Iakov Levi
 

GLI EBREI E IL LORO TEMPIO


Gennaio 2002


"Essi mi faranno un santuario e io abiterò in mezzo a loro" (Esodo 25,8)


Il Tempio di Gerusalemme è il simbolo di quello che di più sacro abbia mai avuto il popolo ebraico. Col passare dei secoli questo divenne anche il simbolo della sovranità nazionale e la sua distruzione la materializzazione della sua perdita.
L’unica cosa che rimane di esso è una minima porzione del terzo muro di cinta, quello più esterno, che circondava il cortile del santuario.
Gli Ebrei lo denominano: “il muro occidentale” (Ha-Kotel Ha-Maaravi), i Gentili lo chiamano “il muro del pianto”, poiché li vedono andare in pellegrinaggio, fino a toccarlo con la fronte e a versare lì le proprie lacrime.



Il muro del pianto


La commemorazione della distruzione del Tempio, il 9 di Av, è considerato il più grande giorno di lutto nazionale e gli Ebrei digiunano, seduti per terra, lamentando la perdita della cosa sacra. Questo è l’apice del trauma storico del disastro ed è percepito come la fase inconsolabile e insuperabile nella “passione” della tragedia.
Il lutto trapela in ogni atto della vita ebraica: in ogni casa appena costruita, bisogna lasciare un pezzo di muro non intonacato, in ricordo del Tempio che giace nella sua desolazione. Durante la cerimonia nuziale, apice della gioia ebraica, si rompe un bicchiere, e in ogni momento di letizia è precetto introdurre una nota di lutto affinché la tragedia venga sempre ricordata.
Quasi come in un sintomo nevrotico coercitivo, ogni momento di gioia deve essere turbato da qualche atto punitivo, risultato dell’ambivalenza del contenuto emotivo.
Nella psiche ebraica, il Tempio sembra essere rimasto il ricordo mitico dell’epoca dell’oro, l’era felice dell’infanzia, la cui perdita è inconsolabile e i cui ricordi vengono proiettati in una sfera di fiaba mitica in cui tutto viene ingigantito e idealizzato: lo strato irraggiungibile dell’aspirazione, una seconda cacciata dal Paradiso Terrestre, in cui appaiono tutti gli elementi essenziali del dramma: la vita ideale, il peccato, il castigo e la perdita inconsolabile e irreparabile.
Gli Ebrei hanno sempre trattato la distruzione del Tempio e la perdita dell’indipendenza nazionale come il prodotto dell’ira divina,  castigo e  risultato della propria empietà.
I Romani sono considerati solo lo strumento di questa ira e la mano di Dio, attraverso la quale si compie la sua giustizia.
A differenza degli altri popoli antichi, che mettevano a morte i propri dei quando questi deludevano, dopo ogni disastro nazionale si trincerano ancora di più nel proprio senso di colpa e il suo prodotto: un’ulteriore coesione sotto una cappa sempre più pesante.
Ma di quale peccato la distruzione del Tempio è dunque la punizione?
La tradizione ebraica spiega che il primo esilio durò settant’anni, poiché fu causato da un peccato di idolatria, mentre il secondo sembrava non finire mai poiché causato dall’odio tra fratelli.
Il periodo che precedette la distruzione del secondo Tempio fu infatti, almeno dalle descrizioni di Giuseppe Flavio (1), un periodo turbolento in cui le varie fazioni del popolo  lottavano tra di loro. Ma chi conosce la tormentata storia del popolo ebraico sa che la coesione del gruppo si è sempre alternata a zuffe, anche sanguinose, e che litigiosità e solidarietà, in un’unica sintesi, sono sempre state una peculiarità nazionale.
Non sembra che alla vigilia della distruzione del Tempio la situazione sia stata diversa dal solito. Anzi, la lotta comune contro i Romani, malgrado le descrizioni, non certo imparziali e piuttosto sospette di Giuseppe Flavio, aveva portato le varie fazioni a una rinnovata coesione. Farisei, Sadducei, Esseni e il popolo minuto avevano fatto un fronte unico, molto più unito che in epoche precedenti. Durante le guerre dei Maccabei contro i Seleucidi due secoli prima, le divisioni interne tra ellenizzati e ortodossi erano state molto maggiori.
Addurre l’odio fratricida come causa del castigo divino, tradottosi nella distruzione del Tempio, sembra un patetico mea culpa, razionalizzazione di un senso di colpa molto più profondo e rimosso.
Inoltre, bisogna tenere presente che per i popoli primitivi e gli antichi la natura del castigo tradisce sempre la natura del peccato: occhio per occhio, dente per dente, presso gli Arabi la mano che ruba viene tagliata, Muzio Scevola punisce la mano che ha fallito, e così via.
Perché mai Dio avrebbe dovuto punire il popolo distruggendo il proprio Tempio?
Quindi, se il castigo è stato la distruzione della casa del Signore, forse il peccato era stato proprio quello di costruirla.
Ci si può chiedere: come è possibile, visto che la Bibbia descrive l’edificazione del Tempio come un comandamento del Signore stesso?
Inoltre, tutti gli altri popoli, quando il nemico distrugge loro qualche monumento, tempio, palazzo o chiesa, cercano di ricostruirlo subito. Il popolo ebraico non solo si trovò impossibilitato a farlo per mancanza di opportunità, bensì ha codificato leggi ben precise con lo scopo di auto- proibirsi la ricostruzione: solo il Messia stesso potrà riedificare la Casa del Signore. La razionalizzazione è che negli ultimi mille e novecento anni siano venute a mancare le cognizione necessarie per compiere gli atti di purificazione dovuti prima di potersi avvicinare all’altare del Signore.
Ma il tabù non impedisce solo la ricostruzione del Tempio. È anatema persino salire sul monte: è permesso arrivare solo fino al muro del pianto e toccarlo con mano. Un Ebreo pio non oserà mai avvicinarsi di più al luogo sacro, per timore che il suo piede profani il suolo del Santo dei Santi, dove solo il Grande Sacerdote poteva entrare.
Dopo la conquista del Monte del Tempio da parte d’Israele, il 5 Giugno 1967, il Rabbinato fece affiggere un cartello davanti all’entrata al Monte, con un avvertimento in ebraico e in inglese, che ammonisce gli Ebrei dal violarne la soglia. La giustificazione manifesta di questa interdizione è, dunque, che il luogo sia troppo sacro (2) per essere avvicinato.

Come vedremo in seguito, queste razionalizzazioni nascondono dei contenuti emotivi rimossi molto più complessi e profondi.


Tribalità e monarchia

Nel libro di Geremia (35,1-19) si racconta di una strana famiglia,  quella di Ionadav Ben Rahav, il clan ebraico dei Rekaviti che, condotti dal profeta nel Tempio e messi davanti a boccali pieni di vino, avevano risposto:

Noi non beviamo vino, perché Ionadab figlio di Rekab, nostro antenato ci diede quest’ordine: Non berrete vino, né voi, né i vostri figli, mai; non costruirete case, non seminerete sementi, non pianterete vigne e non ne possederete alcuna, ma abiterete nelle tende tutti i vostri giorni, perché possiate vivere a lungo sulla terra, dove vivete come forestieri. Noi abbiamo obbedito agli ordini di Ionadab figlio di Rekab, nostro antenato, riguardo a quanto ci ha comandato, così che né noi, le nostre mogli, i nostri figli e le nostre figlie, non beviamo vino per tutta la nostra vita; non costruiamo case da abitare né possediamo vigne o campi o sementi. Noi abitiamo nelle tende, obbediamo e facciamo quanto ci ha comandato Ionadab nostro antenato(35,6-10).
In seguito il Signore, per bocca del profeta, li loda  per il loro modo di vivere.
Questo clan ebraico aveva abbandonato il lavoro della terra ed era tornato alla vita originaria del popolo d’Israele, come ai tempi dei Padri, che vagavano da pastori ai margini del seminato, e vivevano in condizione di uguaglianza sociale ed economica, vita di semplicità e giustizia. I Rekaviti si astenevano persino dal bere vino, come gli Arabi e per lo stesso motivo: per non dover piantare delle vigne.
Geremia che, come tutti i profeti, manifestava il suo disgusto per la cultura cananea idolatra che era stata adottata dai figli d’Israele da quando si erano insediati nella Terra Promessa ed erano diventati agricoltori, loda i Rekaviti, che si erano riallacciati alla vita semplice e spirituale del nomade.
Geremia ricorda il periodo del deserto come l’epoca d’oro della storia d’Israele.
Vediamo, quindi, che durante tutto il periodo di sette secoli, che va dall’insediamento in terra d’Israele dopo l’Esodo (XIV-XIII sec. A.C.), al primo esilio (VI sec. A.C.), esistevano due correnti all’interno del popolo. Quella principale, costituita dalla grande maggioranza della popolazione, che aveva adottato il tipo di vita degli agricoltori cananei, si era data ai loro costumi,  idolatrava i Baal e le Astarti canaanee, e si dava ai culti della fertilità, come tutti i popoli sedentari della regione: il popolo ebraico, in Terra d’Israele, era diventato come i suoi vicini, si era eletto un re, “come tutti gli altri popoli”, e aveva trascurato Jahvè, il dio dei pastori.
La seconda corrente, numericamente trascurabile, era quella rappresentata dai Profeti, paladini del dio del deserto, e in continuo conflitto con i re d’Israele.
Questa si richiamava alla tradizione dei padri, i cui contenuti emotivi sono quelli del mondo dei pastori che hanno in odio la vita urbana e le sue istituzioni.
I Profeti erano gli interpreti dei contenuti di questa corrente, che è lo strato base dell’essenza della psiche ebraica, da cui scaturiscono anche tutte le energie creative, il puritanesimo monoteistico e dei costumi, la furia iconoclastica e l’intransigenza codificatrice.
Da questo strato scaturisce il furore genocida contro i Cananei, fratelli di stirpe, ma nemici per stile di vita, e il precetto di non lasciare di loro neanche il ricordo, per le usanze idolatre che questi avevano acquisito quando erano passati a loro volta a una vita urbana, centinaia di anni prima degli Israeliti.
Nei primi duecento anni dalla conquista, durante la lunga fase di passaggio e di lento insediamento così fedelmente descritta dal Libro dei Giudici, le tribù ebraiche avevano conservato le proprie istituzioni, eleggendo un capo comune solo nei momenti di pericolo, ma più l’insediamento in luoghi di residenza stabili era diventato anche una realtà mentale, più si faceva sentire il bisogno di adottare le stesse istituzioni dei popoli vicini.
I figli d’Israele sentono la necessità di un potere centrale che stenda la sua autorità al di sopra del coacervo delle fazioni tribali, che faccia da punto di riferimento, che canalizzi le energie delle tribù turbolente, e presenti un unico volto ai popoli vicini, che facevano pressione su Israele. Il popolo esige da Samuele a grande voce un re “...Stabilisci quindi per noi un re che ci governi, come avviene per tutti i popoli” (I Sam. 8,5).
Il profeta vede chiaramente il pericolo:
Agli occhi di Samuele la proposta era cattiva perché avevano detto: “Dacci un re che ci governi”. Perciò Samuele pregò il Signore. Il Signore rispose a Samuele: "Ascolta la voce del popolo per quanto ti ha detto, perché costoro non hanno rigettato te, ma hanno rigettato me, perché io non regni più su di essi. Come si sono comportati, dal giorno in cui li ho fatti uscire dall’Egitto fino ad oggi, abbandonando me per seguire  altri dei". ( I Sam.8, 6-9).
Dai suddetti versetti appare chiaro che monarchia e idolatria vanno di pari passo. Esigere un re vuole dire abbandonare il culto di Iahvè, Dio dei pastori, per seguire i culti locali. La minaccia e doppia: esigere un re vuol dire cambiare struttura sociale, e cambiare questa vuol dire anche cambiare religione.
Samuele cerca di resistere:
Queste saranno le pretese del re che regnerà su di voi: Prenderà i vostri figli per destinarli ai suoi carri e ai suoi cavalli, li farà correre davanti al suo cocchio, li farà capi di migliaia e capi di cinquantine; li costringerà ad arare i suoi campi, a mietere le sue messi, ad apprestargli armi per le sue battaglie e attrezzature per i suoi carri. Prenderà anche le vostre figlie per farle sue profumiere e cuoche e fornaie. Si farà pure consegnare i vostri campi, le vostre vigne, i vostri oliveti più belli e li regalerà ai suoi ministri. Sulle vostre sementi e sulle vostre vigne prenderà le decime e le darà ai suoi consiglieri e ai suoi ministri. Vi sequestrerà gli schiavi e le schiave, i vostri armenti migliori e i vostri asini e li adoprerà nei suoi lavori. Metterà la decima sui vostri greggi, e voi stessi diventerete suoi schiavi (I Sam., 8,11-18).
Più chiaro di così, il Profeta non avrebbe potuto essere.
Il popolo non diede retta a Samuele e rifiutò di ascoltare la sua voce, ma gridò: “No, ci sia un re su di noi. Saremo anche noi come tutti i popoli; il nostro re ci farà da giudice, uscirà alla nostra testa e combatterà le nostre battaglie”(I Sam 8,19-20).
Gli Israeliti intendevano con questo essere come tutti gli altri popoli sedentari.
Da questo desiderio di essere come tutti gli altri popoli, cioè di insediarsi e creare quelle istituzioni che si adattino alla loro nuova condizione di popolo sedentario, che nell’antichità era anche agricoltore, nasce e si forma quello strato della psiche ebraica che si sovrappone allo strato originario e, da un lato lo contamina, dall’altro lo feconda.
Questa seconda natura di popolo attaccato alla propria terra e assetato di sovranità nazionale ebbe molti secoli in cui mettere radici, al punto che l’amore per la terra e la natura appare come un filo in tutta la Bibbia e nella letteratura rabbinica.
Vediamo così che la lotta tra pastori e agricoltori, da esterna, diventò interna.
Questo processo di interiorizzazione produsse un corpo con due anime, incompatibili una con l’altra e in eterno conflitto tra di loro. In tutta la letteratura sacra viene investito uno sforzo enorme per confondere fra questi due strati e rendere indistinguibili queste due tendenze.
Dopo aver visto come, fin dall’inizio, la Bibbia sia stata contraria alla monarchia, al punto che desiderare un re viene considerato come tradire il Signore, poi i re d’Israele, Saul, Davide e Salomone, diventano i grandi eroi nazionali, al punto che il Messia sarà figlio di Davide, e Salomone fu il più sapiente degli uomini e l’unico che conoscesse persino la lingua degli animali.
Sembra che in nessun altro popolo esista una dicotomia così spiccata: odio estremo e estremo amore convivono nella stessa anima.
 

