Antonio Montanari



Profilo di una crisi.

Biografia di Galeotto di Pietramala, cardinale "malatestiano".
Edizione minore, 2016 in unico documento.

Creato Cardinale nel 1378, Galeotto fugge da Urbano VI nel 1386 dopo che il Papa ha fatto uccidere un Vescovo e cinque Cardinali, e va ad Avignone, da dove scappa nel settembre 1397 perché privato dei redditi riconosciutigli da Clemente VII, recandosi a Valence e Vienne, dove muore l'8 febbraio 1398.
Avignone fu detta da Marsilio da Padova «la casa dei mercanti e l'orribile spelonca dei ladri». Per Francesco Petrarca era «la novella ed empia Babilonia da cui bisogna fuggire per salvare l'anima e la poesia».

Premessa

Nella prima versione della biografia che ho dedicato a Galeotto Tarlati di Pietramala (1356-1398), pubblicata sul web nel maggio 2014, manca una notizia fondamentale che ho presentato successivamente (novembre 2015), e che riguarda la fuga di Galeotto da Avignone sul finire del 1397, prima a Valence e poi a Vienne, dove scompare l'8 febbraio 1398.
Galeotto scappa da Avignone perché quell'ambiente gli era diventato ostile, di pari passo all'ascesa politica dei Malatesti nel mondo pontificio romano, quando Pandolfo III (fratello di sua madre Rengarda) è nominato comandante supremo delle armi della Chiesa, e mentre un cugino di Pandolfo III, Leale, è vescovo di Rimini (1374-1400).
La fuga da Avignone, ricalca quella precedente di Galeotto stesso da Urbano VI verso la stessa Avignone, nel settembre 1386.
E sembra completare un doppio profilo, quello biografico di un Cardinale "ribelle" per restare legato al dettato evangelico; e quello storico generale, in cui si inserisce il dato personale, per cui abbiamo scelto di intitolare queste pagine appunto "Profilo di una crisi".
La prima stesura dei miei scritti su Galeotto Tarlati di Pietramala (aprile 2014), conteneva una dedica ad Ezio Raimondi, scomparso il 18 marzo di quell’anno. Dedica che qui voglio ripetere, unendo il suo ricordo a quello degli altri miei Maestri all’Ateneo bolognese, come Paolo Rossi, Gina Fasoli, Giovanni Maria Bertin, Luciano Anceschi, Enzo Melandri.

1. Da Avignone a Costanza

Galeotto Tarlati di Pietramala (1356-1398) è nominato Cardinale diacono l'11 settembre 1378.
Egli vive in uno dei periodi più tragici della storia della Chiesa di Roma, tra la «cattività avignonese» (1305-1377) ed il «Grande Scisma» (1378-1417), sfociato nei roghi del Concilio di Costanza (1414-1418), quando, in nome della Croce, si uccidono Giovanni Huss (1415) e Girolamo da Praga (1416).



Huss, professore a Praga, è ammazzato nonostante il salvacondotto imperiale di cui era munito. I particolari dell'esecuzione sono terribili: lo attaccano ad un palo e gli danno fuoco. I soldati che rinvengono il suo cuore, lo bruciano separatamente. Suo scolaro era stato Girolamo da Praga.
Quelle fiamme ricordano quanto accaduto a Roma nel 1354 al corpo di Cola di Rienzo, eliminato con una stoccata nel ventre. Fu prima mutilato del capo, poi appeso per i piedi alle forche e colpito per due giorni dalle sassate di scherno dei giovani, ed infine bruciato dai Giudei davanti al mausoleo di Augusto [F. Papencordt, «Cola di Rienzo e il suo tempo», Pomba, Torino 1844, p. 289].
Nell'esperienza di Galeotto come uomo di Chiesa ed intellettuale formatosi sui classici della sua biblioteca, c'è un elemento costante, il suo rimettere in discussione tutto, con uno spirito saldo di ribellione che lo porta a fuggire prima da Urbano VI verso Avignone, nel settembre 1386; e poi dalla stessa Avignone, nel settembre 1397, verso Valence e Vienne, dove muore l'8 febbraio 1398.
Papa Urbano VI (Bartolomeo Prignano, successore di Gregorio XI) fa uccidere il Vescovo dell'Aquila Stefano Sidonio (1385) e cinque Cardinali (1386): Marino del Giudice, Giovanni d'Amelia, Bartolommeo di Cogorno, Ludovico Donati e Gentile di Sangro, «personaggi tutti de' più dotti e cospicui del sacro Collegio», scrive Ludovico Antonio Muratori [Annali, 8, p. 411]. Un altro Cardinale arrestato, l'inglese Adam Easton, si salva grazie all'intervento del suo re Riccardo II.
«Cette conduite d'Urbain aliénoit de lui ses plus affidez. Le Cardinal Pile de Prat Arcivêque de Ravenne, et Gouverner de Corneto, et le Cardinal Galeot Tarla de Pietra Mala l'abandonnérent alors, pour aller joindre Clement à Avignon» [J. Lenfant, «Histoire du Concile de Pise», I, Le Febvre, Utrecht 1731, p. 55].
Proprio con Urbano VI s'inaugura la lunga stagione d'intolleranza che sfocia nei roghi "conciliari" di cui s'è detto. Urbano VI, Arcivescovo di Bari, è l'ultimo Pontefice eletto, l'8 aprile 1378, al di fuori del collegio cardinalizio. Il 24 maggio 1384 da Napoli, dove era giunto a fine settembre 1383, egli si trasferisce a Nocera, rifugiandosi presso suo nipote Francesco Prignano detto «Butillo» (che in spagnolo significa «pallido»).
Urbano VI teme che il re di Napoli Carlo III d'Angiò Durazzo stia cospirando contro di lui, con l'aiuto dei sei Cardinali già ricordati, che fa imprigionare l'11 gennaio 1385.
Dopo l'elezione, Urbano VI pronuncia «una furibonda requisitoria contro la corruzione di Cardinali e di prelati» [F. Gaeta, «Il tramonto del Medioevo», ne «La crisi del Trecento», Bergamo 2013, pp. 280-397, p. 286]. Li insulta pubblicamente con epiteti violentissimi, e li colpisce mediante provvedimenti che intaccano i loro privilegi e le loro entrate. Minaccia di scomunica i simoniaci. Richiama i Vescovi al dovere di risiedere nelle loro diocesi. Tenta di abbassare l'autorità del collegio cardinalizio nel governo della Chiesa. Tutti questi «elementi di rottura» preludono al «Grande Scisma».
Il «soggiorno avignonese» dei Papi dura dal 1305 al 1376, iniziando con l'elezione dell'Arcivescovo di Bordeaux, Bertrand de Got (Clemente V, 1305-1314), rimasto in Francia dove allora si trovava.
Clemente V si fa incoronare il 14 novembre 1305 a Lione, alla presenza di Filippo il Bello. Soggiorna prima in Guascogna, sua terra d'origine, e poi dal 1309 ad Avignone, città che apparteneva ai conti di Provenza, cioè agli Angiò, sovrani di Napoli, città governata allora da Carlo II re di Sicilia (1248-1309). Ecco perché solitamente si fa iniziare la «cattività avignonese» nel 1309, saltando la premessa del soggiorno francese di Clemente V sino a quell'anno.
Sono sei i successori di Clemente V che restano ad Avignone: Giovanni XXII, Benedetto XII, Clemente VI, Innocenzo VI, Urbano V e Gregorio XI.
Nel 1334 Giovanni XXII (in carica dal 1316), poco prima di morire il 4 dicembre dello stesso anno, concepisce «il piano di tornare in Italia e trasferirvi la Curia, se non a Roma, città ritenuta insicura, almeno a Bologna», riscuotendo l'opposizione sia di guelfi sia di ghibellini [A. M. Voci, «Il papato avignonese», ne «Il Medioevo. 7», Roma 2009, pp. 98-107, pp. 102-103].
Il contesto internazionale europeo, dal settembre 1396 a tutto il 1397, è caratterizzato dalle missioni politiche a Roma di inviati dei Re di Francia, Inghilterra, Castiglia, Navarra ed Aragona: «Essi esortarono Bonifacio, e lo pregarono, che, per far cessar lo scisma, volesse rinunziare a tutt'i diritti, che pretendeva avere al pontificato; affermando che Benedetto farebbe il medesimo» [C. Fleury, «Storia ecclesiastica», XIV, Cervone, Napoli 1771, p. 325].
Bonifacio IX risponde «ch'egli era il vero, e indubitabile Papa, che non ve n'erano altri, e che non pretendea di rinunziarvi in niuna forma» [ib.].
Nell'aprile 1397 alla Dieta di Francoforte dei Principi di Alemagna, durata dodici giorni, sono presenti anche «de' Deputati della Università di Parigi, e degl'Inviati di molti Re e di altri Principi»: «si mandò a Bonifacio, per esortarlo alla cessione». Bonifacio tiene a bada «gl'Inviati con le parole, senza dar loro decisiva risposta», anzi cercando di corromperli «accordando loro contra le regole alcune grazie, che desideravano essi, e per gli amici loro» [ib.]. Per cui quegli Inviati «non poterono avanzar nulla per la cessione, ch'era il motivo del loro viaggio».
Proprio in quel settembre 1397 in cui principia la fuga di Galeotto da Avignone, il giorno 10 il Re di Castiglia risponde al Re d'Aragona (che gli aveva mandato due Ambasciatori), di essere favorevole come lo è la Corte di Parigi, alla via della cessione, «approvata da' cardinali, e desiderata da' Fedeli», rifiutando «la via del compromesso» che a Bonifacio poteva apparire non una via di Diritto e di Giustizia, ma una scelta volontaria.


Nell'immagine, il rogo di Huss, dalla "Spiezer Cronik" di Schilling il Vecchio (1485).

