Iakov Levi
 

Supplemento di Le migrazioni protostoriche e lo psichismo collettivo


La Palestina


La situazione geografica in Palestina differisce da quella della Mesopotamia e dell’Egitto, in quanto mancarono ivi i fiumi come unica fonte d’acqua per l’irrigazione, e quindi anche lo stimolo a creare la struttura sociale altamente burocratizzata, necessaria a canalizzare le energie in grandi opere per il bene comune. D’altra parte le piogge, all’inizio dell’inverno, fecondano la terra e permettono un unico raccolto all’anno, in primavera, prima che la terra inaridisca sotto un solleone estivo che si protrae per otto e talvolta nove mesi all’anno.
Una zona semiarida dunque, completamente dipendente dalla benevolenza del Baal, il dio delle piogge Cananeo, e non dalla tenacia e dalla volontà politica dei suoi abitanti.

Come non mancò di far notare il Signore, ai figli d’Israele che stavano per invadere la Terra Promessa

il paese di cui stai per entrare in possesso non è come il paese d’Egitto dal quale siete usciti e dove gettavi il tuo seme e poi lo irrigavi con il piede, come fosse un orto di erbaggi; ma il paese che andate a prendere in possesso è un paese di monti e di valli, beve l’acqua della pioggia che viene dal cielo: paese del quale il Signore tuo Dio ha cura e sul quale si posano sempre gli occhi del Signore tuo Dio dal principio dell’anno sino alla fine
e da qui la minaccia che, in caso di disobbedienza, “…si accenderebbe contro di voi l’ira del Signore ed egli chiuderebbe i cieli e non vi sarebbe più pioggia e la terra non darebbe più i prodotti e voi perireste ben presto” (Deut.11,10-18).

L’arresto delle piogge a sessanta chilometri dalla costa e la suddivisione di questa fascia di terra in pianura, collina, depressione geologica e di nuovo altopiano, creò una molteplice realtà geografica. In un’area di poco più di ventimila chilometri quadrati si trovano sia le fertili valli della Galilea, di Esdrelon e di Dotan, dove entro una striscia di sessanta chilometri dal mare si esauriscono quasi tutte le piogge annuali, concentrate esclusivamente durante i mesi invernali, sia le sassose colline della Samaria e della Giudea poco adatte all’agricoltura, bensì alla pastorizia, e subito l’arida discesa del deserto giudaico alla valle di sale del Mar Morto.

La risalita all’altopiano giordano è altrettanto subitanea, e da lì la graduale entrata nel grande deserto. Questa è la frattura sismica che i geologi chiamano “la frattura siro-africana”, solcata dal Giordano, dove un dislivello di milleduecento metri viene compensato in un raggio di cinquanta chilometri. La valle del Giordano forma una strettissima striscia verde di fertilità, creando una miniatura della configurazione geografica delle valli dei Grandi Fiumi, e per la sua realtà lillipuziana  più che una valle fertile, un’oasi.

Questa molteplice realtà geografica produsse una molteplice realtà sociale. Le valli fecondate dalle piogge invernali furono subito popolate da insediamenti stabili di agricoltori, villaggi prima e città fortificate dopo: quello che viene chiamato “il seminato”; la striscia di confine semiarida delle colline della Giudea e della Samaria da pastori seminomadi, e il deserto dai beduini.

Gli agricoltori delle valli seminavano in autunno i propri campi, dopo la prima pioggia, e raccoglievano alla fine della primavera. Con il primo calore estivo, i campi inaridivano, e i pastori seminomadi potevano salire indisturbati sui campi delle città canaanee che avevano completato la mietitura. D’inverno, mentre gli agricoltori Canaanei seminavano nuovamente i propri campi, i pastori dovevano emigrare verso il deserto del Neghev, dove le precipitazioni arrivano fino a 200 mm. annuali, insufficienti all’agricoltura, ma bastanti alla pastorizia invernale.