Case e tende

Il teologo tedesco J. Lehmann, riesce a provare (3), seguendo il filo del discorso proposto da E. Auerbach, che in realtà il decimo comandamento, come viene presentato il decalogo nel ventesimo capitolo del libro dell’Esodo, era originalmente “Non desiderare la casa” e solo in epoca posteriore fu aggiunto “d’altri”, quando questo comandamento non aveva più nessun senso, per un popolo che si era insediato in un luogo fisso e abitava in villaggi, fatti di case di pietra e di argilla.
Lehmann nota che, mentre i cinque ultimi comandamenti sono molto concisi e aprono tutti con la parola: “Non”, il decimo, dopo l’imperativo conciso: “Non desiderare la casa del tuo prossimo”, aggiunge, per meglio mascherare la sua vera natura, “ Non desiderare la moglie del tuo prossimo, né il suo schiavo, né la sua schiava, né il suo bue, né il suo asino, né alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo.”
Tutta questa lista è completamente superflua, e male si addice alla concisione peculiare delle altre proibizioni. Inoltre il “Non desiderare la moglie del tuo prossimo” rientra già nell’ambito del settimo “Non commettere adulterio”, e l’interdizione alle altre cose appartenenti al prossimo rientra già nell’ottavo “Non rubare”.
L’idea del “desiderare” per quello che riguarda le cose del prossimo non può venire considerata un’interdizione separate dal “non rubare”, poiché per l’ebraismo antico non  esisteva un peccato di desiderio, separato dall’azione.
Nella legislazione ebraica solo le azioni sono punibili e non i “desideri”.
Parimenti, per quello che riguarda la donna d’altri. Inoltre non vi è distinzione tra adulterio e “donna d’altri”, poiché adulterio è considerato solo quello commesso in relazione a una donna sposata: nella società poligama un uomo, anche sposato, che seduca una vergine che non sia fidanzata, non commette adulterio alcuno (4).
Nel quinto capitolo del Deuteronomio il decalogo viene ripetuto.
Questo libro risale alla fine del settimo sec. A.C., ai tempi delle riforme di Giosia (5). Qui, le tracce della vera natura del decimo Comandamento vennero cancellate meglio. Qui l’interdizione alla casa viene mescolata nel bel mezzo di tutte le altre proibizione del “Non desiderare”, e diviene così irriconoscibile.
Il Decalogo, che è forse la parte più antica di tutta la legislazione ebraica, e che probabilmente risale a Mosè stesso, il principe egiziano che voleva inculcare al popolo ebraico la spiritualità della religione di Aton (6), comprende, così, il desiderare la casa tra i peccati più gravi: un vero e proprio tabù, che ci riallaccia alle parole dei Rekaviti, menzionate sopra. Il racconto di Ionadav ben Rakav costituisce la traccia più evidente della vera natura delle intenzioni mosaiche, poiché viene riportato da Geremia come esempio di purezza e di autenticità.
Lehmann, perfezionando e correggendo il pensiero di Freud, espone inoltre come in realtà il desiderio di Mosè fosse di trattenere il popolo al di fuori della Terra Promessa, e di farne un popolo ideale di nomadi, un popolo santo, nell’osservanza della spiritualità e del monoteismo più puro.
Mosè venne ucciso, quindi, non come sostiene Freud, perché volesse inculcare agli Israeliti una religione troppo spiritualizzata (7), ma bensì per un motivo ben  più concreto: voleva interdire loro le case e i campi dei Cananei. La Terra Promessa non fu promessa, né da lui, né dal suo Dio, bensì dal nuovo Mosè, sacerdote di Midian, che si mise alla testa del popolo d’Israele dopo l’uccisione del grande condottiero.
Il popolo bramava  le case, le vigne e i campi degli odiati agricoltori Cananei. Mosè, il legislatore, voleva invece tenerli lontani dal seminato e farne un popolo di nomadi, un popolo santo permeato della spiritualità della nuova religione monoteistica. Da questo conflitto scoppiavano tutte le rivolte così spesso menzionate dalla Torà.
Come ha descritto Lehmann, in questo insolubile conflitto, Mosè fu ucciso, la sua morte fu rimossa, e venne, così, rimossa anche l’inibizione a gettarsi sul seminato.
Il redattore biblico tentò di cancellare le tracce di come si svolsero realmente le cose,  ma così facendo ci presenta un testo pieno di contraddizioni, risultato inevitabile di ogni contraffazione storica, che non regge ad un’analisi dei dettagli.
Capovolgendo il quadro di alcuni eventi, la situazione diventa ancora più chiara.
La Bibbia ci presenta una situazione in cui Mosè tentava di spingere il popolo verso la Terra Promessa, suo malgrado, quasi di forza, e questi invece desiderasse continuamente rimanere al di quà del seminato, preso dal terrore e dall’esitazione.
“Dio non condusse per la strada del paese dei Filistei, benché fosse più corta, perché Dio pensava: “Altrimenti il popolo, vedendo imminente la guerra, potrebbe pentirsi e tornare in Egitto” ” (Ex.13/13).
L’assurdità interna del versetto stesso si aggiunge all’incongruenza storica.
Gli scavi archeologici dimostrano che la strada per “la via di Horus” (Via Maris) nell’epoca del Bronzo Antico, in cui si svolse l’esodo (XIV-XIII sec. A.C.), era sgombra fino a Gezer, al centro della Palestina: i Filistei, menzionati dal testo, si stabilirono sulla costa meridionale solo due secoli dopo (8).
Ma soprattutto è molto strano che gli Israeliti, presi dal timore, abbiano preferito prendere la strada che li avrebbe portati diretti alla barriera del Mar Rosso, con tutto l’esercito egiziano alle spalle. In realtà fu Mosè che impedì loro la strada che conduceva, direttamente e facilmente, alla meta agognata, e che quindi ne pagò in seguito il prezzo. I miracoli, e soprattutto quello della spartizione delle acque, fu il deus ex machina, atto ad affermare la superiorità della volontà di Mosè e che dimostrasse che fosse loro proibito seguire la strada verso la Palestina: la volontà di Dio e di Mosè suo servo era che rimanessero nel deserto. Per affermare questa volontà produsse il miracolo del passaggio del Mar Rosso e tutti gli altri miracoli susseguenti.
L’altro racconto, che diventa comprensibile solo se capovolto, è quello degli esploratori.
Anche qui è il Signore che, per bocca di Mosè, ordina di mandare dodici esploratori “Tutti capi degli Israeliti” ad esplorare la Terra Promessa (Nm.13,1-33).
Perché mai il Signore comanda di mandare degli esploratori, ben sapendo che questi sarebbero tornati spaventati e avrebbero seminato il panico?!
E infatti questi esploratori tornano terrorizzati e raccomandano al popolo di non perseguire la conquista, cioè di rimanere nel deserto: è Mosè che deve consolare il popolo.
Se capovolgiamo il racconto, come si fa spesso anche nell’interpretazione dei sogni per trovarne la chiave, la vera situazione diviene chiara: il popolo premeva per perseguire la conquista e Mosè cercò di dissuaderlo adducendo l’impossibilità della cosa, data la terribile potenza degli abitanti del seminato: come un adulto che agiti lo spauracchio di qualche minaccia terribile, davanti agli occhi di un bambino per dissuaderlo da qualche marachella.
In entrambi i casi, è il Signore, che “pensava": “Altrimenti il popolo...potrebbe pentirsi e tornare in Egitto” e che poi comanda a Mosè di mandare gli esploratori.
In entrambi i casi, il risultato è di inibire i figli d’Israele dal soddisfare le proprie brame.
Dal risultato finale emerge, così, anche l’intenzione iniziale.
 

