Una
delle cose da fare per vivere meglio, è non avere in casa
la TV. Come già sa chi ha letto le mie lettere al
Loggione, a casa mia la tv non c’è, almeno
non nella mia dimora finlandese. Lo spettacolo di cui posso
godere dalla mia veranda è di gran lunga migliore dei
“nei” del pifferaio magico che ogni sera,
incorniciato dalla farfalla stilizzata di Rai 1 ci rifila
propaganda “porta a porta”. Meglio della ostentata
“pipa” del vecchio intellettuale, saggio e liberal
che, dalla un po’ meno comoda poltrona di Rai 3 si
scandalizza solo in presenza di chi ha scelto di non congelare la
Storia. Dell’isola degli ex famosi, di miss gennaio,
febbraio..., dei microfoni sbattuti sul volto degli avversari
(nemici?) politici, di schiaffi, pugni e calci in diretta. Ah,
dimenticavo; e di Berlusconi che passeggia in (cattiva)
compagnia nella sua tenuta di Arcore.
Senza
tv si può vivere meglio, ma solo un tantino. Oggi
pifferai, saggi e signorine “rifatte” hanno a
disposizione altri mezzi per sorprenderci e attirare la nostra
attenzione. Il più efficace di questi ultimi,
naturalmente, è internet. Difficile potervi rinunciare
anche per uno come me. Ma difficile, anche, non essere sorpresi
da notizie del tipo “la modella... ex fidanzata di Jolie
parla del suo amore con la bella attrice”, “un’ombra
sulla relazione sentimentale tra i belli del cinema; Angelina
Jolie e Brad Pitt”, “il cuore di
Ramazzotti rapito da una ragazza americana” Anche se
il sito che si sta visitando non è quello di Novella 2000,
ma del Corriere della Sera. Che ci volete fare? L’unica è
continuare a tapparsi le narici.
E
proprio l’altro ieri, sul Corriere della sera, non ho
potuto fare a meno di leggere una notizia il cui titolo era:
“Rischio di querela per il saluto romano di Di Canio”...
o qualcosa del genere. Pare che il giocatore della Lazio si sia
rivolto alla tifoseria con il “saluto romano”. È
risaputo che parte della tifoseria laziale è di destra, ma
non è l’unica ad avere simpatie per questa o quella
ideologia politica. Altre squadre di calcio, in Italia, hanno tra
gli ultras personaggi molto vicini alla estrema destra e
all’estrema sinistra. Ció non fa più notizia.
A suscitare scalpore e in alcuni casi addirittura sdegno e
preoccupazione, è che un calciatore, per giunta capitano
di un noto club, dichiari di condividere coi propri tifosi quel
saluto. Di colpo, Di Canio, è diventato “un
pericolo per i giovani che imitano gli idoli dello sport”
(Cossutta). “E ricordiamoci che il saluto fascista è
interdetto e punito dalla nostra costituzione” (sempre
Cossutta). Domande: ma il saluto romano, non quello
fascista, si può fare senza rischiare di essere
condannati? E come si fa a riconoscere il saluto dei Cesare
da quello del Duce? È più un cattivo esempio per i
giovani, Di Canio che fa il saluto fascista-romano o Di
Canio che fa il saluto di Stalin? Che a lamentarsi del
gesto del calciatore sia la comunità ebraica italiana,
posso capirlo, ma se a parlare di buon esempio è Cossutta,
ovvero colui che saluta e sventola gli stessi simboli che furono
macchiati del sangue di milioni di innocenti...! Certo non è
facile, soprattutto per i più giovani, distinguere il
buono dal cattivo esempio. Ancora di più quando, ad avere
la pretesa di indicarci la via, sono i rappresentanti del
fallimento politico, ideologico, culturale e non ultimo economico
di una Italia corrosa dal malaffare e stretta nella morsa di
avidi arrivisti e furbi impostori (da destra a sinistra senza
tralasciare il centro).
