mentre gli Arabi, che erano rimasti nella penisola arabica e non erano penetrati in Mesopotamia, avevano mantenuto l’interdizione di bere vino proprio per non dover piantare viti, gli Amuru, di cui anche gli Ebrei facevano parte, avevano adottato, invece, l’idea che la vite e il vino non fossero tabù.
Sono molto significative tutte queste allusioni che il testo biblico semina quà e là, come interiezioni, affinché noi le si raccolga e decodifichi. La tradizione rabbinica dice che nessuna parola della Torà è superflua, e se vi è una ripetizione o un’interiezione queste hanno un significato speciale, poiché il Signore allude a un significato particolare che ci voleva insegnare. Orbene, noi non crediamo che il Signore c’entri in qualcosa, ma crediamo, ciononostante, che queste siano le tracce mnestiche di una realtà dimenticata.
Quando il testo si sente in dovere di specificare “Noè, coltivatore delle terra, piantò una vigna”  è significativo che non si accontentò invece di dire semplicemente: “Noè piantò una vigna”. Perché quest’aggiunta? Il redattore non si sentiva a suo agio con la storia di Noè che piantò una vigna, poiché sapeva che gli antichi padri della nazione erano stati pastori seminomadi e non agricoltori. Quando si trovò a mettere per iscritto questa antica leggenda, temeva di non essere creduto, che i suoi lettori avrebbero scosso le spalle dicendo: “Non venire a raccontarci storie, noi sappiamo che per i nostri padri era tabù essere agricoltori e piantare vigne”. E allora aggiunse specificatamente: coltivatore della terra. La leggenda era vera, non l’aveva inventata il redattore, solo che era così antica che rifletteva ancora la realtà sociale mesopotamica, prima che Abramo “lasciasse la casa di suo padre” e cominciasse ad emigrare.
Nel quattordicesimo capitolo della Genesi, quando deve riportare la storia di Abramo che sconfigge i quattro re d’Oriente, e ci parla del patriarca,  deve nuovamente specificare, e questa volta “Abram l’Ebreo”, che è esattamente l’incontrario di Noè, “coltivatore della terra”. Non era colpa del redattore del IX o dell’VIII sec. a.C, nel regno d’Israele, se il popolo ebraico conservava entrambi le tradizioni.
I semiti che erano rimasti in Arabia e nei due millenni seguenti si moltiplicheranno anche loro, saranno gli Arabi e invaderanno a loro volta il seminato solo nel settimo secolo della nostra era. Questi infatti non avevano imparato a piantare vigne e per loro il vino rimase anatema. Gli Arabi sono i semiti occidentali più puri, e quelli che più hanno conservato il modus mentale originale del nomade, poiché vennero a contatto con le civiltà dei grandi fiumi solo duemilacinquecento anni dopo gli Amuru, dei quali  anche gli Ebrei facevano parte. Le lingue semitiche occidentali che avevano una madre comune si divisero in lingue diverse anche se sorelle: da una parte l’ebraico-fenicio-cananeo-moavita-ammonita, che sono un’unica lingua, poi l’aramaico che si distingue dall’ebraico poco di più che lo spagnolo dall’italiano, e la più separata di tutte l’arabo, che conserva arcaismi superati dall’ebraico e dall’aramaico.
Quindi, vediamo che anche nel contesto delle storie dei Padri, la Bibbia opera qui una forzatura: in realtà Ismaele e Esaù, i beduini, hanno una parentela più lontana con Abramo, Isacco e Giacobbe, gli Ebrei, di quanto questi ultimi l’avessero con Amorrei e Cananei, ma il redattore biblico preferì come “parenti” i beduini che invadevano periodicamente il seminato, piuttosto che i Cananei, loro veri fratelli di sangue.