Sulla soglia della cosa proibita

Il momento più solenne descritto nella Torà, culmine ed apice di questa, secondo, forse, solo al “Maamad Har Sinai”, il momento della promulgazione della Legge, è alla fine del peregrinare, quando Mosè sta per morire e il popolo sta per ottenere il soddisfacimento della sua massima aspirazione: stranamente, quello che più caratterizza questo momento è la serie di maledizioni, che diventa, così, l’elemento dominante.
Benedizioni, tremito gioioso dell’aspettativa, soddisfacimento finale delle fantasie più ardite, da una parte, sfilza delle maledizioni più atroci, dall’altra.
Chi legga il ventottesimo capitolo del Deuteronomio si chiede, suo malgrado, che strano Dio sia mai questo, che tormenta il suo popolo per quarant’anni nel deserto, gli promette la terra del latte e del miele, e al momento di dargliela, lo riempie di improperi e maledizioni, degne della mente sadica più perversa.
Il paragrafo dedicato alle benedizioni comprende quattordici versetti, quello delle maledizioni cinquantaquattro.
Quello delle benedizioni è tiepido e controllato, quello delle maledizioni una sfuriata incontrollata.
La profezia, che queste maledizioni si avvereranno solo se il popolo peccherà, cioè il condizionale ipotetico, deve essere stata aggiunta solo dopo, come razionalizzazione, poiché più avanti sta scritto chiaramente:

So infatti, che dopo la mia morte [quella di Mosè] Voi certo vi corromperete e vi allontanerete dalla via che vi ho detto di seguire; la sventura vi colpirà negli ultimi giorni, perché avrete fatto ciò che è male agli occhi del Signore, provocandolo a sdegno con l’opera delle vostre mani (Deut.31/29).
Quindi, le punizioni descritte prima, con tanto fervore macabro, sono una certezza, e non una condizione futura ipotetica, e il motivo è che il peccato sta già per avvenire, non in un lontano futuro, ma nel momento stesso dell’insediamento, con la conquista stessa della Terra Promessa.
Dal testo sembra che per Mosè, e qui si intende, naturalmente, l’idea del primo Mosè, principe egiziano e sacerdote di Aton, idea interiorizzata dagli Ebrei con l’omicidio del grande condottiero, vedere entrare il popolo nella Terra Promessa sia stato, invece che il coronamento di tutta la missione della sua vita, lo sgretolarsi di tutti i suoi sogni e le sue aspirazioni: una delusione atroce, meritevole delle pene più terribili.
A questo si riferisce la frase, che ritorna così spesso nella Torà, che questo è un popolo dalla dura cervice, poiché non aveva mai voluto rinunciare al sogno della conquista e dell’insediamento: questo popolo ha perdurato nelle sue fantasie incestuose fino a riuscire ad avere la meglio.
Il tabù agisce in due direzioni.
Per gli antichi sacro e profano sono l’equivalenza di un’unica cosa, al punto che la stessa radice indica le due cose: sacer, in latino, significa sia sacro che profano (anche il francese moderno ha conservato la stessa equivalenza nella parola sacré), l’arabo: Haram = proibito e santo, e l’ebraico stesso kadosh (santo) e kaddesh (prostituta di sesso maschile)
Quindi anche Terra Santa = terra maledetta.
Ma ogni sacrilegio comporta una punizione, e da qui le maledizioni descritte dalla Torà: “…Gioirà il Signore a vostro riguardo nel farvi perire e distruggervi; sarete strappati dal suolo, che vai a prendere in possesso. Il Signore ti disperderà tra tutti i popoli, da un’estremità fino all’altra...” (Deut.28,63-64).
Quale dio può gioire nello strappare il popolo dalla terra che lui stesso gli aveva promesso?
Non certo lo stesso dio che aveva fatto questa promessa e che si era adoperato nel condurre il suo popolo in essa!
Quindi il dio che gioirà nel togliere al popolo l’oggetto della sua concupiscenza è un dio che a priori non voleva che il popolo si impadronisse di esso, come un genitore che toglie al bambino il barattolo della marmellata, di cui si è impadronito come risultato di una trasgressione.
Anche qui la natura del castigo (sarete strappati dal suolo) testimonia della natura del peccato, cioè desiderare il suolo stesso.
Il libro del Deuteronomio fu composto alla fine del settimo sec. A.C., alla vigilia del primo desolante esilio (9). La situazione politica della regione era estremamente instabile, con la minaccia babilonese che pendeva sul piccolo regno di Giuda, rimasto indipendente, tra l’incudine prima assira e poi babilonese e il martello egizio.
Il trauma della distruzione del regno d’Israele e la dispersione delle dieci tribù consorelle, pesavano come un incubo sui Giudei, rimasti abbarbicati alle colline desolate della Giudea, intorno a Gerusalemme.
Non c’è quindi da meravigliarsi, se gli eventi traumatizzanti degli ultimi decenni avessero provocato la riattivazione di antichissimi sensi di colpa.
Quindi è proprio il Deuteronomio che racconta di terribili maledizioni: vedere dieci tribù su dodici venire disperse e distrutte, riallacciò le due tribù rimanenti ai propri sensi di colpa rimossi.
Vedendo avvicinarsi l’esilio e la perdita della terra, così avidamente desiderata dai propri avi e posseduta sul corpo di Mosè, ricordò loro il peccato originale del popolo ebraico: l’uccisione del grande condottiero e l’insediamento nella terra bramata.
La terra maledetta, dove i Cananei commettono ogni genere di atrocità, aveva passato una trasfigurazione ed era diventata Terra Santa, quello che era tabù divenne precetto, e se coltivare i campi, possedere vigne e case era stato il non plus ultra dell’empietà, la Torà codifica i precetti legati alla terra.
Ma l’ambivalenza emotiva era rimasta e non era evaporata magicamente.
Per esorcizzare questo senso di colpa, vennero codificati tutti i precetti legati all’agricoltura.
Un popolo sedentario, che non vive un rapporto emotivo conflittuale verso la terra che abita, non ha nemmeno bisogno di una codificazione così dettagliata per esorcizzare l’ambivalenza emotiva del suo rapporto con essa:
Quando sarai entrato nel paese che il Signore tuo Dio ti darà in eredità e lo possederai e là ti sarai stabilito, prenderai le primizie del suolo da te raccolte...le metterai in una cesta e andrai al luogo che i Signore tuo Dio avrà scelto...Ora ecco io presento le primizie dei frutti del suolo che tu Signore, mi hai dato (Deut. 26, 1-10)...Quando avrai finito di prelevare tutte le decime delle tue entrate, il terzo anno, l’anno delle decime, e le avrai date al levita...(Deut. 26, 12-15)...Dovrai prelevare la decima da tutto il frutto della tua sementa, che il campo produce ogni anno...(Deut. 14, 22-24)
“Per sei anni  seminerai il tuo campo  e poterai la tua vigna e ne raccoglierai i frutti, ma il settimo anno sarà come un sabato...”(Lev. 25, 2-6)...Le terre non si potranno vendere per sempre, perché la terra è mia...(Lev.25/23).
Tutto quello che, in relazione alla terra, ai campi e alle case, era considerato tabù, da Mosè il Legislatore, principe d’Egitto e sacerdote di Aton, divenne precetto.
Per evitare che la maledizione della terra si ritorcesse su coloro che la bramarono, viene dichiarato che la terra non è del popolo, bensì del Signore: una rinuncia simbolica del prodotto del peccato.
Come ogni primogenito deve essere riscattato, per distillare l’atto della procreazione dal peccato che è alla sua base, così la terra va riscattata, attraverso il sacrificio delle primizie, dal peccato che è alla base del suo possesso.
La legislazione ebraica tradisce, così, il fatto che gli agricoltori israeliti non riuscirono mai a rimuovere completamente la sensazione che la loro trasfigurazione esistenziale, da pastori ad agricoltori, avesse le sue radici nella trasgressione e nel peccato.
Quando venne la distruzione e l’esilio, si può dire che “se lo aspettassero”.
 