2. Una nomina, due fughe

Ha solo ventidue anni il «protonotario Apostolico» Galeotto Tarlati di Pietramala quando l'11 settembre 1378 è creato Cardinale diacono da Urbano VI, su proposta del nonno Galeotto I Malatesti, signore di Rimini, la cui figlia Rengarda nel 1348 ha sposato Masio Tarlati di Pietramala, Magistrato municipale di Rimini dal 1346 al 1347.
L'anno prima della sua nomina a Cardinale, nel 1377, a Cesena, per volere di Gregorio XI, Pierre Roger de Beaufort (1370-1378, nipote di Papa Clemente VI [1342-1352]), quattromila cadaveri furono disseminati nelle strade e nei fossati della città (scrive l'abate Guillaume Mollat nella sua storia del Papato avignonese, Les Papes d'Avignon, 1305-1378, Parigi 1912, p. 163-164), per opera dei Bretoni guidati dal terribile Cardinal Roberto da Ginevra, il quale nel 1378 diventa il primo Antipapa, con il nome di Clemente VII.
Nel 1386 Galeotto fugge da Urbano VI, prima nella Milano di Gian Galeazzo Visconti (dove la famiglia di sua madre Rengarda Malatesti era ben conosciuta per legami militari), e poi ad Avignone. Qui nel 1387 è nominato Anticardinale.
Un figlio di Gian Galeazzo Visconti, Giovanni Maria, nel 1408 sposerà Antonia Malatesti, figlia di Andrea Malatesti nato da Gentile da Varano e Galeotto I, il quale da Elisa della Valletta aveva avuto Rengarda, madre del nostro Cardinal Galeotto. Antonia Malatesti era quindi cugina di Galeotto.
Antonia passa alla storia per il suo comportamento in occasione dell'uccisione del marito Giovanni Maria da parte di alcuni nobili di corte: lei non volle recarsi in Duomo dove era stata trasferita la salma, peraltro ignorata da tutti. L'unico omaggio al defunto fu quello di «una femina meretrice» che «tollendo una cesta de rose tutto il coperse».
L'astio di Antonia era una reazione al comportamento di Giovanni Maria, definito da Carlo Cattaneo «libertino e crudele come Nerone» (cfr. l'introduzione, p. LXXI, a «Notizie naturali e civili su la Lombardia», I, Bernardoni, Milano 1844).
Nel 1397 Galeotto si dimette da Cardinale. Nicola di Clamanges (o Clemanges), che nella celebre «Epistola XII, Mallem tibi laetiora» dà la notizia della sua scomparsa avvenuta a Vienne, infatti definisce Galeotto «nuper Cardinalis», cioè «Cardinale sino a qualche tempo addietro».
La lettera è spedita da Avignone «Ad Gontherum Colli, Galliae Regis secretarium», ovvero Gontier Col, segretario di Carlo VI e di Giovanni, duca di Berry, ed ambasciatore ad Avignone nella primavera del 1395.
L'avverbio «nuper», semplice ma fondamentale per documentare la vicenda biografica di Galeotto, è purtroppo sfuggito agli storici moderni nella ricostruzione della sua figura attraverso l'«Epistola XII», considerata fondamentale per delineare la cultura umanistica del nostro personaggio, con l'accenno alla sua biblioteca, i cui libri «multi erant et singulariter electi, perlibenter oblatos».
Di fuga di Galeotto da Avignone parla già nel XVI sec. un studioso ed uomo della Curia di Roma, Girolamo Garimberti (1506-1575), in «Vite, Overo Fatti Memorabili D'Alcuni Papi, Et Di Tutti I Cardinali Passati» (Giolito de' Ferrari, Venezia 1567), al cap. XXV, intitolato significativamente «Della Ingratitudine» (pp. 446-447): «essendo fatto Cardinale da Urbano, et compreso tra i suoi più confidenti e cari, si trouò a machinar contra della dignità sua, insieme con alcuni altri Cardinali, che per questo furono priuati dal Papa; per il che Galeotto insieme con Pileo de Prati Cardinale se ne fuggì in Auignone; doue da Clemente di nuouo fu restituito al Cardinalato; si come di nuouo poco dipoi facendo un'altra ribellione con fuggirsene da Clemente, fu reintegrato da Urbano, et premiato da lui di quella tanta ingratitudine; della quale meritaua di esser castigato; et con quella solità seuerità che forse haurebbe, se Galeotto non l'hauesse preuenuto con la morte nel Monte dell'Auernia, doue stà sepolto nella Chiesa de Frati Minori».
Quest'altra «ribellione» secondo Garimberti, dunque, non poté approdare al ritorno a Roma da vivo, per la scomparsa avvenuta, a suo dire, non a Vienne ma alla Verna, un luogo simbolico per Galeotto perché è quello della sua sepoltura, dapprima nella cappella «costruita sulla prima cella di san Francesco» [cfr. A. Giorgi, «Dal primitivo insediamento alla Verna dell'Osservanza», in «Atti del Convegno di Studi 2011», Firenze 2012, pp. 45-68, p. 52], poi nella «cappella della Maddalena» che avevano voluto i genitori di suo padre, ovvero Roberto (Uberto) da Pietramala e Caterina degl'Ubertini.
Questo particolare illumina sopra un altro aspetto: il trasferimento della salma di Galeotto avvenne, tre giorni dopo la morte, ovvero l'11 febbraio «sur le Rhône jusqu'à Avignon», come leggiamo in una lettera di Tieri di Benci, socio d'affari di Francesco Datini, grande mercante di Prato, a Francesco di Marco, imprenditore in una società di lanaioli. «Da Avignone la salma del cardinale fu portata, per le terre dei Savoia e del duca di Milano, e per la Romagna, e le terre dei conti Guidi, alla Verna» [G. Franceschini, «Alcune lettere del Cardinale Galeotto da Pietramala», in «Italia medievale e umanistica», VII, Padova 1964, pp. 375-404, p. 397].

3. L'epistola «Ad Romanos»

La notizia della fuga da Avignone che leggiamo in Garimberti, non è però accettata da Stefano Baluzio (Étienne Baluze, 1630-1718) che nelle sue «Vitae Paparum Avenionensium» (Muguet, Parigi 1693) osserva: «Illum Hieronymus Garimbertus, scribit mortuum esse in monte Alvernae in summis Apennini jugis ibique sepultum in ecclesia fratrum Minorum. Errat sane dum scribit illum rediisse in gratiam cum Urbano sexto. Nam id falsum esse manifeste patet ex epistola ejus ad Romanos supra commemorata, et ex eo quod mortuus est Viennae» (col. 1364).
La falsità della notizia sulla fuga è dedotta in Baluze da quella epistola «Ad Romanos», di cui lui stesso parla alla col. 1363: Galeotto «scripsit gravem epistolam ad cives Romanos; in qua eos primo redarguit quod ipsi fuerint auctores schismatis, deinde hortatur ut eidem Benedicto, quem multis laudibus ornat, obedientiam prestent».
Se la fuga è del 1397, l'epistola «Ad Romanos» risale però a periodo di poco anteriore al dicembre 1394 [cfr. E. Ornato, «Jean Muret et ses amis: Nicolas de Clamanges et Jean de Montreuil», Genève-Paris 1969, p. 28].
Il titolo completo della lettera è: «Deflet horrendum schisma, hortaturque eos, ut adhaerendo Benedicto XIII, ipsi finem imponant».
Benedetto XIII è il Cardinale Pietro da Luna, eletto il 28 settembre 1394 con i voti di venti dei ventuno cardinali presenti ad Avignone. Era stato fatto Cardinale da Gregorio XI nel 1375. Sino al 1390 fu Legato pontificio nella penisola iberica.
Sul ruolo di Galeotto da Pietramala ad Avignone, è stato osservato che egli, per quanto fosse giovane, «exerçait une grande influence sur ses collègues et il avait même essayé de jouer un rôle de modérateur entre les deux papes» [cfr. B. Galland, «Les papes d'Avignon et la Maison de Savoie (1309-1409)», École Française de Rome n. 247, Roma, 1998, p. 334. In nota si rimanda a G. Mollat, «Dictionnaire d'histoire et de géographie ecclésiastique», 19, coll. 759-760].
Circa i rapporti fra Galeotto e Benedetto XIII, leggiamo in Franceschini: «Lo legava al nuovo pontefice una profonda stima e un'amicizia nata fin da quando aveva potuto riconoscere nel cardinale de Luna specchiata rettitudine e profonda cultura e il comune amore per gli studi di umanità e la ricerca degli antichi testi» [cit., p. 395].

4. La lezione umanistica di Petrarca

L'Umanesimo a cui guarda Galeotto è ispirato alla lezione di Francesco Petrarca. Il quale, in una lettera del 1368 a Urbano V, per esaltare il primato della cultura letteraria italiana, aveva affermato «oratores et poetae extra Italiam non quaerantur».
La frase suscita in Francia forti polemiche. Tra il 1369 e il 1372 l'autorevole teologo dello Studio parigino Jean de Hesdin (1320-1412) compone e diffonde l'epistola «Contra Franciscum Petrarcam», consegnata all'umanista italiano soltanto nei primi giorni di gennaio 1373. Il 1° marzo dello stesso anno è datata da Padova la risposta-invettiva di Petrarca, «Invectiva contra eum qui maledixit Italiae».
Dopo la morte di Petrarca (1374), il «Grande Scisma» accentua, anche sul piano politico, la rivalità Italia-Francia, e la querelle intorno alla frase dell'umanista italiano riprende, trasformata in un topos propagandistico.
Il momento culminante della querelle è nel breve carteggio fra Nicolas de Clamanges ed il nostro Galeotto, carteggio in parte risalente alla fine del 1394 o all'inizio del 1395, ma completamente riscritto (anzi «inventato», per così dire: cfr. D. Cecchetti, «Petrarca, Pietramala e Clamages», Paris 1982, p. 18 et passim), dopo il 1420.
Clamanges controbattendo sdegnosamente alla frase incriminata di Petrarca, traccerà una breve storia della cultura di area gallo-francese, dall'antichità classica al XII secolo, per vantarne l'assoluta preminenza su qualsiasi altra tradizione nazionale.
La lezione umanistica di Galeotto progettava dunque un devoto omaggio alla genialità di Francesco Petrarca che non poteva non incontrare l'opposizione più accesa dei suoi amici in Avignone, per una serie di significativi motivi.
Anzitutto, come sottolinea Huizinga [«Autunno del Medioevo», Firenze 1987, p. 449], il preumanesimo di illustri esponenti di quel circolo avignonese come Montreuil e Col, è legato all'erudizione scolastica medievale. Poi c'è l'aspetto biografico di Petrarca che non poteva essere proposto in quella corte, da lui accusata di corruzione nei cosiddetti «Sonetti babilonesi» (nn. 136, 137, 138), come nelle lettere «Sine nomine» e nelle Egloghe sesta «Pastorum pathos» («Le cure pastorali») e settima «Grex infectus et suffectus» («Il gregge infetto») [cfr. E. H. Wilkins, «Vita del Petrarca», Milano 2003, p. 78].
Nell'epistola XVIII (penultima) delle «Sine nomine», si parla di vecchi e lascivi bambocci che bruciano nella libidine, precipitando in ogni vergogna, per tacere degli stupri, dei rapimenti, degli incesti, degli adulterii, «che rappresentano ormai il divertimento della lascivia papale» («qui iam pontificalis lascivie ludi sunt»)» [cfr. «Sine nomine, Lettere polemiche e politiche», a cura di U. Dotti, Roma 1974, pp. 206-210].
Ci sono donne rapite, «violate e ingravidate da seme altrui», poi riofferte dopo il parto «all'alterna sazietà di chi le usa a suo godimento», mentre i loro mariti sono costretti a riprendersi le loro mogli «per rioffrirle di nuovo, dopo il parto, all'alterna sazietà di chi le usa a suo godimento».
Sulle «pagine densissime» delle «Sine nomine», leggiamo in Ezio Raimondi [«Un esercizio satirico ad Avignone» (1956), «I sentieri del lettore», a c. di A. Battistini, I, Bologna 1994] che esse «sorgono dalla sofferenza e dalla protesta del cristiano offeso» [p. 133].