La
notizia di cui sopra mi ha fatto tornare in mente un episodio al
quale ho avuto modo di assistere non molto tempo fa. Esattamente
lo scorso settembre, quando mi trovavo in vacanza in Italia e più
precisamente a Roma. Ero sul treno con destinazione
Civitavecchia. Nel mio stesso vagone viaggiavano due signore
sulla cinquantina, un gruppo di ragazzi e tre giovani intorno
alla trentina. Uno di questi ultimi indossava una maglietta nera
sulla quale vi era, di color argento, l’effige del Duce.
Alla vista del “fascio”, le due signore lasciarono
trasparire un'espressione di disgusto. Il viaggio dei tre durò
poco, ma lo sdegno delle signore diventò sempre più
evidente, al punto da far intuire al fascio ciò che
stavano pensando di lui. Prima di scendere, quest'ultimo si
avvicinò alle signore e, piegandosi verso di loro disse:
“Ah sessantottine! È finito er tempo de la Santa
Inquisizione. Dateve 'na svegliata, er Che nun va più de
moda e manco li spinelli. Ah generazione de falitiiiiiii!!!”
Diciamolo;
il fascio, pur privo di stile e eleganza, non aveva poi tutti i
torti. Almeno per quanto riguarda gli spinelli che, in Italia,
hanno lasciato il posto a droghe più “efficaci”,
di tre o quattro tipi, ognuna per l'occasione giusta. Veri sono
anche i fallimenti di quella generazione cui le signore
appartengono. Ma che il Che (Guevara) non sia più
di moda! Questo proprio no! Anzi, Guevara è tornato
non solo di moda tra i giovanissimi che cavalcano, proprio per
una questione di riflusso, i miti di quella che fu la generazione
degli anni '70, ma è anche diventato il logo del
capitalismo. Si, proprio colui che combattè il capitalismo
oggi è diventato un marchio, ovvero la quintessenza dello
stesso capitalismo. La sua immagine, ritratta da Alberto
Korda, non si limita più ad apparire su t-shirt e
bandiere, ma anche su tazze, berretti, portachiavi, confezioni da
te e su innumerevoli altri prodotti commerciali. Compresa la
confezione di un detersivo che ha come slogan: “Il Che lava
più bianco”. Piccole e grandi industrie, nessuno si
è tirato indietro dall'utilizzare l'immagine del
rivoluzionario a fini commerciali. Tra questi, non lo hanno fatto
neanche i suoi più “fedeli” sostenitori, come
quelli del “The Che store”, il negozio del Che che
troviamo su internet e che promette, con i propri articoli, di
“soddisfare tutte le vostre esigenze rivoluzionarie”.
E che dire del giornalista italiano Gianni Minà? Ha
venduto a Robert Redford i diritti del diario di viaggio
che Guevara fece in Sudamerica nel 1952. In cambio ha
chiesto di poter accedere sul set del film e girare un proprio
documentario. Per non parlare di Alberto Granado che era
tra gli accompagnatori di Guevara proprio in quel viaggio
in sudamerica e che fa da consulente a documentaristi.
Ultimamente un articolo de El Pais, ha scritto di lui che passa
le sue giornate a consumare vini e pasti costosissimi e a
lamentarsi dell'embargo americano contro Cuba che non gli
permette di riscuotere i diritti. E così il Che, dal 1997,
anno in cui furono scritte su di lui cinque biografie e furono
ritrovati i suoi resti presso l'aeroporto boliviano di
Vallegrande, ritorna di “moda”. E non solo tra i
giovani che manifestano per le strade, ma anche tra politici,
calciatori, gente di spettacolo... anche tra coloro, insomma, che
hanno scopi ben diversi da quelli che furono o avrebbero dovuto
essere del Che. Ma chi era veramente Guevara e cosa
sappiamo di lui? A quanto pare, su questo argomento i più
onesti risultano essere i giovani argentini che hanno coniato il
motto: “Tengo una remera del Che y no sé por qué”
Ho una maglietta del Che e non so perché”. I meno
onesti sono invece coloro che, come ho scritto, speculano sulla
sua immagine, arricchendosi in tutti i sensi. Poi ci sono i
giovanissimi, molti di loro il Che lo conoscono proprio
attraverso gli speculatori di cui sopra. E se invece Guevara
fosse così come lo racconta il saggista Alvaro Vargas
Llosa!?