La forzatura è prodotta dalla realtà di vita, soprattutto mentale, del seminomade che è più vicina a quella del beduino che a quella dell’agricoltore, abitante delle città fortificate. Il lungo giro che, verso la fine del terzo millennio, fecero Ebrei, Amorrei e Cananei dalla penisola arabica attraverso la Mesopotamia e da lì in Siria-Palestina, non corrispose a quello dei loro antichi consanguinei, rimasti in Arabia. Questi invaderanno il seminato per stabilirvisi solo quattromila anni dopo. Ai tempi dei Padri e del regno d’Israele erano solo sporadici clan, emigrati direttamente dalla penisola arabica e spintisi per ragioni di razzia prima e di commercio dopo (dal XII sec a.C) fino ai deserti della Palestina. Da qui la stretta parentela tra ebraico e arabo, ma anche la loro diversificazione in lingue diverse. I veri parenti degli Ebrei erano i Cananei, dalla nefanda cultura idolatrica.
La Genesi mette Canaan tra i discendenti di Cam: “Etiopia, Egitto, Put e Canaan” (Gn., 10,6), mentre la stirpe di Abramo tra i discendenti di Sem (Gn., 11,10-27). Secondo Robertson Smith, questa genealogia rispecchia la situazione politica della fine del secondo millennio quando, ai tempi del Nuovo Impero egizio, le città fortificate della Palestina erano soggiogate all’Egitto, e quindi Canaan era percepito come figlio dell’Egitto (54). Secondo noi, bisogna cercare di più nell’intenzione del testo biblico. La Bibbia percepisce la cultura canaanea come il non plus ultra del nefando e del corrotto, e quindi attribuisce la discendenza dei Cananei al figlio malvagio di Noè, Cam, al pari dell’Egitto. A conferma di questa tesi, si può portare l’accanimento con il quale Noè maledice non tanto Cam, che ha peccato contro il padre, quanto il nipote Canaan:

Quando Noè si fu risvegliato dall’ebbrezza, seppe quanto gli aveva fatto il figlio minore; allora disse: “Sia maledetto Canaan! Schiavo degli schiavi sarà per i suoi fratelli!”. E aggiunse: “ Benedetto il Signore, Dio di Sem, Canaan sia suo schiavo!” (Gn., 9,24-28).
Oggi la chiameremmo propaganda politica! Gli Ebrei del secondo millennio maledicono così coloro, sangue del loro sangue e carne della loro carne, che avevano ripudiato la fedeltà di sangue dei pastori seminomadi, per diventare dei “borghesi”. In questo paragrafo il redattore biblico introduce una nota di astio verso coloro che avevano abbandonato i legami tribali di sangue, per passare a una cultura urbana, che nell’antichità era anche agricola che, come abbiamo visto, era antitetica ed incompatibile con quella del pastore seminomade.
Allo stesso modo, Abramo fa giurare al suo servo di cercare una moglie per Isacco tra i pastori seminomadi della Siria-Mesopotamia del nord e non tra i Cananei (Gn., 24,1-6). Labano, il cognato di Isacco e futuro suocero di Giacobbe è chiamato Labano l’Arameo (Gn., 28,5) e, secondo Wellhausen (55), il testo tradisce così il fatto che questo imparentamento rispecchia la vicinanza politica e geografica che fu una realtà solo nel X secolo, ai tempi del regno d’Israele, quando si costituì un regno arameo vicino a quello d’Israele, nella Siria meridionale. Ma anche questa storia significa qualcosa in più: nel regno settentrionale d’Israele rimaneva ancora il ricordo che Ebrei e Aramei, prima della costituzione di regni indipendenti, erano state tribù dello stesso ceppo semitico-occidentale, che aveva invaso la regione in concomitanza e che avevano cominciato il loro processo d’insediamento molti secoli più tardi degli altri. Labano, l’Arameo, era considerato ancora lo zio di Giacobbe poiché gli Aramei, come gli Ebrei, erano rimasti seminomadi fino alla fine del secondo millennio, in contrasto agli empi Cananei con i quali Abramo non vuole imparentarsi (Gn., 24,1-8) e le donne ittite tra le quali la madre di Giacobbe non voleva che si scegliesse una moglie: “Ho disgusto della mia vita a causa di queste donne ittite: se Giacobbe prende moglie tra le ittite come queste, tra le figlie del paese, a che mi giova la vita?” (Gn., 27,46).
