Iakov Levi e Luigi Previdi
 

UCCIDERE  DIO
Dall'assassinio di Mosè all'omicidio di Rabin




Pubblicato in Agorà, a cura di Fabio Minazzi, Annuario IV, Ed. Arterigere s.r.l., Varese 2000.

English version

Come ha descritto Reik (1), la figura di Mosè condensa in sé sia la figura del figlio, il rappresentante della tribù dei fratelli, sia la figura del padre. Partendo dalla statua del Mosè cornuto di Michelangelo, Reik svolge la sua indagine. Riportiamo qui i passi salienti del saggio di Reik, che sono la chiave  per la comprensione della figura del condottiero:

Il capo cornuto e la fronte compressa del legislatore, così come l’espressione del suo viso, contribuiscono in modo essenziale al fatto che l’impressione prodotta dal capolavoro oscilli tra l’attrazione e la repulsione. Comprendendo questo particolare  avremo forse una spiegazione dell’effetto “ambivalente” del Mosè. È noto che le corna sulla testa di questa statua, come in molte altre raffigurazioni di Mosè si possono far risalire alla traduzione sbagliata di un passo biblico: “e avvenne che quando Mosè scese dal monte Sinai con le due tavole della testimonianza in mano, Mosé non s’accorse che la pelle della sua faccia risplendeva mentre egli parlava con lui. E quando Aaron e tutti i figli d’Israele videro Mosè, ecco che la pelle della sua faccia risplendette ed essi ebbero paura ad avvicinaglisi”(Es.34/29-30). La Volgata e Aquila traducono erroneamente, si dice, la parola ebraica “karan” : “era cornuto”, in luogo di “risplendette”, cosicché secondo questi testi Mosè appare davanti agli Ebrei con le corna. In questo modo Mosè entrò nell’arte plastica cornuta facie...la parola ebraica ha veramente entrambi i significati. Essa significa “risplendere” come “essere cornuto”(p.310). Si può persino supporre che il primo significato sia il più recente ed evoluto. Così l’alone intorno al capo di Mosè era originariamente un paio di corna che soltanto più tardi vennero cambiati in luce...Il testo dice espressamente che lo splendore della faccia di Mosè fu causato dal rapporto con Iahvé; è perciò il riflesso della Divinità che avvolge il capo del grande uomo...Mosè si è identificato con Dio assumendo l’attributo delle corna; egli è diventato Dio. Le corna erano il segno del dio totemico vinto (p.311)...Storicamente le corna e l’alone sono soltanto attributi diversi della divinità; l’uno represse l’altro, e nell’elemento vincitore noi ritroviamo quello represso in una forma inalterata...Il doppio effetto della statua di Mosè del grande artista, cioè l’alternarsi di attrazione e repulsione, non ci rende più perplessi. Questo doppio effetto è prodotto, da una parte dalla nostra ammirazione e reverenza per il carattere divino della figura, e dall’altra dalla nostra inconsapevole resistenza contro i lineamenti che tendono a rammentarci, a nostra insaputa, un’idea di Dio che credevamo superata...Il Mosè della leggenda è realmente diventato un toro perché si identifica con Jahvé.(p.312)...Il giovane eroe, Mosè, ha preso possesso della pelle del dio - padre, ed è così diventato Iddio stesso...una traccia di questa fase si può riconoscere nella rappresentazione di Mosè cornuto. La seconda fase ha sostituito la pelle dell’animale, che riesce incompatibile con il concetto superiore di Dio, con i raggi di luce...Vediamo che anche in questa fase Mosè si rende quasi uguale a Dio, assumendo l’attributo divino. Gli Ebrei avevano paura davanti a lui come se egli fosse lo stesso Jahve...(p.315)...in un’epoca in cui Jahvé non era ancora il Dio legislatore del Sinai...Mosè non usava maschera né pelle di animale, trattando con Dio; poiché egli strappò la pelle a Dio e divenne perciò Dio egli stesso. Ogni sacerdote era Dio. Mosè che parla a Jahvé nel tabernacolo è una figura posteriore; giacché Mosè stesso era Jahvé, la presenza di Jahvé sembra che si sia duplicata. Tuttavia Mosè quando porta il velo o la maschera per spaventare gli Ebrei, desidera inconsciamente allontanarli dalla ripetizione del fatto da lui perpetrato, e che stavolta sarebbe diretto contro la sua propria persona. Psicoanaliticamente la situazione si può spiegare come segue. L’identificazione col dio - padre, indossando la pelle del totem, fu il risultato dell’elementare desiderio filiale di prendere il posto del padre. L’indossare la pelle dell’animale-padre è un sintomo, sia del trionfo sul padre che del trionfo del padre,...poiché il figlio che sopraffece il padre è costretto ad assumere la parte paterna. Il figlio, che ha così raggiunto lo stato del padre, si trova per il suo timore inconscio di rappresaglia a usare verso la generazione più giovane gli stessi mezzi d’intimidazione e di autorità paterna che egli stesso aveva superati” (p. 316).
Nelle pagine seguenti Reik spiega come la distruzione del vitello d’oro da parte di Mosè rappresenti in realtà l’uccisione di Jahvé, nella sua forma arcaica quando ancora era stato rappresentato come un toro, e che ridurre in polvere il vitello e farlo bere ai figli d’Israele sia un ritorno del rito totemico in cui i membri del clan si cibano della carne del padre - totem ucciso (pp.318-22). Il racconto condensa inoltre nel vitello d’oro la doppia rappresentazione di dio-padre che era un toro, e non un vitello, con la figura di Mosè che era un vitello, cioè un giovane toro. Quindi quando gli Ebrei, credendo che Mosè fosse  morto, si fecero l’immagine di un vitello, in realtà tentavano di resuscitare Mosè stesso, che li guidasse nel deserto, come in realtà si esprime esplicitamente il testo:
“Facci un dio che cammini alla nostra testa, perché a quel Mosè, l’uomo che ci ha fatto uscire dal paese d’Egitto, non sappiamo cosa sia accaduto” (Es.32/1.).
“Vitello” sarebbe dunque Mosè, il dio- figlio del dio- toro Jahvé.
Basandosi sia sull’espressione adoperata nel libro dell’Esodo: “Ecco il tuo Dio, o Israele, colui che ti ha fatto uscire dal paese d’Egitto” (Es.32/4), che in realtà avrebbe dovuto essere stato tradotto “Ecco i tuoi dei”, poiché l’ebraico adopera il plurale della forma singolare El, “Elohim”, sia il fatto che con la divisione della monarchia israelita, dopo la morte di Salomone, Geroboamo, re d'Israele, nel tentativo di allontanare i suoi sudditi da
Gerusalemme, che era rimasta la capitale del regno di Giuda e della casa di Davide, propose agli Israeliti un oggetto di culto nuovo e vecchio al tempo stesso. Rifece il vitello d'oro, che apparentemente aveva fatto infuriare Mosè, ma non si accontentò di realizzarne uno, bensì ne innnalzò due, uno ai confini meridionali del suo regno e uno a quelli settentrionali, così che l'antica dualità della arcaica divinità ebraica emerse suo malgrado.
Geroboamo re d’Israele fece due vitelli d’oro, e non uno, affinché gli Israeliti non andassero ad adorare a Gerusalemme, (I Re,12/28), Reik arriva alla conclusione che nel racconto del Sinai ci fossero originariamente due immagini di animali: l’una Jahvé, il toro, e l’altra Mosè, il vitello. (pp.328-9):
Reik continua:
La tesi, della presenza originaria di due immagine animali nella scena sul Sinai, l’una rappresentante Jahve sotto forma di toro e l’altra Mosè sotto forma di vitello, fa pensare a un periodo dell’evoluzione religiosa ebraica in cui una divinità figlio fu adorata come il dio-padre. Abbiamo ragione di supporre  che i particolari del testo abbiano parzialmente tradito quest’evoluzione sostituendo il plurale col singolare. Deve essere esistita un’epoca in cui il dio figlio Mosè aveva represso il dio - padre Jahve, e in cui il suo culto era passato in primo piano. Questo processo coincide con ciò che noi trovammo nell’analisi del Mosè cornuto...non è perciò affatto accidentale che nella leggenda gli Ebrei adorino realmente il vitello. Il giovane figlio di un toro si può soltanto rappresentare così...Nella narrazione dell’Esodo troviamo tracce di un periodo successivo in cui le divinità padre e figlio stavano a fianco a fianco ed erano egualmente oggetto di culto. Quando gli Ebrei dicono: “Questi sono gli dei che vi hanno portati fuori dalla terra d’Egitto”, essi vogliono dire Jahve e Mosè.. L’evoluzione progressiva portò ad attribuire al dio-figlio una posizione subordinata, mentre il dio-padre veniva elevato ad altezze sopramondane ancor più sublimi...La caratteristica particolare del giudaismo è che il padre raggiunge infine la vittoria e tiene indiscutibilmente e saldamente il potere. (pp. 330 - 1)...Allorché Mosè distrugge il vitello, uccide pure sé stesso ed espia la colpa in cui era incorso distruggendo il dio-toro e padre Jahve” (pp. 330 - 3)...La doppia personalità di Mosè come uomo e profeta e come vitello non infirma la nostra ipotesi. Anche qui troviamo una di quelle duplicazioni che abbiamo già scoperto, la figura umana è quella più recente, la forma animale quella più antica (p.334).
Mosè, dunque, nella sintesi di un rito totemico d’iniziazione uccide il dio-padre-toro- Jahve, si identifica con lui e si autopunisce distruggendo la propria immagine nel vitello d’oro. Il pasto totemico viene consumato quando gli Ebrei sono costretti a bere le polveri del vitello distrutto. In questo pasto totemico essi ingeriscono il corpo di Mosè, che era diventato il dio-totem-figlio di un dio-totem-padre, un po’ come nell’Eucaristia i Cristiani ingeriscono il corpo del Dio-figlio, anch’egli ucciso, come espiazione di un delitto verso un Dio-padre.
Mosè era dunque il caporione dell’orda dei fratelli, che compie l’atto di aggressione verso il dio-padre, diventa lui stesso dio e come tale verrà ucciso dagli Israeliti.
Freud aveva già sostenuto che Mosè non era morto di una morte pacifica , come descrive il Deuteronomio, bensì era stato assassinato in una delle rivolte scoppiate contro di lui, ma ora il quadro è diventato più chiaro.
Vi è ancora un aspetto che non è stato focalizzato sufficientemente: Mosè condensa la figura del figlio, del padre e del condottiero: in realtà venne ucciso come protagonista di tutti e tre i ruoli. Reik spiega l’uccisione di Mosè come un’uccisione rituale, simile a quella di Cristo, e questo è certamente il significato che attribuì il subconscio del popolo ebraico alla morte di Mosè. L’assassinio reale di Mosè in epoca storica fece una riattivazione dei contenuti mentali preistorici in modo da trasformare un condottiero in carne ed ossa in una figura mitica e in un doppio dio-padre-dio-figlio. In parole povere: quando gli Ebrei uccisero Mosè, certamente non lo fecero per poter consumare il pasto totemico, per poter consumare l’atto rituale dell’omicidio e dell’espiazione e per poterlo deificare. Non bisogna dimenticare che l’uccisione di Mosè avvenne in epoca storica. Questi meccanismi psichici furono attivati dall’omicidio, poiché nel loro inconscio gli Ebrei vedevano in lui una figura di caporione dell’orda dei fratelli, dio-figlio e dio-padre. L’omicidio stesso, che fece scattare questi meccanismi e riattivò i contenuti preistorici repressi, fu un omicidio reale. Come succederà a Gesù, fu la sua morte reale a trasformarlo in Dio agli occhi dei credenti. Il fatto storico è la sua uccisione. La fede ne produce poi la deificazione. Anche chi non è credente può riconoscere il fatto dell’uccisione di Cristo, e riconoscerlo come un dato di fatto storico. In questo caso ne ricercherà i motivi reali, come, per esempio, poiché era considerato un bandito o un ribelle politico. Inoltre riconoscerà che, una volta avvenuta la sua uccisione, fu deificato e si misero in moto quei meccanismi che riempirono la crocifissione dei contenuti mentali che costituiscono la religione cristiana, cioè una uccisione reale divenne anche una uccisione simbolica, e come tale è celebrata. Un avvenire storico fu il vas dei contenuti mentali preistorici rimossi, e la loro rappresentazione.
Così successe a Mosè: il fatto storico della morte di Mosè, secondo noi sufficientemente provato da Freud, ne provocò la deificazione, la messa in atto dei meccanismi di sfogo che si esprimono nei contenuti mentali del pasto totemico e dei riti d’iniziazione, e conseguentemente, a differenza del cristianesimo, la rimozione del suddetto omicidio rituale e della deificazione.
Quello che permise ai Cristiani di non rimuovere l’uccisione del loro Dio fu che attribuirono questa uccisione a qualcun altro, con il quale non solo non si identificarono, ma da cui si dissociarono completamente e su cui riversarono la colpa. In contrasto, quello che gli Ebrei furono costretti a rimuovere fu, non solo l’omicidio rituale, descritto da Reik, bensì anche un omicidio reale, commesso per motivi reali, che noi cercheremo di decodificare.
Secondo Freud esistevano in realtà due Mosè (2) . Il primo e vero Mosè fu il principe egiziano (3), seguace fanatico del faraone iconoclasta e monoteista Ekhnaton (Amenophis IV), che tentò di imporre agli Ebrei la religione intransigente, dagli alti codici morali, del suo signore. Questo è il grande condottiero che estrasse il popolo d’Israele dall’Egitto, dalla terra di schiavitù, e che introdusse gli alti valori morali, che giustamente passarono all’umanità con il nome di “legge mosaica”.
Il secondo Mosè era il sacerdote di Madian, il cui dio, Iahvè, era un dio locale dei pastori madianiti, vulcanico e demoniaco, che dimorava sull’Oreb, tra le cime aride del Sinai, e che nulla condivideva dei valori di spiritualità e moralità del dio di Ekhnaton, Aton, ma che era molto più adatto a guidare il popolo nelle difficili condizioni del deserto. Ovviamente questi non si chiamava affatto Mosè ma assunse l’identità del grande condottiero dopo che questi fu assassinato.
Prendendo come punto di partenza l’ipotesi di Freud che fosse Jetrò a sostituire Mosè abbiamo trovato anche il punto di cucitura, dove avvenne la sostituzione: Jetrò  appare nella Bibbia come suocero di Mosè, cioè come uno più anziano (più vecchio = più importante), e  appare anche in un contesto molto strano quando, dopo l’esodo, visita Mosè e gli da’ dei consigli, di cui un grande condottiero avrebbe dovuto poter fare a meno (Es.18/1-12). Questo è il punto della cucitura tra i due Mosè, in cui uno sostituisce l’altro. Il redattore biblico si tradisce già quando dice: “Allora Jetrò prese con sé Zippora, moglie di Mosè, che prima egli aveva rimandata,...Jetrò, dunque, suocero di Mosè, con i figli e la moglie di lui venne da Mosè nel deserto...”. Poiché, secondo il racconto precedente, Mosè era sceso in Egitto con la moglie e un figlio (Es. 4/18–27), il redattore deve fare i salti mortali per spiegare l’assenza della moglie di Mosè dal campo degli Israeliti e dire “che prima egli l’aveva rimandata”.
Ma non così si usava fare tra le tribù nomadi del deserto. “Rimandare la moglie” si poteva fare quando gli Ebrei erano diventati un popolo sedentario nel primo millennio A.C., non quando vagavano da nomadi alla fine del secondo. Se Mosè avesse “rimandato” la moglie, sarebbe scoppiata una faida sanguinosa tra Ebrei e Madianiti, e Jetrò non sarebbe stato certamente il benvenuto nell’accampamento israelita. Ma la Bibbia doveva depistare il lettore, impedirgli di capire che Mosè l’egiziano non era mai stato nel Sinai prima, e quindi non aveva potuto sposare la figlia del sacerdote Madianita, e lì lo incontrava per la prima volta.
Come disse Freud la difficoltà non consiste tanto nel commettere un delitto, bensì nel cancellarne le tracce. L’allusione della Bibbia, nel raccontare la sostituzione che avvenne tra Mosè e Jetrò, è molto velata:
Mosè andò incontro suo suocero, si prostrò davanti a lui e lo baciò; poi s’informarono l’uno della salute dell’altro, ed entrarono sotto la tenda. Mosè raccontò al suocero quanto il Signore aveva fatto al faraone e agli Egiziani per Israele, tutte le  difficoltà loro capitate durante il viaggio, dalle quali il Signore li aveva liberati...Jetrò suocero di Mosè, offrì un olocausto e sacrifici a Dio. Vennero Aronne e tutti gli anziani d’Israele e fecero un banchetto con il suocero di Mosè davanti a Dio (Es.17/7 - 12).
Come un gioco di prestigio, in cui si nasconde con un fazzoletto il momento in cui avviene il fatto magico, furono entrambi coperti dalla tenda, e ne emerge solo Jetrò, che da quel momento offre lui, al posto di Mosè, l’olocausto e i sacrifici al Signore. Mosè non è ricordato nel banchetto che fa Jetrò con Aronne  e tutti gli anziani d’Israele. Per usare un’espressione cruda, Mosè faceva, in questo banchetto, da piatto principale.
Il testo allude al pasto totemico in cui i figli, dopo aver ucciso il padre, ne incorporano la carne e si identificano con lui e così alleviano il senso di colpa per il misfatto.
In queste poche frasi la Bibbia ci racconta tutto: “Mosè raccontò al suocero  quanto il Signore aveva fatto al faraone e agli Egiziani per Israele, tutte le difficoltà loro capitate...”. Si direbbe proprio che stia per avvenire un passaggio di ruoli, in cui chi entra nel nuovo officio viene aggiornato per poter continuare da lì.
Tutti gli anziani d’Israele” parteciparono al pasto totemico, con il quale Mosè fu sostituito, come nei riti tribali devono partecipare tutti gli adulti maschi, nessuno può sottrarsi a partecipare all’atto cannibalistico , come parte del rito in cui tutti si identificano con il misfatto. Da questo senso di colpa e da questa autoidentificazione con il padre ucciso derivano la coesione tribale e la partecipazione nella sorte comune.
