Iakov Levi
GLI EBREI E IL LORO TEMPIO
"Essi mi faranno un santuario e io abiterò in mezzo a loro" (Esodo 25,8)
Il Tempio di Gerusalemme è il simbolo di quello
che di più sacro abbia mai avuto il popolo ebraico. Col passare
dei secoli questo divenne anche il simbolo della sovranità nazionale
e la sua distruzione la materializzazione della sua perdita.
L’unica cosa che rimane di esso è una minima porzione
del terzo muro di cinta, quello più esterno, che circondava il cortile
del santuario.
Gli Ebrei lo denominano: “il muro occidentale” (Ha-Kotel
Ha-Maaravi), i Gentili lo chiamano “il muro del pianto”, poiché li
vedono andare in pellegrinaggio, fino a toccarlo con la fronte
e a versare lì le proprie lacrime.
Tribalità e monarchia
Nel libro di Geremia (35,1-19) si racconta di una strana famiglia, quella di Ionadav Ben Rahav, il clan ebraico dei Rekaviti che, condotti dal profeta nel Tempio e messi davanti a boccali pieni di vino, avevano risposto:
Noi non beviamo vino, perché Ionadab figlio di Rekab, nostro antenato ci diede quest’ordine: Non berrete vino, né voi, né i vostri figli, mai; non costruirete case, non seminerete sementi, non pianterete vigne e non ne possederete alcuna, ma abiterete nelle tende tutti i vostri giorni, perché possiate vivere a lungo sulla terra, dove vivete come forestieri. Noi abbiamo obbedito agli ordini di Ionadab figlio di Rekab, nostro antenato, riguardo a quanto ci ha comandato, così che né noi, le nostre mogli, i nostri figli e le nostre figlie, non beviamo vino per tutta la nostra vita; non costruiamo case da abitare né possediamo vigne o campi o sementi. Noi abitiamo nelle tende, obbediamo e facciamo quanto ci ha comandato Ionadab nostro antenato(35,6-10).In seguito il Signore, per bocca del profeta, li loda per il loro modo di vivere.
Agli occhi di Samuele la proposta era cattiva perché avevano detto: “Dacci un re che ci governi”. Perciò Samuele pregò il Signore. Il Signore rispose a Samuele: "Ascolta la voce del popolo per quanto ti ha detto, perché costoro non hanno rigettato te, ma hanno rigettato me, perché io non regni più su di essi. Come si sono comportati, dal giorno in cui li ho fatti uscire dall’Egitto fino ad oggi, abbandonando me per seguire altri dei". ( I Sam.8, 6-9).Dai suddetti versetti appare chiaro che monarchia e idolatria vanno di pari passo. Esigere un re vuole dire abbandonare il culto di Iahvè, Dio dei pastori, per seguire i culti locali. La minaccia e doppia: esigere un re vuol dire cambiare struttura sociale, e cambiare questa vuol dire anche cambiare religione.
Queste saranno le pretese del re che regnerà su di voi: Prenderà i vostri figli per destinarli ai suoi carri e ai suoi cavalli, li farà correre davanti al suo cocchio, li farà capi di migliaia e capi di cinquantine; li costringerà ad arare i suoi campi, a mietere le sue messi, ad apprestargli armi per le sue battaglie e attrezzature per i suoi carri. Prenderà anche le vostre figlie per farle sue profumiere e cuoche e fornaie. Si farà pure consegnare i vostri campi, le vostre vigne, i vostri oliveti più belli e li regalerà ai suoi ministri. Sulle vostre sementi e sulle vostre vigne prenderà le decime e le darà ai suoi consiglieri e ai suoi ministri. Vi sequestrerà gli schiavi e le schiave, i vostri armenti migliori e i vostri asini e li adoprerà nei suoi lavori. Metterà la decima sui vostri greggi, e voi stessi diventerete suoi schiavi (I Sam., 8,11-18).Più chiaro di così, il Profeta non avrebbe potuto essere.
Il popolo non diede retta a Samuele e rifiutò di ascoltare la sua voce, ma gridò: “No, ci sia un re su di noi. Saremo anche noi come tutti i popoli; il nostro re ci farà da giudice, uscirà alla nostra testa e combatterà le nostre battaglie”(I Sam 8,19-20).Gli Israeliti intendevano con questo essere come tutti gli altri popoli sedentari.
Case e tende
Il teologo tedesco J. Lehmann, riesce a provare (3), seguendo
il filo del discorso proposto da E. Auerbach, che in realtà il decimo
comandamento, come viene presentato il decalogo nel ventesimo capitolo
del libro dell’Esodo, era originalmente “Non desiderare la casa” e solo
in epoca posteriore fu aggiunto “d’altri”, quando questo comandamento non
aveva più nessun senso, per un popolo che si era insediato in un
luogo fisso e abitava in villaggi, fatti di case di pietra e di argilla.