La saga biblica delle migrazione dei Padri, Abramo, Isacco e Giacobbe si riferisce alla realtà del secondo millennio a.C., ma possiamo dedurre che la situazione fosse simile anche alla fine del quarto millennio, quando in concomitanza all’inizio delle civiltà d’Egitto e della Mesopotamia, sorsero in Palestina le grandi città fortificate del primo periodo del bronzo (Early Bronze).
I racconti della Bibbia, che si riferiscono alla vita dei Padri, riflettono la  realtà del pastore seminomade che d’inverno migrava con le sue greggi nei dintorni di Hebron-Beer Sheva, nel Neghev settentrionale, e d’estate migrava sulle colline tra Gerusalemme, Beit El e la valle di Esdrelon.
Quando Giacobbe manda Giuseppe a trovare i suoi fratelli, questi si trovavano a Sichem e poi si spinsero, ancora più a nord, fino a Dotan, la valle al limite settentrionale del percorso di migrazione, a pascolare i greggi del padre, dopo che gli agricoltori locali avevano terminato la mietitura e potevano permettere ai pastori di salire sul seminato. Nel frattempo, Giacobbe e Giuseppe si trovavano probabilmente ancora nei  dintorni di Hebron (Gn.37,12-18). All’inizio della migrazione estiva, i fratelli di Giuseppe avevano portato le greggi, dalle zone aride del Neghev settentrionale, verso i pascoli estivi tradizionali.
Il racconto dello stupro di Dina da parte di Sichem Ben Camor, e la terribile vendetta di Simeone e Levi sugli abitanti di Sichem, riflette questa tensione tra gli abitanti delle città cananee fortificate, che erano agricoltori, e i pastori semi nomadi che pascolavano ai limiti del seminato (Gn. 34, 1-31).

Probabilmente, la verità storica, che portò al saccheggio di Sichem non fu il presunto stupro di Dina, ma la realtà di vita di uno dei periodici anni di siccità che colpiscono il paese. In queste circostanze, il pastore non può scendere nel Neghev, poiché spesso le piogge si arrestano, e il deserto non riceve neppure i 200 mm. annuali di pioggia, necessari a far germogliare il minimo indispensabile al mantenimento delle greggi. Il pastore non ha altra alternativa che premere sul seminato, ed entrare in conflitto violento con gli agricoltori che vedono il proprio raccolto minacciato e distrutto.
In periodi di ripetuta siccità e carestia, mentre le città cananee pativano la fame, i pastori si vedevano costretti ad emigrare fino alle porte dell’Egitto e a dipendere lì dalla benevolenza egizia. Abramo scende in Egitto “perché la carestia gravava sul paese” (Gn.12,16), e di nuovo Giacobbe fu costretto a fare lo stesso (Gn.42,1-3 e 46, 1-27).

Il pastore seminomade vive, dunque, dei prodotti delle greggi e usa l’asino come bestia da soma. Non si occupa di commercio, poiché il raggio delle sue migrazioni è troppo limitato, e non produce utensili di terracotta, bensì li compra dai residenti degli insediamenti fissi, barattandoli con la lana e i formaggi delle sue pecore, come fanno ancora oggi i beduini del Neghev, che comprano i loro utensili a Hebron e a Beer Sheva.
L’asino, che ai tempi dei Padri era l’unica bestia da soma conosciuta, è molto resistente alle fatiche. Non può però addentrarsi nel deserto come il cammello, e quindi il percorso di migrazione del pastore è limitato a Occidente dal seminato e a Oriente dal deserto invalicabile. Abramo è detto Abraham Ha Chamar, o l’asinaio, e anche quando si prepara al sacrificio di Isacco, come prima cosa “ sellò  l’asino” (Gn.22,3)
Il racconto del servo di Abramo, che va a cercare una moglie per il figlio del padrone con i cammelli, è un racconto anacronistico, che riflette una realtà storica di alcuni secoli posteriore, entrato di straforo nel testo in un contesto non suo, poiché ai tempi di Abramo (XIX-XVII sec. a.C.), nel Medio Oriente, i cammelli non erano stati ancora addomesticati.

Vediamo, dunque, che la realtà di vita dei Padri, descritta dalla Bibbia, è una realtà sociale, e non etnica. Le migrazioni dei  Padri in Palestina sono limitate alla stretta fascia che da nord a sud va dalla valle di Esdrelon a Beer Sheva. Nei periodi di debolezza dipendono dal benvolere degli abitanti delle città fortificate, nei periodi di forza premono su di queste. Non acquistano proprietà immobiliari, bensì solo una grotta da usare come tomba (Gn.23,10-20).

Il terzo elemento, che incombe come una minaccia onnipresente nella vita sociale della Palestina, è il beduino. Questi sopravvive al di là del confine semiarido delle colline della Samaria e della Giudea e vive di razzia (1) e dei prodotti, il latte e la lana, della capra nera. Questo animale, che grazie alla struttura delle sue mascelle riesce a brucare persino i germogli più coriacei e a distruggere qualsiasi forma di flora, è visto come una maledizione dagli abitanti stabili della Palestina. Anche ai giorni nostri, il Ministero dell’Agricoltura israeliano tenta di costringere i beduini del Neghev a rinunciare a pascolarlo, creando delle tensioni con questi, che sentono di non avere alternativa alcuna.
 