Hittite o Cananee era già diventato sinonimo, poiché nel versetto seguente Isacco dice: “Tu non devi prendere moglie tra le figlie di Canaan” (28,1).
Vediamo, così, che la genealogia biblica rispecchia spesso o una realtà politica, come si rispecchiava ai tempi del redattore, o una verità “morale” di parte, ma le tracce mnestiche del proprio lontano passato di pastori rimangono conservate nel nucleo del racconto. Anche la storia del primo fratricidio, l’uccisione di Abele da parte di Caino, risale al modus mentale dell’epoca delle migrazioni dei  Padri ai margini del seminato:
Abele era pastore di greggi e Caino lavoratore del suolo. Dopo un certo tempo, Caino offrì frutti del suolo in sacrificio al Signore; anche Abele offrì primogeniti del suo gregge e il loro grasso. IL Signore gradì Abele e la sua offerta, ma non gradì Caino e la sua offerta” (Gn., 4,2 - 5).
Caino, che nella storia dell’umanità diventerà sinonimo di malvagità ed empietà, era agricoltore, come i corrotti abitanti delle città Canaanee, mentre Abele, il ben accetto al Signore, era pastore di greggi, come Abramo, Isacco e Giacobbe.
Il primo omicidio che commise l’umanità fu dunque attribuito alla malvagità degli agricoltori. Lo stesso popolo, la stessa lingua: due fratelli che coabitano la stessa Terra Santa, uno uccide l’altro. Cananeo sarà l’empio agricoltore, Ebreo, il pio pastore. La Bibbia fu redatta molti secoli dopo, quando gli Ebrei erano già diventati un popolo sedentario di agricoltori che seminavano i propri campi e potavano le proprie vigne, ma il ricordo del loro passato di seminomadi lasciò delle tracce mnestiche subconsce e indelebili, che si riflettono nel testo, in questo ed altri racconti. Anche dopo aver cambiato completamente stile di vita, gli archetipi di quello che un tempo era stato considerato buono e malvagio, pio ed empio si preservarono negli strati più profondi della psiche, per emergere come una goccia d’olio, spinta di forza in fondo a un barile d’acqua.
Ma possiamo imparare da tutto questo ancora qualcosa: per la Bibbia le “razze” non sono suddivise a seconda della discendenza biologica, che per il primitivo, a differenza degli scienziati razzisti degli ultimi due secoli, non ha nessuna importanza. La Bibbia quando dice “Figlio di…” intende affine per mentalità, per valori. L’unica forma di razzismo che contempla è quello morale. Per il primitivo, il patto di sangue avviene tra quelli che sono iniziati insieme, tra coloro che accettano, attraverso il rito puberale iniziatico, di identificarsi con il clan e i suoi valori. Riconoscendosi figli di un padre comune, il totem della tribù, accettano la Legge del Padre, la sua morale e il comandamento: “Non Uccidere!”, che per il primitivo si estende esclusivamente ai membri dello stesso clan, in quanto solo questi hanno accettato questi parametri.
Ed ecco il perché dell’ingiunzione biblica di sterminare i sei popoli sedentari della “terra del Cananeo” e, contemporaneamente, di risparmiare il Moavita e l’Ammonita, poiché parenti di sangue. Parenti di sangue non certo solo per discendenza biologica, che non si distingue in nulla da quella dei Cananei, bensì fratellanza “ideologica”, come quella con i beduini, che sono considerati stretti fratelli, anche se il distacco dalla loro stirpe era avvenuto almeno mille anni prima di quello dagli altri popoli della regione.