Lehmann nota che, mentre i cinque ultimi comandamenti
sono molto concisi e aprono tutti con la parola: “Non”, il decimo, dopo
l’imperativo conciso: “Non desiderare la casa del tuo prossimo”, aggiunge,
per meglio mascherare la sua vera natura, “ Non desiderare la moglie del
tuo prossimo, né il suo schiavo, né la sua schiava, né
il suo bue, né il suo asino, né alcuna cosa che appartenga
al tuo prossimo.”
Tutta questa lista è completamente superflua,
e male si addice alla concisione peculiare delle altre proibizioni. Inoltre
il “Non desiderare la moglie del tuo prossimo” rientra già nell’ambito
del settimo “Non commettere adulterio”, e l’interdizione alle altre cose
appartenenti al prossimo rientra già nell’ottavo “Non rubare”.
L’idea del “desiderare” per quello che riguarda le cose
del prossimo non può venire considerata un’interdizione separate
dal “non rubare”, poiché per l’ebraismo antico non esisteva
un peccato di desiderio, separato dall’azione.
Nella legislazione ebraica solo le azioni sono punibili
e non i “desideri”.
Parimenti, per quello che riguarda la donna d’altri.
Inoltre non vi è distinzione tra adulterio e “donna d’altri”, poiché adulterio è considerato solo quello
commesso in relazione a una donna sposata: nella società poligama
un uomo, anche sposato, che seduca una vergine che non sia fidanzata, non
commette adulterio alcuno (4).
Nel quinto capitolo del Deuteronomio il decalogo viene
ripetuto.
Questo libro risale alla fine del settimo sec. A.C.,
ai tempi delle riforme di Giosia (5). Qui, le tracce
della vera natura del decimo Comandamento vennero cancellate meglio. Qui
l’interdizione alla casa viene mescolata nel bel mezzo di tutte le altre
proibizione del “Non desiderare”, e diviene così irriconoscibile.
Il Decalogo, che è forse la parte più antica
di tutta la legislazione ebraica, e che probabilmente risale a Mosè
stesso, il principe egiziano che voleva inculcare al popolo ebraico la
spiritualità della religione di Aton (6), comprende, così,
il desiderare la casa tra i peccati più gravi: un vero e proprio
tabù, che ci riallaccia alle parole dei Rekaviti, menzionate sopra.
Il racconto di Ionadav ben Rakav costituisce la traccia più evidente
della vera natura delle intenzioni mosaiche, poiché viene riportato
da Geremia come esempio di purezza e di autenticità.
Lehmann, perfezionando e correggendo il pensiero di Freud,
espone inoltre come in realtà il desiderio di Mosè fosse
di trattenere il popolo al di fuori della Terra Promessa, e di farne un
popolo ideale di nomadi, un popolo santo, nell’osservanza della spiritualità
e del monoteismo più puro.
Mosè venne ucciso, quindi, non come sostiene
Freud, perché volesse inculcare agli Israeliti una religione troppo
spiritualizzata (7), ma bensì per un motivo ben più
concreto: voleva interdire loro le case e i campi dei Cananei. La Terra
Promessa non fu promessa, né da lui, né dal suo Dio, bensì
dal nuovo Mosè, sacerdote di Midian, che si mise alla testa del
popolo d’Israele dopo l’uccisione del grande condottiero.
Il popolo bramava le case, le vigne e i campi degli
odiati agricoltori Cananei. Mosè, il legislatore, voleva invece tenerli
lontani dal seminato e farne un popolo di nomadi, un popolo santo permeato
della spiritualità della nuova religione monoteistica. Da questo
conflitto scoppiavano tutte le rivolte così spesso menzionate dalla
Torà.
Come ha descritto Lehmann, in questo insolubile conflitto,
Mosè fu ucciso, la sua morte fu rimossa, e venne, così, rimossa
anche l’inibizione a gettarsi sul seminato.
Il redattore biblico tentò di cancellare le tracce
di come si svolsero realmente le cose, ma così facendo ci
presenta un testo pieno di contraddizioni, risultato inevitabile di ogni
contraffazione storica, che non regge ad un’analisi dei dettagli.
Capovolgendo il quadro di alcuni eventi, la situazione
diventa ancora più chiara.
La Bibbia ci presenta una situazione in cui Mosè
tentava di spingere il popolo verso la Terra Promessa, suo malgrado, quasi
di forza, e questi invece desiderasse continuamente rimanere al di quà
del seminato, preso dal terrore e dall’esitazione.
“Dio non condusse per la strada del paese dei Filistei,
benché fosse più corta, perché Dio pensava: “Altrimenti
il popolo, vedendo imminente la guerra, potrebbe pentirsi e tornare in
Egitto” ” (Ex.13/13).
L’assurdità interna del versetto stesso si aggiunge
all’incongruenza storica.
Gli scavi archeologici dimostrano che la strada per “la
via di Horus” (Via Maris) nell’epoca del Bronzo Antico, in cui si
svolse l’esodo (XIV-XIII sec. A.C.), era sgombra fino a Gezer, al centro
della Palestina: i Filistei, menzionati dal testo, si stabilirono sulla
costa meridionale solo due secoli dopo (8).