Beduini e tradizione biblica

La Bibbia ci descrive la realtà sociale della Palestina attraverso le saghe dei Padri e dei Giudici. Queste saghe risalgono al secondo millennio a.C., e riflettono le tensioni tra seminato, pastori e beduini, che è radicata nella configurazione geografica del paese.
Il libro della Genesi racconta le storie di Abramo e i suoi figli: Ismaele e Isacco e la sua ripetizione (2)  nelle storie  di Isacco e i suoi figli: Esaù e Giacobbe: Esaù (Ismaele), dal quale discendono i beduini e Giacobbe (Isacco), da cui discendono i seminomadi: fratelli, della stessa stirpe, ma diversi per carattere: “I fanciulli crebbero ed Esaù divenne abile nella caccia, un uomo della steppa, mentre Giacobbe era un uomo tranquillo, che dimorava sotto le tende” (Gn.25,27).
La tradizione biblica posteriore, quando i figli d’Israele erano già diventati agricoltori, attribuisce a Giacobbe la benedizione di Isacco:

Ecco l’odore del mio figlio come l’odore di un campo che il Signore ha benedetto. Dio ti conceda la rugiada del cielo e terre grasse e abbondanza di frumento e di mosto. Ti servano i popoli e si prostrino davanti a te le genti. Sii il signore dei tuoi fratelli e si prostrino davanti a te i figli di tua madre. Chi ti maledice sia maledetto e chi ti benedice sia benedetto (Gn.27,27-9).
I pastori seminomadi, figli di Giacobbe, diventeranno, dunque, agricoltori e residenti fissi, mentre i figli di Esaù rimarranno nomadi:
“Hai una sola benedizione padre mio? Benedici anche me padre mio! “ [...] Allora suo padre Isacco prese la parola e gli disse: “Ecco lungi dalle terre grasse sarà la tua sede e lungi dalla rugiada del cielo dall’alto. Vivrai della tua spada e servirai tuo fratello; ma poi quando ti riscuoterai spezzerai il suo giogo dal tuo collo”  (Gn. 27, 38-40)
Allusione, molto chiara, alle razzie del beduino che, come risulta dalla saga di Gedeone e i Midianiti - Ismaeliti (Giudici, 6), continueranno a terrorizzare i figli d’Israele dopo che questi si saranno insediati nel seminato.

Il mito della differenziazione tra Giacobbe, il pastore, e Esaù, il beduino, non è che la ripetizione di quello dei due figli di Abramo: Isacco e Ismaele, da cui sarebbero discesi, dal primo i pastori e dal secondo i beduini.
Di  Ismaele si era detto : “Egli sarà come un onagro: la sua mano sarà contro tutti e la mano di tutti contro di lui e abiterà di fronte a tutti i suoi fratelli” (Gn. 16,12), e di nuovo: “E Dio fu con il fanciullo, che crebbe e abitò nel deserto e divenne un tiratore d’arco” (Gn.21,20). In entrambi i casi, Ismaele come Esaù, il fratello maggiore sarà il padre dei beduini, mentre il minore sarà il padre dei pastori seminomadi, forse come percezione del fatto che la cultura seminomade sia, in un certo senso, un compromesso tra quella del beduino e quella dell'agricoltore.
Anche il passaggio della primogenitura, dal figlio maggiore a quello minore, allude al fatto che i pastori seminomadi si sarebbero sviluppati in una grande nazione, mentre i beduini figli di Ismaele e di Esaù sarebbero rimasti sparpagliati e nomadi, al di là del seminato.

La variante della saga dei figli di Isacco, a differenza di quella dei figli di Abramo, che si manifesta nella “profezia” della benedizione di Isacco a Giacobbe, è che i seminomadi, loro discendenti, sarebbero diventati agricoltori, mentre i discendenti di Esaù sarebbero rimasti beduini: variante il cui scopo è riaffermare il quadro socio-economico-geografico della Palestina, com’era scontato dal redattore della versione eloista (E) della Genesi, che visse ai tempi del regno d’Israele (3).