La realtà materiale fu poi molto diversa. La maggior parte dei Cananei non fu sterminata affatto, bensì si fuse con gli Israeliti che provenivano da Oriente, in un processo che durò più di duecento anni, da un lato incivilendo le tribù ebraiche attraverso i culti della terra e della fertilità, così opposti dai Profeti, dall’altro venendone assorbiti dalla più forte auto-identità ebraica, così che tutti si definirono alla fine “figli d’Israele”. Ed ecco la “verità storica” che ci insegna la Bibbia, ben diversa dalla realtà materiale, ma l’unica valida.
Solo la cecità europea del diciannovesino secolo poteva produrre una pseudo-scienza che dividesse le stirpi umane per razze biologiche. Proprio l’Occidente, che aveva allargato l’orrizzonte, superando la fedeltà al clan e alla Legge del Padre, creò dei parametri molto più ristretti di quello delle più primitive tribù selvagge: quello biologico della razza.


Supplemento: La Palestina

Links:

Un'analisi del dissenso tra Freud e Jung. La genealogia di un turbamento
Sapere e Conoscenza. Dai riti iniziatici alla filosofia platonica.
Trauma della nascita, esilio e monoteismo
Il Settimo: il giorno di riposo
Da Giacobbe a Ulisse: una coazione a ripetere
Pinocchio. Il rito iniziatico di un burattino
La figura di Dio nell'ebraismo: Padre o Madre? (La lettera di una lettrice)


NOTE

1 Per un’analisi e una discussione dettagliate su come avvenne questo processo vedi: Henry Frankfort, The Birth of Civilization in The Near East, Anchor Books Edition, New York 1956.
2  Ibidem, p.38. 3600 bovini non sono poi tanti, specialmente se si considera che ai cronisti dei faraoni piaceva esagerare. Quindi, bisogna leggere: "riuscì a racimolare, malgrado i suoi sforzi, solo 3600 bovini".
3  Sull’introduzione del cammello come animale addomesticato nel XII secolo a.C. vedi: William F.Albright, The Biblical Period from Abraham to Ezra, Anchor, New York 1963, p.47
4 H.Frankfort, ibidem, pp.121-137.
5 H.Frankfort, ibidem, p.1. Come ha notato l’autore non sappiamo se le civiltà Maya, Inca e quella cinese siano sorte in modo autonomo o sotto l’influenza di contatti con altre culture.
6  Dizionario Garzanti, Italiano, 1997
7  Eric R. Dodds, The Greeks and the Irrational, Berkeley  1951, trad. it: I Greci e l’Irrazionale, La Nuova Italia, Firenze 1959 e 1978, pp. 65-6.
8  Per l’auto-accecamento di Edipo come sinonimo di auto-castrazione, vedi: Karl Abraham, Limitazione del Piacere di Guardare in Opere, Bollati Boringhieri, Torino 1997, Vol. 2, pp. 577-80. Abraham cita Ferenczi (Symbolische Darstellung des Lust-und Realtatsprinzips im Odipus Mythus, Imago Vol. I, (1912) p.281) che riconobbe nell’autoaccecamento di Edipo un sostituto simbolico dell’autoevirazione, cioè dell’autopunizione adeguata all’incesto.
9  Per il motivo per cui i primi psicoanalisti siano stati quasi tutti ebrei, vedi Iakov Levi, Un'analisi del dissenso tra Freud e Jung. La genealogia di un turbamento, in Dialegesthai. Rivista telematica di filosofia [Entered 26 luglio 2002].
10  Sulla ribellione dell’orda primitiva e l’uccisione del padre primigenio vedi: Sigmund Freud, “Totem e tabù”, in Opere,  Bollati Boringhieri, Torino 1989, vol. VII, pp. 145-6.
11  Sia Achille che Ulisse avevano tentato di sottrarsi a questa parte di protagonisti principali dell’epos incestuoso. Il primo nascondendosi tra le donne (Apollodoro 3.13.8), il secondo fingendosi pazzo (Apollodoro E.3.7). La leggenda dà, così, anche una rappresentazione figurata della conflittualità e dell’inibizione a compiere l’atto sacrilego. Il Fato non è altro che l’inevitabilità delle pulsioni ad avere la meglio  sull’inibizione e la tragedia si consuma quando l’Eroe ne deve pagare il prezzo.