Ma soprattutto è molto strano che gli Israeliti,
presi
dal timore, abbiano preferito prendere la strada che li avrebbe portati
diretti alla barriera del Mar Rosso, con tutto l’esercito egiziano alle
spalle. In realtà fu Mosè che impedì loro la strada
che conduceva, direttamente e facilmente, alla meta agognata, e che quindi
ne pagò in seguito il prezzo. I miracoli, e soprattutto quello della
spartizione delle acque, fu il deus ex machina, atto ad affermare
la superiorità della volontà di Mosè e che dimostrasse
che fosse loro proibito seguire la strada verso la Palestina: la volontà
di Dio e di Mosè suo servo era che rimanessero nel deserto. Per
affermare questa volontà produsse il miracolo del passaggio del
Mar Rosso e tutti gli altri miracoli susseguenti.
L’altro racconto, che diventa comprensibile solo se capovolto,
è quello degli esploratori.
Anche qui è il Signore che, per bocca di Mosè,
ordina di mandare dodici esploratori “Tutti capi degli Israeliti” ad esplorare
la Terra Promessa (Nm.13,1-33).
Perché mai il Signore comanda di mandare degli
esploratori, ben sapendo che questi sarebbero tornati spaventati e avrebbero
seminato il panico?!
E infatti questi esploratori tornano terrorizzati e raccomandano
al popolo di non perseguire la conquista, cioè di rimanere nel deserto:
è Mosè che deve consolare il popolo.
Se capovolgiamo il racconto, come si fa spesso anche
nell’interpretazione dei sogni per trovarne la chiave, la vera situazione
diviene chiara: il popolo premeva per perseguire la conquista e Mosè
cercò di dissuaderlo adducendo l’impossibilità della cosa,
data la terribile potenza degli abitanti del seminato: come un adulto che
agiti lo spauracchio di qualche minaccia terribile, davanti agli occhi
di un bambino per dissuaderlo da qualche marachella.
In entrambi i casi, è il Signore, che “pensava":
“Altrimenti il popolo...potrebbe pentirsi e tornare in Egitto” e che poi
comanda a Mosè di mandare gli esploratori.
In entrambi i casi, il risultato è di inibire
i figli d’Israele dal soddisfare le proprie brame.
Dal risultato finale emerge, così, anche l’intenzione
iniziale.
Sulla soglia della cosa proibita
Il momento più solenne descritto nella Torà,
culmine ed apice di questa, secondo, forse, solo al “Maamad Har Sinai”,
il momento della promulgazione della Legge, è alla fine del peregrinare,
quando Mosè sta per morire e il popolo sta per ottenere il soddisfacimento
della sua massima aspirazione: stranamente, quello che più caratterizza
questo momento è la serie di maledizioni, che diventa, così,
l’elemento dominante.
Benedizioni, tremito gioioso dell’aspettativa, soddisfacimento
finale delle fantasie più ardite, da una parte, sfilza delle maledizioni
più atroci, dall’altra.
Chi legga il ventottesimo capitolo del Deuteronomio si
chiede, suo malgrado, che strano Dio sia mai questo, che tormenta il suo
popolo per quarant’anni nel deserto, gli promette la terra del latte e
del miele, e al momento di dargliela, lo riempie di improperi e maledizioni,
degne della mente sadica più perversa.
Il paragrafo dedicato alle benedizioni comprende quattordici
versetti, quello delle maledizioni cinquantaquattro.
Quello delle benedizioni è tiepido e controllato,
quello delle maledizioni una sfuriata incontrollata.
La profezia, che queste maledizioni si avvereranno solo
se il popolo peccherà, cioè il condizionale ipotetico, deve
essere stata aggiunta solo dopo, come razionalizzazione, poiché
più avanti sta scritto chiaramente:
So infatti, che dopo la mia morte [quella di Mosè] Voi certo vi corromperete e vi allontanerete dalla via che vi ho detto di seguire; la sventura vi colpirà negli ultimi giorni, perché avrete fatto ciò che è male agli occhi del Signore, provocandolo a sdegno con l’opera delle vostre mani (Deut.31/29).Quindi, le punizioni descritte prima, con tanto fervore macabro, sono una certezza, e non una condizione futura ipotetica, e il motivo è che il peccato sta già per avvenire, non in un lontano futuro, ma nel momento stesso dell’insediamento, con la conquista stessa della Terra Promessa.
Quando sarai entrato nel paese che il Signore tuo Dio ti darà in eredità e lo possederai e là ti sarai stabilito, prenderai le primizie del suolo da te raccolte...le metterai in una cesta e andrai al luogo che i Signore tuo Dio avrà scelto...Ora ecco io presento le primizie dei frutti del suolo che tu Signore, mi hai dato (Deut. 26, 1-10)...Quando avrai finito di prelevare tutte le decime delle tue entrate, il terzo anno, l’anno delle decime, e le avrai date al levita...(Deut. 26, 12-15)...Dovrai prelevare la decima da tutto il frutto della tua sementa, che il campo produce ogni anno...(Deut. 14, 22-24)Tutto quello che, in relazione alla terra, ai campi e alle case, era considerato tabù, da Mosè il Legislatore, principe d’Egitto e sacerdote di Aton, divenne precetto.