I Re e le loro case

Ora potremo avvicinarci al problema del Tempio e disperdere il fumo che ci acceca da millenni, per cercare di vedere in maniera più chiara.
Abbiamo visto come l’attitudine di Samuele e dei Profeti verso la monarchia sia stata estremamente negativa. Ma il Redattore del Deuteronomio conviveva con una realtà monarchica che durava già da almeno quattro secoli; doveva per forza prenderne atto:

Quando sarai entrato nel paese che il Signore tuo Dio sta per darti e ne avrai preso possesso e l’abiterai, se dirai: Voglio costituire sopra di me un re come tutte le nazioni che mi stanno intorno, dovrai costituire sopra di te come re colui che il Signore tuo Dio avrà scelto...Ma egli non dovrà procurarsi un gran numero di cavalli...non dovrà avere un gran numero di mogli, perché il suo cuore non si smarrisca; neppure abbia grandi quantità di argento e di oro (Deut.17/14-20).
Anche qui vediamo come il Redattore del Deuteronomio, conoscendo la situazione che si era creata in pratica, pensa bene di codificarla e di legittimarla, facendola risalire allo stesso Mosè, ma senza riuscire, in questo caso così estremo per la psiche ebraica, a sradicare il profondo disgusto che ancora ne emanava.
Il primo Tempio si deve a Salomone, un re tanto elogiato quanto a malapena sopportato al punto che, alla sua morte, dieci tribù su dodici non ne vogliono più sapere dei suoi eredi.
Se prima della costituzione della monarchia, gli agricoltori ebrei abitavano solo capanne e case modeste, e non ricostruirono nessuno degli edifici sontuosi, caratteristici delle città cananee conquistate, ecco che Salomone ricostruisce “...le mura di Gerusalemme, Hazor, Meghiddo, Ghezer “(1,Re 9/15).
Gli scavi archeologici hanno provato che allo strato precedente la monarchia, costituito da basi di capanne e da case modeste, si sovrappone ora uno strato caratterizzato da costruzioni  monumentali (10). A Meghiddo sono state trovate persino le scuderie, che ospitavano i numerosi cavalli del re (11).
Esattamente come aveva predetto Samuele, e come ancora si ricordava il Redattore del Deuteronomio, il grande re reclutò al lavoro forzato i figli d’Israele, che da uomini liberi si trovarono ad essere diventati sudditi:
“Il re Salomone reclutò il lavoro forzato da tutto Israele e il lavoro forzato era di trentamila uomini. Ne mandò a turno nel Libano diecimila al mese: passavano un mese nel Libano e due mesi nelle loro case...” ( 1 RE 5/27-8).
Oltre al Tempio, costruzione probabilmente modesta, in rapporto al Secondo Tempio costruito da Erode, ma pur sempre fin troppo sontuoso per gli Ebrei di allora, costruì il palazzo detto Foresta del Libano e un enorme reggia:
Tutte queste costruzioni erano di pietre pregiate, squadrate secondo misura, segate con la sega sul lato interno ed esterno, dalle fondamenta ai cornicioni e al di fuori fino al cortile maggiore. Le fondamenta erano di pietre pregiate, pietre grandi dieci o otto cubiti. Al di sopra erano pietre pregiate, squadrate a misura, e legno di cedro. Il cortile maggiore comprendeva tre ordini di pietre squadrate e un ordine di tavole di cedro; era simile al cortile interno del tempio e al vestibolo del tempio ( 1 RE 7/ 1-12).
Un grande re costruì dunque grandi case, fra cui anche la Casa del Signore.
Il secondo Tempio, costruito nel V sec. A.C . da Nehemia era cosa modestissima: solo l’essenziale per l’adempimento dei riti dei sacrifici.
Fino a che venne un altro grande re, non meno ammirato di Salomone, certamente non meno odiato: Erode il Grande.
Come Salomone era venuto a patti con re stranieri, Chiram re di Tiro, per glorificare il proprio regno, anche Erode venne a patto coi Romani, e così, malgrado fosse odiato dai suoi sudditi, salvò l’indipendenza ebraica per almeno altro mezzo secolo.
Malgrado gli Ebrei ricordino positivamente il figlio di Davide e negativamente Erode, figlio di Antipatro l’Idumeo, seconda generazione di un popolo convertito all’ebraismo con la forza, non vi era poi una grande differenza tra i due: entrambi angariarono il popolo per glorificare il proprio regno ed  entrambi  cercarono di ricalcare i costumi dei popoli vicini.
Malgrado le Scritture siano permeate di ostilità verso questo grande re, esse non possono non lasciare emergere anche la grande ammirazione per quello che fece.
Quello che oggi viene denominato: il Monte del Tempio, fu una sua creazione.
Costruì un’enorme piattaforma rettangolare, che si reggeva su dei massicci archi di pietra, innalzando e pianificando, così, tutta la base, su cui erigere la maestosa costruzione.
Lo splendore e la munificenza del Tempio si riprende alla concezione architettonica delle città elleniste della Palestina e alle loro struttura monumentali.
Erode fece di Gerusalemme una città che non aveva nulla da invidiare alle polis elleniste del Medio Oriente. Questo re si rivelò uno statista di gran lunga superiore ai re Asmonei che lo avevano preceduto: aveva una concezione della sovranità dello stato e delle istituzioni degna di Machiavelli, e se fosse vissuto mille anni prima, probabilmente il suo ricordo sarebbe stato ancora più positivo di quello di Salomone.
La sua sfortuna, per quello che riguarda il ricordo storico, fu di regnare in un periodo in cui gli Ebrei erano già diventati un popolo asserragliato nella propria spiritualità iconoclastica, che nulla volevano sapere del cosmopolitismo di matrice ellenistica dell’ecumene greco-romana.
Se il Tempio, relativamente modesto, di Salomone passò all’archivio mnestico del popolo ebraico come la costruzione par excellence, e il re stesso come il grande re, il più saggio tra tutti gli uomini, malgrado avesse più di mille tra mogli e concubine, migliaia di cavalli, e avesse trasformato Gerusalemme in un centro di prostituzione sacra e dell’idolatria più sfrenata, in confronto alla quale il quartiere a luci rosse di Amsterdam sembrerebbe un monastero di clausura, il Tempio di Erode, probabilmente una delle meraviglie del mondo antico, passò allo stesso archivio mnestico come una pallida eco di quello di Salomone. Erode stesso, pazzo d’amore per la propria unica moglie, Miriam l’Asmonea, cercò di non irritare mai la suscettibilità ebraica, e si poneva sempre tra il martello dei Romani e l’incudine dell’iconoclastia giudaica.
Il popolo ebraico era diventato, nel frattempo, un popolo intollerante e geloso del proprio Dio esclusivo.
I cinque secoli che passarono dal ritorno dal primo esilio (fine del VI sec. A.C.), erano stati il periodo in cui la psiche ebraica si era distillata. Il periodo antecedente l’esilio, con la sua realtà di popolo di agricoltori legato ai culti idolatri e ai riti della fertilità, era stato rielaborato, e le tracce malamente cancellate. Il codice sacerdotale descritto nel libro del Levitico, su cui si basa tutto il rituale descritto nella Torà, risale a questo periodo (12), quando gli Ebrei si dedicarono a rielaborare il proprio passato sulla chiave di una nuova-vecchissima spiritualità.
L’idolatria, che era sempre convissuta sotto lo stesso tetto del culto di Jahvè, e che per molti secoli era stata dominante, fu completamente eradicata dall’anima ebraica, al punto che essere ebreo era diventato l’antitesi dell’essere idolatra.
Se gli antichi eroi del popolo ebraico, dai Giudici ai Re, erano stati anche i sacerdoti dei culti di Astarte e del Baal, dal V sec A.C. in poi la classe sacerdotale ebraica stabilì come sua missione lo sradicamento totale di qualsiasi culto estraneo a Jahvè, il Dio dei pastori, e questi cominciò quel lungo processo di trasfigurazione, che ne avrebbe fatto quel Dio spirituale e cosmico che è oggi.
Il dio che era cominciato come dio ariete, totem e demone vendicativo, sanguinoso e violento, diventerà alla fine, dopo essersi fuso in un’unica consustanzialità con Aton, il dio universale di Mosè, quel Dio che gli Ebrei adorano oggi: un Dio che riempie tutto il cosmo della sua grandezza al punto che, secondo lo Zohar, per far posto al mondo che stava creando dovette per forza contrarsi e auto-limitarsi (Zimzum).
Le guerre dei Maccabei contro gli elementi ellenizzanti all’interno del popolo ebraico avevano portato alla vittoria finale di questa nuova idea di Dio ed escluso totalmente qualsiasi possibilità di coabitazione con gli dei degli altri popoli, coabitazione che era stata riproposta dall’ecumene panellenica.
A questo nuovo Dio, gli Ebrei che tornarono dall’esilio babilonese dedicarono il nuovo Tempio. Ma da qui anche il seme di una nuova- vecchia contraddizione interna. Questo nuovo Dio che non era altro che la trasfigurazione del dio dei pastori, dei seminomadi, arricchito dall’antichissima spiritualità di Aton, mal si adattava alla costrizione dei muri di una casa. Il versetto dell’Esodo: “Essi mi faranno un santuario e io abiterò in mezzo  a loro” (Ex. 25/8), si riallaccia all'ambivalenza motiva che si era creata dopo l'insediamento, sulla scia delle tracce mnestiche di un antichissimo passato di nomadi: Essi mi faranno una casa ma io non abiterò in essa, bensì tra di loro.
Questo era l’habitat mentale del popolo ebraico, quando Erode il Grande edificò il Monte del Tempio e la Casa del Signore.
Qui la schizofrenia dell’anima ebraica trovò la sua espressione e il suo sfogo: fece una proiezione mitica di tutto quello che è positivo e lo attribuì a Salomone, malgrado le tracce delle sue “malefatte” siano rimaste, anche dopo il lavoro di censura del Redattore:
Salomone seguì Astarte, dea di quelli di Sidone, e Milcom obbrobrio degli Ammoniti...Salomone costruì un’altura in onore di Camos, obbrobrio dei Moabiti, sul monte che è di fronte a Gerusalemme, e anche in onore di Milcom, obbrobrio degli Ammoniti. Allo stesso modo fece per tutte le sue donne straniere, che offrivano incenso e sacrifici ai loro dei ( I RE 11/5-8).
 e fece una proiezione di tutto quello che è empio e lo attribuì ad Erode, malgrado questi, dopo aver terminato il grande Tempio al Signore, Dio degli Ebrei, appese sul cancello una grande lapide con una scritta in ebraico e in greco che proibiva, pena la morte, a qualsiasi Gentile di varcarne la soglia.
 