12  Katleen Kenyon, Archaeology in the Holy Land, Ernest Benn Limited,  London 1960, pp.54-5.
13  Gli scavi a Ugarit, sulla costa siriana, hanno fatto emergere anche lì una città di più modeste dimensioni ma circondata da mura di cinta che risale al settimo millennio, e appartenente alla stessa cultura Neolitico pre-pottery, come la città di Gerico. Vedi  Claude Shaeffer, Stratum V, in Le Fouilles de Ras Shamra.
14  I filologi distinguono tre gruppi di lingue semitiche principali: 1) le lingue semitiche orientali, di cui fanno parte l’accade e il babilonese antico (del terzo millennio). 2) le lingue semitiche nord occidentali di cui fanno parte il cananeo, (che come abbiamo visto sopra comprende  l’ebraico, il sidonita, l’ugaritico, l’ammonita, il moavita e il punico), l’aramaico del periodo neo-babilonese ( la lingua franca di tutta la Siria e Mesopotamia nel primo millennio a.C.) e l’arabo  3) le lingue semitiche meridionali, che comprendeva il Sabeo e le lingue parlate nell’Arabia del sud prima della conquista araba.
15 H.Frankfort, ibidem, p.85
16 K. Kenyon, ibidem, p.114.
17 Ibidem, p.109.
18 Ibidem, pp.111-2.
19 Encyclopaedia of Archaeological Excavations in the   Holy Land, Masada, Jerusalem 1970, pp.470-1.
20  K.Kenyon, ibidem, pp.115-7.
21  I Caldei apparirono in Mesopotamia solo nel primo millenio a.C., quindi bisogna vedere nell’espressione biblica “Ur dei Caldei” un’espressione anacronistica inserita dal Redattore alla metà del primo millenio per meglio chiarire ai lettori dell’epoca dove si trovasse Ur.
22  S.Freud, “Totem e Tabù”, in op.cit, Vol. 7. pp.106-111.
23  È molto illuminante leggere l’interpretazione che da Rashi, nell’XI secolo della nostra era, al versetto: “…perché con ira uccisero un uomo e con la loro volontà hanno storpiato un toro”(Gn.49,6,; la traduzione della Bibbia episcopale italiana è estremamente inesatta perché non si parla di uomini al plurale bensì al singolare come si parla di toro e non di tori e di volontà e non di passione. È incomprensibile perché mai il traduttore di sia sentito in diritto di storpiare il testo in questa maniera), nella benedizione-maledizione di Giacobbe a Simeone e Levi. Rashi dice: “Volevano eradicare Giuseppe, che è un toro”. Quindi l’antico totem della tribù di Giuseppe era il toro. Questo è un classico esmpio di come le tracce mnestiche sella propria preistoria siano indistruttibili. Anche Rashi, nell XI secolo, in pieno Medio Evo “sapeva” che il toro è Giuseppe, o meglio la tribù principale di Efraim.
24  Per la differenza tra realtà  materiale e verità storica vedi: S.Freud, “L’Uomo Mosè e la religione monoteistica”, in op.cit. vol. XI, pp. 444 sgg.  J.Wellhausen scrive: “Un vero mito non è mai inventato; è tramandato. Non è vero ma è onesto” (Julius Wellhausen, (Prolegomena zur Geschichte Israels, Reimer, Berlin 1899. Tr. Ingl. Prolegomena to the History of Ancient Israel, The Meridian Library, New York 1957, p.318)
25  Il fatto che quando i figli d’Israele peccarono nel deserto e si fecero un vitello d’oro non e casuale. Secondo Theodor Reik, infatti, abbandonarono il Dio d’Israele, il quale simbolo totemico è l’ariete, per riallacciarsi al culto di un totem più primitivo che probabilmente era stato il toro (“Lo Shofar” in Il Rito Religioso, Paolo Boringhieri, Torino 1969, pp. 267-8).