Secondo Freud questo accadde a Qaddesh (4):
Certamente questo accadde al momento dell’incontro di Qadesh. Ma avvicinando la data dell’esodo a quella della fondazione religiosa nell’oasi e facendo ad essa partecipare Mosè invece dell’altro personaggio (il sacerdote di Madian), non solo si appagarono le pretese della gente di Mosè (i seguaci di Ekhnaton, che erano l’élite egizia che aveva accompagnato il primo vero Mosè), ma si smentì anche con successo il fatto penoso della sua morte violenta. In realtà è affatto inverosimile che Mosè potesse prender parte alla fondazione svoltasi a Qadesh, pur ammettendo che la sua vita non fosse stata troncata.
Il motivo della sua uccisione, secondo Freud, fu che il popolo non poteva sopportare gli altissimi standard spirituali che questi voleva imporre al popolo:
Forse la dottrina di Mosè era ancora più intransigente di quella del suo maestro (Ekhnaton)...Mosè e Ekhnaton incontrarono il medesimo destino, il destino che attende i despoti illuminati. Il popolo ebraico di Mosè era tanto poco capace di sopportare una religione così altamente spiritualizzata, di trovare in ciò che essa offriva una risposta alle proprie necessità, quanto lo erano gli Egizi della diciottesima dinastia. In entrambi i casi accadde la stessa cosa, quanti si sentivano tenuti sotto tutela e sminuiti si sollevarono e buttarono il fardello della religione loro imposta. Ma mentre i docili Egizi attesero finché il destino li sbarazzò della sacra persona del faraone, i selvaggi Semiti presero il destino nelle loro mani e tolsero di mezzo il tiranno(5).
Quindi avvenne l’omicidio del grande condottiero. Ora bisogna stabilire se le cause addotte da Freud ci raccontano tutta la storia, o non ci sia piuttosto da continuare la ricerca di motivazioni più profonde.
Per continuare nella nostra indagine ci serviremo del libro scritto da un teologo tedesco, Johannes Lehmann, che nel suo “Mosè l’Egiziano”(6), dietro la proposta di Elias Auerbach, fa una scoperta interessante. Lehmann sostiene che il decalogo, com’è esposto nel ventesimo capitolo dell’Esodo, ha qualcosa che non convince: gli ultimi cinque comandamenti si ripetono. Così appaiono: 8) Non commettere adulterio. 9) Non rubare. 10) Non dir falsa testimonianza contro il tuo prossimo. 11) Non desiderare la casa del tuo prossimo. 12) Non desiderare la donna del tuo prossimo, né il suo servo, né la sua serva, né il suo bue o il suo asino, né cosa alcuna che sia del tuo prossimo.
Poiché per la mentalità primitiva, come anche si riflette in tutte le prescrizioni della Torà, non esiste il concetto astratto di desiderare, l’intenzione del testo non può essere quella di proibire un desiderio astratto, bensì di proibire il fatto. Quindi quando il comandamento parla di non desiderare la casa d’altri, questa proibizione rientra già nel nono comandamento “non rubare”. A ragione di più, non vi sarebbe ragione di separare l’interdizione del furto della casa d’altri dall’interdizione di desiderare le altre cose d’altri, come appaiono nell’ultimo comandamento, dove vengono nominati insieme “la donna del tuo prossimo, il suo servo, la sua serva, il bue e l’asino”.
Perché mai separare proprio la casa dagli altri possedimenti del prossimo?
Ovviamente il comandamento non intendeva proibire il furto della casa, ma intendeva interdire, ciononostante, qualcosa legato alla casa, il cui significato è, però, andato perduto.
Il suggerimento di Lehmann è che la proibizione fosse di desiderare, cioè di possedere una casa, punto. Il “del tuo prossimo” fu aggiunto dopo, quando il popolo d’Israele era diventato un popolo sedentario e non aveva senso proibire di possedere delle case.
Il senso dei questa interdizione va ricercato nel modus mentale e nei contenuti esistenziali della vita dei nomadi del deserto. I nomadi considerano una forma di corruzione morale possedere case e piantare viti, perché questo implica diventare residenti fissi e di conseguenza, secondo loro, perdere la libertà. Per questo ancora oggi gli Arabi, che hanno conservato il modus mentale del nomade, hanno la proibizione di bere vino, poiché questa abitudine implicherebbe piantare delle viti e possedere dei vigneti.
La Bibbia ci racconta che cinque secoli dopo l’insediamento dei figli d’Israele in Palestina, nel VI sec. A. C., c’era ancora un clan ebraico, quello di Jonadab ben Rahav, che costituiva il clan dei Rehabiti, che si rifiutavano di abitare in case e bere vino, ed era considerato il rappresentante dell’antica purezza ebraica:
 Non beviamo vino. Perché Jonadab, colui che è nato prima di noi, figlio di Rehab, ci ha dato questo comandamento: “Mai dovete bere vino...Né vi è consentito di costruire una casa , di seminare, di piantare o possedere una vigna. Invece dovete vivere sempre nelle tende, affinché lunga sia la vostra esistenza sul suolo che vi ospita come stranieri. E noi siamo rimasti fedeli a tutto ciò che l’antenato Jonadab, figlio di Rahab, ci ha comandato(Geremia 35/6 - 10).
Inoltre anche i Nabatei, stanziati, circa mille anni dopo Mosè, nella parte settentrionale della penisola Sinaitica avevano la proibizione di seminare, di piantare alberi, di bere vino e di costruire case.
Lehmann continua e suggerisce, quindi, che il fatto stesso della menzione della casa, in questo contesto, sia una prova dell’arcaicità del decalogo e della sua attribuzione al  Mosè originale.
L’implicazione di questa tesi ci porta, nostro malgrado, molto lontano. Se il decalogo mosaico originale intendeva proibire ai figli d’Israele di possedere case e vigne, tutta la costruzione dell’uscita dell’Egitto, con lo scopo di conquistare la Terra Promessa, non ha più ragione di essere.
Se Freud avesse osato seguire fino in fondo il suo stesso pensiero, sarebbe arrivato alla stessa conclusione. Fu lui ad avanzare la tesi che lo scopo del principe egiziano Mosè, nel condurre gli Ebrei fuori dell’Egitto, fosse quello di imporre loro la religione altamente spirituale e iconoclasta di Ekhnaton. Mosè, dunque, intendeva condurre gli Ebrei nel deserto, perché lì avrebbero avuto le condizioni migliori per praticare la religione di Aton. Se avesse voluto allontanarli dalle numerose statue ed immagini d’Egitto, perché mai portarli in Palestina, dove viveva un popolo abituato alle mollezze dei popoli sedentari e alla loro idolatria? Mosè avrebbe dovuto immaginare che, stanziati come residenti fissi,  sarebbero caduti anche in tutte le abitudini dei popoli sedentari, dal culto del Baal, dio delle piogge, ai culti di Astarte, dea della fertilità, e ai culti della prostituzione sacra.  Era ovvio che tutte le interdizioni e maledizioni descritte nella Torà, che, come ha rilevato Wellhausen, risalgono per lo più, almeno nella forma nota a noi, al periodo dell’esilio babilonese, non sarebbero servite. È inutile portare il gatto davanti al latte e poi proibirgli di leccarlo.
Inoltre, se Mosè era egiziano, come sostiene Freud, perché mai avrebbe dovuto portare il popolo in una terra che si riallacciava ai miti dei pastori Abramo, Isacco e Giacobbe? Che legame avrebbe mai potuto esserci tra Mosè, l’egiziano, e la tradizione ebraica di antiche peregrinazioni ai margini del seminato? Che nesso poteva esserci tra la predicazione monoteista e altamente spirituale di Ekhnaton e lo stupro armato del seminato, che ovviamente avrebbe dovuto essere violento e genocida? Non poteva esserci alcun nesso tra la predicazione mosaica e la tradizione di Simeone e Levi, coloro che, appena possibile, invadevano il seminato, per passare a fil di spada i suoi abitanti. La predicazione di commettere il genocidio di tutti gli abitanti della Terra Promessa non poteva certamente venire da Mosè, l’egiziano, descritto da Freud.
Quindi è vero che ci furono due Mosè, è vero che ci furono due epifanie di Dio: una del Dio spirituale e creatore del mondo, dagli alti standard morali, del primo Mosè, e un’altra di un demone vulcanico, assetato di sangue, violento e geloso, facile all’ira e alla vendetta, del secondo Mosè, il sacerdote di Madian. Quest’ultimo Dio è quello descritto da Reik, nella sua analisi, e questo secondo Mosè il dio-vitello- figlio del dio-toro padre, stregone di Jahve.
Fu Jahvè il demone vulcanico terrificante, che si manifestò sul monte Sinai, nel contesto dei riti d’iniziazione tribali e del pasto totemico, descritto da Reik, ma non fu certo lui ad emettere il Decalogo. Fu lui che prese la forma di una nube di giorno e di una colonna di fuoco per guidare i figli d’Israele allo stupro della Terra Promessa. Questo è il dio di cui avevano bisogno i figli d’Israele, e non, come ha giustamente rilevato Freud, di un dio ecumenico e moralista, che non poteva promettere ai suoi figli il sangue dei nemici. Questo dio, prima dio-toro, poi dio-ariete, che fu probabilmente la riattivazione di un totem più arcaico, quello del toro, che si ricollegava alla tradizione anteriore all’emigrazione in Egitto, si vendicava crudelmente di chiunque deviasse dai precisi riti tribali, che anche nelle tribù selvagge di oggi, vanno osservati alla lettera e nei più piccoli particolari, pena la morte .
Il dio del principe egizio Mosè, dio di Ekhnaton, come ha spiegato Freud, riapparirà nelle fasi più tarde del popolo ebraico, quando questi avrà bisogno un dio-padre misericordioso, ma per il momento aveva bisogno di qualcuno che mantenesse la disciplina nelle condizioni durissime del deserto.
Ora, con l’aiuto prima di Freud e poi di Lehmann, possiamo forse capire fino in fondo quello che avvenne nel deserto: Mosè, l’Egizio, si era messo a capo dei figli d’Israele per allontanarli dall’ambiente corrotto e iconodulo del Pantheon egiziano, che era stato reistituito dopo la morte di Ekhnaton. Egli sapeva che il nomade ha la tendenza naturale alla spiritualità e all’iconoclastia (7), e quindi sperava che, incoraggiando gli Ebrei a riallacciarsi alle tradizioni di quando erano stati semi-nomadi, si sarebbe creato l’habitat ideale per poter mettere in atto la sua nuova religione. Questo Mosè diede al suo popolo la codificazione morale della Torà e il decalogo, nel quale anche la proibizione di diventare un popolo sedentario e desiderare una casa.
Quello con cui non aveva fatto i conti era che il popolo, abituato alla comodità dell’Egitto, a contatto con la dura realtà del deserto, cominciò a ribellarsi: “Chi ci potrà dare carne da mangiare? Ci ricordiamo dei pesci che mangiavamo in Egitto gratuitamente, dei cocomeri, dei meloni dei porri, delle cipolle e dell’aglio”(Nm.11/6).
La seconda cosa di cui Mosè non si rendeva conto era che gli Ebrei, prima dell’emigrazione in Egitto, erano stati sì pastori semi-nomadi, ma non erano mai stati dei beduini.
A differenza del beduino, che tenta la razzia del seminato per rientrare nel deserto, il pastore semi-nomade pascola le sue greggi ai margini del seminato, con gli occhi verso i campi degli odiati agricoltori e, appena può, si insedia al loro posto e cambia stile di vita. Gli Israeliti non volevano qualcuno che codificasse loro la proibizione di invadere il seminato e di possedere delle case. A questo proposito si può notare che i Rechabiti, figli di Ieonadab, menzionati prima che, ancora nel VI secolo A.C. abitavano le tende e non bevevano vino, erano una setta che era rimasta fedele alla tradizione mosaica originale, e ai tempi in cui viene ricordata, nel contesto della monarchia giudaica, era in stridente contrasto con l’habitat mentale degli agricoltori ebrei.
Quello che successe fu che gli Ebrei, che ricordavano i pascoli della Palestina e gli antichi tentativi di insediarsi in essa, nei campi e nelle case dei loro fratelli “borghesi”, si trovarono a dover vivere da beduini, che anche nei tempi antichi avevano sempre disprezzato, guidati da qualcuno che parlava loro di metafisica e proibiva di possedere una casa.
Il motivo per il quale uccisero Mosè non fu, quindi, tanto per le condizioni difficili del deserto, in quanto nessun nuovo condottiero avrebbe potuto cambiare queste condizioni. Il nuovo Mosè, sacerdote di Madian, stregone di Jahve, che venne al posto di quello vecchio, non avrebbe certo potuto promettere di far piovere, o di far germogliare cocomeri, meloni, porri e aglio, e questo i figli d’Israele lo sapevano bene. Quello che gli Ebrei volevano era un dio concreto e combattivo, che facesse da loro dio personale, e non da concetto metafisico, che li guidasse al di là di questo terribile deserto, verso quella terra che bramavano dai tempi di Abramo, Isacco e Giacobbe, i prototipi ideali della loro nazione di pastori.
A questo proposito bisogna ricordare che i pastori che vagavano ai margini del seminato, se si presentava l’occasione, provavano anche a seminare, ai limiti semi-aridi del deserto del Neghev settentrionale, e se avevano fortuna e l’inverno era sufficientemente piovoso, riuscivano anche a raccogliere. Isacco, che vagava in questa striscia, più a sud del confine delle città canaanee, ma non completamente desertica, “...fece una semina in quel paese e raccolse quell’anno il centuplo. Il Signore, infatti, lo aveva benedetto...” (Gn.26/12).
I residenti fissi della Palestina non seminano in queste zone, poiché vengono considerate a rischio, per la saltuarietà delle precipitazioni. Anche oggi il ministero dell’agricoltura israeliano non riconosce gli indennizzi per la siccità a chi semina in questa fascia, e chi lo fa prende su di sé il rischio di perdere l’investimento. Isacco “comprò” un biglietto della lotteria e vinse”, nel linguaggio della Bibbia: “Il Signore, infatti, lo aveva benedetto”.
Vediamo, dunque, quanto fosse lontana l’intenzione degli Israeliti di uscire dall’Egitto per fare i beduini.
Il nuovo Mosè propose il suo dio, il dio dei pastori, Jahvè dalle mille magie, che non pretendeva di essere l’unico dio del mondo, ma che sarebbe stato l’unico dio per loro, e più forte degli  dei delle altre tribù.  Questi promise loro la vendetta sui Canaanei, le loro case e i loro campi. Con questo Dio, sì, che aveva senso concludere un patto. In cambio si fece promettere che, una volta arrivati alla Terra Promessa, non sarebbe stato destituito a favore del Baal, il dio degli agricoltori, e che non avrebbero preferito le Astarti e i riti della fertilità dei popoli sedentari al suo culto crudo ed esclusivo.
Per capire questo punto bisogna distinguere tra monoteismo e monolatria.
La religione di Aton, promulgata da Ekhnaton, fu la prima religione monoteistica dell’umanità (8), poiché sosteneva che vi fosse al mondo un unico Dio, e a questo concetto, secondo Freud, si riallaccia il monoteismo mosaico adottato dagli Ebrei durante l’esilio babilonese, dopo una latenza di otto secoli, da quando lo aveva appreso dal grande condottiero e rigettato. In contrasto, quando il Mosè, sacerdote di Madian, descrive il suo Dio non implica mai che questo sia l’unico Dio. La religione degli Ebrei, prima che il grande condottiero introducesse la sua, era una religione monolatrica, come quella  della maggior parte dei popoli semiti semi-nomadi. I Moaviti adoravano Chemosh, e per loro questo era l’unico dio. Gli Ammoniti adoravano Milcom, e anche questi era per loro l’unico, pur non contestando la legittimità di altri dei per altri popoli. Il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe non sostiene mai di essere l’unico Dio, ma sostiene di essere il più forte, e ci tiene ad essere l’unico Dio per loro. I popoli sedentari, invece, adottavano, generalmente, più di un dio contemporaneamente.
Il motivo risiede probabilmente nella diversa struttura mentale della società tribale semi - nomade, in confronto a quella sedentaria. La sociale tribale  si mantiene fedele all’idea di un unico dio - padre, che è anche la proiezione del padre della tribù. I popoli semi - nomadi hanno quindi la tendenza all’iconoclastia, la spiritualità e la monolatria, ma non specificamente al monoteismo, che come ha fatto rilevare Freud, può nascere solo da chi ha davanti agli occhi una struttura sociale e politica come un impero, con confini allargati a tutto il mondo conosciuto, o quasi. Gli Ebrei rifiutarono il monoteismo di Aton - Adonai per abbracciare la monolatria ddi Jahve, che si riallacciava alla propria monolatria di semi - nomadi, anteriore all’emigrazione in Egitto. Per questo Jahve si presenta a Mosè - Jetro sul Sinai, come Dio di Abramo di Isacco e di Giacobbe e questo è il Dio, che viene presentato agli Ebrei come mandante di Mosè e fautore dell’esodo.
Mosè, sacerdote di Madian, presenta Dio al faraone come il Dio degli Ebrei “’Ibrim”, degli ‘Apiru ( Es. 3/18 e 5/3), il Dio dei pastori, che è venuto a riprendersi la sua rivincita e il suo popolo, e non come Aton, e il Faraone avrebbe compreso certamente molto bene di chi si trattava, unico Dio e creatore del mondo, che in diritto di questo e in nome della giustizia aveva deciso di liberare gli schiavi.