“Per sei anni seminerai il tuo campo e poterai la tua vigna e ne raccoglierai i frutti, ma il settimo anno sarà come un sabato...”(Lev. 25, 2-6)...Le terre non si potranno vendere per sempre, perché la terra è mia...(Lev.25/23).
I Re e le loro case
Ora potremo avvicinarci al problema del Tempio e disperdere
il fumo che ci acceca da millenni, per cercare di vedere in maniera più
chiara.
Abbiamo visto come l’attitudine di Samuele e dei Profeti
verso la monarchia sia stata estremamente negativa. Ma il Redattore del
Deuteronomio conviveva con una realtà monarchica che durava già
da almeno quattro secoli; doveva per forza prenderne atto:
Quando sarai entrato nel paese che il Signore tuo Dio sta per darti e ne avrai preso possesso e l’abiterai, se dirai: Voglio costituire sopra di me un re come tutte le nazioni che mi stanno intorno, dovrai costituire sopra di te come re colui che il Signore tuo Dio avrà scelto...Ma egli non dovrà procurarsi un gran numero di cavalli...non dovrà avere un gran numero di mogli, perché il suo cuore non si smarrisca; neppure abbia grandi quantità di argento e di oro (Deut.17/14-20).Anche qui vediamo come il Redattore del Deuteronomio, conoscendo la situazione che si era creata in pratica, pensa bene di codificarla e di legittimarla, facendola risalire allo stesso Mosè, ma senza riuscire, in questo caso così estremo per la psiche ebraica, a sradicare il profondo disgusto che ancora ne emanava.
Tutte queste costruzioni erano di pietre pregiate, squadrate secondo misura, segate con la sega sul lato interno ed esterno, dalle fondamenta ai cornicioni e al di fuori fino al cortile maggiore. Le fondamenta erano di pietre pregiate, pietre grandi dieci o otto cubiti. Al di sopra erano pietre pregiate, squadrate a misura, e legno di cedro. Il cortile maggiore comprendeva tre ordini di pietre squadrate e un ordine di tavole di cedro; era simile al cortile interno del tempio e al vestibolo del tempio ( 1 RE 7/ 1-12).Un grande re costruì dunque grandi case, fra cui anche la Casa del Signore.
Salomone seguì Astarte, dea di quelli di Sidone, e Milcom obbrobrio degli Ammoniti...Salomone costruì un’altura in onore di Camos, obbrobrio dei Moabiti, sul monte che è di fronte a Gerusalemme, e anche in onore di Milcom, obbrobrio degli Ammoniti. Allo stesso modo fece per tutte le sue donne straniere, che offrivano incenso e sacrifici ai loro dei ( I RE 11/5-8).e fece una proiezione di tutto quello che è empio e lo attribuì ad Erode, malgrado questi, dopo aver terminato il grande Tempio al Signore, Dio degli Ebrei, appese sul cancello una grande lapide con una scritta in ebraico e in greco che proibiva, pena la morte, a qualsiasi Gentile di varcarne la soglia.
“ALLONTANATE DA LEI QUELL’OGGETTO D’ORRORE ”
(Don Ottavio, parlando del corpo morto del padre di Donna
Anna; in: Mozart/Da Ponte, Don Giovanni, atto I, scena I)
Il motivo è chiaro.
Ai tempi di Erode gli Ebrei non vivevano più,
come ai tempi di Salomone, una situazione mentale priva di conflitti, in
cui godevano beati della loro condizione di agricoltori pacifici, dediti
alle loro messi e ai loro culti idolatri. Durante la monarchia unita l’idea
del dio iconoclasta dei pastori era stata rimossa con successo, e comincerà
a premere solo dopo, quando emersero i Profeti di Jahvè a turbare
quell’idillio indisturbato.
Ai tempi di Erode, dopo la distruzione di dieci tribù
su dodici, il primo traumatizzante esilio, la perdita della libertà,
la presenza invadente dei Romani, e sotto la pressione dei vicini ellenisti,
che formavano una parte cospicua degli abitanti della Palestina, tutto
il loro habitat mentale era cambiato.
L’idea del Dio iconoclasta dei pastori e l’antico concetto
mosaico di un Dio spirituale e universale in un’unica fusione, una volta
riattivati non potevano più coabitare con quella di un grande tempio,
casa del Signore, in cui si facessero riti e sacrifici.
L’antichissima avversione mosaica per la casa, codificata
nel decalogo, da rimossa cominciò a premere per un riconoscimento.
Come gli Ebrei avevano esorcizzato la proibizione della
terra dedicando le primizie al Signore e codificando dei riti legati all’agricoltura,
che hanno tutta la connotazione di scongiuri, così, l’antico tabù
di possedere delle case emerse ex profundis: fu codificata la mezzuzà.
Questa è una piccolo contenitore, a forma di scatola
rettangolare, che contiene alcuni brani della Torà. Questa piccola
scatolina viene fissata sullo stipite destro esterno di ogni casa, in modo
ben visibile, e ogni pio Ebreo, prima di varcare la soglia della propria
casa, porta la mano destra alla mezzuzà e poi alla bocca.