Secondo noi, in contraddizione a quello che sostiene Reik, il vero significato della storia del vitello d’oro è che questa rappresenta la traccia mnestica di uno scontro armato tra clan giudaici, il cui totem era l’ariete (Jahveh), e clan israeliti il cui totem era il toro, o vitello. L'evento fu rimosso e spostato al Sinai, dove però i clan israeliti non avevano mai messo piede. La stesura della redazione finale avvenne in Giudea, dopo il ritorno dal primo esilio. I Giudei attribuirono al loro dio, Jahveh l'ariete, la vittoria finale contro El, il vitello, dio - totem dei clan israeliti. Non, quindi, il riallacciarsi a un totem più antico comune a Giudei e Israeliti, come suppone Reik, ma la vittoria di un totem su un altro. Per Jahveh come dio guerriero, dio dei clan giudaici, distinto da El, dio d'Israele, vedi L.M. Barré, El, god of Israel--Yahweh, god of Judah
26  J.Wellhausen, ibidem, p. 323.
27  Cfr. Es.19,13: “Quando suonerà il corno (d’ariete), allora soltanto essi potranno salire”. Reik sostiene (op.cit, pp.267-8)che il culto del toro come animale totemico risale a quando le tribù ebraiche erano ancora in Mesopotamia, che è molto più adatta all’allevamento del bestiame delle steppe della Palestina. Il montone è sempre legato a Jahveh, il cui culto, secondo Freud, fu introdotto per la prima volta da Jetrò, il sacerdote madianita “suocero” di Mosè, ( cfr. S.Freud, "L’Uomo Mosè e la religione monoteistica", terzo saggio, in op.cit., Vol. 11). Bisogna far risalire l’adozione dell'ariete all’adozione stessa del Jahveismo. Se è giusta la supposizione di Freud, ciò potè avvenire solo nel XIV secolo, e poteva essere valido solo per le tribù che vagavano nel Sinai e nel Neghev. Da qui l’antagonismo con il vitello, che forse era legato solo alle tribù che non avevano mai abbandonato la Palestina, di cui Efraim faceva parte. La Palestina settentrionale, a differenza della Giudea, è adatta all’allevamento di bestiame. Quindi, bisogna far risalire la tradizione del peccato del vitello d’oro al Regno di Giuda, come l’uomo del Signore che va a Betel a redarguire Geroboamo veniva dalla Giudea. (I, Re,13,1-20). È possibile che le tribù del regno settentrionale avessero conservato il toro come animale totemico dai tempi della Mesopotamia, da cui venivano tutti, sia Israeliti che Giudei, ma non è necessario che sia andata così per la comprensione degli sviluppi posteriori.

28  S.Freud, “Totem e tabù”, in op.cit., vol.VII, p.139.: “Se si condivideva il pasto con il proprio dio, ciò esprimeva la persuasione di essere fatti con la stessa materia, mentre con colui che era considerato straniero non si condivideva alcun pasto”
29  J.Wellhausen, op.cit, p.361.
30  Theodor Reik nelle sue opere ha dimostrato che molti dei riti e dei miti biblici sono tracce mnestiche di riti tribali preistorici: Myth and Guilt, George Braziller, New York 1975; “The Creation of the Women and The Temptation”, George Braziller Inc., New York 1959. tr.it: “Psicanalisi della Bibbia”, Sugar Editore, Milano 1958; Pagan Rites in Judaism, Farrar, Straus & Co, New York 1964 ; Mystery on the Mountain, Harper & Brothers, Publishers, New York 1959.
