FOCUS

Focus è la rubrica che parlerà dei grandi personaggi della Storia d'Italia. Personaggi famosi, entrati a pieno merito nei libri di storia, nelle rappresentazioni televisive e cinematografiche o in quant'altro abbia contribuito a dar loro notorietà. Ma anche e direi soprattutto Focus vuole presentarvi quei personaggi che, al contrario, non hanno goduto, per motivi di svariata natura, dell'attenzione che sarebbe stato doveroso dargli. Gran parte di intellettuali, politici, giornalisti, in Italia hanno censurato, per decenni, questi personaggi in qualche modo ritenuti “scomodi”, manipolando il giudizio e il pensiero degli italiani. Leggendo i racconti di Focus sarete voi a valutare quanto giusto sia stato ignorarli o nasconderli all'opinione pubblica. Con Focus avrete la possibilità di conoscere la storia negata agli italiani e al mondo.


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PICCOLI EROI PER CASO

Quella che vi raccontiamo è la storia di ragazzini della Bari vecchia, di quella parte della città spesso apparsa sulle prime pagine dei giornali per avvenimenti legati alla malavita. Di quella parte della città in cui l’8 settembre 1943 i protagonisti non furono dei baby killer, ma dei piccoli eroi dei quali sono in pochi a sapere.

Parte del racconto del giornalista Marco Brando, sulle colonne del Corriere del Mezzogiorno, nell'edizione di Bari.

E' il 9 settembre 1943. Un reparto della Wehrmacht penetra nel porto di Bari, affonda alcuni piroscafi e risponde con il fuoco alle intimazioni di resa. "Mentre un camion tedesco attraversava il ponte di San Nicola, a Bari vecchia, lo attaccammo... E poiché vedemmo tanti ragazzi volenterosi di scagliarsi contro, incitammo questi a lanciare le bombe a mano da noi fornite. Tanto che il piccolo quattordicenne a nome Romito Michele fu Francesco, abitante in via San Marco 50, con un lancio di una bomba incendiò il camion". Sono parole di Mario Trani (Marina militare) in una testimonianza resa all'Associazione nazionale partigiani d'Italia il 15 giugno 1945 e raccolta nel volume L'8 settembre 1943 in Puglia e Basilicata (Edizioni dal Sud), realizzato da Vito Antonio Leuzzi e Giulio Esposito per conto dell'Istituto pugliese per la Storia dell'antifascismo e dell'Italia contemporanea.

È una parte del racconto della battaglia cui egli aveva partecipato: lo scontro, costato sei morti italiani ricordati in una lapide sul palazzo della dogana, contrappose alcune centinaia di soldati tedeschi (incaricati – il giorno successivo alla notizia dell'armistizio tra Italia e forze alleate – di far saltare le installazioni portuali baresi) a militari e civili italiani. Questi ultimi, prima spontaneamente poi col coordinamento del generale Nicola Bellomo, riuscirono a fermarli. Quel giorno dettero un contributo importantissimo, non solo sul piano bellico ma anche sul piano morale, decine e decine di ragazzini di Bari vecchia, che si armarono di bombe a mano e andarono all'assalto dei mezzi blindati germanici. Di questi ragazzini nessuno ha mai più parlato. È uno dei lati oscuri, censurati per decenni, della storia della guerra di Liberazione. Il quattordicenne citato da Trani, Michele Romito, vive ancora nella sua Bari vecchia, stesso indirizzo. Oggi è un settantacinquenne. Negli anni Settanta il Comune si ricordò di lui, con una medaglia. Poi l'oblio. Lo abbiamo incontrato nei pressi dello stesso arco da cui lanciò le bombe sul camion tedesco. Non lontano, lungo le mura della città vecchia, ci sono i bagni pubblici, ove ha lavorato dopo aver smesso di fare il muratore. "Mi ricordo tutto, eccome...", racconta, indicando l'arco attraverso il quale si raggiunge il cuore del borgo. "Eravamo in tanti ragazzini, allora, a lavorare nel porto. Praticamente tutti i ragazzi di Bari vecchia. Gli adulti erano al fronte, anche i miei fratelli maggiori, così toccava a noi. Caricavamo e scaricavamo le navi, pure quelle dei tedeschi, che fino all'8 settembre erano nostri alleati", ricorda. Finché quegli adolescenti barivecchiani dovettero dare l'assalto agli ex alleati. "Ricordo che la sera dell'8 settembre, dopo aver ascoltato alla radio il messaggio di Badoglio che annunciava l'armistizio, avevamo festeggiato fino a tardi. Per tutti noi era la fine della guerra. O, almeno, così speravamo. La mattina del 9 ci presentammo come al solito al lavoro, nel porto... Arrivarono i tedeschi. Spararono, minacciarono tutti, fecero saltare alcune navi, uccisero quelli che avrebbero voluto impedirglielo. E noi non sapevamo cosa fare, eravamo rimasti intrappolati... Nel caos, riuscimmo infine a raggiungere le mura di Bari vecchia". Via di corsa verso le proprie case, in cerca di rifugio?