Dal
Diario della Sierra Maestra, nel 1957, Guevara sparò a
Eutimio Guerra, perché ritenuto una spia. Dopo il
gesto disse: “Ho risolto il problema con una calibro 32
nella parte destra del cervello... Ció che apparteneva a
lui ora è mio”. Solo più tardi sparò
ad Aristidio, un contadino che aveva espresso il desiderio
di ritirarsi dalla rivoluzione. Subito dopo ordinava l’uccisione
di Echevarria, la cui unica colpa era quella di avere un
fratello accusato di crimini imprecisati. L’uccisione fu
giustificata da Guevara con un sintetico “Doveva
pagare”. In altre occaasioni, il rivoluzionario torturava
le vittime simulando l’esecuzione. Secondo la testimonianza
di Jaime Costa Vázquez, un ex comandante
dell’esercito rivoluzionario, noto come El Catalan,
molte delle esecuzioni a morte attribuite a Ramiro Valdés,
ex Ministro degli Interni cubano, venivano effettuate per ordine
dello stesso Guevara, le cui direttive erano: “In
caso di dubbio, uccidete”. Circa venti esecuzioni furono
ordinate, sempre dal rivoluzionario, al centro di Cuba, alla
vigilia della vittoria. Lo scrive Marcelo Fernandes-Zayas,
ex rivoluzionario, successivamente divenuto giornalista. Tra le
vittime vi erano contadini che si erano uniti all’esercito
per non rimanere disoccupati.
Nel
1959, Fidel Castro affidò a Guevara la
direzione del carcere La Cabaña. José Vilasuso,
avvocato e professore alla Universidad Interamericana de Bayamon
di Porto Rico, ex membro della commissione che si occupava dei
processi sommari a La Cabaña, racconta: «Il Che
presiedeva la Comisión Depuradora. Il processo rispettava
la legge della Sierra: c’era una corte militare e secondo
le indicazioni del Che dovevamo agire con convinzione, perché
erano tutti assassini e procedere in modo rivoluzionario
significava essere implacabili. Il mio diretto superiore era
Miguel Duque Estrada. Il mio compito consisteva nel
sistemare le pratiche prima che fossero inviate al ministero. Le
esecuzioni si svolgevano dal lunedì al venerdì, in
piena notte, appena dopo l’emissione della sentenza e
l’automatica conferma in appello. Nella notte più
orribile che io ricordi, furono uccisi sette uomini».
Secondo
la testimonianza di Javer Arzuaga, cappellano, testimone
di decine di esecuzioni: «C’erano circa ottocento
prigionieri in uno spazio capace di contenerne non più di
trecento: ex militari e poliziotti dell’era di Batista,
giornalisti, qualche uomo d’affari e alcuni commercianti.
Il tribunale rivoluzionario era formato da uomini delle milizie.
Che Guevara presiedeva la Corte d’appello. Non ha
mai annullato una sentenza. Visitavo il braccio della morte nella
Galera de la muerte. Si sparse la voce che ipnotizzavo i
prigionieri perché molti restavano calmi, così il
Che diede l’ordine che fossi presente alle esecuzioni. Dopo
la mia partenza in maggio furono eseguite ancora molte sentenze,
io vidi 55 esecuzioni. C’era un americano, Herman Marks,
evidentemente un ex carcerato. Lo chiamavamo "il macellaio"
perché provava piacere a dare l’ordine di sparare.
Difesi davanti al Che la causa di numerosi prigionieri. Ricordo
in particolare il caso di un ragazzo, Ariel Lima. Il Che
non si smosse. Né cambiò idea Fidel, al
quale feci visita. Rimasi così sconvolto che alla fine del
mese di maggio 1959 mi fu ordinato di lasciare la parrocchia di
Casa Blanca, dove si trovava La Cabaña e dove avevo
celebrato la messa per tre anni. Andai a curarmi in Messico. Il
giorno che partii, il Che mi disse che ciascuno di noi aveva
tentato di portare l’altro dalla propria parte, invano. Le
sue ultime parole furono: "Quando ci toglieremo le maschere,
ci ritroveremo nemici"».