La razionalizzazione di questo precetto spiega che l’angelo
della morte, vedendo questo segno, non colpirà questa casa, come
non aveva colpito le case degli Israeliti in Egitto.
Come ogni razionalizzazione contiene un nucleo di verità.
Gli elementi autentici di questa spiegazione sono l’angelo
della morte e la casa.
Perché mai l’angelo del Signore, vedendo le case
degli Ebrei, dovrebbe infuriarsi e colpirle di morte, se non perché
la vista stessa di queste è la causa della sua ira?
Questo tabù si è dimostrato così
potente che non è rimasto limitato solo alle case in terra d’Israele,
come il tabù del possesso della terra e il suo scongiuro nella forma
dei precetti legati alle primizie che sono considerati validi solo in terra
d'Israele, bensì gli Ebrei se lo sono portato appresso nel loro
peregrinare.
La mezzuzà sarà l’amuleto che terrà
lontano il castigo.
Il senso di questo esorcismo è di tenere lontano
l’angelo della morte dalle proprie case. Il peccato, che suscita il terrore
di un simile castigo, è il possesso della casa stessa.
L’associazione stessa della casa si riallaccia alla decima
piaga d’Egitto, la più terribile di tutte, quella della morte di
ogni primogenito, primizia del ventre umano, come il frutto è la
primizia della terra. Il significato intrinseco di questo legame associativo
è che il possesso delle case, peccato mortale di una cultura di
residenti fissi, come gli Egiziani, sia la causa della morte dei primogeniti.
Gli Israeliti furono risparmiati solo per merito dell’amuleto
e soprattutto per la dichiarazione d’intenti, implicata dalla fuga, di
ridiventare dei nomadi, al margine del seminato.
E così il circolo si richiude: la mezzuzà,
attaccata agli stipiti delle case dei figli d’Israele, si ricollega all’Egitto
e alla morte dei primogeniti, l’esodo dall’Egitto si ricollega a Mosè,
e questi si ricollega al tabù da lui imposto: “Non desiderare la
casa”.
Nella Torà, Dio impone al suo popolo di costruirgli
un santuario: la casa del Signore.
Come abbiamo visto sopra anche questa imposizione, per
essere capita, deve essere capovolta.
Gli Ebrei, nella loro brama di possedere delle case,
proiettano sul loro Dio questo desiderio. È come se avessero gridato
all’angelo della morte: “Non siamo stati noi, è stato lui ! Noi
abbiamo solo eseguito degli ordini !”
Ma le tracce della mistificazione rimangono nei sedimenti
dei sensi di colpa e negli scongiuri mesi in atto per esorcizzarli.
Come la terra, dal momento che fu posseduta, ci si aspettava
a priori che andasse persa, così il Tempio, dal momento che fu costruito,
ci si aspettava a priori che dovesse venire distrutto.
La Mishnà e il Talmud, apparentemente hanno solo
parole di lode per il Tempio e i suoi riti.
Una volta distrutto divenne il simbolo della libertà
perduta, e la sua distruzione l’inizio di un esilio, che questa volta “non
finisce mai”, le sue macerie, simbolo dell’ira divina.
Tutto quello che riguarda il Tempio venne proiettato
nella sfera mitica dell’epoca dell’oro perduta, di quello che è
stato e che non sarà mai più.
Ma, e qui emerge il vero contenuto emotivo conflittuale
di questo lutto, viene proibito categoricamente di ricostruirlo.
L’eredità spirituale di Mosè e il messaggio
di Ionadav Ben Racav avevano trionfato sugli altri strati della psiche
ebraica.
Sulle macerie della casa maledetta risuona l’eco dell’anatema
dei Profeti:
“...Sono sazio degli olocausti di montoni e del
grasso di giovenchi; il sangue di tori e di agnelli e di capri io non lo
gradisco. Quando venite a presentarvi a me, chi richiede da voi che veniate
a calpestare i miei atri?”.(Isaia 1/11-13).
Tutto lo zelo, che ci mette il popolo ebraico nel suo
ardore per esaltare il Tempio, le lacrime amare sulle pietre dell’ultimo
muro, e l’ardente nostalgia per l’età dell’oro, da una parte, e
l’estremo tabù verso il luogo sacro, l’inibizione interiorizzata
a ripetere il misfatto, dall’altra, sembrano gridare: “Abbiamo perso la
cosa a noi più cara, ma guai a chi ce la restituisce!”
Epilogo
Quei gruppi di estremisti, per il momento ancora minoranza
trascurabile, che oggi predicano di distruggere le moschee sul Monte del
Tempio, per fare posto a un nuovo santuario, a immagine e somiglianza di
quello antico, viene giustamente considerato dalla maggioranza un gruppo
di psicotici, feccia di un popolo ormai salito su gradini ben più
alti di spiritualità.