Macché. "Si sparava, c'era fumo ovunque. Andammo di corsa dietro l'Ospedale consorziale (demolito dopo la guerra, ndr), in piazza San Pietro". Ed ecco l'incontro. "C'era il generale Bellomo con altri soldati. Era leggermente ferito. Ci guardò e ci disse: "Dovete difendere le vostre case, la vostra città". Ci fece vedere, davanti all'Ospizio, alcune casse piene di bombe a mano". Prosegue Michele Romito: "Erano bombe Balilla, quelle rosse. Tutti noi ne prendemmo alcune. Io ne presi sei: due in mano e quattro infilate nella maglietta. Lungo le mura corsi verso il ponte di San Nicola... Mi nascosi dietro le colonne, allora la balaustra non c'era. In quel momento stavano arrivando due camion blindati tedeschi, armati con una torretta da cui spuntava una mitragliatrice. Volevano entrare a Bari vecchia, dove c'erano le nostre case, le nostre famiglie. "O noi o loro", pensavamo tutti.

Il primo camion fece in tempo ad entrare ma fu fermato davanti al santuario di San Nicola. Il secondo stava passando... Io tirai una prima bomba a mano dall'alto. Esplose proprio sulla torretta. Lanciai anche la seconda e fu un inferno... Quell'affare prese fuoco completamente. Così l'ingresso dei bastioni restò bloccato, e io corsi verso piazza San Pietro". Michele si unì ad altri ragazzi e ad alcuni militari: lanciarono altre bombe a mano sulle truppe germaniche, che premevano sull'altro lato dell'ospedale consorziale. Poco dopo i tedeschi si arresero, dopo aver raggiunto un accordo con i militari italiani. "Quando ormai era tutto finito, in piazza arrivarono alcune decine di bersaglieri in bicicletta. Ma avevamo già fatto tutto noi. I tedeschi si erano arresi". Così quel ragazzino – che, come i suoi amici, non aveva mai visto prima una bomba a mano o un'arma – si ritrovò di punto in bianco in prima linea. "I tedeschi che assieme agli altri avevamo catturato purtroppo furono liberati, per ordine del comando italiano...

Purtroppo, perché risalirono fino a Barletta, a Trani e in altre città pugliesi, dove fecero stragi e sparsero molto sangue. Fu un errore, di cui nessuno si è mai pentito abbastanza. Io – dice Michele – non odio i tedeschi, oggi. E anche allora, prima di quella battaglia, prima dell'8 settembre, non dico che avevo fatto amicizia con alcuni di loro ma quasi. Ci chiamavano per aiutarli a fare la cambusa per le navi ormeggiate in porto, li conoscevamo. Ma dopo l'armistizio si trasformarono. Diventarono massacratori senza pietà... Dovevamo fare il nostro dovere". Un rimpianto?