Il racconto della Genesi ci riporta che “ Questa è la discendenza di Esaù, cioè Edom [...] Poi Esaù prese le mogli e i figli e le figlie e tutte le persone della sua casa [...] e andò nel paese di Seir, lontano dal fratello Giacobbe.” (36,1-6). L'interiezione nel testo, “Esaù cioè Edom”, è certamente del periodo post-esilico, per spiegare ai lettori da dove venissero gli Edumei, che approfittando della debolezza del regno di Giuda e del suo esilio (VI sec. a.C.), erano emigrati da Seir, che è in Arabia, a oriente del Mar Rosso, dove certamente conducevano una vita nomadica, per insediarsi nelle colline a sud di Gerusalemme e fondare lì un regno indipendente.

Entrambi i fratelli maggiori sono selvaggi e violenti e la loro peculiarità è la caccia (Esaù) e il destreggiarsi nelle armi (Ismaele), mentre entrambi i fratelli minori sono descritti come pacifici e abitanti delle tende, anche se questo non corrisponde alla descrizione che ci fa la Bibbia della violenza di Simeone e Levi  e delle saghe delle guerre dei figli d’Israele nella conquista della Palestina.
Particolarmente interessante è la menzione che “Giacobbe era un uomo tranquillo, che dimorava sotto le tende” (Gn.25,27).
Non sono forse i beduini ad abitare le tende?
Per capire questo versetto bisogna conoscere la realtà di vita del Medio Oriente.
Anche oggi chi gira nel deserto del Sinai, dove la realtà di vita del beduino non è cambiata da quattromila anni a questa parte, può notare che il beduino molto raramente adopera le proprie tende. Le tende sono fatte dalla pelle della capra nera che questi pascola, e che per le dure condizioni e la mancanza d’acqua e di pascoli del deserto non può moltiplicarsi più di tanto. Tra Marzo e Dicembre il beduino tiene le proprie tende impacchettate, oggigiorno sul dorso del cammello, per non sciuparle, e dorme sotto il cielo stellato. Solo tra Dicembre e Marzo, quando le notti del deserto si fanno rigide e fredde, le tira fuori, e allora il deserto si punteggia di queste sparse macchie nere.

Quindi, questa è la sorte del beduino, oggi come ai tempi di Ismaele e di Esaù: vivere di razzia e di caccia al di là del seminato, dormendo sotto il cielo stellato.
Il seminomade, invece, che ora è completamente sparito dal panorama mediorientale, viveva ai margini del seminato, attendendo l’occasione per stabilirsi in esso, nei momenti di debolezza dei suoi abitanti. Di Abramo e di Lot (Gn.13,1-7), di Isacco (Gn.26,12-5) e di Giacobbe (Gn.30,25-41), i pastori, la Bibbia racconta che poterono moltiplicarsi e riempire il paese, loro e le loro greggi: vagando, lungo un percorso fisso e limitato, ai margini del seminato, e pascolando le pecore dalla lana bianca in una zona climatica molto più benigna, poterono prosperare e moltiplicarsi.
Molto illuminante, a questo proposito, è la descrizione, contenuta nel libro della Genesi, su come Giacobbe riuscì ad arricchirsi, sfruttando un “trucco” sulla riproduzione degli ovini (Gn.30,35-43).

Solo dal XII secolo a.C. in poi, con l'addomesticamento nel Medio Oriente del cammello, il beduino poté dedicarsi al commercio, poiché solo questo può percorrere il deserto. Quando i fratelli di Giuseppe si apprestavano a ucciderlo, videro una di queste carovane, che percorrevano la strada internazionale dall’Arabia verso la Siria: “Quando ecco, alzando gli occhi, videro arrivare una carovana di Ismaeliti provenienti da Galaad, con i cammelli carichi di resina, di balsamo e di laudano, che andavano a portare in Egitto...” (Gn. 37,25).
Il racconto descrive una realtà geopolitica nota al redattore del libro della Genesi, la cui prima versione non è anteriore al X sec. a.C. (4)

Al tempo dei Padri, i cammelli non erano ancora stati addomesticati come animali da soma, e non era stato ancora aperto il percorso dei cammellieri dall’Arabia verso la mezzaluna fertile.
Inoltre gli Ismaeliti, che nello stesso contesto vengono chiamati anche Madianiti -“Intanto i Madianiti lo vendettero in Egitto a Potifar, consigliere del faraone e comandante delle guardie”- (Gn.37,36), essendo carichi di resina, di balsamo e di laudano, stavano necessariamente percorrendo la strada in direzione contraria, da sud verso nord.