Al di là dell’immoralità politica ed esistenziale
di una proposta del genere, egocentrismo infantile di chi non è
pronto a considerare l’esistenza di un altro popolo, che condivide con
noi gli stessi luoghi santi e la stessa terra benedetta, anche considerando
la cosa esclusivamente dal punto di vista interno della moralità
ebraica, la proposta stessa è immorale e antiebraica: è un
invito ad una regressione esistenziale a quelli strati della psiche rimasti
idolatri. La lunga sofferenza di questi ultimi due millenni ha insegnato
al popolo ebraico a distillare e assorbire il messaggio di Mosè,
suo profeta, servo di un Dio che “abiterà in mezzo a loro” e non
in una casa a immagine e somiglianza di quelle degli altri dei.
Solo se il suo messaggio e quello di Ionadav Ben Rehav,
portato ad esempio dai Profeti, saranno stati assorbiti, i due strati antitetici
della psiche ebraica, che la tormentano dall’inizio della storia, potranno
convivere in pace, fecondandosi a vicenda e distillando le qualità
di entrambi in un’unica sintesi.
Allora si avvereranno le parole del Profeta:
“...Il lupo dimorerà insieme con l’agnello,
la pantera si sdraierà accanto al capretto; il vitello e il leoncino
pascoleranno insieme...” (Isaia 11/6).
Links
Riporto sotto un brano dalle Antichità giudaiche di Giuseppe Flavio dove lo scrittore ebreo - romano ci dà una versione rimasta fuori dalle scritture sacre, ma che certamente non poteva essersi inventato dal nulla, che corrisponde a quella da noi articolata. Febbraio 08, 2003
Le ulteriori ricerche di questi ultimi anni mi portano
a riconsiderare alcune affermazioni formulate nellarticolo.
Millenni di rimozione e di condensazione hanno creato
la confusione, e noi dobbiamo farci strada a fatica, aggiustando il tiro
come possiamo, cercando di preoccuparci solo della nostra integrità
analitica.
Uccidere
Dio. Il destino del popolo ebraico (Dall'assassinio di Mosè all'omicidio
di Rabin)
Trauma
della nascita, esilio e monoteismo
Sacralità, intoccabilità e tabù
Una storia di sassi. Dalla teoria cloacale al parricidio primordiale
Il tabù della soglia
La figura di Dio nell'ebraismo: Padre o Madre? (La lettera di una lettrice)
Appendix:
Accanto alla versione ufficiale, esisteva evidentemente anche quella di un Mosè che voleva impedire agli ebrei di conquistare la "Terra Promessa", e si ergeva a barriera tra il popolo e le sue brame di conquista.
1. NOW this life of the Hebrews in the wilderness
was so disagreeable and troublesome to them, and they were so uneasy at
it, that although God had forbidden them to meddle with the Canaanites,
yet could they not be persuaded to be obedient to the words of Moses, and
to be quiet; but supposing they should be able to beat their
enemies, without his approbation, they accused him, and suspected that
he made it his business to keep in a distressed condition, that they might
always stand in need of his assistance. Accordingly they resolved to fight
with the Canaanites, and said that God gave them his assistance,
not out of regard to Moses's intercessions, but because he took care of
their entire nation, on account of their forefathers, whose affairs he
took under his own conduct; as also, that it was on account of their own
virtue that he had formerly procured them their liberty, and would be assisting
to them, now they were willing to take pains for it. They also said that
they were possessed of abilities sufficient for the conquest of their enemies,
although Moses should have a mind to alienate God from them; that, however,
it was for their advantage to be their own masters, and not so far to rejoice
in their deliverance from the indignities they endured under the Egyptians,
as to bear the tyranny of Moses over them, and to suffer themselves to
be deluded, and live according to his pleasure, as though God did only
foretell what concerns us out of his kindness to him, as if they were not
all the posterity of Abraham; that God made him alone the author
of all the knowledge we have, and we must still learn it from him; that
it would be a piece of prudence to oppose his arrogant pretenses, and to
put their confidence in God, and to resolve to take possession of that
land which he had promised them, and not to give ear to him, who on this
account, and under the pretense of Divine authority, forbade them so to
do. Considering, therefore, the distressed state they were in at present, and that in those desert places they were still
to expect things would be worse with them, they resolved to fight with
the Canaanites, as submitting only to God, their supreme Commander, and
not waiting for any assistance from their legislator. (Ant., IV:1)
Addendum
Concordo con Ahmed Osman che ha provato soddisfacentemente
in Out of Egypt (London 1998) che Mosè e Ekhnaton siano state
la stessa persona.
Concordo anche con la sua conclusione che egli si stato
assassinato dagli Egizi stessi nel Sinai, e non dagli Israeliti.
Le tracce mnestiche di questo assassinio sono quelle
che emergono nel testo biblico.
Il perchè il popolo ebraico abbia preso su di
sè i sensi di colpa per questo regicidio-parricidio è una
questione complessa. Apparentemente lassassinio di un Faraone, considerato
nel Medio Oriente antico un uomo-dio, è stato un trauma per tutti
i popoli della regione, e quindi anche per i clan giudaici che vagavano
nel Neghev e nel Sinai.