 
 

ALLONTANATE DA LEI QUELL’OGGETTO D’ORRORE
(Don Ottavio, parlando del corpo morto del padre di Donna Anna; in: Mozart/Da Ponte, Don Giovanni,  atto I, scena I)
 

Il motivo è chiaro.
Ai tempi di Erode gli Ebrei non vivevano più, come ai tempi di Salomone, una situazione mentale priva di conflitti, in cui godevano beati della loro condizione di agricoltori pacifici, dediti alle loro messi e ai loro culti idolatri. Durante la monarchia unita l’idea del dio iconoclasta dei pastori era stata rimossa con successo, e comincerà a premere solo dopo, quando emersero i Profeti di Jahvè a turbare quell’idillio indisturbato.
Ai tempi di Erode, dopo la distruzione di dieci tribù su dodici, il primo traumatizzante esilio, la perdita della libertà, la presenza invadente dei Romani, e sotto la pressione dei vicini ellenisti, che formavano una parte cospicua degli abitanti della Palestina, tutto il loro habitat mentale era cambiato.
L’idea del Dio iconoclasta dei pastori e l’antico concetto mosaico di un Dio spirituale e universale in un’unica fusione, una volta riattivati non potevano più coabitare con quella di un grande tempio, casa del Signore, in cui si facessero riti e sacrifici.
L’antichissima avversione mosaica per la casa, codificata nel decalogo, da rimossa cominciò a premere per un riconoscimento.
Come gli Ebrei avevano esorcizzato la proibizione della terra dedicando le primizie al Signore e codificando dei riti legati all’agricoltura, che hanno tutta la connotazione di scongiuri, così, l’antico tabù di possedere delle case emerse ex profundis: fu codificata la mezzuzà.
Questa è una piccolo contenitore, a forma di scatola rettangolare, che contiene alcuni brani della Torà. Questa piccola scatolina viene fissata sullo stipite destro esterno di ogni casa, in modo ben visibile, e ogni pio Ebreo, prima di varcare la soglia della propria casa, porta la mano destra alla mezzuzà e poi alla bocca.
La razionalizzazione di questo precetto spiega che l’angelo della morte, vedendo questo segno, non colpirà questa casa, come non aveva colpito le case degli Israeliti in Egitto.
Come ogni razionalizzazione contiene un nucleo di verità.
Gli elementi autentici di questa spiegazione sono l’angelo della morte e la casa.
Perché mai l’angelo del Signore, vedendo le case degli Ebrei, dovrebbe infuriarsi e colpirle di morte, se non perché la vista stessa di queste è la causa della sua ira?
Questo tabù si è dimostrato così potente che non è rimasto limitato solo alle case in terra d’Israele, come il tabù del possesso della terra e il suo scongiuro nella forma dei precetti legati alle primizie che sono considerati validi solo in terra d'Israele, bensì gli Ebrei se lo sono portato appresso nel loro peregrinare.
La mezzuzà sarà l’amuleto che terrà lontano il castigo.
Il senso di questo esorcismo è di tenere lontano l’angelo della morte dalle proprie case. Il peccato, che suscita il terrore di un simile castigo, è il possesso della casa stessa.
L’associazione stessa della casa si riallaccia alla decima piaga d’Egitto, la più terribile di tutte, quella della morte di ogni primogenito, primizia del ventre umano, come il frutto è la primizia della terra. Il significato intrinseco di questo legame associativo è che il possesso delle case, peccato mortale di una cultura di residenti fissi, come gli Egiziani, sia la causa della morte dei primogeniti.
Gli Israeliti furono risparmiati solo per merito dell’amuleto e soprattutto per la dichiarazione d’intenti, implicata dalla fuga, di ridiventare dei nomadi, al margine del seminato.
E così il circolo si richiude: la mezzuzà, attaccata agli stipiti delle case dei figli d’Israele, si ricollega all’Egitto e alla morte dei primogeniti, l’esodo dall’Egitto si ricollega a Mosè, e questi si ricollega al tabù da lui imposto: “Non desiderare la casa”.
Nella Torà, Dio impone al suo popolo di costruirgli un santuario: la casa del Signore.
Come abbiamo visto sopra anche questa imposizione, per essere capita, deve essere capovolta.
Gli Ebrei, nella loro brama di possedere delle case, proiettano sul loro Dio questo desiderio. È come se avessero gridato all’angelo della morte: “Non siamo stati noi, è stato lui ! Noi abbiamo solo eseguito degli ordini !”
Ma le tracce della mistificazione rimangono nei sedimenti dei sensi di colpa e negli scongiuri mesi in atto per esorcizzarli.
Come la terra, dal momento che fu posseduta, ci si aspettava a priori che andasse persa, così il Tempio, dal momento che fu costruito, ci si aspettava a priori che dovesse venire distrutto.
La Mishnà e il Talmud, apparentemente hanno solo parole di lode per il Tempio e i suoi riti.
Una volta distrutto divenne il simbolo della libertà perduta, e la sua distruzione l’inizio di un esilio, che questa volta “non finisce mai”, le sue macerie, simbolo dell’ira divina.
Tutto quello che riguarda il Tempio venne proiettato nella sfera mitica dell’epoca dell’oro perduta, di quello che è stato e che non sarà mai più.
Ma, e qui emerge il vero contenuto emotivo conflittuale di questo lutto, viene proibito categoricamente di ricostruirlo.
L’eredità spirituale di Mosè e il messaggio di Ionadav Ben Racav avevano trionfato sugli altri strati della psiche ebraica.
Sulle macerie della casa maledetta risuona l’eco dell’anatema dei Profeti:
 “...Sono sazio degli olocausti di montoni e del grasso di giovenchi; il sangue di tori e di agnelli e di capri io non lo gradisco. Quando venite a presentarvi a me, chi richiede da voi che veniate a calpestare i miei atri?”.(Isaia 1/11-13).
Tutto lo zelo, che ci mette il popolo ebraico nel suo ardore per esaltare il Tempio, le lacrime amare sulle pietre dell’ultimo muro, e l’ardente nostalgia per l’età dell’oro, da una parte, e l’estremo tabù verso il luogo sacro, l’inibizione interiorizzata a ripetere il misfatto, dall’altra, sembrano gridare: “Abbiamo perso la cosa a noi più cara, ma guai a chi ce la restituisce!”