Alla pagina: 4a. Documenti. Galeotto e Petrarca.
Fonti di questa pagina:
a) L'epistola "Ad Romanos" del 1394: il modello di Francesco Petrarca.
b) L'epistola "Ad Romanos" del 1394: "Deflet horrendum schisma...".

5. Notizie dalle corti

Il primo a parlare di un ritorno di Galeotto al Papato romano è, dieci anni prima di Garimberti nel 1557, Onofrio Panvinio (1529-1568) nella «Epitome pontificum Romanorum» [Strada, Venezia, p. 260].
Secondo Panvinio, che fu agostiniano e lavorò a Roma quale «corrector et revisor» di manoscritti presso la Biblioteca Vaticana al tempo di Pio IV (1559-1565), il Papa Urbano VI aveva restituito il cardinalato a Galeotto: «Galeottus de Petra Mala [...] cum fido Cardinale Ravennae fugit, verum non longe post in gratiam sororis suae [...]», moglie del nipote del Pontefice, ovvero Francesco Frignano.
Di questa moglie del nipote, e sorella del nostro Cardinale, non si hanno tracce.
Tre sono le sorelle di Galeotto di Pietramala: Elisa morta nel 1366, Taddea che si sposa nel 1372, e Caterina che s'accasa, forse nel 1393. Quindi potrebbe Caterina esser stata coinvolta nella vita sentimentale di Francesco «Butillo». Il quale però poi prende in moglie Raimondina del Tufo, mentre Caterina va a nozze con Nicola Filippo Brancaleoni.
Per Francesco Prignano si trova pure che rapì da un monastero di Napoli «una Monaca professa, di nobile condizione, e la tenne seco nel suo appartamento» [J. Hardion, «Storia universale», XIII, Tasso, Venezia 1834, p. 210].

6. I giuochi del potere

Clamanges, autore della «Epistola XII, Mallem tibi laetiora», era divenuto segretario di Papa Benedetto XIII su raccomandazione dello stesso Galeotto. Con cui aveva mantenuto particolari rapporti di amicizia. Galeotto «lo accolse con ogni sorta di amorevolezze, gli mostrò la sua biblioteca e lo fece padrone di usarne, e lo presentò al papa e agli altri cardinali», si legge in un volume fiorentino del 1890 [cfr. G. Voigt, D. Valbusa, G. Zippel, «Il risorgimento dell'antichità classica: ovvero, Il primo secolo dell'umanismo», Volume 2, G. C. Sansoni, Firenze 1890 [pp. 340-341]
Questa frequentazione permetteva a Nicola di Clamanges di conoscere tutti i risvolti, anche i più segreti, della vita di Galeotto. E di interpretarne pure le intenzioni eventualmente non espresse per non nuocere ai propri progetti.
Perché nel settembre 1397 Galeotto si allontana da Avignone?
Quello è un particolare momento non soltanto della storia generale del regno di Francia, quando Carlo VI (in carica dal 1380) cerca di chiudere il «Grande Scisma» che durerà sino al 1417; ma pure della biografia di Galeotto, privato dei redditi della località di Noves già riconosciutigli dal Papa Clemente VII, per colpa di Gilles Bellemère (1342-1407), esponente di spicco della corte di Avignone, di cui diventa vescovo nel 1392 (come si legge in un testo di Henri Gilles, «La vie et les œuvres de Gilles Bellemère», Bibliotheque de L'Ecole des Chartes, CXXIV, Paris 1966, p. 116-117).
Di Clemente VII, Bellemère fu anche ambasciatore presso Carlo VI. Divenne famoso grazie ai suoi «Commentari» al «Decretum Gratiani» o «Corpus iuris canonici» (XII sec.), editi nel 1548-49, Senneton frères, Lugduni.
«Un homme fort près de ses intérêts», lo definisce Henri Gilles. Bellemère era in contatto con gli intellettuali umanisti di Avignone, quindi pure con lo stesso Galeotto che di quel gruppo era il protettore [A. Coville, «La vie intellectuelle dans les domaines d'Anjou-Provence de 1380 à 1435», Parigi 1941, p. 406]. E Galeotto deve aver considerato il gesto di Bellemère un tradimento pieno di pericoli per il suo futuro.
La questione si trascina dal marzo 1394 all'agosto 1397, quando Galeotto protesta perché privato dei redditi di Noves.
Ma fa altrettanto, e soprattutto «bien fort», lo stesso Bellemère scrivendo persino un trattato per dimostrare in punta di Diritto romano «la justesse de ses prétentions». Per rafforzare «son droit sur Noves», il Bellemère invita «les habitants à prêter un serment public d'obéissance à sa personne, à son église et à sa cour de Noves» [H. Gilles, pp. 117-118].
Siamo proprio alla vigilia della partenza di Galeotto di Pietramala da Avignone per Valence.
Gilles Bellemère era stato preso a servizio dal cardinale Pierre Roger de Beaufort, futuro Gregorio XI, «en qualité de chapelain et de commensal» (cappellano e famiglio), all'inizio del 1367 ad Avignone. Dove arriva al momento in cui «la cour pontificale faisait ses préparatifs de départ» verso Roma [Gilles, pp. 38-39].
Urbano V parte da Avignone venerdì 30 aprile, e passa a Marsiglia dove s'imbarca per il Lazio, giungendo al porto di Corneto in Maremma, accompagnato da sette Cardinali.
Altri quattro Cardinali seguono invece l'itinerario «flaminio», che ha un'indubbia valenza politica: provenendo da Modena, passano per Rimini tra 11 e 25 giugno 1367.
Sono Pierre de Monteruc (11 giugno), e Stefano Aubert (18 giugno), due cugini, figli di fratelli di papa Innocenzo VI (Étienne Aubert, 1282-1362), che viaggiano separatamente.
Assieme invece giungono il 25 giugno altri due cugini, Nicole de Besse, cardinale di Limoges, ed il nostro Pierre Roger de Beaufort, un cui zio fu Clemente VI, Pierre Roger, quarto papa d'Avignone, dal 1342 al 1352.
Pandolfo II, figlio di Malatesta Antico, il 16 ottobre 1367 a Roma partecipa con lo zio Galeotto I (il nonno del nostro Cardinal Galeotto), al corteo per il rientro di Papa Urbano V.
Circa la città di Vienne, va ricordato che suo Arcivescovo era Thibaud de Rougement, nominato da Benedetto XIII il 17 settembre 1395. Resta a Vienne sino al 1405, quando è trasferito dal Papa a Besançon, dopo che le truppe di Thibaud hanno avuto pesanti scontri (con vari castelli bruciati), durante la guerra tra lo stesso Thibaud ed i fratelli Guy et Jean de Torchefelon che avevano rifiutato di rendergli omaggio.
Thibaud de Rougement nel 1398 provoca un grave scontro con gli ufficiali reali di Santa Colomba, colpendo con interdetto e scomunica questo antico sobborgo di Vienne. Ne nasce una forte tensione che arriva a coinvolgere Papa e Re.
Le fonti storiche riferiscono di «aspri conflitti» sorti fra Thibaud (che aveva anche il titolo di Conte di Vienne) e Charles de Bouville, governatore del Delfinato, per i «diritti temporali» che gli sono restituiti soltanto nel 1401, dopo un intervento regio dell'agosto 1399.
Il 23 gennaio 1397, a Parigi, l'Arcivescovo Thibaud battezza Luigi, figlio del re di Francia Carlo VI e della regina Isabella, figlia di Stefano II, duca di Baviera, e di Taddea Visconti di Milano (figlia di Barnabo)