La resina, il balsamo e il laudano sono spezie che, dal X sec. a.C. in poi, i tempi della monarchia israelita e giudaica, venivano importate dall’Africa Orientale o dallo Yemen, e portate dalle carovane dall’Arabia verso la Siria e l’Egitto. Essendo Dotan a nord dell’Egitto e a sud della Siria, o la carovana aveva già scaricato le sue merci o stava percorrendo la strada in direzione contraria. L’esigenza letteraria ha qui soppiantato la realtà storica: al redattore biblico pareva importante descrivere la peculiarità dell’occupazione dei Madianiti e quindi spiega delle merci che trasportavano, o meglio, che avevano trasportato, prima di incontrare i figli di Giacobbe.

La metamorfosi dei trasporti moderni ha reso superflue le carovane. Inoltre i confini politici attuali, dai quali il percorso delle migrazioni beduine viene troncato, creano una nuova realtà di limitazione alla libertà di movimento beduina. Di tanto in tanto, neppure l’efficiente polizia di frontiera israeliana riesce comunque ad evitare lo sconfinamento, in entrambe le direzioni, delle greggi beduine.
Il racconto biblico di Gedeone, che libera il popolo d’Israele dalla minaccia dei Madianiti, si riferisce a un periodo posteriore di almeno cinquecento anni a quello delle saghe dei Padri, e qui i cammelli dei Madianiti appaiono nel loro contesto originale:
La mano di Madian si fece pesante contro Israele; per la paura dei Madianiti gli Israeliti adattarono per sé gli antri dei monti, le caverne e le cime scoscese. Quando Israele aveva seminato, i Madianiti con i figli di Amalek e i figli dell’oriente venivano contro di lui, si accampavano sul territorio degli Israeliti, distruggevano tutti i prodotti del paese fino all’ingresso di Gaza e non lasciavano in Israele mezzi di sussistenza; né pecore né buoi né asini. Poiché venivano con i loro armenti e con le loro tende e arrivavano numerosi come le cavallette - essi e i loro cammelli erano senza numero - e venivano nel paese per devastarlo (Giudici 6,2-6).
Come ha rilevato Albright, la recente introduzione del cammello nel medioriente e la veloce mobilità, consentita da questo, aveva reso ancora più temibile la razzia beduina (5).

Ai tempi dei Giudici, gli Israeliti si erano già inseriti in Palestina e cominciavano a vivere una realtà di residenti fissi ed agricoltori, e non più di pastori seminomadi.
I Madianiti, che erano i beduini di allora, sono coloro che abitano le sabbie del deserto, che vivono di commercio e di razzia. Emergono all’improvviso dal deserto, come pirati dal mare, gettandosi sul seminato per saccheggiarne gli abitanti e venire ringhiottiti nuovamente dal deserto. I figli d’Israele, che si erano da poco insidiati sulle colline della Samaria e della Giudea, e non avevano ancora conquistato le città canaanee fortificate delle valli, si trovavano tra l’incudine di queste e il martello delle invasioni beduine. Per questo non avevano mura, dietro le quali ripararsi, e dovevano cercare rifugio negli antri dei monti e nelle caverne. Gedeone, dopo aver gettato lo scompiglio nel campo dei Madianiti e averli ricacciati al di là del Giordano, passa il fiume e li insegue al di là di Succot e Penuel, sull’altopiano Transgiordano e profondamente nel deserto dove questi avevano trovato rifugio: “Gedeone salì per la via dei nomadi a oriente di Nobach e di Iogbea e mise in rotta l’esercito che si credeva sicuro” (Giudici 8,11).
I Madianiti si sentivano al sicuro tra le dune del deserto, poiché gli abitanti del seminato non erano soliti inseguire i nomadi dentro il deserto, dopo la razzia, e il Giudice israelita riesce a sorprenderli e a prendersi la sua vendetta.

Vediamo, così, come la realtà geografica e climatica della Palestina produsse questa triplice realtà sociale: gli abitanti del seminato o agricoltori, i pastori seminomadi loro nemici, e la grande minaccia comune: il beduino.
La Bibbia fa una distinzione etnica tra i diversi gruppi, ma in realtà questa fu all’inizio una distinzione sociale, che si trasformò, col passare dei secoli,  in differenziazione nazionale.