Il testo non adopera qui la solita espressione “figli d’Israele”, ma ‘Ibrim (Ebrei), e questa espressione è usata solo quando si tratta di spiegare a un Egiziano o a un non ebreo di chi si tratta o è adoperata da un Egiziano per descrivere un Israelita (Gn.39/14-17 e 41/12) . Il testo non adopera mai questa parola in altre occasioni (9) . E lo stesso ritorna quando il testo parla per bocca di Mose’: “Vide un Egiziano che colpiva un Ebreo” (Es.2,11); “Il giorno dopo usci’ dinuovo e, vedendo due Ebrei che stavano rissando…” (Es.2,13). Forse questa e’ una delle prove di come Freud sia stato nel giusto quando ha avanzato l’ipotesi che Mose’ non era ebreo ma Egizio . Mose’, l’Egizio, vedeva i figli d’Israele come Ebrei.
Ancora fino al VI secolo Giona adoperera’ questa espressione per spiegare a non ebrei di chi si tratti, nel contesto della sua identita’, come diversa da quella dei Gentili (1/9).
Gli ‘Ibrim è il corrispondente ebraico degli ‘Apiru delle tavolette di El Amarna, e questa parola definiva la classe sociale dei pastori semi-nomadi, degli asinai e dei senza patria turbolenti che davano sempre del filo da torcere ai fedeli sudditi del faraone (10). Quindi non a caso davanti al faraone Mosè parla di “ebrei”, ‘Apiru, poiché come tali erano conosciuti dagli Egiziani, che usavano questo termine in modo spregiativo. Gli Israeliti non si auto-definivano certamente come tali, bensì esclusivamente come “figli d’Israele”.
Adesso diventano chiare molte incongruenze del racconto biblico.
Il testo fa spesso una  sovrapposizione tra il Mosè vecchio e quello nuovo, ma ormai a noi sarà facile scoprire quello che ci si presenta davanti.
“Mosè stava pascolando il gregge di Ietro, suo suocero, sacerdote di Madian, e condusse il bestiame oltre il deserto e arrivò al monte di Dio, l’Oreb...” (Es. 3/1).
Ovviamente questo è il Mosè nuovo, lui stesso sacerdote di Madian e pastore, che nulla sapeva di Egitto. Il racconto del luogo sacro corrisponde benissimo a uno dei luoghi di riunione e di culto tribali, dove i clan dei  nomadi del Sinai si riuniscono periodicamente, anche al giorno d’oggi. Questo era probabilmente il luogo dove si compivano i riti d’iniziazione, e da qui il roveto che arde e non si consuma, come uno degli atti di magia che si compiono durante questi riti.
“Mosè allora si velò il viso, perché aveva paura di guardare verso Dio” (3,6): in tutti questi riti si usano maschere per spaventare i novizi. Mosè, sacerdote di Madian, compare qui nella sintesi dell’adulto che spaventa, indossando la maschera, e dell’iniziato che ha paura. A questo luogo sacro saranno condotti gli Ebrei dallo stesso sacerdote di Madian, a compiere il loro rito d’iniziazione collettivo (11) e a giurare fedeltà a Jahve. Poi la frase:
Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto...sono sceso per liberarlo dalla mano dell’Egitto e per farlo uscire da questo paese verso un paese bello e spazioso, verso un paese dove scorre latte e miele, verso il luogo dove si trovano il Canaaneo, l’Hittita, l’Amorreo, il Perrizzita. L’Eveo il Gebuseo (Es. 3/3 - 9).
Ecco la promessa che Jahve promette ai figli d’Israele e che non sarebbe mai stata fatta da Mosè, l’egiziano, e il suo Dio. Poi cominciano gli atti di magia, come il bastone che diventa serpente e ritorna bastone, e la mano che diventa lebbrosa e poi guarisce (Ex .4/2 - 9). Poi l’attacco furioso di Jahve conntro Mosè, sulla strada dell’Egitto per ragioni non chiare, ma che viene scongiurato circoncidendo il figlio (Es. 4/ 24 - 6).
Anche questo, da come ci viene presentato, sembra far parte di una serie di atti di magia e di scongiuri, che trovano la loro spiegazione solo nel contesto dei riti d’iniziazione, che si usano nelle oasi e nei luoghi sacri delle tribù primitive. Come vedremo, in seguito, con l’ausilio degli avvenimenti descritti nel libro di Giosuè, che sono una ripetizione di quelli descritti nell’Esodo, tutta l’epifania di Jahve sull’Oreb (il Sinai), compreso l’attacco di Jahve contro Mosè, è la descrizione di un rito d’iniziazione tribale, che avveniva periodicamente tra i Madianiti, e che nulla aveva a che fare con l’Egitto. Questo Mosè qui non metterà mai piede in Egitto e diventerà il condottiero degli Ebrei, solo dopo che questi saranno già usciti dal paese della schiavitù.
Il passaggio del Mar Rosso, come vedremo in seguito, paragonandolo al passaggio del Giordano descritto nel libro di Giosuè (Gios.3/13-17), avvenne prima dell’epifania sinaitica, descritta nell’Esodo.
La parte forse più illuminante, è costituita dalle varie occasioni in cui Jahve si presenta o vene presentato da Mosè, nel contesto del racconto sull’uscita dall’Egitto.
In nessun posto si presenta come il Dio che ha creato il mondo, il cielo e la terra, ma sempre come il Dio della tribù, di Abramo, Isacco e Giacobbe, e le sue credenziali sono di fare giochi di prestigio, atti magici e di spaventare a morte chi lo incontra. Non pretende mai di essere il Dio di tutti, l’astro dell’universo, come Aton. Persino gli dei d’Egitto, come Amon - Ra e Ptah, erano più generali di lui.
“Il Dio degli Ebrei si è presentato a noi. Ci sia dunque concesso di partire per un viaggio di tre giorni nel deserto e celebrare un sacrificio al Signore, nostro Dio, perché non ci colpisca di peste o di spada” (Es.5/2-3).
L’unica argomentazione è qui che è apparso un dio terribile, un demone, che se non verrà appagato attraverso dei riti particolari, colpirà di peste e di spada.
Se il libro della Genesi comincia con l’epifania di Aton, dio che ha creato tutto il cosmo, nella transustanziazione monoteistica che, durante i secoli, diventerà la peculiarità della religione ebraica, il dio del deserto, che terrorizza gli Israeliti sulle falde del monte Sinai, è Iahve. Questo dio non si manifesta dichiarando di aver creato il mondo, il cielo e la terra, Adamo ed Eva e tutte le creature, bensì si afferma dichiarando: “Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ha fatto uscire dal paese d’Egitto, dalla condizione di schiavitù: non avrai altri dei di fronte a me!”(Es.20/1). E per inculcare forza alle sue parole lo dice tuonando e fumando, tra fulmini e giochi di prestigio, in cui la natura si presta a questa sceneggiatura terrificante da film dell’orrore.
Quale antitesi al logos cosmico di Aton-Adonai, come si manifesta nella cosmogonia biblica, in cui è la parola divina a creare il tutto, e “lo spirito di Dio aleggiava sulle acque”!
Ma il dio dell’epifania sinaitica non può presentare simili credenziali, poiché la sua sfera d’interessi non esula dalla dimostrazione di forza di fronte alle tribù ebraiche, paralizzate dal terrore.
Quando Mosè e Aronne compaiono davanti al Faraone e cercano di impressionarlo mostrandogli i trucchi del bastone, che si muta in serpente, e dell’acqua, che si muta in sangue, che il dio sinaitico aveva loro insegnato, fu chiaro che erano questi trucchi abbastanza banali e ben conosciuti dagli stregoni dell’epoca, se anche i maghi del Faraone riuscirono a fare lo stesso. Quindi, non solo Jahave non aveva mai preteso di essere l’unico Dio, e aveva solo preteso di essere un dio  più forte degli altri, ma anche queste credenziali non erano ancora state fornite. Solo con le dieci piaghe d’Egitto e soprattutto con l’ultima,  la strage dei primogeniti, gli Egiziani si convinsero che con un simile demone non conveniva attaccar briga, e gli Ebrei che finalmente era venuto qualcuno che li avrebbe vendicati di tutti  loro nemici, e con l’aiuto del quale sarebbero riusciti finalmente a spodestare i Canaanei e a stabilirsi in Palestina.
Ovviamente se il primo Mosè, il principe egiziano seguace di Aton, descritto da Freud, fu colui che guidò gli Ebrei fuori dell’Egitto, le cose non potevano essere avvenute come furono descritte dalla Bibbia, poiché questi non si sarebbe mai abbassato a giochi di magia con gli stregoni egiziani, e soprattutto non avrebbe descritto Dio come lo descrive Mosè, che appare davanti al Faraone
L’esodo avvenne e fu Mosè, l’egiziano, a condurre gli Ebrei fuori dalla terra di schiavitù, ma i giochi di magia e le piaghe, furono una sovrapposizione introdotta dal secondo Mosè, sacerdote di Madian, che tradì così il desiderio di attribuire al suo dio, non solo la guida dei figli d’Israele nel deserto, fino alle soglie della Palestina, ma anche l’esodo, che certamente non poteva essere stato una opera sua.
Gli Ebrei uscirono dall’Egitto, dunque, sotto la guida del grande Mosè, e senza l’aiuto dei giochi di prestigio di Mosè, il Madianita; con l’aiuto probabilmente, però, del caos che si era creato nel paese con la caduta della XVIII dinastia verso il 1350 A.C.
Una volta nel deserto si chiarì l’equivoco: Mosè voleva tenerli nel deserto e impedire loro di possedere gli agognati campi dei Canaanei e le loro case.
Si erano già avvicinati alla Palestina per la via meridionale, come possiamo dedurre dalla sua negazione esplicita: “...Dio non lo condusse per la strada del paese dei Filistei, benché fosse più corta, perché Dio pensava: “Altrimenti il popolo, vedendo imminente la guerra, potrebbe pentirsi e tornare in Egitto” (Es.13/18).
Prima di tutto i Filistei, ai tempi dell’esodo, non erano arrivati ancora nel Medio Oriente. Arriveranno solo alla fine del XII sec. e dalla costa invaderanno l’Egitto.
Se vogliamo arguire che questo è solo un uso anacronistico dell’espressione: “paese dei Filistei” per indicare la Palestina meridionale, ma che l’intenzione del testo è ugualmente che gli Israeliti si sarebbero spaventati incontrando resistenza, bisogna rilevare che l’esercito egiziano se lo erano appena lasciato alle spalle e, in secondo luogo, non c’era a quel tempo, nella Palestina meridionale nessuna città fortificata fino a Gezer, ai piedi delle colline della Giudea. Una ben più forte resistenza incontrarono nel percorso che seguirono realmente, con l’ostacolo del Mar Rosso davanti a sé. Quindi quello era il percorso da seguire e quando si trovarono e vagare per il Sinai, la frustrazione li fece insorgere, uccidere il condottiero e sostituirlo con un altro.
Freud ha spiegato l’effetto che il misfatto ebbe sulla psiche e sulla religione ebraica e le conseguenze che si riverberarono in millenni di storia della nazione, ma c’è un aspetto che gli è sfuggito, e che la comprensione del quale può aiutare a capire fatti che avvennero tre millenni dopo.
L’omicidio di Mosè, come Freud stesso ha spiegato, fu un parricidio, un atto di aggressione verso la figura del padre, ma qual è la causa della pulsione aggressiva verso il padre ?
Non è forse poiché questi inibisce le pulsioni erotiche verso il corpo della madre?
La Terra Promessa, le colline bagnate dalla rugiada, i campi fertili, non sono forse la proiezione esterna dell’idea psichica del corpo della madre?
Il nuovo Mosè, il sacerdote di Madian, promise ai figli d’Israele, a nome del suo nuovo Dio, di soddisfare queste brame incestuose e di dare loro quello che bramavano, fin da  quando vagavano, come pastori semi-nomadi, come ‘Apiru senza patria, ai margini del seminato.
Chiamare il secondo Mosè con il nome del primo non fu una mistificazione, ma una parte del rito totemico, nel quale viene mimata l’uccisione del padre primigenio, e il sacerdote che compie l’omicidio rituale, come ha descritto Reik, si identifica con il padre ucciso, ne prende la pelle e le sembianze, e diventa lui stesso il padre deposto.
Giustamente, quindi, anche il secondo Mosè fu Mosè, e come tale prese su di sé il parricidio e l’espiazione. Commetterà il parricidio, ma non potrà commettere l’incesto, e morirà sulle soglie della terra che aveva promesso alle sue tribù adottive.
Sali su questo monte degli Abarim, sul monte Nebo, che è nel paese di Moab, di fronte a Gerico, e mira il paese di Canaan, che io do’ in possesso agli Israeliti. Tu morirai sul monte sul quale stai per salire e sarai riunito ai tuoi antenati, come Aronne tuo fratello è morto sul monte Or ed è stato riunito ai suoi antenati, perché siete stati infedeli verso di me in mezzo agli Israeliti alle acque di Meriba di Kades nel deserto di Zin, perché non avete manifestato la mia santità. Tu vedrai il paese davanti a te, ma là, nel paese che io sto per dare agli Israeliti, tu non entrerai ( Deut.32/ 48 - 52)
Cosa aveva fatto Mosè, a Meriba, di così grave da meritarsi un castigo così crudele?
“ Mosè alzò la mano, percosse la roccia con il bastone due volte e ne uscì acqua in abbondanza...”(Nm. 20/11): il sacrilegio fu, dunque un atto di aggressione contro la roccia, che come ha spiegato esaurientemente Reik, rappresenta il dio stesso (12).
Abbiamo così avuto in realtà tre Mosè: il primo fece uscire gli Ebrei dall’Egitto, il secondo li condusse ai riti iniziatici del Sinai e li guidò per gli ardui percorsi del deserto: questo era il dio toro-vitello-ariete, che prese su di sé il compito di caporione della banda dell’orda dei fratelli. Questi dovette espiare il peccato della profanazione del corpo del primo Mosè, in un’unica consustazione con quello del Padre, in quanto Mose’ l’Egizio era, per gli Israeliti, diventato una figura intercambiabile con quella di Dio stesso.: questa è anche la sintesi che fa la Bibbia quando ci descrive il peccato ufficiale, a causa del quale Mosè non poté entrare nella Terra Promessa: “ Sali su questo monte degli Abarim e contempla il paese che io do’ agli Israeliti Quando l’avrai visto, anche tu sarai riunito ai tuoi antenati, come fu riunito Aronne tuo fratello, perché trasgrediste l’ordine che vi avevo dato nel deserto di Zin, quando la comunità si ribellò e voi non dimostraste la mia santità agli occhi loro, a proposito di quelle acque” (Nm.27/12 - 14).
Il peccato fu di battere con il bastone sulla roccia, anche se era stato il Signore stesso a ordinarlo: “Prendi in mano il bastone con cui hai percosso il Nilo e va’, ecco io starò davanti a te sulla roccia sull’Oreb; tu batterai sulla roccia: ne uscirà acqua e il popolo berrà”(Es.17/6).
Come ha spiegato Reik, agli occhi dei primitivi la pietra è il dio stesso, e quindi Mosè - Jetrò, battendo sulla roccia aveva commesso un atto di aggressione contro il corpo di dio - padre, e per questo motivo fu punito con la morte, sotto il velo della descrizione biblica che morì, prima di entrare nella Terra Promessa.
Il Signore permette a Mosè di “guardare” la Terrra Promessa (Nm.27/12; Deut. 32/52), ma non di toccarla. Una pietosa concessione alla pulsione voyeristica (13) , come estrema soglia prima che si innesti il tabù, l’inibizione all’incesto.
Chiunque salga sul monte Nebo, nella Transgiordania, e ammiri la valle del Giordano, capisce la crudeltà dell’interdizione. Il panorama della Palestina occidentale, che si dischiude sotto di noi come dall’alto del volo di un uccello, sembra quello del Paradiso Terrestre, oasi in mezzo al deserto.
La leggenda ebraica (14) narra che a quella vista Mosè non volesse più morire.
Disegnò un cerchio a terra intorno a sé e disse : “Signore del mondo, non mi muoverò da qui fino a che non annullerai il castigo”. Dicendo questo si era vestito di sacco e si era riempito di polvere della terra. A quella vista tremarono il cielo e la terra e tutto l’ordine del mondo e dissero: “Forse è giunto il momento che il Signore cambi il modo in cui tratta il mondo!”. Ma uscì una voce che disse: “Non è ancora giunto il momento che il Signore cambi le sue strade”.
Il Signore ordinò agli angeli di serrare tutte le porte del cielo, poiché la preghiera di Mosè era come una spada che tutto taglia e penetra.
Mosè si buttò a terra piangendo e calpestando i piedi come un bambino e rinfacciò al Signore tutti i suoi meriti: “Signore, quanto ho dovuto penare fino a che sono riuscito a convincere i figli d’Israele a ricevere la tua Legge, e mi son detto: come ho visto Israele nella sua disgrazia così lo vedrò nella sua gloria, e adesso che è venuto questo momento tu mi dici: “non passerai il Giordano!”
Chiamò a sua difesa il cielo e la terra, gli astri celesti e i mari, affinché intercedessero a suo favore presso il Signore. Chiamò a testimoni le montagne e tutte le forze della natura.
Alla fine era disposto persino che solo le sue ossa entrassero nella Terra Promessa, come quelle di Giuseppe.
Aveva visto e ora non era pronto a rinunciare.
Pur di poter entrare nella Terra Promessa si dichiarò disposto a umiliarsi e a sottomettersi a Giosuè suo allievo.
Lui, il Maestro, che aveva parlato con Dio, era pronto a diventare il più umile degli allievi, purché il suo corpo, vivo o morto, potesse entrare in contatto con l’oggetto delle sue brame.
La leggenda ebraica ricalca tutto il pathos della tragedia greca: la missione del Dio - Figlio e il suo destino irrevocabile: Prometeo, Achille, Mosè e Gesù, gli Eroi - Figli sono destinati a soffrire, senza poter perpetrare l’incesto (15).
Ma nulla gli servì e il Signore fu irremovibile.
La leggenda continua e descrive come il Signore ordinò a tutti gli angeli del cielo, uno dopo l’altro, di scendere a prendere l’anima di Mosè, ma nessuno ci riuscì, fino che il Signore stesso fu costretto a scendere a prendere la sua anima con un bacio.
Ancora oggi, in ebraico, quando si vuole descrivere una bella morte, priva di dolore è sofferenza, si dice: “È morto la morte di un bacio”.