Questa regione, come tutto Canaan (la Palestina), durante
la XVIII dinastia era sotto forti influenze e presenza egizia.
Lassassinio fu rimosso, e inconsciamente associato al
parricidio preistorico, reattivandone le tracce mnestiche dopo la distruzione
del Regno dIsraele nel 721 e con lesilio di Giuda nel 586.
La distruzione di Giuda e lesilio spiegano perchè
furono proprio i Giudei a conservare la traccia attiva del parricidio e
ad assumersene la colpa. Come ci ha spiegato Freud, non sono gli eventi
che contano, ma la loro interpretazione a posteriori.
Freud avrebbe dovuto applicare la lezione che ci ha insegnato
anche agli eventi in Egitto e nel Sinai.
Quindi, un Mosè storico egizio ci fu, ma non fu
Mosè, ovvero, la figura di Ekhnaton emerse nel testo biblico nelle
parti che ci raccontano di un Mosè egizio. Lo stesso vale per le
citazioni di Giuseppe Flavio (Josephus) da Manetho e quelle talmudiche.
Ne consegue che gli eventi dellEsodo non furono eventi
reali (realtà materiale secondo la definizione di Freud - cfr.
L'Uomo
Mosè e la religione monoteistica, Terzo saggio 2G), ma eventi
che si riferiscono a una realtà psichica (realtà storica
- ibidem).
Mosè Ekhnaton non si mise dunque a capo dei
clan ebraici che vagavano ai margini del seminato, ma così fu interpretata
la sua figura a posteriori.
Le tracce di un assassinio rimosso e di una sostituzione,
come da noi decodificate analizzando il testo biblico, appartengono alla
realtà psichica del popolo ebraico, e durante la storia premettero
per un riconoscimento, malgrado non si riferissero a una realtà
materiale.
Dopo l'esilio, la figura di Ekhnaton-Mosè, faraone
d'Egitto e dio in terra, fu ri-interpretata come istanza paterna e inibitrice,
poichè questi era stato colui quello che aveva voluto imporre il
monoteismo (ritorno del Padre primigenio) sulle terre sotto il suo controllo,
che comprendevano l'Egitto e Canaan stesso.
La traccia mnestica rimossa del suo assassinio si fuse
con quella dei riti totemici e puberali che avvenivano periodicamente nel
Sinai sulla montagna sacra, in cui veniva reattivato il rito del pasto
totemico, che rappresenta in sé una ripetizione del parricidio primordiale.
Come da noi sostenuto, il decimo comandamento si riferiva
originalmente al "Non possedere una casa", ma non poteva avere niente a
che fare con un Mosè egizio-Ekhnaton, che che aveva probabilmente
avuto solo pochi contatti con i clan ebraici che vagavano ai margini del
seminato.
La proibizione di possedere case e vigne faceva parte
dei tabù dei clan giudaici del Neghev e del Sinai che erano sempre
stati nomadi, e questo tabù si fece strada nel decimo comandamento.
Quando questi clan giudaici meridionali invasero il seminato,
insieme ai clan israeliti della Transgiordania, che non erano mai stati
nel Neghev e nel Sinai (a questi ultimi si riferiscono le saghe dei Padri,
come evidenziato da Wellhausen), il tabù fu rimosso, e cominciò
a premere per un riconoscimento nella codificazione post-esilica dei precetti
legati all'agricoltura e in quella della mezuzah.
Infatti il tabù di possedere case e vigne si
riferisce solo ai clan giudaici e non a quelli israeliti.
Dopo l'esilio, solo di giudei infatti si trattava,
Il versetto dell'Esodo da noi riportato ...Dio non lo
condusse per la strada del paese dei Filistei, benché fosse più
corta, perché Dio pensava: Altrimenti il popolo, vedendo imminente
la guerra, potrebbe pentirsi e tornare in Egitto (Es.13/18), si riferisce,
probabilmente, a un tentativo d'invasione della Palestina meridionale da
parte dei clan del Sinai, evidentemente andato male.
Ciononostante, la nostra interpretazione di un Mosè
egizio che volesse impedire agli ebrei d'insediarsi in Canaan rimane valida,
non in quanto ci sia mai stato un Mosè siffatto, ma in quanto come
tale fu interpretato dalla psiche ebraica post-esilica, come imago
paterna e inibitrice (verità storica). Per quello che ci riguarda,
questo è quello che conta, poiché è quello che
decise delle sorti del popolo ebraico, e non l'evento storico in sé
(verità materiale).
Dalla citazione da noi riportata dalle Antichità (IV:1) emerge un contenuto che anche se non si riferisce a una realtà materiale si riferisce però a una realtà storica, ovvero, psichica. Nell'inconscio ebraico, il Padre (come la figura di Mosè fu rielaborata a posteriori), fu assassinato in quanto voleva inibire l'orda dal corpo della madre (la Terra Promessa).
Reik stesso allude a Mosè come se fosse stato interpretato inizialmente come un dio - Figlio, che sale sulla montagna sacra per carpire il fallo paterno e commettere il patricidio.
Se sembra complicato, lo è.