Circa
duecento persone furono uccise solo a La Cabaña.
Carlos
Santana, musicista, da un po’ di tempo ama presentarsi
in pubblico con una maglietta del Che sulla quale pende un
crocifisso. A tale proposito, Paquito De Rivera, jazzista,
ha inviato una lettera aperta a El Nuevo Herald, attraverso la
quale critica Santana per l’abbigliamento e aggiunge: «Uno
dei cubani di La Cabaña era mio cugino Bebo,
rinchiuso perché cristiano. Mi racconta con amarezza
infinita di quando dalla sua cella, all’alba, sentiva la
voce dei tanti che, senza processo, morivano gridando "Lunga
vita a Cristo re!"».
Il
Paese in cui sono nato, è davvero un gran bel paese.
Ognuno, dalle mie parti, è libero di credere nei propri
miti, anche se si chiamano Che Guevara. In Italia ognuno è
libero di sventolare le proprie bandiere e salutare come vuole,
anche se le bandiere e i saluti sono gli stessi che appartennero
al comunismo più spietato e sanguinario. Tutto è
possibile, nella mia bella e libera Italia. Tutto; tranne fare il
saluto romano, quello proprio no!
PS.
Il calciatore della Lazio Di Canio è stato
squalificato per una giornata e condannato a pagare 10.000 euro
di multa. Gli consigliamo, per la prossima volta, di salutare i
tifosi con una e-mail del tipo: “Cari camerati, allo stadio
ho finto di non conoscervi, ma sappiate che vi porto sempre nel
mio cuore. A NOI!” Oppure chiedere di essere ingaggiato da
un club scandinavo e godere della libertà di
salutare come gli pare.
Viva
l’Italia! (21.12.2005)
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Si
dice che la parola italiana più conosciuta o usata nel
mondo sia “mafia”. Per qualcuno essere italiano
equivale a essere mafioso, un po' per ignoranza, un po' per
cattiveria, il luogo comune esiste. La verità è che
di mafiosi, quelli veri, in Italia ce ne sono così pochi
che risulta difficile spiegare come mai possano avere così
tanto “potere”. Semmai è vero che tra gli
italiani esistono comportamenti che a volte sono vicini alla
mentalità mafiosa. La “raccomandazione” o la
necessità di aggregarsi ad un gruppo politico o avere
amicizie che contano per ottenere un lavoro, un favore, una vita
più agiata. Altro che luogo comune, questa è una
realtà che non riguarda più solo gli italiani che
vivono nel proprio paese, ma anche una buona parte di coloro che
risiedono all'estero. Le “conventicole”, ad esempio,
associazioni in cui gli appartenenti si “proteggono”
a vicenda con scambi di “favori” che quasi sempre
però danneggiano chi è fuori dal giro, non possono
definirsi di stampo mafioso ma ci fanno comunque vergognare di
essere italiani.
Quello
di associare l'italiano alla mafia è il luogo comune che
più danneggia la nostra immagine, ma non è l'unico.
In realtà ve ne sono una gran quantità, molti dei
quali nascono dalle usanze e gli stili di vita degli emigranti di
inizio '900, altri dalla martellante propaganda cinematografica.
Se i finlandesi credono che gli spaghetti si mangiano
arrotolandoli sul cucchiaio, è sicuramente perché
l'hanno visto fare agli immigrati. Difficilmente nei ristoranti
italiani avranno potuto assistere a uno spettacolo così
poco elegante. Se dopo aver cotto la pasta la passano sotto il
getto d'acqua fredda, è perchè l'hanno visto fare
ai ristoratori italiani. È un sistema utile a bloccare la
cottura, e averla pronta per essere servita in qualsiasi momento.
È un trucco dei ristoranti che per facilitare il proprio
lavoro servono pasti precotti, a danno della qualità, ma
che necessità c'è di farlo a casa propria? E
soprattutto che utilità c'è nel salare la pasta
durante la cottura per poi risciacquarla sotto acqua corrente?