IL  BASTONE DI MOSÈ

Il bastone di Mosè è onnipresente quando si tratta di atti prodigiosi:
1)“Il Signore disse a Mosè e ad Aronne: “Quando il faraone vi chiederà: Fate un prodigio a vostro sostegno! Tu dirai ad Aronne: Prendi il bastone e gettalo davanti al faraone e diventerà un serpente”(Es. 7/8 - 9).
2)“Il Signore disse a Mosè: “Il cuore del faraone è irremovibile: si è rifiutato di lasciar partire il popolo. Va’ dal faraone al mattino quando uscirà verso le acque. Tu starai davanti a lui sulla riva del Nilo, tenendo in mano il bastone che si è cambiato in serpente. Gli riferirai: Il Signore, il Dio degli Ebrei, mi ha inviato a dirti: Lascia partire il mio popolo, perché possa servirmi nel deserto: ma tu finora non hai obbedito. Dice il Signore: Da questo fatto saprai che io sono il Signore; ecco, con il bastone che ho in mano io batto un colpo sulle acque che sono nel Nilo: esse si muteranno in sangue. I pesci che sono nel Nilo moriranno e il Nilo ne diventerà fetido, così che gli Egiziani non potranno più bere le acque del Nilo!”. Il Signore disse a Mosè: “Comanda ad Aronne: Prendi il tuo bastone e stendi la mano sulle acque degli Egiziani, sui loro fiumi, canali, stagni, e su tutte le loro raccolte d’acqua; diventino sangue in tutto il paese d’Egitto, perfino nei recipienti di legno e di pietra!” (Es.7/14 - 19).
3) “Il Signore disse a Mosè: “Perché gridi verso di me? Ordina agli Israeliti di riprendere il cammino. Tu intanto alza il bastone, stendi la mano sul mare e dividilo, perché gli Israeliti entrino nel mare all’asciutto” (Es. 14/15 - 16).
4) “Il Signore disse a Mosè: “...Prendi in mano il bastone con cui hai percosso il Nilo, e va’! Ecco, io starò davanti a te sulla roccia, sull’Oreb; tu batterai sulla roccia: ne uscirà acqua e il popolo berrà” (Es.17/ 5-7).
Questo episodio, che evidentemente turbava particolarmente il redattore, è raccontato nuovamente nei Numeri con una variante:
“Il Signore disse a Mosè: “Prendi il bastone, e tu e tuo fratello Aronne convocate la comunità; alla loro presenza parlate a quella roccia, ed essa farà uscire l’acqua; tu farai sgorgare per loro l’acqua dalla roccia e darai da bere alla comunità e al suo bestiame” (Nm.20/7). Qui, dunque, il Signore ordina a Mosè di prendere in mano il bastone, ma di parlare alla roccia.
Perché dunque prendere il bastone se doveva solo parlare alla roccia e non percuoterla?
Il testo doveva spiegare come mai il Signore si fosse adirato tanto se era stato lui stesso ad ordinare l’azione:

Mosè alzò la mano, percosse la roccia con il bastone due volte...Ma il Signore disse a Mosè e ad Aronne: “Perché non avete avuto fiducia in me per dar gloria al mio santo nome agli occhi degli Israeliti, voi non introdurrete questa comunità nel paese che io le do (Nm.20/ 9 - 13)
A questo scopo viene introdotta la razionalizzazione di un Mosè che avrebbe dovuto parlare alla roccia invece di percuoterla, ma questa acrobazia tradisce la forzatura artificiale, visto che, nella versione dell’Esodo, il Signore aveva ordinato specificamente di battere la roccia, e non vi era alcuna allusione ad una persuasione verbale.
Le altre due versioni (Nm.27/ 12-14 e Deut. 32/ 48-52), confermano l’associazione tra il fatto di Meriba e la punizione inflitta ad Aronne e Mosè.
Mosè, dunque, colpì la roccia con il bastone e per questo fu punito, e non poté entrare nella Terra Promessa: questa era la percezione e il messaggio del racconto biblico, ma poiché era stato rimosso il senso vero dell’atto di aggressione verso la roccia, si rese necessaria una razionalizzazione, che spiegasse il legame tra l’atto aggressivo e le sue conseguenze.
Questa razionalizzazione è: “Poiché non avete avuto fiducia in me per dar gloria al mio santo nome agli occhi degli Israeliti...” (Nm.20/12), “Voi non dimostraste la mia santità agli occhi loro, a proposito di quelle acque...” (Nm. 27/14), e “Perché siete stati infedeli verso di me in mezzo agli Israeliti alle acque di Meriba di Kades nel deserto di Zin, perché non avete manifestato la mia santità” (Deut.32/ 51).
Come ogni razionalizzazione, però, contiene anche un’allusione al motivo vero del castigo divino. Il legame è l’offesa arrecata al Signore e questa ci fu.
Ma non un’offesa provocata da una presunta disobbedienza, bensì da un atto di aggressione vero e proprio, che diretto verso la figura di Dio-Padre, diventa il sacrilegio par excellence (16) .
Il bastone è lo strumento con il quale questo sacrilegio è stato perpetrato.
Abbiamo elencato sopra quattro occasioni, in cui Mosè adoperò il suo bastone, per eseguire degli atti miracolosi, comandati dal Signore. In tre casi, in associazione con l’acqua, e solo nel primo caso, quello del bastone-serpente, sembra che questa connotazione manchi.
Ma è davvero così?
Come ha dimostrato Robertson Smith, i serpenti e i draghi sono spesso associati ai fiumi e le fonti d’acqua (17): l’Oronte sgorgava da un grande drago, che spariva nella terra alla sua fonte; per gli Arabi serpenti e dragoni erano gli spiriti delle fonti sacre; fiumi e fonti nascono da serpenti marini e danno la nascita a dee, come nel caso di Atargatis e Afrodite .
Anche in questo caso, quindi, esiste un’associazione diretta tra il bastone, che si tramuta in serpente, e l’acqua. Il testo biblico stesso rinforza questa deduzione, menzionando nello stesso versetto, e persino nella stessa frase, bastone, serpente e acqua: “Tu starai davanti a lui sulla riva del Nilo, tenendo in mano il bastone che si è cambiato in serpente”.
Il bastone di Mosè viene menzionato, dunque, sempre in relazione all’acqua e a qualche miracolo o atto magico: batte l’acqua, separa le acque e le fa sgorgare dalla roccia.
Come ci ha insegnato Freud il bastone è un simbolo fallico maschile facilmente riconoscibile(18) . Per quello che riguarda l’acqua dice: “La nascita è quasi sempre rappresentata mediante una relazione con l’acqua: si sogna qualcuno che precipita nell’acqua oppure ne emerge, salva una persona dall’acqua o viene salvato da una persona, ossia ha con lei un rapporto materno” (19).
L’acqua funge, pars pro toto, come simbolo della madre e, quindi, della donna stessa.
Anche il mito della cosmogonia biblica allude a questa associazione acqua=madre. Infatti, mentre nella mitologia greca il mondo viene creato dall’amplesso tra Urano e Gea, il corrispondente ebraico trova la sua espressione nel versetto: “...e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque” (Gn.1/2).
Il mito biblico, dopo essere stato sottoposto alla censura del Redattore, ha rimosso la figura della dea-terra, parallela a Gea del mito greco, ma le tracce di questa rimozione rimangono nel suddetto versetto, e la dea-madre-terra riemerge nella sua rappresentazione simbolica, questa volta sotto forma di “acque”.
Il bastone di Mosè batte un colpo sulle acque e queste diventano sangue: come la percezione infantile attribuisce al padre qualche segreta cognizione magica, attraverso la quale gli è possibile prendere possesso del corpo della madre, così il Signore compie l’atto miracoloso per mezzo del bastone di Mosè, simbolo fallico di questo dio-figlio, emissario e caporione della banda dei fratelli.
Il mito biblico attribuisce questa conoscenza magica a Dio-Padre, ma fa compiere l’atto concreto al rappresentante dei figli, per mezzo del suo simbolo fallico: il colpo del bastone farà sgorgare il sangue della deflorazione.
Identificandosi con Mosè e il suo bastone, la tribù dei fratelli compie il coito simbolico.
Davanti al Mar Rosso il bastone di Mosè non percuote l’acqua, ma la piega al suo volere, soddisfazione del desiderio infantile di onnipotenza verso l’oggetto della sua libidine.
A Meriba, il bastone di Mosè lo mette nei guai.
Qui viene messa in risalto la conflittualità legata all’appagamento dei desideri incestuosi: con un unico atto Mosè fa sgorgare l’acqua dalla roccia, ma contemporaneamente aggredisce Dio e segna, così, la sua sorte.
Così si spiega l’incongruenza del racconto biblico: Il Signore ordina a Mosè di battere la roccia, poiché al Padre appartiene la formula magica dell’atto di deflorazione, ma l’atto erotico-aggressivo condensa in un’unica azione sia lo sfogo libidinoso verso il corpo materno (l’acqua), sia l’atto sacrilego del parricidio, ed è quest’ultimo aspetto dell’atto magico che suscita l’ira del Signore.
Una condensazione simile di un atto aggressivo verso il dio-pietra e di un atto di profanazione dalla connotazione erotica, diretto questa volta verso la stessa figura del dio - pietra, e che quindi si può definire omosessuale, è riportata nei versetti: “Se tu mi fai un altare di pietra, non lo costruirai con pietra tagliata, perché alzando la tua lama su di essa tu la renderesti profana. Non salirai sul mio altare per mezzo di gradini, perché là non si scopra la tua nudità” (Es. 20/25 - 6)
L’interdizione biblica parla chiaro: non aggredirai la pietra, che è il dio stesso, e non commetterai alcun atto erotico verso di essa.
 

GIOSUÈ

Di tutti i libri dell’Exateuco(20) quello di Giosuè è senza dubbio il meno affidabile, come fonte di informazioni storiche. Chi vuol cercare di capire come si svolsero realmente i fatti deve cercare nel libro dei Giudici, che ha conservato istantanee originali della lenta e faticosa penetrazione del popolo ebraico in terra d’Israele.
Il libro di Giosuè, più che una fonte storica, rappresenta il canto di guerra delle tribù ebraiche ed è la storia dell’incesto perpetrato: così verranno raccontate alle generazioni le gesta di Jahvè e di Giosuè suo servo.
Le sue prime disposizioni sono di mandar degli esploratori a spiare la Terra Promessa, esattamente come il testo aveva attribuito a Mosè, nel suo tentativo di attribuire veridicità alla mistificazione che fu il primo grande Mosè, a voler introdurre le tribù d’Israele alla conquista della Terra Promessa: “In seguito Giosuè, figlio di Nun, di nascosto inviò da Sittim due spie, ingiungendo: “Andate e osservate il territorio e Gerico”(Gios.2/1), come aveva fatto il suo maestro: “Manda uomini a esplorare il paese di Canaan che sto per dare agli Israeliti” (Nm.13/1).
A differenza di Mosè, che aveva mandato dodici esploratori, uno per tribù, Giosuè ne manda solo due. Dei dodici esploratori mandati da Mosè solo due erano tornati con un’opinione positiva sul paese, gli altri dieci si erano spaventati per le difficoltà e avevano demoralizzato il popolo. Quindi questa volta vengono mandati solo due esploratori,  che infatti tornarono con un messaggio positivo: “Dio a messo nelle nostre mani tutto il paese e tutti gli abitanti del paese sono già disfatti dinanzi a noi” (Gios.2/24). Dopo una singola incursione a Gerico, le spie non potevano certo fare un rapporto così completo a Giosuè. Quindi possiamo arrivare alla conclusione che tutto il racconto dell’incursione a Gerico dei due esploratori, e il loro brevissimo e conciso rapporto, non è altro che la ripetizione di quello raccontato nei Numeri, con lo scopo di riparare il peccato dei primi esploratori. Un “undoing” di una mancanza anteriore: gli esploratori di Giosuè correggono il malfatto degli esploratori di Mosè: il popolo non è più demoralizzato e incredulo delle promesse di Jahve, bensì è fiducioso e quindi si guadagna il diritto a entrare nel paese. La seconda impresa di Giosuè è quella di aprire le acque del Giordano, come Mosè aveva aperto le acque del Mar Rosso. Il testo si sforza molto di far apparire questo come un fatto miracoloso:

Appena i portatori dell’arca furono arrivati al Giordano e i piedi dei sacerdoti che portavano l’arca si immersero al limite delle acque -  il Giordano infatti durante tutti i giorni della mietitura è gonfio fin sopra tutte le sponde -  si fermarono le acque che fluivano dall’alto e stettero come un solo argine a grande distanza(Gios 3/15 - 6).
Ma chi conosce il Giordano sa che non è poi un grande fiume e questa non è che una pallida ripetizione del miracolo di Mosè.
Non a caso il testo ci tiene a specificare “durante tutti i giorni della mietitura è gonfio fin sopra tutte le sponde”. Il Redattore temeva che sarebbe stato deriso, descrivendo il passaggio del Giordano come un miracolo.
La circoncisione collettiva dei figli d’Israele, appena passato il Giordano, non è che la ripetizione del precedente atto di iniziazione che Mosè aveva fatto, ai figli d’Israele, sulle pendici del Sinai, dopo il passaggio del Mar Rosso.
Poi ritorna l’epifania divina, persino con le stesse parole identiche, che erano state adoperate quando Mosè si trovava di fronte al roveto ardente: “Togliti i sandali dai tuoi piedi, perché il luogo sul quale tu stai è santo”(Gios.5/15, cfr.:Es.3/5). Solo l’ordine degli avvenimenti è leggermente cambiato, poiché Dio era apparso a Mosè sul Oreb prima del passaggio del Mar Rosso, mentre qui appare a Giosuè dopo il passaggio del Giordano. L’ordine degli avvenimenti com’è descritto in Giosuè non è che una ripetizione della saga Mosaica, solo in scala minore. L’esposizione, come appare in Giosuè, ci da una conferma di quello che era stato il giusto ordine degli avvenimenti nella saga dell’Esodo, e che era stato cambiato, nella sintesi biblica, per mascherare l’esistenza dei due Mosè: uno che aveva fatto uscire gli Ebrei dall’Egitto e un altro che era stato testimone dell’epifania divina sull’Oreb (Sinai), e dare un filo logico al racconto. Mosè aveva incontrato Jahve sull’Oreb dopo l’esodo dall’Egitto e il passaggio del Mar Rosso. Infatti non era stato il Mosè, principe egiziano, ad incontrare Jahvè di fronte al roveto ardente e a levarsi i sandali sul luogo sacro, bensì Mosè, sacerdote di Madian. L’epifania del roveto ardente, il velo con cui Mosè si ricopre il volto, l’attacco di Jahve contro Mosè per ucciderlo, scongiurato solo dalla circoncisione, sono tutti gli stadi di una cerimonia d’iniziazione, esattamente come queste avvengono anche oggi tra le tribù primitive, e come si svolgevano nella tribù sinaitica di Mosè, sacerdote di Madian.
Quindi vediamo come la figura di Giosuè sia una costruzione, il cui scopo era di continuare l’opera di Mosè-Jetrò, dopo che il mito lo aveva fatto morire sulle soglie della Terra Promessa.
 