7. Notizie italiane

Nel frattempo è nata (1396) la lega di Carlo VI con Firenze, Ferrara, Mantova e Padova contro i Visconti.
Capitano è nominato Carlo Malatesti (fratello di Rengarda, la madre del nostro Cardinale), che nel 1397 a Mantova fa rimuovere un'antica statua di Virgilio, con un gesto ritenuto da Coluccio Salutati oltraggioso verso la poesia, e da Pier Paolo Vergerio indegno d'un principe che pretenda di amare gli studi e la storia.
Quello di Carlo è soltanto un atto politico per segnalarsi al potere ecclesiastico, «credendo un delitto che i cristiani venerassero un uomo non cristiano», come si legge nella biografia di Vittorino da Feltre scritta (1474 ca.) dal suo allievo mantovano Francesco Prendilacqua («De vita Victorini Feltrensis», Typiis Seminarii, Patavii 1774, p. 93).
Circa i Visconti, abbiamo ricordato che Galeotto Tarlati nella sua fuga dal Papa romano Urbano VI aveva trovato rifugio proprio a Milano presso Gian Galeazzo Visconti. Ed al Visconti Galeotto resta legato, se nel 1390 da Avignone gli scrive auspicando che il vessillo della vipera sventoli sulle sponde dell'Arno, e nel 1391 gli indirizza «una lettera tutta vibrante d'odio contro Firenze» scrive Francesco Novati [«Due lettere del cardinale di Pietramala a Gian Galeazzo Visconti (1390-91)», Archivio storico lombardo, a. XLIII, 1916, 1-2, ser. V, fasc. IX-X, pp. 185-191, pp. 185-186].
Il nome di Carlo Malatesta va infine legato alle nozze fra la sua nipote Antonia e Giovanni Maria Visconti.
Galeotto «combattendo Firenze colla penna intendeva venir in soccorso de' congiunti suoi che l'assalivano colla spada», commenta Novati [p. 187].
«Florentiam ipsam, valido exercitu circumdate»: è l'invito (anzi una specie di ordine di etica politica, più che un piano di strategia militare), che la penna di Galeotto indirizza al Visconti nella prima lettera: «Illa, illa urbs petenda est, unde pecuniarum auxilia prodeunt, unde erumpunt fraudes, unde armorum gentibus subvenitur: nichil erit impossibile eis, dum eorum ager sine hoste erit, dum nudus agricola solvet ad occasum boves quos ad solis ortum ligaverat; dum lanarum colos trahent ruricole mulieres; dum lucrum diei avarus sed quietus mercator numerabit ad vesperum» [Novati, pp. 189-190].
Nella seconda lettera, Galeotto ribadisce che è necessario attaccare la Toscana: «in Tusciam cum reliquis est vertenda manus. Illic bellum extinguatur ubi ortum habuit; illic victoria habeatur, ubi sunt hostes; illic pena infligatur, ubi scelera sunt patrata» [Novati, pp. 190-191].
La cronaca politica resta sullo sfondo del giudizio che Francesco Novati compone di Galeotto («Adorno di belle doti morali ed intellettuali»), partendo proprio da quelle due lettere del 1390-91, le quali a suo parere dimostrano «come i contemporanei avessero ragione di lodar l'ingegno e la dottrina del porporato aretino» [p. 188].
Novati osserva pure che la lettera del 1391 era anche vibrante «di gioia per la morte» del conte Giovanni d'Armagnac, ucciso alle porte d'Alessandria mentre combatteva ingaggiato dal doge di Genova «ond'annientare la potenza di Gian Galeazzo Visconti» [p. 185].
Sulla scorta di una nota di Novati [p. 185, n. 2], troviamo nelle «Memorie spettanti alla storia di Milano» (curate da Giorgio Giulini [1714-1780], vol. 5, Colombo, Milano 1856, p. 764): «Alcuni scrittori, col nostro annalista milanese, dicono ch'egli [Giovanni d'Armagnac] era ferito; ma i cronisti di Piacenza e di Bergamo, e l'Estense, più giustamente affermano che la grande stanchezza e il caldo sofferto in quel cocentissimo giorno lo ridussero a morire».
Novati aggiunge: «Firenze aveva mossa ai Tarlati una guerra senza quartiere, cercando d'annichilirne la potenza, come aveva distrutta a poco a poco quella de' Guidi, degli Ubaldini e di tant'altri signorotti minori. Costretti a difendersi incessantemente contro l'implacabile avversaria, i Tarlati davan senz'esitare l'aiuto loro a tutti i nemici di lei; in tutte le guerre, grosse o piccine, che Firenze ebbe a sostenere durante il secolo decimoquarto contro i suoi vicini, essa si trovò ognora di fronte i signori di Pietramala. Ed anche nel 1390, non appena che il Visconti s'era deciso a bandire la guerra contro di essa, egli aveva ritrovato ne' Tarlati degli alleati modesti, ma fedeli, tanto più fedeli quanto più la caduta d'Arezzo nelle granfie de' fiorentini aveva esasperato il loro aborrimento ed accresciuti i loro terrori» [pp. 186-187].
Novati [p. 186, nota 2] riporta poi una lettera di Coluccio Salutati (Cancelliere della Repubblica di Firenze dal 1375 al 1406), in cui il comportamento antifiorentino dei Tarlati di Petramala è deriso con un gioco di parole sul cognome: Tarlati si dice degli alberi putrefatti, e Petramala deriva da «pietra» che sta a signifcare durezza ed ostinazione.
Essi, conclude Salutati, «sunt turbatores pacis, insidiatores viarum, mercatorum spoliatores, peregrinorum homicidae et infames latronum principes et fautores».
Su Galeotto, prosegue Novati: «Urbano VI l'avea creato Cardinale diacono di S. Agata. Ma la sua fortuna durò poco. Scoppiato lo scisma, il feroce pontefice lo prese in sospetto; credette, a ragione ovvero a torto non sapremmo decidere, che avesse preso parte al complotto ordito in Genova per sottrarre a morte i cardinali che egli voleva sacrificare alla propria vendtta; ed il Tarlati in pericolo di finir male dové cercare scampo nella fuga. Recossi allora a Pavia, quindi ad Avignone, dove rinnegando il passato riconobbe come vero pontefice l'antipapa Clemente. Ripagato da costui colla dignità cardinalizia di S. Giorgio in Velabro, Galeotto non lasciò più la Francia, donde continuò, fin che gli durò la vita, a tramare insidie contro i suoi nemici maggiori: Firenze ed Urbano» [pp. 187-188].
Novati scrive anche: «Firenze aveva mossa ai Tarlati una guerra senza quartiere, cercando d'annichilirne la potenza, come aveva distrutta a poco a poco quella de' Guidi, degli Ubaldini e di tant'altri signorotti minori. Costretti a difendersi incessantemente contro l'implacabile avversaria, i Tarlati davan sen'esitare l'aiuto loro a tutti i nemici di lei; in tutte le guerre, grosse o piccine, che Firenze ebbe a sostenere durante il secolo decimoquarto contro i suoi vicini, essa si trovò ognora di fronte i signori di Pietramala. Ed anche nel 1390, non appena che il Visconti s'era deciso a bandire la guerra contro di essa, egli aveva ritrovato ne' Tarlati degli alleati modesti, ma fedeli, tanto più fedeli quanto più la caduta d'Arezzo nelle granfie de' fiorentini aveva esasperato il loro aborrimento ed accresciuti i loro terrori» [pp. 186-187].
Se quella lettera di Galeotto [cfr. la nostra «Nota al testo»], diretta al Visconti di Milano, è «tutta vibrante d'odio contro Firenze», come scrive Novati, è perché in essa si proiettano ricordi di famiglia, e s'affacciano motivazioni legate ad una concezione della vita politica tipicamente medievale, in quanto avversa alla gente «nova» che vi stava emergendo.
Non c'è quindi nell'atteggiamento politico di Galeotto verso Firenze soltanto una chiave autobiografica, ma anche il riflesso di quelle concezioni di cui parla Huizinga nel suo celebre saggio «L'autunno del Medioevo» [Firenze 1987, p. 74], laddove spiega che «il concetto della divisione della società in classi pervade fino in fondo, nel Medioevo, tutte le considerazioni teologiche e politiche».
C'è pure in Galeotto la concezione gerarchica della società che Huizinga descrive nel terzo capitolo del suo saggio, dove ricorda l'attribuzione alla nobiltà del compito di difendere il mondo, di promuovere la virtù e mantenere la giustizia [p. 82].
Firenze era la città che aveva soffocato a mano armata il tumulto dei Ciompi nell'agosto 1378. Chiesa ed aristocrazia in Italia avevano vivo il ricordo di quanto accaduto a Parigi nel 1358, con la salita al potere di un mercante, Étienne Marcel, grazie all'azione della borghesia cittadina che così si contrapponeva alla politica monarchica e della nobiltà che la sosteneva. E con l'uccisione dello stesso Marcel, che aveva tentato di collegare la rivoluzione parigina con la rivolta nelle campagne, guidata da un vecchio soldato (Charles Guillaume, sconfitto e ghigliottinato), e soffocata nel sangue.

Nota. Galeotto, il politico.
Abbiamo letto in Novati su Galeotto: «Urbano VI l'avea creato Cardinale diacono di S. Agata. Ma la sua fortuna durò poco…» [pp. 187-188].
Novati come fonti cita L. Cardella, «Memorie storiche de' Cardinali della Santa Romana Chiesa», II, Pagliarini, Roma 1793 e N. Valois, «La France et le Grand Schisme d'Occident», II, Paris 1896.
Sull'intervento di Giovanni d'Armagnac, cfr. A. Antonielli, F. Novati, «Un frammento di zibaldone cancelleresco lombardo del primissimo Quattrocento. Testo ed illustrazioni storico-critiche ai documenti contenuti nel Frammento Pallanzese», Archivio Storico Lombardo, 1913, Serie IV, vol. 20, fasc. 40, pp. 304-305.
Giovanni d'Armagnac stipula il 16 ottobre 1390 a Mende un trattato con la repubblica toscana. Il 26 luglio 1391 il suo esercito è «tagliato a pezzi dalle truppe viscontee».
Circa Giovanni d'Armagnac, ricordiamo che era il fratello di Beatrice d'Armagnac, detta «la gaie Armagnageoise», moglie di Carlo Visconti dal 1382. L'anno prima Beatrice era rimasta vedova di Gaston de Bearn o de Foix, nato nel 1365.
«Stimolarono i Fiorentini il re di Francia, e non si sa con quai mezzi l'indussero, malgrado gli stretti vincoli del sangue, a spedire per la Savoia un corpo di diecimila Francesi, comandati dal conte d'Armagnac. Sebbene il duca di Savoia fosse pure stretto parente del conte, che era figlio di Bianca di Savoia, pure lasciò libero il passo a queste truppe. Il comandante conte d'Armagnac era parente stretto di Carlo Visconti, figlio di Barnabò, che viveva miseramente ramingo colla sua moglie Beatrice d'Armagnac»: cfr. P. Verri, «Storia di Milano» I, Marelli, Milano 1783, p. 412.
Tra le genti d'arme assoldate nel 1388 c'è un Giantedesco da Pietramala, figlio di Marco, considerato valorosissimo, e celebrato capitano di ventura, poi onorato da una statua equestre di Giacomo della Quercia nel Duomo di Siena.
In margine alla prima lettera, laddove Galeotto accusa quel sistema che genera la ricchezza della nuova società fiorentina («Illa, illa urbs petenda est, unde pecuniarum auxilia prodeunt, unde erumpunt fraudes...»), si può osservare che nel nostro Cardinale agiscono non soltanto gli istinti legittimi della difesa di interessi famigliari, ma incontriamo pure una ben precisa visione politica, tipica della gerarchia ecclesiastica, non basata sul valore del censo economico "conquistato" e non ereditato, ma su quello che scaturisce dall'esercizio del potere e delle armi che lo sorreggono.
Già i Comuni avevano spogliato i Vescovi della giurisdizione politica sulle città. La posizione di Galeotto è quindi una significativa immagine dello scontro ideologico, si direbbe oggi, che agita il suo tempo.