31  Enc. Brittannica 2000, voce “ Middle Eastern religion”.
32  Ibidem, voce “Abraham”.
33  Mircea Eliade, Birth and Rebirth, Princeton University Press , New York 1958, p.23.
34  J.Wellhausen, (op.cit., pp.318-321), ha notato per primo che i racconti di Isacco non sono che una ripetizione di quelli di Abramo. Secondo Wellhausen la figura di Abramo è stata creata posteriormente a quella degli altri due padri, poiché le storie di Isacco e Giacobbe contengono elementi più realistici e storici di quelle di Abramo, che sarebbero state forgiate su quelle di Isacco e proiettate all’inizio della storia della nazione. Secondo W. le saghe dei padri ebbero origine nel regno settentrionale d’Israele nel IX-VII secolo anche se contengono elementi più arcaici.
35  Encyclopaedia of Archaeological Excavations in the Holy Land, op. cit.
36  Giacobbe era arrivato in gioventù, nella sua fuga dal fratello, fino ai limiti della Siria con la Mesopotamia e in vecchiaia sarà trascinato in Egitto, ma questi erano anche il massimo dei limiti geografici conosciuti dal contemporaneo del redattore nel X-IX sec. che era in una perpetua guerra contro il regno arameo ai suoi confini settentrionali.
37  Rashi spiega che 400 shekels erano una cifra enorme per un campo. Rashi è il più importante commentatore dei testi sacri. Visse in Francia a cavallo dell’undicesimo secolo.
38  All’inizio gli angeli erano tre ma quando arrivano a Sodoma erano già diventati solo due (Gn. 19,1)
39  In ebraico la parola "ebreo", 'Ivri, viene dalla stessa radice che indica “passare”.
40  È molto interessante notare che Safat, figlio di Hori era uno dei dodici esploratori mandati da Mosè a esplorare la Terra Promessa (Nm.13,4) e proprio come rappresentante della tribù di Simeone, che poi non è più nominata in quanto viene distrutta. Questo ci insegna che una parte dei Hurriti si erano assimilati alle tribù d’Israele. Di nuovo ritorna solo nel libro delle Cronache: “Costoro erano figli di Abicail, figlio di Huri…” (I, Cronache, 5,14) e tra gli Eroi di Davide (I, Cronache, 11,32).
41  I popoli votati allo sterminio erano sei, ma con i Cananei diventano sette, anche se non appaiono mai sette popoli bensì solo sei. Gergesei e Cananei sembrano intercambiabili, dove appare l’;uno non appare l’altro. In Es. 23,23 appare il Cananeo, ma non appare il Girgheseo; in Giosue’ 3,10 appare il Girgheseo ma non appare il Cananeo, così che il numero rimane sempre sei.
42  Enciclopedia Brittannica, voce “Amuru”.
43  Enciclopedia Brittannica, voce “Amuru”
44  Encyclopaedia of Archaeological Excavations in the Holy Land, op.cit.: “Hazor”
45 Enciclopedia Brittannica, Ibidem
46  Ibidem
47  "L’Uomo Mosè e la religione monoteistica", secondo saggio, in op cit., Vol. 11
48  Per bocca di Tacito si ha conferma del fatto che nel primo secolo della nostra era vi erano conversioni in massa all’ebraismo, da parte delle masse estraniate, semiti di cultura greca, che abbracciavano l’ebraismo, alla ricerca di un’auto  -  identità, negata loro dallla cultura pan - ellenica dell’impero romano.
49  Bereshit Raba 38,13. La traduzione libera dall’ebraico, come delle susseguenti citazioni dalla leggenda ebraica è dell’autore.
50  S.Freud, op.cit., secondo saggio, cit., Vol. 11, p.372
51  S.Freud, ibidem, p.354.
52  Per come la circoncisione sia uno stadio essenziale nei riti della pubertà tribali vedi Theodor Reik, “I riti della pubertà”, in Il rito religioso, Boringhieri, Torino 1949 e 1969
53  S.Freud, op.cit., p. 439.
54  William.R.Smith, The Religion of the Semites, Schocken, New York 1972, pp.5-6.
55  J.Wellhausen, op.cit., p.319.


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