DIVERSI  SONO  GLI  UOMINI  MA  SIMILI  I  LORO  BISOGNI

Nello stesso periodo storico in cui gli Ebrei vivevano il loro epos e davano espressione alla saga di liberazione e conquista, che trovano catarsi nel racconto biblico, l’Occidente viveva il proprio epos, estremo ed ultimo canto delle saghe delle tribù achee.
La guerra di Troia può facilmente venir comparata alla conquista della Terra Promessa. Il mito greco  è molto meno ermetico e condensato, ma i contenuti esistenziali sono gli stessi.
Gli Achei si coalizzano per conquistare la città fortificata e prendere la regina di questa città . Qui avviene un rafforzamento dell’intenzione incestuosa poiché sia Elena di Troia che la città fortificata rappresentano la propria ripetizione.
Achille è il vero eroe: il dio figlio, che prende su di sé il compito di uccidere il Padre nella figura del più forte dei Troiani: il domator di cavalli Ettore. Questa era la figura di padre, che inibiva l’orda greca dal prendere possesso della città. Una volta ucciso Ettore, come dopo l’uccisione di Mosè, la strada per compiere l’incesto era libera. Achille, come Mosè, questa condensazione di dio-padre e dio-figlio, dovette morire prima che l’incesto dell’orda dei fratelli possa essere consumato. Così Achille morì prima di vedere la caduta di Troia, e come diretta conseguenza del suo atto sacrilego, con le parole di Teti al figlio: “...uccidendo Ettore, morirai tu stesso, poiché subito dopo Ettore è pronto il tuo destino” (Iliade XVIII 96,98,104).
Il compito di perpetrare l’incesto, che il mito biblico affida a Giosuè, viene commesso dal secondo Achille: l’astuto Ulisse penetra la città con un marchingegno. Il simbolo fallico del cavallo penetra la città, dopo che parte delle mura intorno al portone vengono demolite per lasciarlo passare, allusione chiarissima alla deflorazione di una madre percepita come ancor vergine, e gli eroi greci erompono da esso come in un estremo coito liberatorio.
Ulisse non viene punito con la morte, poiché questa è la sorte che spetta al parricida.
Il peccato di Ulisse è meno grave. Credere di poter prendere il posto del padre e giacere con la madre, distillato dal parricidio, che era già stato commesso da un altro, è un peccato di hybris, e come tale la sua pena sarà una lunga peregrinazione.
Il mito greco razionalizza il castigo di Ulisse come la conseguenza di un insulto, un atto di hybris, verso Poseidone. Ma Poseidone, come appare nei miti orfici, che sono quelli più antichi, non è altro che uno degli aspetti di Zeus, dio-Padre, in un’unica consustanzialità con Ades, lo Zeus Katachtonios (21) dei miti orfici .
I Greci sdoppiano così non solo la figura del figlio, che commette parricidio e incesto, in quella di due eroi diversi, bensì sdoppiano anche la figura del Padre, verso il quale vengono commessi i due sacrilegi, cosa che gli Ebrei, costretti entro la loro monolatria iconoclastica, ovviamente non potevano fare.
Ugualmente, nel mito ebraico come nel mito greco, avviene uno sdoppiamento tra la figura del dio - figlio che commette il parricidio e il dio - figlio che consuma l’incesto (22) .
Mosè padre viene ucciso, Mosè-Jetrò prende il suo posto e come dio-figlio percuote la roccia, profana il corpo del dio e viene condannato a morire prima di poter commettere l’incesto. Ugualmente Achille profana il corpo di Ettore, e muore prima della caduta di Troia.
In entrambi i casi la morte di questi dei-figli viene lasciata in un’atmosfera rarefatta e nebulosa. La morte di Achille non viene raccontata nel testo che descrive l’epos acheo, ma viene scontata e attribuita a una freccia scagliata, per caso, dal più imbelle dei Troiani, come se si potesse morire per una ferita al calcagno.
Questa incongruenza, del più forte degli eroi greci, anzi l’Eroe par excellence, che muore di una morte così casuale, è creata per dimostrare che non esisteva nessuno più valoroso di lui, poiché nessuno può essere più valoroso del caporione della banda dei fratelli, scelto dalla congregazione per rappresentarla e compiere l’atto sacrilego e liberatorio. La morte di Mosè, anch’essa avviene in un’atmosfera misteriosa e rarefatta. Il dio-figlio Achille doveva morire, ma nessun eroe avrebbe potuto vantarsi dell’impresa, e la sua morte viene in realtà attribuita al caso, come compimento del destino divino. Mosè-Jetrò doveva morire, ma le cause e le circostanze della sua morte avrebbero dovuto rimanere misteriose.
Il terzo Mosè, colui che compie l’incesto, è Giosuè. Anche qui avviene un rafforzamento nella ripetizione sia della caduta della città di Gerico, sia della caduta susseguente di tutta la Terra Promessa, similitudini sia della caduta della città di Troia che della cattura -  liberazione di Elena.
In entrambi i casi la caduta della città non è il prodotto di un atto di forza e di valore bensì di un atto di magia: un gioco di prestigio che ben ricalca la concezione nebulosa e infantile dell’atto di deflorazione.
La fantasia infantile percepisce la deflorazione e l’atto sessuale come il frutto di qualche conoscenza magica: solo il padre onnipotente conosce la formula di questo straordinario gioco di prestigio, che rende possibile il possesso del corpo agognato della madre.
Questo è il motivo per cui il marchingegno, escogitato da Ulisse per “deflorare” la città di Troia, diventa un peccato di hybris e un insulto verso Poseidone - dio-Padre. La leggenda greca ci racconta che il destino di Ulisse è la conseguenza della sua hybris verso Poseidone, e il dio maledice l’Eroe (23), ma era stato rimosso il significato vero di questa hybris, e sostituito da un insulto nebuloso e privo di un senso logico.
Ogni razionalizzazione conserva il nucleo del vero senso degli avvenimenti, ma presenta una faccia di cui sono stati cambiati i connotati esteriori, per mimetizzare questo senso. Sotto il nuovo mimetizzato aspetto il racconto perde la sua logica interiore e diventa incomprensibile. Una volta decodificato, invece, questo senso ridiventa riconoscibile, come il filo tenuto in mano da Teseo, che decodifica i meandri del labirinto per ricondurre alla luce.
Sia nel caso di Gerico che di Troia, malgrado l’enorme sforzo dell’orda dei fratelli per espugnare la città, senza la conoscenza di qualche trucco o di qualche magia, niente avrebbe funzionato. Nel caso di Troia l’incesto viene perpetrato attraverso un trucco escogitato dal più astuto dei fratelli. Nel caso di Gerico, è Dio stesso che suggerisce a Giosuè la formula magica.
Come Troia era saldamente sbarrata davanti agli Achei e il cavallo dovette rompere parte delle mura per penetrare la città, così “Gerico era saldamente sbarrata dinanzi agli Israeliti; nessuno usciva e nessuno entrava” (Giosuè 6/1).
Il mito ebraico mette in risalto il fatto che nessuno usciva e nessuno entrava: l’atto della deflorazione sarà un privilegio degli Israeliti; la connotazione magica della penetrazione viene accentuata dalla sua esclusività.
Anche qui il mito, come nella fantasia infantile, è ambivalente e confuso. La saga ci aveva raccontato che Elena aveva seguito Paride di sua spontanea volontà, ma qui il mito implica una liberazione. Elena, invece di venire punita per il tradimento, diventa regina dei vincitori. Tutto questo diventa facilmente spiegabile se si prescinde dalla prima parte del racconto, in cui si dice che era stata la regina di Sparta, e che era stata rapita da Paride. Levando dalla saga questa razionalizzazione, che “spiega” il motivo della guerra di Troia, e implicando che questo primo ratto in realtà non era mai avvenuto, il susseguirsi degli avvenimenti prende una forma logica. Elena viene rapita o conquistata, a seconda della fantasia, per la prima volta con la presa di Troia, dove l’orda dei fratelli, coalizzati, dopo aver commesso il parricidio nella figura di Ettore, compiono l’incesto nella cattura della città e della sua regina.
Tuttavia anche la prima parte del mito, che razionalizza il motivo della guerra di Troia, come ogni razionalizzazione non è priva di un suo significato.
Spiegando che gli Eroi greci escono alla guerra per riprendersi quello che era stato tolto, il mito traduce la fantasia incestuosa in una ricostruzione dei fatti: il corpo della madre apparteneva al padre dell’orda primitiva ma nella ricostruzione della realtà, dettata dal desiderio,  avrebbe dovuto essere dei figli.
Così gli eroi Achei vanno in realtà a riprendersi quello che era loro.
In maniera simile il mito biblico spiega che la Terra Promessa appartiene di diritto all’orda ebraica, come Elena appartiene di diritto all’orda achea.
Nel mito greco poiché era stata rapita, nel mito ebraico per promessa divina.
La Bibbia ci racconta di un patto, un giuramento, tra Iahve e i suoi figli, in diritto del quale questi possono reclamare il possesso della Terra Promessa: il Padre stesso la cede, la regala, ai suoi figli.
In entrambi i casi, lì per un ratto avvenuto a priori, qui per la promessa divina, si stabilisce de iure il possesso incestuoso.
In questa diversa elaborazione si rispecchia la diversa struttura psichica.
Gli Eroi greci erano la trasfigurazione della realtà umana in un mondo dove il distacco tra il divino e l’umano non era ancora diventato netto: la fantasia greca era popolata da dei, semi-dei, eroi e uomini, e i ruoli erano spesso intercambiabili. La tensione permeava i rapporti tra le varie entità. La divergenza d’interessi tra uomini e Olimpo era espressa apertamente in tutte  le rappresentazioni della mitologia.
Il diritto degli Achei non è, quindi, in grazia di un volere divino, che per questi non avrebbe rappresentato per sé un diritto inviolabile.
La mitologia greca è permeata dalla sensazione che il volere divino, più forte di quello degli uomini, si basi sul sopruso: una promessa divina, di uno tra i tanti dei che popolavano il loro mondo fantasioso, sarebbe stata una ben misera garanzia di legalità.
Quindi il loro è un incontestabile diritto umano: la donna era stata loro rapita e a buon diritto vanno a riprendersela. Il patto è un patto di sangue tra l’orda dei figli e questo trasforma il diritto in un dovere a cui nessuno di loro può sottrarsi (24).
Per gli Ebrei, organizzati sotto la cappa indiscutibile della Legge del Padre, il volere divino rappresentava il bene, e tutto ciò che lo contraddiceva era il male.
Quindi la supposta promessa divina rappresentava il documento legale migliore (25).
Rimosse  confronto e aggressività verso la figura del Padre, il patto è tra Dio e i suoi figli, e in virtù di questo viene compiuto l’atto incestuoso.

  REGINE  E  PROSTITUTE

Il mito ebraico è più ermetico di quello greco, e non nomina nessuna donna in maniera esplicita, come meta dell’invasione, ma esiste una figura molto strana nel mito biblico, una figura femminile che condensa in sé due aspetti, quello della prostituta e quello della donna misericordiosa che salva i due esploratori mandati da Giosuè: Raab, la prostituta.
Gli esegeti biblici posteriori devono aver avuto molto filo da torcere, nel cercare di spiegare che cosa ci facesse questa figura nel contesto biblico:

Essi andarono ed entrarono in casa di una donna, una prostituta chiamata Raab, dove passarono la notte. Ma fu riferito al re di Gerico: “Ecco, alcuni degli Israeliti sono venuti qui questa notte per esplorare il paese”. Allora il re di Gerico mandò a dire a Raab: “Fa’ uscire gli uomini che sono venuti da te e sono entrati a casa tua, perché sono venuti per esplorare tutto il paese”. Allora la donna prese i due uomini e, dopo averli nascosti, rispose: “Si, sono venuti da me quegli uomini, ma non sapevo di dove fossero. Ma quando stava per chiudersi la porta della città al cader della notte, essi uscirono e non so dove siano andati. Inseguiteli subito e li raggiungerete (Gios, 2/1 - 4).
Susseguentemente si racconta come li aveva in realtà nascosti tra gli steli di lino accatastati e poi “li fece scendere con una corda dalla finestra, perché la sua casa era addossata al muro di cinta”(Gios.2/16).
Che strana storia! Che strano re, che si mette a discutere con una prostituta, invece di mandare i suoi sgherri a fare irruzione nella di lei casa. Che bisogno avevano i due esploratori israeliti di entrare a Gerico, dal momento che questa era già stata condannata a cadere per mezzo degli  esorcismi magici di Giosuè?
La psicoanalisi ha provato come la psiche infantile crei questa doppia immagine di madre: di regina irraggiungibile e di prostituta, di estrema purezza, come nel mito delle dee vergini, e di estrema contaminazione, come nei riti delle prostitute sacre (26) .
Come nella saga della guerra di Troia, anche qui, dunque, c’era una donna dentro la città fortificata. Lì c’era una regina, qui una prostituta, ma che differenza c’è, dopotutto, nella fantasia infantile e in quella arcaica dell’umanità?
Come nel mito cristiano la figura di Maddalena si sovrappone a quella della Vergine, e queste si completano a vicenda , così la donna agognata, dentro la città fortificata, appare qui nella sua trasfigurazione come prostituta. La madre misericordiosa della fantasia infantile, che salva i due eroi dalla morte, appare qui nell’altro aspetto della fantasia infantile, nella veste di prostituta (27). Il mito ebraico, che rimuove tenacemente qualsiasi fantasia di una dea madre, per lasciare il campo esclusivamente a un Dio-Padre onnipotente, pur di non lasciar trasparire l’idea dell’agognata figura femminile, rilascia solamente l’apparizione della di lei trasfigurazione in una prostituta. Anche in questo caso, però, la rimozione non riesce e rimangono delle tracce: Raab, la prostituta di Gerico, salva i due eroi. La connotazione della madre misericordiosa e salvatrice trapela nella figura della prostituta. Nel mito greco gli eroi entrano nella città con un trucco astuto, qui escono con un trucco ugualmente sagace. La Bibbia ci racconterà come le mura di Gerico cadranno, sotto gli accorgimenti magici degli Israeliti e, se capovolgiamo la cronologia del racconto biblico, qui ci racconta come ne escono, dopo aver consumato il coito.
Come abbiamo visto i due eroi-figli, perpetratori del parricidio, Mosè e Achille vengono puniti con la morte, in diretta associazione con il loro peccato: Mosè per aver percosso la roccia, Achille per aver ucciso Ettore.
Ulisse viene punito con un lungo esilio, per il peccato di hybris - incesto (28) .
Ci manca ancora qualcosa in relazione alla saga biblica: Giosuè sembra non subire alcuna pena per l’incesto perpetrato.
Per quanto si cerchi attentamente, pare proprio che Giosuè sia stato l’unico eroe ebreo a non aver mai suscitato l’ira divina.
Si può spiegare facilmente questo strano tratto-mancante sostenendo che nella struttura mentale primitiva ebraica solo l’atto di aggressione verso Dio-Padre sia considerato sacrilegio, mentre l’atto eterosessuale non abbia in sé nessuna connotazione peccaminosa.
Reik, nello spiegare il peccato originale, descritto nel racconto della Genesi, sostiene infatti che questo non era affatto un peccato sessuale, e che l’associazione sesso-peccato sia sorta solo molto tardi nell’evoluzione psichica delle tribù ebraiche, forse solo dopo il ritorno dall’esilio babilonese (sec VI A.C.) (29) . Secondo questa tesi il peccato originale, descritto nella Genesi fu un atto di cannibalismo diretto verso Dio-Padre, nella figura dell’albero dai frutti proibiti, in quanto, per gli antichi, l’albero era il dio stesso.
In questo caso, dobbiamo presupporre che sia esistita una differenza di concezione tra i Greci della fine del secondo millennio A.C. e i loro contemporanei Israeliti.
Questa possibilità non è da escludere, rinforzata dal fatto che in tutta la mitologia semitica non esistono dee vergini, e che nell’antichità la verginità, come valore, sia stato un concetto esclusivamente occidentale.
Eva, l’unica dea madre della mitologia ebraica, fu madre di tutti i viventi, attraverso il parto e la prolificazione, e tutte le figure femminili della saga biblica tendono alla copulazione e il parto. Le sacerdotesse dei santuari semiti erano tutte prostitute sacre e l’equazione occidentale verginità = sacralità fu tradotta in Oriente con copulazione = sacralità.
La seconda possibilità è che l’ira divina, suscitata dall’incesto, sia stata rimossa con successo dal testo sacro.
Ma, come ci ha insegnato Freud, ogni rimozione lascia una traccia.
La traccia è molto flebile, eppure c’è.
Nel ventesimo capitolo del libro di Giosuè, questi viene comandato di istituire delle città rifugio, dove colui che uccide erroneamente possa andare in esilio, per salvare la propria vita dalla vendetta di sangue dei parenti della vittima.
L’esilio, in tutta la tradizione ebraica, è legato a queste città rifugio: esilio involontario per un peccato involontario.
Il nome di Giosuè appare quindi, anche se solo in associazione indiretta, con l’idea dell’esilio.
In questo caso le tracce di un peccato, punito con l’esilio e un peregrinare lontano da casa, si ricollega al fato di Ulisse, l’eroe greco parallelo a Giosuè.
 