"Vorrei che fosse riconosciuto a Bari vecchia il sacrificio dei suoi ragazzi. Io abito qui da sempre, così come i miei genitori. Di noi oggi si parla solo per dire cose brutte. Ma nessuno ricorda quei giorni, il nostro coraggio, il nostro orgoglio, il nostro sacrificio. Fu uno dei primi episodi di Resistenza, molto prima che succedesse nel Nord Italia". Ci sono ancora a Bari vecchia gli ex ragazzini di allora che, come lei, fermarono la Wehrmacht? "E chi lo sa... Dopo la guerra sa dove spedirono moltissimi barivecchiani, le cui case erano state distrutte dai bombardamenti? Nell'ex campo di concentramento ai margini di Bari. Poi al Cep e in altre periferie. So che c'è ancora qualcuno, isolato laggiù. Ma non lo vedo più da molti anni. Mi piacerebbe incontrarli ancora". E poi? "E poi, magari, potremmo andare a raccontare nelle scuole quel che successe allora. Noi ne siamo orgogliosi. E Bari vecchia merita che le venga finalmente reso onore, almeno dopo sessant'anni". (21.5.2006)

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GIORGIO PERLASCA

Inverno 1944, Budapest. Giorgio Perlasca, spacciandosi per console spagnolo, salva dallo sterminio nazista migliaia di ebrei. Il suo nome è scritto a Gerusalemme nel Museo dell'Olocausto tra i Giusti delle nazioni, in Italia emerge solo dopo decenni di colpevole silenzio.

Nasce a Como il 31 gennaio 1910, ma dopo qualche mese la famiglia si trasferisce a Maserà, provincia di Padova.

Giovanissimo aderisce al fascismo. È sostenitore della corrente dannunziana, al punto che per difendere le idee del Poeta litiga con un suo professore che aveva condannato l'impresa di Fiume. Come conseguenza Perlasca viene allontanato da tutte le scuole del Regno.

Negli anni Trenta si arruola come volontario e parte per l'Africa Orientale, successivamente per la Spagna, dove combatte al fianco del generale Franco.

Saranno prima l'alleanza dell'Italia con la Germania e poi l'entrata in vigore delle leggi razziali che faranno incrinare i rapporti tra Perlasca e il fascismo, dal quale si allontanerà, senza mai diventare però un antifascista.

All'inizio della seconda guerra mondiale, viene inviato in Ungheria con lo status di diplomatico. Il suo lavoro consiste nell'acquistare carni per l'Esercito Italiano.

Nel 1943, avendo prestato giuramento al Re, rifiuta di aderire alla Repubblica Sociale di Salò. Per questo motivo viene internato in un castello ungherese insieme ad altri diplomatici, con i quali sarebbe stato successivamente deportato in Germania.

A questo punto Perlasca progetta di fuggire e, fingendosi ammalato chiede un'autorizzazione che gli consenta di recarsi da un medico a Budapest. Quindi scappa.

Porta con se un documento che gli era stato rilasciato dal generale Franco alla fine della guerra in Spagna e con quello riesce a ottenere asilo presso l'Ambasciata spagnola.

Da li a poco però, l'Ambasciatore spagnolo lascia Budapest, in quanto il suo Paese si rifiuta di riconoscere il governo filo nazista di Szalasi che ha ordinato lo spostamento della sede diplomatica da Budapest a Sopron, vicino al confine con l'Austria.

Partito l'Ambasciatore, il Ministero degli Interni Ungherese ordina lo sgombro degli uffici dell'Ambasciata, nei quali oltre a Perlasca vi si sono rifugiati anche degli ebrei, muniti di documenti falsi rilasciati dalle Ambasciate di paesi neutrali (Svezia, Svizzera, Città del Vaticano, Portogallo).