Nota bibliografica.
F. Novati, «Due lettere del cardinale di Pietramala a Gian Galeazzo Visconti (1390-91)», Archivio storico lombardo, 43, 1916, pp. 185-191. (a. XLIII, 1916, 1-2, ser. V, fasc. IX-X)
La lettera di C. Salutati è presente alle pp. 190-191 di P. Durrieu, «La prise d'Arezzo par Enguerrand VII, sire de Coucy, en 1384», Bibliothèque de l'école des chartes, 1880, tome 41, pp. 161-194; ed alle pp. 233-234 di U. Pasqui, «Documenti per la storia della città di Arezzo nel medio evo», III, Firenze 1937.

8. La visita a Valence

Galeotto di Pietramala resta per più di tre mesi a Valence [R. Brun, «Annales avignonnaises de 1382 à 1410, extraites des archives de Datini», «Mémoires de l'Institut historique de Provence», 12 , Marsiglia 1935, p. 40]. Il Vescovo di Valence è dal 1390 Jean Gérard de Poitiers (ca. 1368-1452), succeduto a Amedeo di Saluzzo (1361-28.6.1419).
Amedeo di Saluzzo era legato a Galeotto di Pietramala dallo stesso interesse verso la cultura, appartenendo a quel «cenacolo umanistico formato dai chierici ed intellettuali, i quali ruotavano attorno a Benedetto XIII ed alla sua celebrata biblioteca ricca di opere giuridiche e stupefacente per i testimoni della classicità che vi venivano custoditi» [A. Bartocci, Il cardinale Bonifacio Ammannati legista avignonese ed un suo opuscolo contra Bartolum sulla capacità successoria dei Frati Minori, «Rivista internazionale di Diritto Comune», 17, Roma 2006, pp. 251-297, p. 267].
Coville osserva: «le cardinal qui à Avignon attirait le plus volontieri écrivains et humanistes était Galeotto» [«La vie intellectuelle…», 1941, p. 403].
Degli episcopati di Valence e di Die, Amedeo di Saluzzo è amministratore tra novembre 1383 e giugno 1388. Il 23 dicembre 1383 Amedeo è creato Anticardinale da Clemente VII, il cui padre era cugino della madre di Amedeo, Beatrice, figlia di Ugo conte di Ginevra [P. Rosso, «Cultura e devozione fra Piemonte e Provenza. Il testamento del cardinale Amedeo di Saluzzo (1362-1419)», Cuneo 2007 Rosso, p. 13].
Il nuovo Antipapa Benedetto XIII, eletto il 28 settembre 1394, invia poi Amedeo di Saluzzo in legazione a Ferdinando re di Aragona. Successivamente (1390) Amedeo lascia il partito di Benedetto XIII e s'accosta a quello di Bonifacio IX (eletto nel 1389), il quale lo nomina cancelliere della Chiesa di Roma. Nel 1403 Amedeo diventa Camerlengo e Protodiacono del Sacro Collegio.
Insomma, l'itinerario di Amedeo di Saluzzo rassomiglia molto a quello di Galeotto di Pietramala. Il quale, come abbiamo già visto, con l'epistola «Ad Romanos» (1394) propone pubblicamente il percorso di risoluzione dei contrasti tra Roma ed Avignone, con la «via cessationis» o «via cessionis», consistente nelle dimissioni del Pontefice di Avignone, quel Benedetto XIII presso cui si era rifugiato lo stesso Galeotto.
Poi Galeotto giustifica lo stesso Pontefice per la sua risposta negativa alla sua proposta contenuta nell'epistola «Ad Romanos».
Va ricordato pure il ruolo del re di Francia Carlo VI che intendeva riunificare la cristianità (come scrive Franco Gaeta, «Il tramonto del Medioevo», cit., pp. 289-291), partendo proprio dalla «via cessionis» della rinuncia di entrambi i Papi. Il rifiuto che esprimono, porta la Francia a sottrarsi (1407) alla loro obbedienza, e provocano la crisi dell'autorità papale, poi risolta soltanto al Concilio di Costanza.
Il soggiorno di Galeotto a Valence va collegato anche a quanto si prepara appunto in Francia: la corona «fece deliberare la sottrazione d'obbedienza dall'assemblea del clero tenutasi a Parigi tra il maggio e l'agosto 1398» [Rosso, p. 18].
Scomparso Clemente VII il 16 settembre 1394, Galeotto da Pietramala si trova (il 28 settembre) al conclave per l'elezione del nuovo Antipapa Benedetto XIII, l'aragonese Pedro Martínez de Luna (1328-1423).
Poco dopo, comunque prima di dicembre [Ornato, p. 28], Galeotto «scripsit gravem epistolam ad cives Romanos; in qua eos primo redarguit quod ipsi fuerint auctores schismatis, deinde hortatur ut eidem Benedicto, quem multis laudibus ornat, obedientiam prestent», come leggiamo in Stefano Baluzio [col. 1363].
Riproduciamo qualche brano di questa epistola «Ad Romanos» [Baluzio, col. 1544; «Haec epistola habetur in codice 822 Bibliothecae Colbertinae», col. 1363].
«Tempus est jam, si Deus adjuverit, fugare tantam pestem. et tartari claudere portas, ne schismaticorum spiritus repleautur in posterum, faucesquae satanae insatiabiles stringere, ne christiano cibo quotidie epuletur. In hoc vos meditar decet, in hoc animi vires colligere, in hoc omnis vestra debet esse intentio, ut ecclesiam resarcitam Domino praesentetis, quam sic inconsulte, dividere non puduit».
Come agire?
«Schisma in potestate nostra creare, nutrire ac fovere possumus, illud autem tollere, cum velimus, non est nostrum.»
Poi Galeotto parla di Benedetto XIII, «qui potens est et vult omnes nostros morbos curare, sed illos praesertim qui schismatis putredine catholica corpora corruperunt». Ai Romani dice: «Audite, quaeso, monita sua sancta, salubres eius preces esaudite».
Infine Galeotto tesse un incondizionato elogio di Benedetto XIII: «Ejus mores et integritatem, benignitatem, mansuetudinem, caritatem, pietatem, sinceritatem, aliis forte in populis predicare non incongruum, vobis autem jam diu persuasum esse scio. Nostis hominem et ejus virtutes».
Benedetto XIII ha scelto di riunire la Chiesa, per presentarla a Dio tutta risarcita, lui che la trovò così lacerata: «optat interimere schisma, et jam foedam belluam mactare sua manu». Per questo vi incita, ed implora il vostro aiuto. Partendo da ciò, Galeotto prega i Romani di appoggiare Benedetto «ad candidam ecclesiae unionem».
Come si è visto, le speranze di Galeotto vanno deluse perché Benedetto XIII cambia opinione.