 

TREMILA QUATTROCENTO  ANNI  DOPO

Un popolo ha vitalità finché è costretto a ripetere il proprio destino.
Se Freud fosse vissuto fino ai giorni nostri non avrebbe lui stesso potuto credere ai propri occhi e alle proprie orecchie.
Freud aveva capito, o forse, se la teoria dell’ereditarietà delle esperienze umane ha valore, sapeva , che il popolo ebraico deve la sua particolarità all’aver ripetuto, nella figura di padre di Mosè, il delitto primigenio comune a tutta l’umanità (30).
Se l’inconscio del genere umano porta dentro di sé questo delitto primordiale dalla preistoria più antica, agli albori della separazione tra l’orda scimmiesca e i primi umani, l’aver ripetuto il fatto in epoca storica fece del popolo ebraico il popolo deicida par excellence, il capro espiatorio più adatto, poiché invece di relegare il fatto ai confini impenetrabili del proprio sé, lo aveva ripetuto. Rimuovere un misfatto, dopo che è stato ripetuto in epoca “adulta”, è ben altra cosa e molto più complesso, che rimuovere una pulsione che ha operato in epoca preistorica e può venire facilmente rinnegata.
Se gli altri popoli riuscirono ad elaborare il misfatto e a “catartizzarlo” attraverso i riti delle religioni, per il popolo ebraico, a questo punto, rimaneva solo la strada della repressione più intransigente.
Ma, come ben sappiamo, più la rimozione è feroce ed assoluta e l’investimento energetico arruolato a questo scopo, più è destino che, allentata la guardia, o sotto l’influsso di stimoli particolarmente potenti, gli argini crollino, la pulsione repressa emerga, e il misfatto venga ripetuto.
Niente di più facile per l’Occidente, diventato cristiano, accusare gli Ebrei di deicidio. Dal momento che questi erano recidivi, in altre parole “avevano la fedina penale sporca”, accollarono loro anche l’assassinio del loro Dio come, quando viene commesso un qualsiasi delitto, si va a cercare subito quelli appena usciti dal carcere.
Gli Ebrei rimossero, sotto la cappa del senso di colpa e della coesione del gruppo, l’assassinio di Mosè, e per tremila quattrocento anni fu dato per scontato che gli Ebrei, mai e poi mai, avrebbero potuto più fare qualcosa del genere. In garanzia furono dati l’alta spiritualità e la sofisticazione a cui era arrivato l’ebraismo durante i secoli.
Generazioni di rabbini, per millenni, avevano eretto argini su argini contro il parricidio e l’incesto. Contro il parricidio il popolo ebraico si trasformò in intellettuale e imbelle. Contro l’incesto l’elevazione della Terra Promessa ad astrazione e la sua desensualizzazione.
Ormai eravamo tutti al sicuro.
Ma come duemila anni di vita sotto l’epidermide da imbelli erano stati scrollati facilmente di dosso, come se non fossero mai esistiti, e il popolo ebraico si era subito ritrasformato in popolo guerriero, così lo stimolo del contatto fisico con la Terra Promessa, aveva riversato  il processo di astrazione che questa aveva passato, e il possesso sensuale aveva ripreso il posto dell’aspirazione ideale.
Come Mosè era stato ucciso poiché voleva impedire agli Ebrei il possesso della Terra Promessa, dei campi e delle case, e si erigeva, con la sua presenza fisica, a barriera tra i figli d’Israele e i loro impulsi incestuosi, così il popolo d’Israele il 30 Novembre 1995 ripeté il misfatto contro colui che minacciava di restituire parti della Terra Promessa al nemico. L’omicidio trasfiguro’ un uomo politico, dalle discusse capacità in figura di Padre.
Dopo l’assassinio di Rabin ci furono delle voci sommesse che bisbigliarono “al parricidio”, come per esempio lo scrittore S.Izhar (31), che alluse alla cosa in una trasmissione televisiva, ma nessuno osò più portare avanti il discorso.
Dopo tremila quattrocento anni dal primo parricidio in epoca storica, il popolo ebraico ricadde vittima del proprio destino e ripeté lo stesso misfatto, non solo, ma anche per gli stessi motivi.
Da allora nessuno nomina più Rabin. Il delitto, sotto una campagna organizzata dal governo e dai mezzi d’informazione, viene fatto passare come un fatto isolato, commesso da pochi fanatici, e già è cominciato quel processo di negazione e latenza, come dopo l’omicidio di Mosè.

Link to The Assassination of Rabin and its Consequences for the Israeli - Palestinian Conflict

Links:

Gli Ebrei e il loro Tempio
Sacralità, intoccabilità e tabù
Una storia di sassi. Dalla teoria cloacale al parricidio primordiale
Il tabù della soglia
Trauma della nascita, esilio e monoteismo


NOTE

(1) Theodor Reik, Ritual, Ferrar, Strauss & Co. New.York.1946.: Trad. It.: Il Rito religioso, Boringhieri, Torino 1949, pp. 306 - 59.

(2) Sigmund Freud, L’uomo Mosè e la Religione Monoteistica”, tre saggi (1934 - 38), in Opere di Sigmund Freud, Boringhieri, Torino1989, Vol.11, secondo saggio: “ Se Mosè era Egizio”, paragrafi 5 - 6 - 7, pp.363 - 378.

(3)  La cosa più straordinaria è che Freud, tra tutte le argomentazioni a favore della tesi che Mosè fosse egiziano, non ricorda proprio la più decisiva: Manetho stesso lo dice in maniera esplicita (Josephus, Contra Appionem, I, 31 - 2). Josephus, che riporta i passi di Manetho, non aveva nessun motivo d’inventare una cosa del genere, dal momento stesso che entra in discussione con Manetho per confutare questa tesi: “Non mi rimane che confutare quello che dice Manetho di Mosè. Ora gli Egiziani riconoscono che questi sia stato un uomo meraviglioso e divino; però loro lo reclamano a loro stessi, in maniera incredibile e abusiva, e sostengono che sia stato di Heliopolis, uno dei sacerdoti di questo posto, e fosse stato cacciato da lì poiché anche lui era lebbroso” ( Contro Appio, I, 31).Cioè gli Egiziani stessi conservavano la tradizione che Mosè fosse uno dei loro, e anche per loro non aveva nessun senso inventarsi una cosa del genere, dal momento che Mosè era “passato al nemico” e avrebbero avuto tutto l’interesse a denigralo e a estraniarsi da lui, invece che definirlo “un sacerdote di Heliopolis”. Tra la tesi ebraica di Josephus, che Mosè fosse stato ebreo e quella egizia, che Mosè fosse stato egiziano, ovviamente dobbiamo scegliere la seconda, poiché questa non poteva essere interessata.
L’unica spiegazione è che Freud non conoscesse i suddetti passi di Josephus.
Straordinariamente nemmeno Reik conosceva questa prova inconfutabile, poiché si adopera per dimostrare che Mosè era Ebreo e non Egiziano, contrariamente alla tesi del suo maestro (Theodor Reik, Mystery on the Mountain, New York 1959, pp. 11 - 18).
Freud cita le “Antichità giudaiche” di Josephus (Freud, ibidem, p.356 nota 2) e lo stesso fa Reik (Reik, ibidem, p14), ma nessuno dei due cita “Contro Appio” in cui Josephus riporta Manetho.

(4)  Con le parole di Freud: “Tutti sono consapevoli che si sta eseguendo un’azione proibita al singolo individuo e che solo la partecipazione di tutti i membri del clan puo’ giustificare; a nessuno e’ concesso esimersi dall’uccisione e dal pasto” (“Totem e Tabu’”, par.5.)

(5) L’uomo Mosè e la Religione Monoteistica, op.cit., p. 374.

(6) J. Lehmann, Moses -  der Mann aus Agypten, Hamburg 1983. Trad. It.: "Mosè l’Egiziano", Garzanti, Milano, 1983, pp.183 - 7

(7) Su come le tribù selvagge e i primitivi abbiano la tendenza a forme di monoteismo primitivo cfr.: W. Schmidt, Der Ursprung der Gottesidee, 1912 - 1936 (Una serie di volumi); The Origin and Growth of Religion, N.Y.1931; High Gods in North America, Oxford 1933; Pettazzoni, Primitive Revelation, Oxford 1939; T. Reik, Mystery on the Mountain, New York, 1959, p.53.

(8) T. Reik dissente da Freud, in quanto secondo lui sono proprio le tribù selvagge e i popoli primitivi che hanno una religione monoteistica. Il politeismo sarebbe uno sviluppo secondario, cfr. Supra, nota 7.
Non è difficile conciliare le due opinioni, in quanto le prime forme di monoteismo primitive, dalle quali si sviluppa il politeismo, sono ben lontane dalla forma altamente sviluppata del monoteismo di Aton e dopo del popolo ebraico. Per le tribù selvagge il monoteismo è solo un concetto amorfo, una percezione, più che una vera e propria religione.

(9) Giuseppe viene chiamato “ebreo” sia dal coppiere del faraone, che dalla moglie di Potifar. In entrambi i casi la connotazione è spregiativa
  Tranne nel Deuteronomio, nel contesto della legge  che enfattizzava l’uguaglianza sociale.“Se un tuo fratello ebreo o una ebrea si vende a te, ti servirà per sei anni, ma il settimo lo manderai via da te libero. Quando lo lascerai andare via libero, non lo rimanderai a mani vuote gregge, dalla tua aia e dal tuo torchio...”(Deut.15,12-4).

(10) W.F.Albright, The Amarna Letters from Palestine, in Cambridge Ancient History, Vol.II, Cambridge University Press, Cambridge 1966, pp.8 - 17.

(11)  Per i fatti che avvennero sul Sinai, nel racconto della promulgazione della legge, e per la loro interpretazione come rito di iniziazione collettivo, vedi: T.Reik, Mystery on the Mountain, NewYork 1959.

(12) T.Reik, Il Rito Religioso, op. cit., pp. 346-7

(13) Della pulsione erotica di guardare Freud dice: “...gli occhi non percepiscono soltanto le modificazioni del mondo esterno importanti per la conservazione della vita, ma anche le qualità - vale a dire le attrattive -  degli oggetti per cui questi vengono scelti come oggetti di amore” (Freud, ibidem, vol. 6, “ Disturbi Visivi”, pp. 292 - 3)

(14)  Sefer Haggadà, Tel Aviv 1948, (in ebraico), pp.76 - 7. La traduzione libera dei seguenti passi è di Iakov Levi.

(15)   Anche Gesù vivrà circondato da donne, ma morirà vergine. Il mito cristiano ricalca lo stesso motivo del parricidio e la morte, senza che venga concessa la possibilità dell’incesto.
È interessante notare la differenza tra questi Eroi “arcaici”, che commettono il parricidio ma non l’incesto , e quelli “recenti”, che fanno parte del mondo apollineo, come Edipo, che commette sia il parricidio che l’incesto.
Anche se cronologicamente il mito cristiano è più recente di quello apollineo greco (Edipo), in realtà appartiene alla sfera mentale dei riti arcaici, poiché il mito cristiano è una regressione evoluzionale in rapporto a quello. La morte e la Resurrezione del Cristo si ricollega, attraverso una regressione evoluzionale, ai miti orfici arcaici della Grecia antica, come la morte e resurrezione di Dioniso, e quindi ricalcano un modus mentale, che era già stato superato ai tempi della tragedia Sofoclea. Torneremo  più avanti su questo punto fondamentale.

(16) Reik, ibidem.

(17) W. Robertson Smith, The Religion of the Semites, Shoken, New York. 1972, pp.171 - 9

(18) Freud, "Simbolismo nel sogno", in Opere, Bollati Boringhieri, Torino 1989,Vol. 8, p. 326.
Freud parla specificamente del bastone di Mosè  nel commento al trattato di Abraham (Abraham, “Sogno e Mito: uno Studio di Psicologia dei Popoli” in Opere, B. Boringhieri, Torino 1975 e 1997, p.509. nota 1) Freud dice: “...A proposito del bastone di Mosè davanti al faraone sarebbe da rilevare anche il particolare assai indicativo che la metamorfosi del duro legno nel flessibile serpente non è nient’altro che la raffigurazione scoperta (invertita) dell’erezione, in un certo senso il fenomeno più sorprendente nel quale si sia imbattuto”. Abraham, nello stesso trattato (p. 561): “ Il processo dell’erezione ha evidentemente sempre dato impulso in misura straordinaria all’attività fantastica; la trasformazione del bastone (Fallo) nel serpente significa il ritorno del fallo allo stato di afflosciamento”
Reik (Pagan Rites in Judaism, Farrar & Straus, New York 1964, pp. 84 - 5) descrive come le donne delle tribù primitive vedono un legame tra le prime mestruazioni e i serpenti e sostiene che, essendo la forma del serpente simile a quella  di un pene eretto, la deflorazione prodotta da questi produca l’emorragia delle mestruazioni.
Quindi si crea qui una grande confusione: Freud e Abraham vedono nel serpente il simbolo del pene maschile afflosciato, mentre Reik vede in questo il simbolo dell’erezione del pene maschile.
La soluzione è semplice: il serpente non può essere il simbolo del pene maschile, come il bastone, proprio perché non rappresenta qualcosa di duro e di eretto. La questione si risolve da sé se vediamo nel serpente il simbolo del pene femminile, la clitoride. In questa chiave il simbolismo del bastone di Mosè che si tramuta in serpente diventa chiaro, poiché come il bastone percuote le acque, che sono il simbolo della donna, così diventa serpente, che è anche il simbolo dell’erotismo femminile.
Freud, che amava tanto Roma, ha certamente visto la cappella Sistina e la raffigurazione che fa Michelangelo del serpente attorcigliato intorno all’albero dai frutti proibiti. Questo serpente è rappresentato con un corpo di donna!
È difficile comprendere questa grande resistenza dei padri della Psicoanalisi nel constatare l’ovvio.
Interpretare il simbolo del serpente come quello della clitoride avrebbe risparmiato tutte queste acrobazie.
Anche tutti gli esercizi erotici delle interpreti di scene pornografiche in cui si vedono donne che manipolano serpenti, non sono altro che la raffigurazione della masturbazione femminile.
Come ci ha insegnato la Psicoanalisi, le maggiori resistenze vengono attivate proprio per non riconoscere il significato esplicito della rappresentazione. Freud, Abraham e Reik, questi giganti della penetrazione psicoanalitica, sono inciampati nel proprio narcisismo maschile e non sono riusciti a riconoscere quello che avevano davanti agli occhi.

(19) Freud, op. cit., p.325

(20)  Seguiamo qui la definizione di Julius Wellhausen (Prolegomena zur Geschichte Israels, Berlino 1899, pp. 1 - 13), che invece di separate il Pentateuco dal resto della Bibbia, unisce ai primi cinque libri anche quello di Giosuè e ne fa un unico blocco con il nome di Exateuco. Secondo W. il libro di Giosuè fa parte del contesto mentale dei primi cinque libri biblici, in quanto a loro pari non rappresenta un libro storico, come invece i libri susseguenti.