Purtroppo è così, gli emigranti, molti di loro,
sono colpevoli di aver fatto credere al mondo tante di quelle
cose che nella realtà non appartengono alla cultura, lo
stile, i modi di fare degli italiani. Non parliamo poi dei film o
delle canzoni, soprattutto quelle del dopoguerra. Molti luoghi
comuni ci riconducono a Napoli, la città che, per ovvi
motivi, ha conosciuto in maniera particolare il fenomeno
dell'emigrazione e tra i tanti legati a questa città,
citiamo i più famosi.
La
pizza è nata a Napoli? – Niente di più
falso! La storiella che siamo costretti a subire, ogni
qualvolta si parla dell'origine della pizza, è quella del
panettiere napoletano che la preparò alla Regina
Margherita, non avendo nient'altro da offrirle. Sembra che
l'avesse farcita con formaggio, sugo e basilico, quindi bianco
rosso e verde come i colori della bandiera italiana, in onore
della stessa Regina. Sarà vero o falso, ha poco a che fare
col fatto che sia stata inventata in quella circostanza. Ciò
che il panettiere preparò, altro non era che la
“focaccia”, alimento che risale ad un'epoca ben più
lontana di fine '800. Hanno ragione i siciliani quando sostengono
che molto prima di quel periodo, in Sicilia, la pizza era già
conosciuta. Ma sbagliano anche loro nel sostenere che
l'invenzione sia da attribuire alla propria regione. La pizza era
in realtà il cibo del popolo, da epoche remote, solo nel
dopoguerra trasformato nella farcitura e diventato così
come lo conosciamo noi. Molti studiosi ne attribuiscono
l'invenzione ai Romani. Nel 1992, nei pressi di Garda, alcuni
archeologi trovarono i resti di una focaccia in ottimo stato di
conservazione. Dopo accurati studi giunsero alla conclusione che
il reperto, avente diamentro di circa quindici centimetri,
risaliva ad oltre 4 mila anni fa. C'è da aggiungere che in
Egitto, ad esempio, le stesse focaccine si preparavano in
svariati modi, anche al miele e, attenzione, venivano chiamate
“pita”. Altro che napoletana o siciliana. Per
concludere con la pizza, stando a quanto dice Giuseppe
Bigazzi, grande esperto di cucina italiana di fama
internazionale, se c'è un posto in Italia dove non
sanno fare né la pizza né il caffè, quello è
proprio Napoli. A proposito di Bigazzi, suggerisco agli
amanti della cucina italiana le sue pubblicazioni: La natura
come chef (Rai-Eri, 1997); La cucina semplice dei sapori
d'Italia (Adn Kronos, 1998); Cinquanta itinerari italiani
(Adn Kronos, 1999).
La
Tarantella è napoletana – FALSO! La
tarantella nasce in Puglia e di lì passa in Calabria,
Abruzzo, Sicilia, Basilicata e quindi Campania. Cosa ha a che
fare quella campana con la tarantella originale? Quasi nulla. La
tarantella, quella vera, è una danza in cui i ballerini si
muovono simulando gli effetti del veleno del ragno (Tarantola).
Il ritmo aumenta sempre più, sino a quando il danzatore,
stremato e in preda alla follia cade al suolo. Che possa piacere
o no, è questa una danza che richiede grande abilità
e anche dal punto di vista musicale necessita di ottimi
esecutori. La tarantella ha poi delle varianti. Il genere
comprende altri stili e metodi di esecuzione, come nel caso della
Pizzica, danza in cui viene simulata una lotta col coltello. E
quella napoletana? Sono in molti a sostenere che altro non è
che una semplificazione della tarantella. I movimenti in quella
campana poco o nulla hanno a che fare con quelli della tarantella
originale. Nella tarantella campana si perde tutta la passione e
l'aggressività che la danza richiede. Le più
importanti scuole di questo genere musicale le troviamo alle
Isole Tremiti o nel Salento, comunque sempre in Puglia. E proprio
alle Tremiti, quello che forse è il più noto
esponente della musica popolare napoletana, Eugenio Bennato,
si è spesso rivolto per studiare l'antica musica pugliese
e impreziosire le sue composizioni. Altro che Funiculì
Funiculà o Tammuriata Nera, la Tarantola è
tutt'altra cosa!