 Le lettere di El Amarna e gli Ebrei

Nel 1887, una contadina egiziana scoprì per caso ad El-Amarna, nell’Egitto centrale, una collezione di tavolette d’argilla, inscritte in caratteri cuneiformi.
Questa si rivelò una delle scoperte più importanti nella storia dell’archeologia del Medio Oriente (6). Quell’ignara contadina era capitata nel bel mezzo dell’archivio imperiale della capitale del Faraone eretico Amenophis IV, che si era ridenominato Ekhnaton (1379-1362 a.C.).
Furono ritrovate più di 350 di queste tavolette, e, tranne 25, si rivelarono tutte essere delle lettere mandate dalle città della Palestina e della Siria al faraone, fin dai tempi del padre Amenophis III (1417-1379 a.C.), per chiedere aiuto al faraone, per lamentarsi della situazione politica instabile o per scusarsi del mancato invio dei tributi. Le lettere sono scritte in accade, che nel secondo millennio era la lingua internazionale (come oggi l’inglese), da scribi al servizio dei principi locali, per i quali questa non era la lingua madre, visto l’enorme quantità di errori di ortografia e di sintassi di cui sono seminati i testi. Dalle numerose intercalazioni con parole semitiche (in cananeo, che come abbiamo visto corrispondeva all’ebraico) risulta chiaro che questa era la lingua parlata nelle città fortificate della Palestina.

Dall’inizio della XVIII dinastia (1570 a.C.), i principi canaanei erano diventati vassalli dell’Egitto, e si rivolgevano spesso a questi, quasi sempre lamentandosi. I vassalli canaanei si autodefinivano re (sarru, in accade, e poi aggiungevano la parola canaanea milku, corrispondente dell’ebraico melek, per maggiore chiarezza) (7).
Questi erano spesso in guerra uno con l’altro e si accusavano a vicenda di tradimento nei confronti del faraone, ma una delle lamentele che ricorre più spesso è quella diretta verso gli ‘Apiru.

Erano costoro una classe di uomini reputati senza patria e senza leggi (8), situazione che ci ricorda quella di Abramo che dichiara di essere Gher, forestiero: “Io sono forestiero e di passaggio in mezzo a voi...” (Gn. 23,4). La forma cuneiforme di questa definizione, che si pronuncia Hapiru,  Habiru, ‘Apiru o ‘‘Abiru, appare, per esempio, nelle lettere di ‘Abdi-Kheba, re di Gerusalemme. Altrove, quando è scritto in ideogramma SA-GAZ la parola appare con lo stesso logogramma usato per la parola Habbatu, bandito, cosa che ci riporta alle scorrerie dei figli di Giacobbe nel seminato di Sichem.


Il concetto di ‘Apiru ricorre nei testi cuneiformi da differenti parti della Mesopotamia, Siria, Egitto, quasi a ricalcare il percorso delle migrazioni di Abramo. Nell’archivio del palazzo di Mari ricorreva già dal XVIII secolo, tre secoli prima, spesso insieme alla menzione dei Beniamiti.
In una scritta trionfale di Amenophis II (1450-1425 A.C.), alla fine di una lista di prigionieri, appaiono 3600 ‘Apiru, 15200 Shasu, 640 Canaanei, 217 principi di Siria e Palestina ecc.
In una lettera, Biryawaza, principe di Damasco scrive: “Sono di fronte agli arcieri reali, insieme alle mie truppe, ai miei carri e insieme ai miei ‘Apiru e ai miei Sutu(9).
Dal momento che il termine Sutu è usato nelle tavolette di El-Amarna come termine generico per beduino, secondo l’usanza babilonese, abbiamo qui la stessa terminologia  del testo di Amenophis dove gli ‘Apiru sono subito seguiti dai beduini (Shasu).
Dobbiamo quindi differenziare tra i due gruppi: entrambi sono nomadi, che usano l’asino (almeno fino al XII sec. a.C.), ma gli ‘Apiru erano meno nomadi dei Sutu (10).

Nelle lettere di El-Amarna gli ‘Apiru appaiono come nemici, sia dei principi locali che degli ufficiali egiziani di guarnigione, e vengono descritti come uomini che invadono il seminato. Ogni re locale accusa i suoi vicini di essere in combutta con gli ‘Apiru, e spesso chiamano i loro peggiori nemici con questo appellativo.
In una lettera, il principe canaaneo Dagan-Takala implora il faraone di salvarlo dalle mani “degli ‘Apiru, dei banditi (Habbatu), e dai beduini (Sutu)”. Questa lettera mostra come gli ‘Apiru fossero, in questo caso, distinti sia dai banditi che dai beduini, malgrado si comportassero alla stessa maniera.

In uno dei testi si racconta che Zimredda di Lachish  venne ucciso da due schiavi che erano diventati ‘Apiru. È ormai provato che Habbatu, uno degli equivalenti del logogramma SA-GAZ, significasse originalmente: senza casa, nomade, padrone di un asino, dal verbo Habatu che significa: essere nomade, passare oltre, e il significato di bandito è secondario (11). Nei testi ittiti del 1500 a.C. sono menzionati “gli uomini delle tribù del deserto” (i beduini), e i seminomadi (letteralmente “gli uomini polverosi”) (12). Qui, nuovamente c’è una distinzione chiara tra il beduino e il seminomade.