Epilogo

Quei gruppi di estremisti, per il momento ancora minoranza trascurabile, che oggi predicano di distruggere le moschee sul Monte del Tempio, per fare posto a un nuovo santuario, a immagine e somiglianza di quello antico, viene giustamente considerato dalla maggioranza un gruppo di psicotici, feccia di un popolo ormai salito su gradini ben più alti di spiritualità.
Al di là dell’immoralità politica ed esistenziale di una proposta del genere, egocentrismo infantile di chi non è pronto a considerare l’esistenza di un altro popolo, che condivide con noi gli stessi luoghi santi e la stessa terra benedetta, anche considerando la cosa esclusivamente dal punto di vista interno della moralità ebraica, la proposta stessa è immorale e antiebraica: è un invito ad una regressione esistenziale a quelli strati della psiche rimasti idolatri. La lunga sofferenza di questi ultimi due millenni ha insegnato al popolo ebraico a distillare e assorbire il messaggio di Mosè, suo profeta, servo di un Dio che “abiterà in mezzo a loro” e non in una casa a immagine e somiglianza di quelle degli altri dei.
Solo se il suo messaggio e quello di Ionadav Ben Rehav, portato ad esempio dai Profeti, saranno stati assorbiti, i due strati antitetici della psiche ebraica, che la tormentano dall’inizio della storia, potranno convivere in pace, fecondandosi a vicenda e distillando le qualità di entrambi in un’unica sintesi.
Allora si avvereranno le parole del Profeta:
 “...Il lupo dimorerà insieme con l’agnello, la pantera si sdraierà accanto al capretto; il vitello e il leoncino pascoleranno insieme...” (Isaia 11/6).

Links

Uccidere Dio. Il destino del popolo ebraico (Dall'assassinio di Mosè all'omicidio di Rabin)
Trauma della nascita, esilio e monoteismo
Sacralità, intoccabilità e tabù
Una storia di sassi. Dalla teoria cloacale al parricidio primordiale
Il tabù della soglia
La figura di Dio nell'ebraismo: Padre o Madre? (La lettera di una lettrice)


Appendix:

Riporto sotto un brano dalle Antichità giudaiche di Giuseppe Flavio dove lo scrittore ebreo - romano ci dà una versione rimasta fuori dalle scritture sacre, ma che certamente non poteva essersi inventato dal nulla, che corrisponde a quella da noi articolata.
Accanto alla versione ufficiale, esisteva evidentemente anche quella di un Mosè che voleva impedire agli ebrei di conquistare la "Terra Promessa", e si ergeva a barriera tra il popolo e le sue brame di conquista.

1. NOW this life of the Hebrews in the wilderness was so disagreeable and troublesome to them, and they were so uneasy at it, that although God had forbidden them to meddle with the Canaanites, yet could they not be persuaded to be obedient to the words of Moses, and to be quiet; but supposing they should be able to beat their enemies, without his approbation, they accused him, and suspected that he made it his business to keep in a distressed condition, that they might always stand in need of his assistance. Accordingly they resolved to fight with the Canaanites, and said that God gave them his assistance, not out of regard to Moses's intercessions, but because he took care of their entire nation, on account of their forefathers, whose affairs he took under his own conduct; as also, that it was on account of their own virtue that he had formerly procured them their liberty, and would be assisting to them, now they were willing to take pains for it. They also said that they were possessed of abilities sufficient for the conquest of their enemies, although Moses should have a mind to alienate God from them; that, however, it was for their advantage to be their own masters, and not so far to rejoice in their deliverance from the indignities they endured under the Egyptians, as to bear the tyranny of Moses over them, and to suffer themselves to be deluded, and live according to his pleasure, as though God did only foretell what concerns us out of his kindness to him, as if they were not all the posterity of Abraham; that God made him alone the author of all the knowledge we have, and we must still learn it from him; that it would be a piece of prudence to oppose his arrogant pretenses, and to put their confidence in God, and to resolve to take possession of that land which he had promised them, and not to give ear to him, who on this account, and under the pretense of Divine authority, forbade them so to do. Considering, therefore, the distressed state they were in at present, and that in those desert places they were still to expect things would be worse with them, they resolved to fight with the Canaanites, as submitting only to God, their supreme Commander, and not waiting for any assistance from their legislator. (Ant., IV:1)


Addendum

Febbraio 08, 2003

Le ulteriori ricerche di questi ultimi anni mi portano a riconsiderare alcune affermazioni formulate nell’articolo.
Concordo con Ahmed Osman che ha provato soddisfacentemente in Out of Egypt (London 1998) che Mosè e Ekhnaton siano state la stessa persona.
Concordo anche con la sua conclusione che egli si stato assassinato dagli Egizi stessi nel Sinai, e non dagli Israeliti.
Le tracce mnestiche di questo assassinio sono quelle che emergono nel testo biblico.
Il perchè il popolo ebraico abbia preso su di sè i sensi di colpa per questo regicidio-parricidio è una questione complessa. Apparentemente l’assassinio di un Faraone, considerato nel Medio Oriente antico un uomo-dio, è stato un trauma per tutti i popoli della regione, e quindi anche per i clan giudaici che vagavano nel Neghev e nel Sinai.
Questa regione, come tutto Canaan (la Palestina), durante la XVIII dinastia era sotto forti influenze e presenza egizia.
L’assassinio fu rimosso, e inconsciamente associato al parricidio preistorico, reattivandone le tracce mnestiche dopo la distruzione del Regno d’Israele nel 721 e con l’esilio di Giuda nel 586.
La distruzione di Giuda e l’esilio spiegano perchè furono proprio i Giudei a conservare la traccia attiva del parricidio e ad assumersene la colpa. Come ci ha spiegato Freud, non sono gli eventi che contano, ma la loro interpretazione a posteriori.
Freud avrebbe dovuto applicare la lezione che ci ha insegnato anche agli eventi in Egitto e nel Sinai.
Quindi, un Mosè storico egizio ci fu, ma non fu Mosè, ovvero, la figura di Ekhnaton emerse nel testo biblico nelle parti che ci raccontano di un Mosè egizio. Lo stesso vale per le citazioni di Giuseppe Flavio (Josephus) da Manetho e quelle talmudiche.
Ne consegue che gli eventi dell’Esodo non furono eventi reali (realtà materiale –secondo la definizione di Freud - cfr. L'Uomo Mosè e la religione monoteistica, Terzo saggio 2G), ma eventi che si riferiscono a una realtà psichica (realtà storica - ibidem).
Mosè – Ekhnaton non si mise dunque a capo dei clan ebraici che vagavano ai margini del seminato, ma così fu interpretata la sua figura a posteriori.
Le tracce di un assassinio rimosso e di una sostituzione, come da noi decodificate analizzando il testo biblico, appartengono alla realtà psichica del popolo ebraico, e durante la storia premettero per un riconoscimento, malgrado non si riferissero a una realtà materiale.
Dopo l'esilio, la figura di Ekhnaton-Mosè, faraone d'Egitto e dio in terra, fu ri-interpretata come istanza paterna e inibitrice, poichè questi era stato colui quello che aveva voluto imporre il monoteismo (ritorno del Padre primigenio) sulle terre sotto il suo controllo, che comprendevano l'Egitto e Canaan stesso.
La traccia mnestica rimossa del suo assassinio si fuse con quella dei riti totemici e puberali che avvenivano periodicamente nel Sinai sulla montagna sacra, in cui veniva reattivato il rito del pasto totemico, che rappresenta in sé una ripetizione del parricidio primordiale.
Come da noi sostenuto, il decimo comandamento si riferiva originalmente al "Non possedere una casa", ma non poteva avere niente a che fare con un Mosè egizio-Ekhnaton, che che aveva probabilmente avuto solo pochi contatti con i clan ebraici che vagavano ai margini del seminato.
La proibizione di possedere case e vigne faceva parte dei tabù dei clan giudaici del Neghev e del Sinai che erano sempre stati nomadi, e questo tabù si fece strada nel decimo comandamento.
Quando questi clan giudaici meridionali invasero il seminato, insieme ai clan israeliti della Transgiordania, che non erano mai stati nel Neghev e nel Sinai (a questi ultimi si riferiscono le saghe dei Padri, come evidenziato da Wellhausen), il tabù fu rimosso, e cominciò a premere per un riconoscimento nella codificazione post-esilica dei precetti legati all'agricoltura e in quella della mezuzah.
Infatti il tabù di possedere case e vigne si riferisce solo ai clan giudaici e non a quelli israeliti.
Dopo l'esilio, solo di giudei infatti si trattava,
Il versetto dell'Esodo da noi riportato “...Dio non lo condusse per la strada del paese dei Filistei, benché fosse più corta, perché Dio pensava: “Altrimenti il popolo, vedendo imminente la guerra, potrebbe pentirsi e tornare in Egitto” (Es.13/18), si riferisce, probabilmente, a un tentativo d'invasione della Palestina meridionale da parte dei clan del Sinai, evidentemente andato male.
Ciononostante, la nostra interpretazione di un Mosè egizio che volesse impedire agli ebrei d'insediarsi in Canaan rimane valida, non in quanto ci sia mai stato un Mosè siffatto, ma in quanto come tale fu interpretato dalla psiche ebraica post-esilica, come imago paterna e inibitrice (verità storica). Per quello che ci riguarda, questo è quello che conta, poiché  è quello che decise delle sorti del popolo ebraico, e non l'evento storico in sé (verità materiale).
Dalla citazione da noi riportata dalle Antichità (IV:1) emerge un contenuto che anche se non si riferisce a una realtà materiale si riferisce però a una realtà storica, ovvero, psichica. Nell'inconscio ebraico, il Padre (come la figura di Mosè fu rielaborata a posteriori), fu assassinato in quanto voleva inibire l'orda dal corpo della madre (la Terra Promessa).
Reik stesso allude a Mosè come se fosse stato interpretato inizialmente come un dio - Figlio, che sale sulla montagna sacra per carpire il fallo paterno e commettere il patricidio.