9. Vienne, 8 febbraio 1398

A Vienne Galeotto di Pietramala muore l'8 febbraio 1398. Come abbiamo già visto, lo racconta Nicolas de Clamanges nell'epistola XII «Mallem tibi laetiora», composta ad Avignone.
Clamanges ha la prova che Galeotto si trovasse a Vienne: è una lettera del Cardinale stesso, inviatagli da quella città.
In questa epistola XII, Clamanges ricorda che Galeotto fu per lui un protettore, un aiuto, un intercessore ed un procuratore. Ciò significa anche che il nostro Cardinale trovava ampio ascolto presso la Corte pontificia.
Nell'epistola XII di Nicolas de Clamanges, come abbiamo già scritto, la notizia delle dimissioni di Galeotto è data attraverso un semplice avverbio, «nuper», legato alla parola Cardinale, con cui si documenta la completa rottura tra il Nostro e l'ambiente ecclesiastico avignonese.
Ciò ci permette di parlare di una sua nuova fuga, questa volta dalla sede di Avignone. Dove aveva trovato rifugio quando si era allontanato da Urbano VI, autore dei sei omicidi ricordati.
Le fonti storiche moderne hanno sottolineato l'importanza dell'epistola XII di Clamanges soltanto per quanto riguarda la cultura umanistica di Galeotto, la cui biblioteca era molto ricca di libri rari. Questo piccolo ed importante dettaglio del «nuper Cardinalis», sinora dimenticato, rivela qualcosa di ancora più importante, appunto la definitiva crisi dei rapporti di Galeotto con l'Antipapa d'Avignone.
Tornato semplice diacono, come era stato sino al 1378, Galeotto chiude la sua vita inevitabilmente pensando a quella terra toscana da cui provenivano i suoi antenati che tanto erano legati al movimento francescano.
La chiesa principale della Verna è fondata nel 1348 da Tarlato, conte di Chiusi, fratello di Guido, Vescovo di Arezzo; e da sua moglie Giovanna Aldobrandeschi di Santa Fiora. Guido Vescovo è cugino di Roberto Tarlati, nonno paterno del nostro Galeotto.
Discepolo di San Francesco fu un beato Angelo Tarlati, patrizio aretino, scomparso nel 1254. C'è poi un altro beato, Benedetto Sinigardi, patrizio aretino, figlio di Sinigardo Sinigardi e di una Elisabetta Tarlati di Pietramala (forse figlia di una figlia di Guido nato nel 1140).
Su questo beato Benedetto Sinigardi, P. Girolamo Golubovich o. f. m. ha scritto: «il Santo Patriarca Francesco, trovandosi in detto anno [1211] in Arezzo, diede l'abito al giovane Sinigardi», che era nato attorno al 1190 («Vita et miracula B. Benedicti Sinigardi de Aretio», Typ. collegii S. Bonaventurae, Quaracchi 1905, p. 11).
Nel 1216 o nel 1217 «Benedetto fu destinato dal Capitolo generale e da S. Francesco a primo Ministro provinciale della Marca Anconitana. Egli non doveva avere allora più di 27 anni d'età; ma all'età forse immatura, suppliva certo la virtù provetta» [ib.]. Poi, non prima del 1221, fu terzo Ministro provinciale della Terra Santa e di tutto l'Oriente, riorganizzando la Provincia minoritica [ib.].
Tutto questo "retroscena" francescano si collega al fatto che Galeotto è stato sepolto a La Verna. Dapprima nella cappella della Maddalena (voluta dai genitori di suo padre, Roberto di Pietramala e Caterina degl'Ubertini); e successivamente in quella che lui stesso s'era fatto costruire, nella seconda cappella a sinistra della chiesa maggiore, e che ancor oggi è detta «cappella del cardinale».
Il discorso sui Francescani non può dimenticare un fatto che riguarda il 1379, quando quelli scismatici nel loro Anticapitolo generale di Napoli, convocato da frate Leonardo da Giffone, ovvero Leonardo de Rossi (1335-1407), già fatto Cardinale dall'Antipapa il 18 dicembre 1378, lo appoggiano. Rossi è poi arrestato dal Legato Apostolico Cardinal de Sangro, e sconta cinque anni di durissimo carcere ad Aversa, prima di fuggire ad Avignone, dove è ben accolto. Poi volta le spalle all'antipapa Benedetto XIII per la sua ostinazione e pertinacia, scrivendo contro di lui un trattato, in cui lo considera un eretico. [Cfr. Bernardo da Decimo, «Secoli serafici ovvero Compendio cronologico della storia francescana…», Viviani, Firenze 1757, pp. 68-69.]
Per completare il quadro politico locale di quel tempo, ricordiamo che Guido fu scomunicato e deposto da Vescovo d'Arezzo ad Avignone il 17 aprile 1326, per la sua politica quale «Tiranno e Signore» (così lo chiama Giovanni Villani, «Cronica», III, Coen, Firenze 1845, p. 17) della stessa città d'Arezzo, dal 14 aprile 1321 alla morte (avvenuta il 21 ottobre 1327).
Guido e tutti gli altri Tarlati non furono molto amati ai loro tempi, come non sono stati amati da studiosi del secolo scorso, che si sono occupati di loro, ricostruendo confusamente un albero genealogico che addirittura attribuisce al nostro Cardinal Galeotto ben tre inesistenti figli illegittimi [cfr. U. Pasqui, «Documenti per la storia della città di Arezzo nel medio evo», III, Firenze 1937, p. 394].
Galeotto, se divenne Cardinale grazie al nonno Galeotto I, nell'ultimo periodo del suo soggiorno avignonese dovette subire le amare conseguenze del ruolo di primo piano che i suoi parenti Malatesti svolgevano nella Chiesa di Roma.
Proprio nel 1397 Papa Bonifacio IX conferisce a Pandolfo III (fratello di Rengarda, la mamma del nostro Cardinale), l'incarico di Comandante supremo della Chiesa nonché quello di Rettore del Ducato di Spoleto.
Il circolo alquanto vizioso tra vita politica e vita della Chiesa, si chiude per il Nostro con una specie di assedio che lo incatena ad un ruolo di imputato per colpe non sue, mentre le tensioni tra Avignone e Parigi provocano scintille.
Su questo sfondo avviene quanto Clamanges riassume con quel «nuper Cardinalis», ovvero una storia non scritta che s'inserisce nel profilo della crisi che coinvolge tutte le istituzioni, religiose e politiche, mettendole in conflitto fra loro.

10. Vecchio mondo, nuove idee

Per tornare al quadro generale del tempo, va ricordato che allora si diffondono le idee di Marsilio da Padova che, nel «Defensor Pacis» (composto a Parigi nel 1324), attacca alle fondamenta l'origine divina del Primato di Pietro, oltre a tutta la struttura gerarchica della Chiesa, parlando di «sovranità popolare» e di «Stato di diritto».
Marsilio (che era stato Rettore dell'Università parigina tra 1312 e 1314) fa «una grande battaglia per la libertà civile dello Stato» ed «una strenua difesa di quel piano di civile convivenza umana ove le differenze delle fedi, i contrasti delle ideologie e delle credenze debbono cedere dinnanzi alla sovranità della legge "umana" ed all'uguale diritto di tutti i cittadini», come scrive Cesare Vasoli, nell'introduzione alla sua traduzione del «Defensor Pacis» [Torino 1960, p. 77].
Nel 1407, osserva R. Sabbadini [«Le scoperte dei codici latini e greci ne' secoli XIV e XV», Firenze 1914, p. 74] «alcuni mesi prima che scoppiasse la nuova bufera con la scomunica lanciata da Benedetto XIII contro il re di Francia», Nicolas de Clamanges si allontana dalla Curia avignonese, «ritirandosi per alcuni mesi a Genova», e vivendo un «periodo di solitudine e scoramento», simile a quello del suo antico protettore, Galeotto di Pietramala.
Andandosene da Avignone, Galeotto segue l'esempio del collega di fuga da Urbano VI nel 1385, ovvero di Pileo da Prata che nel 1389 appoggia il Papa romano Bonifacio IX, il quale gli affida nuovamente l'Arcidiocesi di Ravenna dove era stato destinato già nel 1370.
Stefano Baluzio (1630-1718) sostiene il contrario: cioé Galeotto non ebbe la stessa «leggerezza» del collega Arcivescovo di Ravenna dal 1370 («Vitae Paparum avenionensium», a cura di G. Mollat, Parigi 1927, I, col. 1364).
Secondo l'abate Eugenio Gamurrini (1620-1692), il Cardinal Galeotto, «era ornato di una finissima prudenza e di un coraggio insuperabile, per il che si era reso in posto di gran stima e desiderabile a tutti i Principi» («Istoria genealogica delle famiglie nobili toscane et umbre», I, Onofri, Firenze, 1668, p. 197).

Galeotto giunge a Vienne in un momento particolare della storia politico-religiosa di questa città. Nell'estate del 1395 muore l'Arcivescovo Humbert III [M. Mermet, «Histoire de la ville de Vienne de l'an 1040 à 1801», Parigi 1853, p. 184].
Gli abitanti di Vienne erano esenti dai tributi, ed il delfino aveva mantenuto i loro privilegi e le loro immunità [ib., p. 183], ma il 22 maggio 1390, il giudice maggiore di Vienna Antoine Tholosani emise una sentenza definitiva interamente favorevole alla Chiesa [cfr. pure F. Z. Collombet, «Histoire de la Sainte Église de Vienne», II, Parigi, 1847, p. 356].
Negli antefatti (1339) è coinvolto anche il Cardinale "Gocio de Batagliis d'Aréminie" [p. 156] quale inviato pontificio per conoscere i fatti, onde risolvere le situazioni di contrasto tra potere politico e Papato avignonese. Il quale si esprime il 20 novembre 1340 [p. 157] con una multa al Delfino, da pagare alla Camera apostolica. E con l'ordine che Arcivescovo e Capitolo esercitassero la giurisdizione come un tempo. Clemente VI, succeduto a Benedetto XII, fa assolvere il delfino [p. 162].
Il 2 settembre 1344 Clemente VI annulla il giuramento di fedeltà degli abitanti di Vienne prestato il 22 agosto 1338 [p. 165].
Il 29 marzo 1349 Humbert cede puramente e semplicemente i suoi Stati a Carlo, figlio del duca di Normandia, a condizione che assumessero lui ed i suoi successori il titolo di "delfino" [p. 166].
Schiavo dei Papi, egli sottopose a loro non soltanto i suoi progetti ma pure i suoi atti amministrativi. Il Papa avignonese lo porta a poco a poco a spogliarsi d'una sovranità che avrebbe poi rimpianto [pp. 166-167]. Anche se il delfino sperava di salire in alto nelle dignità ecclesiastiche. Ma poi si sposa con Jeanne de Bourbon [p. 168].
Nel 1389 Carlo VI andando da Parigi ad Avignone si ferma a Vienne, desiderando d'esser considerato come vicario dell'impero [p. 179].

Ritorniamo a Thibaud de Rougement che, come si è già visto, nel 1398 provoca un grave scontro con gli ufficiali reali di Santa Colomba, colpendo con interdetto e scomunica questo antico sobborgo di Vienne [p. 195]. Ne nasce una forte tensione che arriva a coinvolgere Papa e Re. [Cfr. pure «Histoire de la Sainte Église de Vienne», II, p. 341.]
Thibaud de Rougement, nominato da Benedetto XIII Arcivescovo di Vienne il 17 settembre 1395, entra solennemente nella città l'8 dicembre dello stesso anno. Resta a Vienne sino al 1405, quando è trasferito dal Papa a Besançon, dopo che le truppe di Thibaud hanno avuto pesanti scontri (con vari castelli bruciati), durante la guerra tra lo stesso Thibaud ed i fratelli Guy et Jean de Torchefelon che avevano rifiutato di rendergli omaggio.
Le fonti storiche riferiscono di «aspri conflitti» sorti fra Thibaud (che aveva anche il titolo di Conte di Vienne) e Charles de Bouville, governatore del Delfinato, per i "diritti temporali" che gli sono restituiti soltanto nel 1401, dopo un intervento regio dell'agosto 1399. [Cfr. A. Devaux, «Essai sur la langue vulgaire du Dauphiné septentrional au moyen âge», Parigi-Lione 1892, p. 82]
Thibaud accusa gli ufficiali regi di averlo privato della sua giurisdizione temporale, e li scomunica.