Le fonti epigrafiche confermano la distinzione che fa la tradizione biblica tra i due figli di Abramo: Ismaele e Isacco e nella sua ripetizione nei figli di Isacco: Esaù e Giacobbe.
Ma la più interessante tra le lettere di El-Amarna è quella di Shuwardata, uno dei principi canaanei, che si lamenta che tutta la zona di Sichem era caduta in mano agli ‘Apiru, a conferma esterna del racconto biblico di Simeone e Levi che saccheggiano Sichem (Gn.34,25-31).


Albright menziona il fatto che la parola ‘Apiru in semitico-nord-occidentale doveva significare “polveroso” e in siriaco (aramaico del regno babilonese) la parola appare con lo stesso significato, dalla caratteristica di chi porta questo appellativo di riempirsi della polvere sollevata dagli asini delle carovane.
Albright ha raccolto tutto il materiale archeologico ed epigrafico che si riferisce alle carovane che solcavano la mezzaluna fertile nel XX e nel XIX sec. a.C. e ha trovato una correlazione stupefacente alla tradizione della realtà di vita dei Padri descritta dalla Genesi (13).
È diventato particolarmente ovvio, quindi, identificare il termine ‘Ibri (ebreo) con ‘Apiru, pronunciato anche: ‘Abiru, che anche in ebraico significa: “che passa”, “che viene dal”. Novecento anni dopo Rashi, Albright, l’archeologo più importante della Palestina è arrivato, basandosi su reperti epigrafici, alle stesse conclusioni del rabbino dell’XI secolo.


Vediamo come anche dai documenti epigrafici esteriori risulta che il significato originale della parola ebreo designasse una condizione sociale, che come sempre succede, si tradusse in condizione mentale.
Gli Ebrei furono quei semiti nord-occidentali che, a differenza dei Canaanei, mantennero lo stile di vita seminomade, e non passarono a uno stile di vita urbana, come i loro consanguinei abitanti delle città fortificate.
Il motivo è che, essendo l’ultima ondata di semiti nord – occidentali che erano emigrati dalla Mesopotamia, avevano trovato le fertili valli della Palestina già insediate, e fino al XIII o XII secolo, data della conquista israelita attribuita a Giosué, non avevano avuto la forza sufficente per conquistare le città fortificate.

In realtà, la conquista non avvenne come descritto dal libro di Giosué in un’unica ondata ma, come comprovano gli scavi archeologici e come descritto dal libro dei Giudici, prese un lasso di tempo di almeno due secoli.


Una parte di questi ‘Apiru, secondo la tradizione biblica, erano scesi in Egitto in un periodo di carestia, dove, essendo completamente diversi, sia etnicamente che come stile di vita, non si amalgamarono mai agli Egizi. Quando la moglie di Putifar accusa Giuseppe di averla violentata dice: “Guardate, ci ha condotto in casa un Ebreo per scherzare con noi...”(Gn.39,14) e quando il capo dei coppieri menziona Giuseppe al Faraone dice: “Era là con noi un giovane, un Ebreo, uno schiavo (14).” (Gn.41,12).
In entrambi i casi gli Egizi menzionano l’Ebreo, l’Apiru con disprezzo, come con disprezzo sono menzionati gli Apiru palestinesi delle lettere di El-Amarna.


Una parte di questi ‘Apiru, che ora sarebbe più preciso menzionare come tribù ebraiche, rimasero in Palestina ad amareggiare la vita degli agricoltori canaanei, e quando i clan giudaici che migravano nel Neghev e nel Sinai, da dove forse erano penetrati nel delta del Nilo (Goshen), cominciarono a loro volta a premere sul seminato, si amalgamarono a loro nel patto delle dodici tribù.

Contrariamente alla sintesi schematica della Bibbia, vi è oggi un consenso tra gli studiosi, anche quelli che prendono per buono il nucleo storico di una possibile emigrazione in Egitto e il conseguente Esodo, che non tutte le tribù d’Israele emigrarono in Egitto e una parte dei clan, che costituiranno il nucleo principale di alcune tribù, non aveva mai abbandonato il posto (15). Così il clan dei calebiti, che costituì il nucleo principale della tribù di Giuda, si amalgamò a quest’ultima con i primi tentativi di penetrare nel Neghev settentrionale (16).