Millenni di rimozione e di condensazione hanno creato la confusione, e noi dobbiamo farci strada a fatica, aggiustando il tiro come possiamo, cercando di preoccuparci solo della nostra integrità analitica.
Se sembra complicato, lo è.

[email protected]

NOTE

(1) Giuseppe Flavio (o Josephus) naque come Iosef ben Mattatiahu ed era di una famiglia importante di sacerdoti (Cohanim) di Gerusalemme. Con lo scoppio della rivolta ebraica contro i Romani, nel 66 A.D., divenne uno dei generali ed era il comandante della fortezza di Iodfat (Iotapata) in Galilea, quando questa fu espugnata da Vespasiano.
Si salvò facendo a Vespasiano la profezia che sarebbe diventato imperatore. Quando questo avvenne, nel 69, l’imperatore lo adottò e gli diede il nome della famiglia Flavia.
Attraverso le sue opere, e soprattutto "La Guerra Giudaica"  conosciamo i particolari della situazione a Gerusalemme durante la rivolta. Ovviamente Josephus era interessato a giustificare il suo voltafaccia, che da comandante degli insorti aveva fatto di lui il beniamino di Vespasiano e di Tito. A questo scopo dipinge a tinte fosche gli insorti che difendevano Gerusalemme e li definisce zeloti e fanatici. Durante il sacco di Gerusalemme del 70 A.D.  era nel campo romano e si accompagnava a Tito.
Odiato dagli Ebrei, suoi confratelli, le sue opere furono conservate dai Cristiani solo nella loro traduzione greca.

(2) Per  gli antichi “sacro” significava inavvicinabile in quanto troppo santo o troppo sacrilego. Non esisteva una differenziazione tra i due concetti e questi due poli erano concepiti come un’unica unità. In latino sacer, significa le due cose, sacro e sacrilego, e anche in italiano la radice è rimasta la stessa: sacr-o, sacr-ilego. Il francese ha conservato il pieno significato dell’ambivalenza: sacré, vuol dire sia sacro che maledetto. In ebraico qaddosh, vuol dire santo e la qaddeshà è la prostituta sacra che la Torà vieta di avvicinare. In arabo haram, significa sia santo che proibito.

(3) Johannes Lehmann, Moses der Mann aus Aegypten,  Hoffmann und Campe Verlag, Hamburg 1983, tr.it. : Mosè l’Egiziano, Garzanti,  Milano1987, pp.187-189.

(4) Quando un uomo seduce una vergine la sua unica penalità consiste nel dover sposare la donna sedotta e aggiungerla alla lista delle altre mogli o , a preferenza della di lei famiglia, pagare una penalità pecuniaria per la verginità perduta. Per adoperare un’espressione di Bartolo nelle “Nozze di Figaro”: “O pagare o sposare...!”

(5)  Per la cronologia del Pentateuco e in particolare del Deuteronomio, vedi Julius Wellhhausen, Prolegomena zur Geschichte Israels, Reimer, Berlino, 1899. Trad. Ingl.: Prolegomena to the History of Ancient Israel, The Meridian Library, New York 1957, pp. 1-13. L’autore prende per buona l’affermazione stessa della Bibbia (2 RE 22/8-9), secondo la quale il libro del Deuteronomio sarebbe stato “trovato”, cioè composto, ai tempi di Giosia, re di Giuda.

(6)  Per l’ipotesi che Mosè fosse egiziano vedi: Sigmund Freud, “L’uomo Mosè e il monoteismo”, primo saggio, in  Opere,  Bollati Boringhieri, Torino 1989, Vol. 11, pp. 337-344.
Freud evidentemente non conosceva  il primo libro di Josepus: “Contro Appio”, poiché se l’avesse conosciuto non avrebbe avuto bisogno di sforzarsi tanto nel cercare di dimostrare la sua tesi con prove circostanziali. Josephus infatti cita Manetho, il sacerdote egizio del IV sec. A.C., che dice in maniera esplicita che Mosè era egiziano (I, 31-2). Dal momento che Josephus cerca di confutare aspramente questa tesi, non c’è motivo di pensare che se la sia inventata. Quindi esisteva una tradizione egizia, ancora viva nel IV sec. A.C., che faceva di Mosè un sacerdote egiziano di Eliopolis, cacciato dall’Egitto insieme agli Israeliti poiché “lebbroso”. Nemeno gli Egiziani non avevano motivazione alcuna di inventarsi una cosa del genere, che un loro sacerdote, uomo importante, si sia unito a dei “lebbrosi” e sia uscito dall’Egitto con loro.
Per come Mosè abbia trasmesso agli Ebrei la religione di Aton, vedi Freud, ibidem, secondo saggio, pp.346-358.

(7) Freud, op.cit., secondo saggio, p. 373

(8) Katleen Kenyon, Archaeology in the Holy Land, London 1960, 1965 e 1970, p. 221

(9) Cfr. Supra, nota 5.

(10) Kenyon, ibidem, pp. 240-259.

(11) Ibidem, p.248. Gli ultimi scavi archeologici, effettuati dall'Universita' di Tel Aviv, mettono in dubbio che si tratti di fatto di scuderie. Pare che siano stati invece dei magazzini, ma comunque pur sempre strutture monumentali.

(12) Cfr. Supra, nota 5
 
 

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