Napoletani
simpatici e ironici – ? A questo punto
dovremmo parlare dei “doppi sensi” e del “detto
e non detto”, modi di comunicare che sono ricorrenti nel
linguaggio napoletano e non solo in quello popolare. Ironia che
spesso e volentieri si trasforma in sarcasmo. Non voglio però
avventurarmi in pareri personali che potrebbero intaccare la
suscettibilità dei partenopei, abituati da tempo alle
lusinghe di politici, gente di spettacolo e di tutti coloro che
vedono nel folto numero di abitanti della Campania un ottimo
serbatoio cui attingere voti, consensi ecc. (15.8.2005)
Paolo
Leone
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Partiamo
da lontano, da oltre trent'anni fa, quando piccoli gruppi di
extracomunitari, soprattutto nordafricani, cominciarono ad
invadere pacificamente la penisola. Ero un bambino a quei tempi e
ricordo con quale simpatia e curiosità i meridionali li
accolsero. Il fenomeno era agli inizi e gli immigrati si
fermavano soprattutto nel sud Italia. All'epoca, tra gli articoli
che vendevano in giro per la città, vi erano la “mosca”,
un fermacarte enorme e pesante lavorato a immagine dell'insetto e
una canna di bambù, lunga pressappoco 50 centimetri avente
a una estremità un calzascarpe e all'altra una manina
riprodotta in plastica, utile a grattarsi la schiena. Cose
inutili e, diciamolo, non proprio belle esteticamente, ma che
molti compravano per simpatia verso i nuovi ospiti. Il tempo
passò e nel giro di una decina d'anni gli extracomunitari
cominciarono ad arrivare in gran numero in Italia e non solo
dall'Africa. La mosca e la canna di bambù continuarono ad
esserre vendute, ma ormai si confondevano tra le centinaia di
articoli che gli immigrati disponevano sulle bancarelle o sui
tappeti. Da articoli di ferramenta ad accendini, ricambi per
auto, cassette audio pirata. Giá qualche commerciante
italiano cominciò a manifestare il proprio malumore. Gli
extracomunitari vendevano i propri articoli quasi sull'uscio dei
loro negozi, a prezzi bassissimi, non dovendo pagare le tasse.
Più tardi il loro commercio si sviluppò
ulteriormente e alle cose già citate si andarono ad unire
articoli di bigiotteria e imitazioni di accessori di
abbigliamento delle grandi firme. Oggi, li troviamo anche come
massaggiatori sulle spiagge della Riviera Adriatica e in
Versilia, piacere di signore in età avanzata che si
lasciano palpare, perchè di massaggi sicuramente non si
tratta, visto che di qualifiche da fisioterapista non vi è
neanche l'ombra. Da oltre trent'anni a oggi, abbiamo assistito
quindi alla violazione di una gran parte delle leggi italiane e
direi europee, pur di garantire il “pane” ai nostri
amici venuti da terre più o meno lontane. Dall'evasione
fiscale alla pirateria, alla pratica abusiva della professione (o
qualcosa del genere, ho poca dimistichezza con i nomi delle
leggi, mi limito a rispettarle). In tutta questa giungla di
illegalità, cosa facevano i politici per garantire ai
cittadini il rispetto delle regole? Vi sembrerà strano, ma
i politici si davano da fare e tanto. Cominciamo col dire che,
furono proprio loro a “instaurare” in Italia una
regola non scritta , ma spesso applicata, “ricatto morale”,
che consisteva nell'essere accusato di razzismo nel momento in
cui qualcuno chiedeva che anche gli extracomunitari rispettassero
le leggi. Ma per quale motivo i nostri politici difendevano ad
ogni costo gli immigrati che sguazzavano e sguazzano
nell'illegalità? Come dicono loro per aiutare chi sta
peggio di noi? Sciocchezze! I politici, gran parte di loro, hanno
intravisto negli extracomunitari i loro potenziali elettori,
quando un giorno avrebbero essi ottenuto la cittadinanza. Si sono
quindi dati da fare perchè la ottenessero. E poi, siccome
un politico, di solito non pone limiti alla propria furbizia, ha
intravisto nella difesa degli extracomunitari anche i voti degli
imprenditori, piccoli, medi e grandi. Non dimentichiamo che, gran
parte degli immigrati, lavora con stipendi di gran lunga più
bassi di quelli di un lavoratore italiano, accontentandosi di
vivere in 20 in “abitazioni” di pochi metri quadrati.