NOTE

1 La parola italiana “razzia” viene dall’arabo “razu”, che descrive appunto l’azione improvvisa e violenta del saccheggio, che il beduino compie sul seminato.
2  Julius Wellhausen, (Prolegomena zur Geschichte Israels, Reimer, Berlin 1899. Tr. Ingl. Prolegomena to the History of Ancient Israel, The Meridian Library, New York 1957, pp. 318-321), ha notato per primo che i racconti di Isacco non sono che una ripetizione di quelli di Abramo. Secondo Wellhausen la figura di Abramo è stata creata posteriormente a quella degli altri due padri, poiché le storie di Isacco e Giacobbe contengono elementi più realistici e storici di quelle di Abramo, che sarebbero state forgiate su quelle di Isacco e proiettate all’inizio della storia della nazione. Secondo W. le saghe dei padri ebbero origine nel regno settentrionale d’Israele nel IX-VII secolo anche se contengono elementi più arcaici.
3  Per una cronologia dei libri della Bibbia vedi: J.Wellhausen, ibidem, pp.2-12 e 368-390.
4  Ibidem. Come suggerisce Wellhausen, le saghe dei padri furono formate ai tempi del regno settentrionale d’Israele e probabilmente anche messe per iscritto per la prima volta in questo periodo, ma, come proveremo anche in seguito esistevano delle tradizioni orali anteriori che parlavano dei prototipi della nazione come di pastori che vagavano ai margini del seminato. Il nucleo di queste saghe fu adattato alla realtà del X-IX secolo e da qui tutti gli anacronismi che contengono. 5  William F. Albright, The Biblical Period from Abraham to Ezra, Anchor, New York 1963, p.41. Come dice lo studioso: “This was the first irruption of camel-riding nomads into the Fertile Crescent of which we have any historical record...the wild tribes of inner Arabia had learned how to ride the camel over long distances and to surprise wholly unsuspecting victims asleep in remote encapments”.
W.F.Albright, The Amarna Letters from Palestine, in Cambridge Ancient History, Vol. II, Cambridge 1966.
7  Ibidem, p.8.
Ibidem, p.14
9  Ibidem, p.15.
10  Ibidem, p.15.
11 Ibidem, p.16.
12  Ibidem, p.17.
13  Ibidem, p.17.
14 Anche Rashi, nel suo commento a questo versetto, menziona il disprezzo del coppiere del Faraone, che pur aveva tratto beneficio da Giuseppe. La traduzione in italiano della versione ufficiale della Bibbia non è esatta poiché traduce : “Era là con noi un giovane ebreo, schiavo del capo delle guardie...”, mentre la traduzione giusta dall’ebraico dev’essere : “era là un giovane, ebreo, schiavo,...”. Rashi dice : “ maledetti i malvagi, che anche quando fanno qualcosa di buono, lo fanno in malo modo: “giovane” (N‘ar), cioè che non vale nulla, (poiché N‘ar è il contrario di  zaken=vecchio=saggio), “ebreo”(‘Ibri), cioè che non parla neppure la nostra lingua, (abbiamo visto il disprezzo implicito nella parola ‘Apiru), “schiavo” (‘Eved), ed è scritto nelle leggi egizie che uno schiavo non regna né viene vestito vestiti ministeriali (non è certamente lusinghiero essere chiamato schiavo)”.  [La traduzione dall’ebraico è mia]. Rashi, che è il più importante dei commentatori biblici, visse in Francia nell’undicesino secolo della nostra era.
15  Albright, The Biblical Period from Abraham to Ezra, op. cit., pp. 31-3
16  Nei Numeri 21,1-3, ci viene raccontato che gli Israeliti sconfissero il re di Arad, nel Neghev settentrionale. Gli scavi archeologici hanno dimostrato che Arad , nel periodo del Bronzo Recente (Late Bronze) era in rovine da più di mille anni e fu ricostruita solo nel X secolo, ai tempi della monarchia giudaica. In secondo luogo non è chiaro perché gli Israeliti non avessero proseguito da lì la penetrazione della Palestina, che era la strada più breve per entrare nel paese, se non per la barriera rappresentata dalla citt� cananee fortificate della Giudea meridionale, Beer Sheba, Lachish, Tel Beit Mirsim e Hebron. Come emerge dal racconto dei Giudici la zona tra Hebron e il Neghev settentrionale era abitata dal clan di Otniel della tribù dei calebiti (Giudici 1,12-15), che a conquista completata si fusero con la trib� di Giuda e ne fecero parte integrale.

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