Documenti.
Thibaud è protagonista nel 1402 di un terribile scontro con Guy e Jean de Torchefelon, su cui rimandiamo a questa scheda, tratta da «http://empireromaineuropeen.over-blog.org».
Thibaud de Rougemont, prince-archevêque de Vienne de 1395 à 1405, devenu ensuite archevêque de Besançon (1405)
Famille illustre dans le comté de Bourgogne. En 1382, le dauphin Charles II devient roi sous le nom de Charles VI. Par un arrêt de 1400, il rétablit l'archevêque Thibault et son chapitre dans leurs prérogatives temporelles sur Vienne. En 1402 les archevêques de Vienne deviennent abbés perpétuels de l'ordre de Saint-Chef et seigneurs du bourg et de ses dépendances, le château de Saint-Chef est pris et ruiné dans la guerre acharnée que se font Thibaud de Rougemont et les frères Guy et Jean de Torchefelon, ceux-ci ayant refusé de faire hommage à l'archevêque de leur château de Montcarra. Le fougueux prélat attaque brusquement ce château et le brûle. Les Torchefelon prennent et incendient celui de Saint-Chef, en font autant de celui de Seysseul et ravagent tous les environs. Lorsque le gouverneur du Dauphiné intervient pour chercher à arrêter ces désordres scandaleux, Thibaud excommunie les officiers du roi. L'année suivante, les Torchefelon brûlent le château de Mantaille. Les troupes de l'archevêque incendient à leur tour le château de Torchefelon. Le pape Benoît XIII saisit avec empressement l'occasion de transférer de Rougemont à Besançon.

11. Il ricordo di Cola di Rienzo

L'epistola di Galeotto «Ad Romanos» (1394) nasce dalla speranza che il popolo dell'Urbe possa cacciare il suo Papa, per sottomettere l'intera cristianità a quello di Avignone.
Il fallimento delle missioni diplomatiche ad Avignone (1397) farà cambiare idea a Galeotto, assieme alla presa d'atto della sua situazione personale, con la privazione dei redditi della località di Noves riconosciutigli dal Papa Clemente VII.
Nell'epistola «Ad Romanos» si proietta il ricordo storico di quanto accaduto tra 1353 e 1354, durante la cosiddetta «cattività avignonese» (1305-1377).
Innocenzo VI (Étienne Aubert), eletto il 18 dicembre 1352, dopo che ha inviato in Italia il Cardinale Egidio Albornoz per la restaurazione del potere ecclesiastico, utilizza Cola di Rienzo per cacciare il nuovo Tribuno Francesco Baroncelli (originario di una famiglia popolana), e lo fa Senatore. Ma una rivolta aristocratica, attraverso una sommossa popolare, fa crollare il governo di Cola che, fuggendo travestito da carbonaro, è catturato ed ucciso (8 ottobre 1354).
Tutta la vicenda politica di Cola di Rienzo è avvolta nelle trame politico-religiose. Se nel 1342 è ambasciatore ad Avignone del Governo popolare romano presso Papa Clemente VI; nel luglio 1351, rifugiatosi presso Carlo IV di Boemia a Praga perché cacciato da Roma grazie ad una sommossa popolare, è prelevato e condotto ad Avignone da tre messi papali, dopo che era stato dichiarato eretico per inobbedienza alle cose di Chiesa.
La sua nomina a Senatore ed il suo diventare strumento della politica ecclesiastica, decretano il fallimento del mito popolare di Cola di Rienzo.
Alla vicenda di Cola è legato anche Francesco Petrarca, per la sua lettera (anch'essa intitolabile «Ad Romanos») spedita da Avignone («Sine nomine», IV, 10 agosto 1352) in cui si elogia il di lui tentativo di salvare la repubblica, spaventando i malvagi e dando ai buoni liete speranze.
Mentre pendeva sul capo di Cola la minaccia di morte sul rogo in quanto eretico, Petrarca (che aveva conosciuto Cola ad Avignone nel 1342, quando Cola agiva quale ambasciatore del Governo popolare romano), scrive ai cittadini dell'Urbe perché intervenissero con decisione e senza paura in favore del loro concittadino (cfr. «Sine nomine, Lettere polemiche e politiche», a cura di U. Dotti, cit., p. 266).
Di questo intervento Galeotto aveva ben presente il peso ed il significato, mentre pure lui si rivolgeva «Ad Romanos», perché prestassero obbedienza a Benedetto XIII.
D'altra parte Galeotto non poteva ignorare il quadro che Francesco Petrarca aveva tracciato della stessa Avignone, definendola luogo di corruzione, in cui Satana sedeva «arbitro tre le ragazze e quei vecchi decrepiti» («Sine nomine», XVIII), e dove avveniva di tutto per «il divertimento della lascivia papale» che creava una prostituzione oscena perché nascosta dietro il paravento della Religione.
Petrarca accusa la corte papale d'Avignone di corruzione anche nei cosiddetti «Sonetti babilonesi» (136, 137, 138) e nelle egloghe sesta e settima (Wilkins, «Vita del Petrarca», cit., p. 78).
Nell'epistola XVIII (penultima) delle «Sine nomine», si parla di vecchi e lascivi bambocci che bruciano nella libidine, precipitando in ogni vergogna, per tacere degli stupri, dei rapimenti, degli incesti, degli adulterii, «che rappresentano ormai il divertimento della lascivia papale» [«qui iam pontificalis lascivie ludi sunt»]» (Dotti, cit., pp. 206-210).
Ci sono donne rapite, «violate e ingravidate da seme altrui», poi riofferte dopo il parto «all'alterna sazietà di chi le usa a suo godimento», mentre i loro mariti sono costretti a riprendersi le loro mogli «per rioffrirle di nuovo, dopo il parto, all'alterna sazietà di chi le usa a suo godimento».

Documenti. La lezione di Petrarca per l'epistola "Ad Romanos" del 1394.

L'epistola di Galeotto «Ad Romanos» (1394) nasce dalla speranza che il popolo dell'Urbe possa cacciare il suo Papa, per sottomettere l'intera cristianità a quello di Avignone.
Il fallimento delle missioni diplomatiche ad Avignone (1397) farà cambiare idea a Galeotto, assieme alla presa d'atto della sua situazione personale, con la privazione dei redditi della località di Noves riconosciutigli dal Papa Clemente VII.
Nell'epistola «Ad Romanos» si proietta il ricordo storico di quanto accaduto tra 1353 e 1354, durante la cosiddetta «cattività avignonese» (1305-1377).
Innocenzo VI (Étienne Aubert), eletto il 18 dicembre 1352, dopo che ha inviato in Italia il Cardinale Egidio Albornoz per la restaurazione del potere ecclesiastico, utilizza Cola di Rienzo per cacciare il nuovo Tribuno Francesco Baroncelli, e lo fa Senatore. Ma una rivolta aristocratica, attraverso una sommossa popolare, fa crollare il governo di Cola che, fuggendo travestito da carbonaro, è catturato ed ucciso (8 ottobre 1354).
Tutta la vicenda politica di Cola di Rienzo è avvolta nelle trame politico-religiose. Se nel 1342 è ambasciatore ad Avignone del Governo popolare romano presso Papa Clemente VI; nel luglio 1351, rifugiatosi presso Carlo IV di Boemia a Praga perché cacciato da Roma grazie ad una sommossa popolare, è prelevato e condotto ad Avignone da tre messi papali, dopo che era stato dichiarato eretico per inobbedienza alle cose di Chiesa.
La sua nomina a Senatore ed il suo diventare strumento della politica ecclesiastica, decretano il fallimento del mito popolare di Cola di Rienzo.

Alla vicenda di Cola è legato anche Francesco Petrarca, per la sua lettera (anch'essa intitolabile «Ad Romanos») spedita da Avignone («Sine nomine», IV, 10 agosto 1352) in cui si elogia il di lui tentativo di salvare la repubblica, spaventando i malvagi e dando ai buoni liete speranze.
Mentre pendeva sul capo di Cola la minaccia di morte sul rogo in quanto eretico, Petrarca (che aveva conosciuto Cola ad Avignone nel 1342, andato quale ambasciatore del Governo popolare romano), scrive ai cittadini dell'Urbe perché intervenissero con decisione e senza paura in favore del loro concittadino (Dotti, p. 266).
Di questo intervento Galeotto aveva ben presente il peso ed il significato, mentre pure lui si rivolgeva «Ad Romanos», perché prestassero obbedienza a Benedetto XIII. D'altra parte non poteva ignorare il quadro che Francesco Petrarca aveva tracciato della stessa Avignone, definendola luogo di corruzione, in cui Satana sedeva «arbitro tre le ragazze e quei vecchi decrepiti» («Sine nomine», XVIII), e dove avveniva di tutto per «il divertimento della lascivia papale» che creava una prostituzione oscena perché nascosta dietro il paravento della Religione.
Petrarca accusa la corte papale d'Avignone di corruzione anche nei cosiddetti «Sonetti babilonesi» (136, 137, 138) e nelle egloghe sesta e settima (Wilkins, p. 78).
Nell'epistola XVIII (penultima) delle «Sine nomine», si parla di vecchi e lascivi bambocci che bruciano nella libidine, precipitando in ogni vergogna, per tacere degli stupri, dei rapimenti, degli incesti, degli adulterii, «che rappresentano ormai il divertimento della lascivia papale» [«qui iam pontificalis lascivie ludi sunt»]» (Dotti, pp. 206-210).
Ci sono donne rapite, «violate e ingravidate da seme altrui», poi riofferte dopo il parto «all'alterna sazietà di chi le usa a suo godimento», mentre i loro mariti sono costretti a riprendersi le loro mogli «per rioffrirle di nuovo, dopo il parto, all'alterna sazietà di chi le usa a suo godimento».


Documenti.