(21)  K.Kerenyi, Gli Dei della Grecia, Il Saggiatore, Milano 1962, pp.207 - 8

(22) Questo sdoppiamento tra la figura dell’Eroe che compie il parricidio da quella di quello che perpetra l’incesto ricorre come un filo nella cultura occidentale. Per esempio nel Giulio Cesare di Shakespeare, Bruto, il caporione della banda dei fratelli dell’orda primitiva, uccide il Padre, nella figura di Cesare, e invita i compagni – fratelli a immergere le loro mani nel sangue del cadavere di Cesare, nutrendosi così, nel pasto totemico, dell’ “essenza” del padre ucciso. Bruto, “il più nobile dei romani”, morirà soltanto per una decisione presa da se stesso, lasciando sgomenti i suoi stessi rivali Antonio e Ottaviano. Sarà  Antonio a commettere l’incesto con Cleopatra, in una tragedia successiva: Antony and Cleopatra. In quest’opera Antonio, per essersi messo con la regina di una terra esotica e avere ripudiato la legittima sposa romana, Ottavia, viene punito prima con il bando da Roma e poi, dovendo affrontare le armate di Cesare, sceglie inspiegabilmente l’attacco di mare invece di quello di terra, dove era superiore. E’ lui stesso a dare la spiegazione: “Ecco..La terra mi ordina di non calpestarla più / ha vergogna di sopportarmi / … ho perduto per sempre la strada” (III, xi, 1 – 4). Anche Antonio, come Ulisse, è condannato all’esilio e a essere privato della terra.
L’unità letteraria di queste due opere, considerate un unicuum  dalla critica letteraria di tutti i tempi, non può spiegarsi solo con la consequenzialità storica delle due vicende, come se queste tragedie fossero delle semplici cronache storiografiche, ma va ricercata nel loro significato di dramma edipico “in due momenti” caratteristico di un substrato psicologico molto arcaico, che emerge nella letteratura omerica e torna ancora in Shakespeare. Questo autore infatti nelle sue opere riflette il modus mentale dell’Inghilterra medioevale, che si esprime nelle fiabe nordiche vichinghe, sassoni, normanni, testimonianza di una struttura tribale mai completamente rimossa.

(23) È molto illuminante confrontare la sorte di Ulisse, che viene maledetto da Poseidone per l’insulto di hybris - incesto, a quella di Ruben, che viene maledetto dal padre per averlo insultato violando il suo talamo e giacendo con la sua concubina: “...Bollente come l’acqua, tu non avrai preminenza, perché hai invaso il talamo di tuo padre e hai violato il mio giaciglio su cui eri salito” (Gn.49/4).

(24) Achille aveva cercato di sottrarsi alla guerra di Troia nascondendosi tra le donne e Ulisse si era finto pazzo.

(25) Rashi, il più importante commentatore biblico, che visse in Francia nel XI secolo della nostra era, commentando il primo capitolo della Genesi, spiega che il motivo per cui la Torà apre con la creazione del mondo e non con il primo precetto è per poter giustificare “giuridicamente” la conquista della terra di Canaan (la Palestina), e la distruzione dei popoli che l’abitavano.
La giustificazione è appunto che il Signore ha creato tutto il mondo e quindi è Lui il padrone.  Lui può dare il paese a chi vuole.

(26)   K. Abraham, “ Due Contributi alla ricerca sui simboli”, in Opere, B. Boringhieri, Torino 1975 e 1997, pp. 468 - 471

(27)  In molti dipinti si vedono ai piedi della Croce, sia la Vergine Maria che la Maddalena, come se avessero pari importanza. I Vangeli stessi ci raccontano come Maddalena, e non Maria Vergine, sia la figura dominante dopo la Resurrezione. Qui la figura della Vergine sparisce completamente e viene sostituita da quella della prostituta: “Passato il Sabato, all’alba del primo giorno della settimana, Maria di Magdala e l’altra Maria ( di Giacomo) andarono a visitare il sepolcro...” (Matteo 28/1), “Risuscitato al mattino nel primo giorno dopo il Sabato, apparve prima a Maria di Magdala...” (Marco 16/9), “...Erano Maria di Magdala, Giovanna e Maria di Giacomo...” (Luca 24/10), “Nel giorno dopo il Sabato, Maria di Magdala si recò al sepolcro di buon mattino, quand’era ancora buio e vide che la pietra era stata ribaltata dal sepolcro...Maria (di Magdala) invece stava all’esterno vicino al sepolcro e piangeva...detto questo si voltò indietro e vide Gesù che stava lì in piedi...” (Giovanni 20/1 - 18)

(28)  La saga biblica punisce Giuseppe con un doloroso esilio, per un peccato di hybris: “...Ho fatto ancora un sogno, sentite: il sole, la luna e undici stelle si prostravano davanti a me”. Lo narrò dunque al padre e ai fratelli e il padre lo rimproverò e gli disse: “Che sogno è questo che hai fatto! Dovremo forse venire io e tua madre e i tuoi fratelli a prostrarci fino a terra davanti a te?”. (Gn. 37/ 9 - 10)
Secondo la tradizione rabbinica, l’esilio in Egitto e la prigione  serviranno a Giuseppe da lezione per la sua superbia.
Sia Ulisse che Giuseppe verranno alla fine perdonati e, dopo l’espiazione, potranno riunirsi ai loro cari.
Gli antichi erano, così, piuttosto disposti a perdonare la superbia e l’incesto: Ruben, Giuseppe e Ulisse non verranno ulteriormente puniti e non vi è traccia alcuna, nel testo, di una punizione per Giosuè. Il parricidio è invece un sacrilegio la cui unica espiazione è la morte.

(29) T. Reik, Myth and Guilt, Braziller, New York 1957, pp.161 - 7

(30) Per l’esperienza arcaica comune che viene tramandata attraverso l’ereditarietà, vedi Freud, “Totem e Tabù”, in op.cit., Vol.7, pp.160; “Analisi terminabile e interminabile”, cit. Vol.11, p.523; «L’Uomo Mosè», terzo saggio, in op. cit., Vol. 11, pp. 419-20

(31) S. Izhar (Rechovot 1916) appartiene alla prima generazione di scrittori ebrei nati in terra d'Israele. Rimandiamo alla voce a lui dedicata nella Enciclopedia Judaica (ed.2000)



Appendix:

Riporto sotto un brano dalle Antichità giudaiche di Giuseppe Flavio dove lo scrittore ebreo - romano ci dà una versione rimasta fuori dalle scritture sacre, ma che certamente non poteva essersi inventato dal nulla, che corrisponde a quella da noi articolata.
Accanto alla versione ufficiale, esisteva evidentemente anche quella di un Mosè che voleva impedire agli ebrei di conquistare la "Terra Promessa", e si ergeva a barriera tra il popolo e le sue brame di conquista.

1. NOW this life of the Hebrews in the wilderness was so disagreeable and troublesome to them, and they were so uneasy at it, that although God had forbidden them to meddle with the Canaanites, yet could they not be persuaded to be obedient to the words of Moses, and to be quiet; but supposing they should be able to beat their enemies, without his approbation, they accused him, and suspected that he made it his business to keep in a distressed condition, that they might always stand in need of his assistance. Accordingly they resolved to fight with the Canaanites, and said that God gave them his assistance, not out of regard to Moses's intercessions, but because he took care of their entire nation, on account of their forefathers, whose affairs he took under his own conduct; as also, that it was on account of their own virtue that he had formerly procured them their liberty, and would be assisting to them, now they were willing to take pains for it. They also said that they were possessed of abilities sufficient for the conquest of their enemies, although Moses should have a mind to alienate God from them; that, however, it was for their advantage to be their own masters, and not so far to rejoice in their deliverance from the indignities they endured under the Egyptians, as to bear the tyranny of Moses over them, and to suffer themselves to be deluded, and live according to his pleasure, as though God did only foretell what concerns us out of his kindness to him, as if they were not all the posterity of Abraham; that God made him alone the author of all the knowledge we have, and we must still learn it from him; that it would be a piece of prudence to oppose his arrogant pretenses, and to put their confidence in God, and to resolve to take possession of that land which he had promised them, and not to give ear to him, who on this account, and under the pretense of Divine authority, forbade them so to do. Considering, therefore, the distressed state they were in at present, and that in those desert places they were still to expect things would be worse with them, they resolved to fight with the Canaanites, as submitting only to God, their supreme Commander, and not waiting for any assistance from their legislator. (Ant., IV:1)


Addendum

Febbraio 08, 2003

Le ulteriori ricerche di questi ultimi anni mi portano a riconsiderare alcune affermazioni da noi formulate nell’articolo.
Concordo con Ahmed Osman che ha provato soddisfacentemente in Out of Egypt (London 1998) che Mosè e Ekhnaton siano state la stessa persona.
Concordo anche con la sua conclusione che egli si stato assassinato dagli Egizi stessi nel Sinai, e non dagli Israeliti.
Le tracce mnestiche di questo assassinio sono quelle che emergono nel testo biblico.
Il perchè il popolo ebraico abbia preso su di sè i sensi di colpa per questo regicidio-parricidio è una questione complessa. Apparentemente l’assassinio di un Faraone, considerato nel Medio Oriente antico un uomo-dio, è stato un trauma per tutti i popoli della regione, e quindi anche per i clan giudaici che vagavano nel Neghev e nel Sinai.
Questa regione, come tutto Canaan (la Palestina), durante la XVIII dinastia era sotto forti influenze e presenza egizia.
L’assassinio fu rimosso, e inconsciamente associato al parricidio preistorico, reattivandone le tracce mnestiche dopo la distruzione del Regno d’Israele nel 721 e con l’esilio di Giuda nel 586.
La distruzione di Giuda e l’esilio spiegano perchè furono proprio i Giudei a conservare la traccia attiva del parricidio e ad assumersene la colpa. Come ci ha spiegato Freud, non sono gli eventi che contano, ma la loro interpretazione a posteriori.
Freud avrebbe dovuto applicare la lezione che ci ha insegnato anche agli eventi in Egitto e nel Sinai.
Quindi, un Mosè storico egizio ci fu, ma non fu Mosè, ovvero, la figura di Ekhnaton emerse nel testo biblico nelle parti che ci raccontano di un Mosè egizio. Lo stesso vale per le citazioni di Giuseppe Flavio (Josephus) da Manetho e quelle talmudiche.
Ne consegue che gli eventi dell’Esodo non furono eventi reali (realtà materiale –secondo la definizione di Freud - cfr. L'Uomo Mosè e la religione monoteistica, Terzo saggio 2G), ma eventi che si riferiscono a una realtà psichica (verità storica - ibidem).
Mosè – Ekhnaton non si mise dunque a capo dei clan ebraici che vagavano ai margini del seminato, ma così fu interpretata la sua figura a posteriori.
Le tracce di un assassinio rimosso e di una sostituzione, come da noi decodificate analizzando il testo biblico, appartengono alla realtà psichica del popolo ebraico, e durante la storia premettero per un riconoscimento, malgrado non si riferissero a una realtà materiale.
Dopo l'esilio, la figura di Ekhnaton-Mosè, faraone d'Egitto e dio in terra, fu ri-interpretata come istanza paterna e inibitrice, poichè questi era stato colui quello che aveva voluto imporre il monoteismo (ritorno del Padre primigenio) sulle terre sotto il suo controllo, che comprendevano l'Egitto e Canaan stesso.
La traccia mnestica rimossa del suo assassinio si fuse con quella dei riti totemici e puberali che avvenivano periodicamente nel Sinai sulla montagna sacra, in cui veniva reattivato il rito del pasto totemico, che rappresenta in sé una ripetizione del parricidio primordiale.
Come da noi sostenuto, il decimo comandamento si riferiva originalmente al "Non possedere una casa", ma non poteva avere niente a che fare con un Mosè egizio-Ekhnaton, che che aveva probabilmente avuto solo pochi contatti con i clan ebraici che vagavano ai margini del seminato.
La proibizione di possedere case e vigne faceva parte dei tabù dei clan giudaici del Neghev e del Sinai che erano sempre stati nomadi, e questo tabù si fece strada nel decimo comandamento.
Quando questi clan giudaici meridionali invasero il seminato, insieme ai clan israeliti della Transgiordania, che non erano mai stati nel Neghev e nel Sinai (a questi ultimi si riferiscono le saghe dei Padri, come evidenziato da Wellhausen), il tabù fu rimosso, e cominciò a premere per un riconoscimento nella codificazione post-esilica dei precetti legati all'agricoltura e in quella della mezuzah.
Infatti il tabù di possedere case e vigne si riferisce solo ai clan giudaici e non a quelli israeliti.
Dopo l'esilio, solo di giudei infatti si trattava,
Il versetto dell'Esodo da noi riportato “...Dio non lo condusse per la strada del paese dei Filistei, benché fosse più corta, perché Dio pensava: “Altrimenti il popolo, vedendo imminente la guerra, potrebbe pentirsi e tornare in Egitto” (Es.13/18), si riferisce, probabilmente, a un tentativo d'invasione della Palestina meridionale da parte dei clan del Sinai, evidentemente andato male.
Ciononostante, la nostra interpretazione di un Mosè egizio che volesse impedire agli ebrei d'insediarsi in Canaan rimane valida, non in quanto ci sia mai stato un Mosè siffatto, ma in quanto come tale fu interpretato dalla psiche ebraica post-esilica, come imago paterna e inibitrice (verità storica). Per quello che ci riguarda, questo è quello che conta, poiché  è quello che decise delle sorti del popolo ebraico, e non l'evento storico in sé (verità materiale).
Dalla citazione da noi riportata dalle Antichità (IV:1) emerge un contenuto che anche se non si riferisce a una realtà materiale si riferisce però a una realtà storica, ovvero, psichica. Nell'inconscio ebraico, il Padre (come la figura di Mosè fu rielaborata a posteriori), fu assassinato in quanto voleva inibire l'orda dal corpo della madre (la Terra Promessa).
Reik stesso allude a Mosè come se fosse stato interpretato inizialmente come un dio - Figlio, che sale sulla montagna sacra per carpire il fallo paterno e commettere il patricidio.

Millenni di rimozione e di condensazione hanno creato la confusione, e noi dobbiamo farci strada a fatica, aggiustando il tiro come possiamo, cercando di preoccuparci solo della nostra integrità analitica.
Se sembra complicato, lo è.



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