Se gli ebrei fossero usciti dalla sede diplomatica, le Croci Frecciate, i nazisti di Ungheria, li avrebbero catturati e quindi deportati. Fu così che a Giorgio Perlasca venne la geniale e coraggiosa idea di autoproclamarsi Ambasciatore spagnolo, venuto a sostituire quello appena partito. Prepara dei documenti nei quali cambia il suo nome che Da Giorgio si trasforma in Jorge. Comunica agli organi competenti ungheresi che Sanz Brinz, il vero Ambasciatore, si è dovuto trasferire a Berna in quanto da li gli era più facile comunicare con Madrid. Il Ministero degli Interni Ungherese gli crede e da quel momento ha inizio l'impresa eroica di Giorgio Perlasca. Perlasca è a conoscenza dell'esistenza di una legge, denominata Rivera che riconosce agli ebrei sefarditi, ovvero quelli di origine spagnola, scacciati dalla Regina Isabella la Cattolica, la cittadinaza spagnola. Quindi stila migliaia di documenti, falsi naturalmente, attraverso i quali gli notifica di presentarsi presso l'Ambasciata di Spagna in quanto quest'ultima aveva dato inizio alla procedura per il loro rimpatrio. Con quei documenti non solo protegge gli ebrei dai nazisti, ma ha anche la possibilità di sfamarli avendo egli ormai esaurito il danaro che il Governo italiano gli aveva consegnato per comprare la carne e che invece aveva utilizzato proprio per aiutare i perseguitati.

Con l'incaricato dal Re di Svezia, Wallemberg si reca alle stazioni ferroviarie da dove partivano i deportati e a decine, ogni giorno, li salva da sicura morte. Tratta con il Governo ungherese e con i nazisti il rilascio dei deportati e alla liberazione di Budapest ne ha salvati 5218.

I russi arrivati a liberare Budapest lo fanno prigioniero e lo rilasciano dopo qualche giorno. Torna a casa, in Italia e non racconta a nessuno della sua avventura, neanche alla famiglia, non subito. Più tardi alcuni politici vengono informati della sua straordinaria impresa, ma tutto viene messo a tacere. Perlasca è stato un fascista e a un fascista non gli si può riconoscere alcun atto di eroismo.

Saranno alcune donne ebree ungheresi, negli anni Ottanta a dare inizio alla ricerca dell'eroe italiano che si spacciava per Ambasciatore spagnolo. Un giornalista, Giovanni Minoli che conduce una trasmissione televisiva intitolata Mixer parla di lui, per la prima volta. Giorgio Perlasca è morto il 15 agosto del 1992. È sepolto nel cimitero di Maserà, nella terra e sulla lapide una frase recita in ebraico “Giusto tra le Nazioni”.
I Giusti, secondolo Yad Vashem, il museo sull'olocausto, situato in Gerusalemme, sono quegli uomini che hanno messo a rischio la propria vita per salvare quelle minacciate dalle dittature, o dalle discriminazioni sociali o religiose.
A ciascuno dei Giusti lo Yad Vashem ha dedicato un albero nel “Giardino dei Giusti delle Nazioni”. Uno di questi porta il nome di Giorgio Perlasca.

A Giorgio Perlasca sono stati dedicati un film – Perlasca, un eroe italiano – e due libri: La banalità del bene. Storia di Giorgio Perlasca edizioni Feltrinelli e “L'impostore” edizioni Il Mulino.

Una serie di riconoscimenti da organi istituzionali di più parti del mondo sono stati consegnati all'uomo Perlasca.

Medaglia al Knesset parlamento israeliani 1989

Stella al merito Ungheria 1989

Sigillo città di Padova 1989

Grande ufficiale della repubblica Italia 1990

Medaglia Raoul Wallenberg Usa 1990

Medaglia del museo dell'olocausto usa 1990

Ordine di Isabella la cattolica Spagna 1991

Medaglia d'oro al valor civile Italia 1992

Attestato fondazione canergie



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