Dall'epistola XVIII delle «Sine nomine» di F. Petrarca.
«Tam calidi tamque precipites in Venerem senes sunt. Tanta eos etatis et status et virium cepit oblivio. Sic in libidines inardescunt, sic in omne ruunt dedecus quasi omnis eorum gloria non in cruce Cristi sit, sed in commessationibus et ebrietatibus et que has sequuntur in cubilibus impudicitiis. Sic fugientem manu retrahunt iuventam atque hoc unum senectutis ultime lucrum putant, ea facere que iuvenes non auderent. Hos animos et hos nervos tribuit hinc Bacchus indomitus, hinc orientalium vis Baccharum. O ligustici et campani palmites, o dulces arundines et indice nigrantes arbustule ad honestas delitias et comoditates hominum create, in quos usus et quantam animarum pernitiem clademque vertimini! Spectat hec Satan ridens atque in pari tripudio delectatus interque decrepitos ac puellas arbiter sedens stupet plus illos agere quam se hortari; ac ne quis rebus torpor obrepat, ipse interim et seniles lumbos stimulis incitat et cecum peregrinis follibus ignem ciet, unde feda passim oriuntur incendia. Mitto stupra, raptus, incestus, adulteria, qui iam pontificalis lascivie ludi sunt. Mitto raptarum viros, ne mutire audeant, non tantum avitis laribus, sed finibus patriis exturbatos, queque contumeliarum gravissima est, et violatas coniuges et externo semine gravidas rursus accipere ac post partum reddere ad alternam satietatem abutentium coactos. Que omnia non unus ego, sed vulgus novit et si taceat, quamvis, ne id ipsum taceat, iam maior est indignatio quam metus et minacem libidinem vicit dolor. Hec, inquam, universa pretereo. Malo quidem te hodie ad risum quam ad iracundiam provocare. Ira enim que ulcisci nequit in se flectitur et in dominum suum sevit.»


I "Sonetti babilonesi" di Francesco Petrarca,
da "Canzoniere" ("Rerum vulgarium fragmenta")


CXXXVI, Fiamma dal ciel su le tue treccie piova

Fiamma dal ciel su le tue treccie piova,
malvagia, che dal fiume et da le ghiande
per l'altrui impoverir se' ricca et grande,
poi che di mal oprar tanto ti giova;

nido di tradimenti, in cui si cova
quanto mal per lo mondo oggi si spande,
de vin serva, di lecti et di vivande,
in cui Luxuria fa l'ultima prova.

Per le camere tue fanciulle et vecchi
vanno trescando, et Belzebub in mezzo
co' mantici et col foco et co li specchi.

Già non fostú nudrita in piume al rezzo,
ma nuda al vento, et scalza fra gli stecchi:
or vivi sí ch'a Dio ne venga il lezzo.


CXXXVII, L'avara Babilonia

L'avara Babilonia à colmo il sacco
d'ira di Dio, e di vitii empii et rei,
tanto che scoppia, ed à fatti suoi dèi
non Giove et Palla, ma Venere et Bacco.

Aspectando ragion mi struggo et fiacco;
ma pur novo soldan veggio per lei,
lo qual farà, non già quand'io vorrei,
sol una sede, et quella fia in Baldacco.

Gl'idoli suoi sarranno in terra sparsi,
et le torre superbe, al ciel nemiche,
e i suoi torrer' di for come dentro arsi.

Anime belle et di virtute amiche
terranno il mondo; et poi vedrem lui farsi
aurëo tutto, et pien de l'opre antiche.


CXXXVIII, Fontana di dolore, albergo d'ira

Fontana di dolore, albergo d'ira,
scola d'errori, et templo d'eresia,
già Roma, or Babilonia falsa et ria,
per cui tanto si piange et si sospira;

o fucina d'inganni, o pregion dira,
ove 'l ben more, e 'l mal si nutre et cria,
di vivi inferno, un gran miracol fia
se Cristo teco alfine non s'adira.

Fondata in casta et humil povertate,
contra' tuoi fondatori alzi le corna,
putta sfacciata: et dove ài posto spene?

Ne gli adúlteri tuoi? ne le mal nate
richezze tante? Or Constantin non torna;
ma tolga il mondo tristo che 'l sostene.



Dal volume "I quattro poeti italiani. Dante, Petrarca, Ariosto, Tasso", Parigi 1845.

Altre immagini sui "Sonetti babilonesi" di F. Petrarca.

Citazioni. Sulla morte di Cola di Rienzo.

Note bibliografiche.
U. Dotti ha curato «Sine nomine. Lettere polemiche e politiche» di F. Petrarca, Roma-Bari 1974
E. H. Wilkins, «Vita del Petrarca», Milano 2003


L'epistola "Ad Romanos" del 1394: «Deflet horrendum schisma, hortaturque eos, ut adhaerendo Benedicto XIII, ipsi finem imponant».



Scomparso Clemente VII il 16 settembre 1394, Galeotto da Pietramala si trova al conclave per l'elezione del nuovo Antipapa (avvenuta il 28 dello stesso mese di settembre), Benedetto XIII, l'aragonese Pedro Martínez de Luna (1328-1423).
«Lo legava al nuovo pontefice una profonda stima e un'amicizia nata fin da quando aveva potuto riconoscere nel cardinale de Luna specchiata rettitudine e profonda cultura e il comune amore per gli studi di umanità e la ricerca degli antichi testi» [Franceschini, p. 395].
Poco dopo, comunque prima di dicembre [Ornato, p. 28] Galeotto «scripsit gravem epistolam ad cives Romanos; in qua eos primo redarguit quod ipsi fuerint auctores schismatis, deinde hortatur ut eidem Benedicto, quem multis laudibus ornat, obedientiam prestent», come leggiamo in Stefano Baluzio [col. 1363].
Galeotto di Pietramala propone pubblicamente il percorso di risoluzione dei contrasti tra Roma ed Avignone, con la «via cessationis» o «via cessionis», consistente nelle dimissioni del Pontefice di Avignone, Benedetto XIII.
Poi Galeotto giustifica lo stesso Pontefice per la sua risposta negativa alla sua proposta contenuta nell'epistola «Ad Romanos» del 1394.
Va ricordato pure il ruolo del re di Francia Carlo VI che intendeva riunificare la cristianità (come scrive Franco Gaeta), partendo proprio dalla «via cessionis» della rinuncia di entrambi i Papi. Il rifiuto che esprimono, porta la Francia a sottrarsi (1407) all'obbedienza loro, e provocano la crisi dell'autorità papale poi risolta soltanto al Concilio di Costanza.

Presentiamo alcuni passaggi della epistola «Ad cives Romanos», il cui titolo esatto è «Deflet horrendum schisma, hortaturque eos, ut adhaerendo Benedicto XIII, ipsi finem imponant».

«Tempus est jam, si Deus adjuverit, fugare tantam pestem. et tartari claudere portas, ne schismaticorum spiritus repleautur in posterum, faucesquae satanae insatiabiles stringere, ne christiano cibo quotidie epuletur. In hoc vos meditar decet, in hoc animi vires colligere, in hoc omnis vestra debet esse intentio, ut ecclesiam resarcitam Domino praesentetis, quam sic inconsulte, dividere non puduit».

Come agire? «Schisma in potestate nostra creare, nutrire ac fovere possumus, illud autem tollere, cum velimus, non est nostrum.»
Poi Galeotto passa a parlare di Benedetto XIII, ovvero del cardinale Pietro de Luna,[Antipapa dal 1394] «qui potens est et vult omnes nostros morbos curare, sed illos praesertim qui schismatis putredine catholica corpora corruperunt». Ai Romani dice: «Audite, quaeso, monita sua sancta, salubres eius preces esaudite».
Infine Galeotto tesse un incondizionato elogio di Benedetto XIII: «Ejus mores et integritatem, benignitatem, mansuetudinem, caritatem, pietatem, sinceritatem, aliis forte in populis predicare non incongruum, vobis autem jam diu persuasum esse scio. Nostis hominem et ejus virtutes».
Benedetto XIII ha scelto di riunire la Chiesa, per presentarla a Dio tutta risarcita, lui che la trovò così lacerata: «optat interimere schisma, et jam foedam belluam mactare sua manu». Per questo vi incita, ed implora il vostro aiuto. Partendo da ciò, Galeotto prega i Romani di appoggiare Benedetto «ad candidam ecclesiae unionem».

Testo ripreso dalla col. 1544 di Veterum scriptorum et monumentorum historicorum, dogmaticorum, moralium, amplissima collectio, I, Montalant, Parigi 1724.

Bibliografia.
S. Baluzio, Vitae Paparum Avenoniensium, Muguet, Parigi 1693, col. 1363: «Haec epistola habetur in codice 822 bibliothecae Colbertinae».
G. Franceschini, Alcune lettere del Cardinale Galeotto da Pietramala, in «Italia medievale e umanistica», VII, Padova 1964, pp. 375-404.
F. Gaeta, Il tramonto del Medioevo, ne «La crisi del Trecento», Bergamo 2013, pp. 280-397, pagg. 289-291.
E. Ornato, Jean Muret et ses amis: Nicolas de Clamanges et Jean de Montreuil, Genève-Paris, 1969, p. 28.

Pagine collegate al tema:
L'epistola "Ad Romanos" del 1394. Pagine collegate al tema:
001a1. 1567, si parla di fuga da Avignone.
001a2. 1693, si nega la fuga da Avignone.
001a3. Fonti: Baluzio e Galeotto di Pietramala.
001a5. L'epistola "Ad Romanos": il modello di F. Petrarca.
001a5a. Documenti: i testi di F. Petrarca. [05.12.2015]
001a5b. Immagini: "Sonetti babilonesi" di F. Petrarca. [07.12.2015]
001a5c. La morte violenta di Cola di Rienzo. [08.12.2015]
001a5d. Petrarca, Cola di Rienzo e la Chiesa di Avignone. [08.12.2015]
001aa. Note bibliografiche.
002h. Sulla data e sul luogo della sua scomparsa.

All'indice generale delle pagine su Galeotto.

"Riministoria" e' un sito amatoriale, non un prodotto editoriale. Tutto il materiale in esso contenuto, compreso "il Rimino", e' da intendersi quale "copia pro manuscripto". Quindi esso non rientra nella legge 7.3.2001, n. 62, "Nuove norme sull'editoria e sui prodotti editoriali e modifiche alla legge 5 agosto 1981, n. 416", pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 67 del 21 marzo 2001. Antonio Montanari, 47921 Rimini, via Emilia 23 (Celle). Tel. 0541.740173
Pagina 2256, creata 14.07.2016, 10:30/Mod. 17.07.2016, 17:30