NOTE
(1) Giuseppe Flavio (o Josephus) naque come Iosef ben
Mattatiahu ed era di una famiglia importante di sacerdoti (Cohanim)
di Gerusalemme. Con lo scoppio della rivolta ebraica contro i Romani, nel
66 A.D., divenne uno dei generali ed era il comandante della fortezza di
Iodfat (Iotapata) in Galilea, quando questa fu espugnata da Vespasiano.
Si salvò facendo a Vespasiano la profezia che
sarebbe diventato imperatore. Quando questo avvenne, nel 69, l’imperatore
lo adottò e gli diede il nome della famiglia Flavia.
Attraverso le sue opere, e soprattutto "La Guerra Giudaica"
conosciamo i particolari della situazione a Gerusalemme durante la rivolta.
Ovviamente Josephus era interessato a giustificare il suo voltafaccia,
che da comandante degli insorti aveva fatto di lui il beniamino di Vespasiano
e di Tito. A questo scopo dipinge a tinte fosche gli insorti che difendevano
Gerusalemme e li definisce zeloti e fanatici. Durante il sacco di Gerusalemme
del 70 A.D. era nel campo romano e si accompagnava a Tito.
Odiato dagli Ebrei, suoi confratelli, le sue opere furono
conservate dai Cristiani solo nella loro traduzione greca.
(2) Per gli antichi “sacro” significava inavvicinabile in quanto troppo santo o troppo sacrilego. Non esisteva una differenziazione tra i due concetti e questi due poli erano concepiti come un’unica unità. In latino sacer, significa le due cose, sacro e sacrilego, e anche in italiano la radice è rimasta la stessa: sacr-o, sacr-ilego. Il francese ha conservato il pieno significato dell’ambivalenza: sacré, vuol dire sia sacro che maledetto. In ebraico qaddosh, vuol dire santo e la qaddeshà è la prostituta sacra che la Torà vieta di avvicinare. In arabo haram, significa sia santo che proibito.
(3) Johannes Lehmann, Moses der Mann aus Aegypten, Hoffmann und Campe Verlag, Hamburg 1983, tr.it. : Mosè l’Egiziano, Garzanti, Milano1987, pp.187-189.
(4) Quando un uomo seduce una vergine la sua unica penalità consiste nel dover sposare la donna sedotta e aggiungerla alla lista delle altre mogli o , a preferenza della di lei famiglia, pagare una penalità pecuniaria per la verginità perduta. Per adoperare un’espressione di Bartolo nelle “Nozze di Figaro”: “O pagare o sposare...!”
(5) Per la cronologia del Pentateuco e in particolare del Deuteronomio, vedi Julius Wellhhausen, Prolegomena zur Geschichte Israels, Reimer, Berlino, 1899. Trad. Ingl.: Prolegomena to the History of Ancient Israel, The Meridian Library, New York 1957, pp. 1-13. L’autore prende per buona l’affermazione stessa della Bibbia (2 RE 22/8-9), secondo la quale il libro del Deuteronomio sarebbe stato “trovato”, cioè composto, ai tempi di Giosia, re di Giuda.
(6) Per l’ipotesi che Mosè fosse egiziano
vedi: Sigmund Freud, “L’uomo Mosè e il monoteismo”, primo saggio,
in Opere, Bollati Boringhieri, Torino 1989, Vol. 11,
pp. 337-344.
Freud evidentemente non conosceva il primo libro
di Josepus: “Contro Appio”, poiché se l’avesse conosciuto non avrebbe
avuto bisogno di sforzarsi tanto nel cercare di dimostrare la sua tesi
con prove circostanziali. Josephus infatti cita Manetho, il sacerdote egizio
del IV sec. A.C., che dice in maniera esplicita che Mosè era egiziano
(I, 31-2). Dal momento che Josephus cerca di confutare aspramente questa
tesi, non c’è motivo di pensare che se la sia inventata. Quindi
esisteva una tradizione egizia, ancora viva nel IV sec. A.C., che faceva
di Mosè un sacerdote egiziano di Eliopolis, cacciato dall’Egitto
insieme agli Israeliti poiché “lebbroso”. Nemeno gli Egiziani non
avevano motivazione alcuna di inventarsi una cosa del genere, che un loro
sacerdote, uomo importante, si sia unito a dei “lebbrosi” e sia uscito
dall’Egitto con loro.
Per come Mosè abbia trasmesso agli Ebrei la religione
di Aton, vedi Freud, ibidem, secondo saggio, pp.346-358.
(7) Freud, op.cit., secondo saggio, p. 373
(8) Katleen Kenyon, Archaeology in the Holy Land, London 1960, 1965 e 1970, p. 221
(9) Cfr. Supra, nota 5.
(10) Kenyon, ibidem, pp. 240-259.
(11) Ibidem, p.248. Gli ultimi scavi archeologici, effettuati dall'Universita' di Tel Aviv, mettono in dubbio che si tratti di fatto di scuderie. Pare che siano stati invece dei magazzini, ma comunque pur sempre strutture monumentali.
(12) Cfr. Supra, nota 5