La scusa, la più banale che alcuni politici hanno dato
agli italiani è quella che fanno lavori che gli italiani
non vogliono più fare. Qualcuno mi spieghi allora come mai
in tutta Europa e anche oltre ci sono migliaia di immigrati
italiani che fanno come lavoro quello del lavapiatti, del
portuale etc etc. Una notizia di pochi giorni fa, apparsa su
molti giornali, ci informa che in Versilia, a Forte dei Marmi, è
in atto una rivolta guidata addirittura da un consigliere
diessino. Sarebbero stati ingaggiati dei vigilanti, anche
extracomunitari, per tenere lontani dalle spiagge gli abusivi.
Ora oltre al rischio di essere definita razzista, l'iniziativa di
quel consigliere rischia di far perdere voti alla sinistra,
soprattutto quelli provenienti da taluni imprenditori e quelli
delle mature signore da spiaggia. Ci pensi bene Prodi prima di
fare passi che possano in qualche modo cambiare la meschina e
ipocrita politica del buonismo e del ricatto morale; sempre che
vinca le prossime elezioni. A proposito, quasi dimenticavo. Tra i
non razzisti, vanno inseriti tutti quegli onesti cittadini
italiani che, pur di aiutare i loro fratelli extracomunitari,
acquistano da loro cd pirata, borse, cinture, abiti di grandi
firme taroccate e altre cose di dubbia provenienza. Non
dimentichiamo inoltre che, chi producce tutte queste cose, non
sono gli extracomunitari, ma qualche organizzazione che ha molto
a che fare con la mafia. Poverini, anche loro vanno aiutati?
(3.7.2005)
Paolo
Leone
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Carissimi
lettori,
purtroppo
anch'io, messo alle strette dall'inesorabile operazione di
marketing che continua a ruotare intorno alla giovanissima
scrittrice Melissa Panarello, anch'io che mi tengo alquanto
lontano da televisioni e giornali più o meno seri, ma
sempre pronti a scaraventarti sul carro dei “creduloni”
adulatori di déi più o meno potenti, mi vedo
costretto a scrivere di lei. La “costrizione” viene
da un'intervista, anzi autointervista, che la signorina Panarello
ha “regalato” in occasione dell'uscita del suo nuovo
libro, al mensile per uomini Max e di conseguenza
rimbalzata su alcuni quotidiani italiani anche se come titolo di
fondo pagina. Da questa ho estrapolato alcune frasi che hanno
suscitato il mio interesse:
Fazi
Editore, ha deciso di pubblicare il mio scritto. Poco meno di un
anno dopo mi sono ritrovata a camminare per strada a Catania e a
essere indicata dalla gente. Entravo nelle edicole e vedevo il
mio nome sui giornali. Alcune riviste riportavano la mia foto in
prima pagina. Accendevo la tv e vedevo la mia faccia, sentivo la
mia voce. Accendevo il telefonino e venivo ricoperta da centinaia
di telefonate del mio ufficio stampa. Non che non fossi contenta,
intendiamoci, ma non ho mai pensato di misurare il mio successo
in base alle interviste che rilasciavo, alle comparsate
televisive o alle foto pubblicate. Sapevo, ho sempre
saputo, che il successo è qualcosa che va ben oltre la
popolarità.
[---]
l'Italia si è rimpicciolita ed è diventata una
piccola tessera di un enorme mosaico, un mosaico costituito dai
40 Paesi che hanno creduto in me e nel mio libro[---].
L'ultimo
Paese che ho toccato è stato la Finlandia, ancora
immobilizzata dal ghiaccio e dal vento. Doveva arrivare una
Melissa P. come me per risvegliare tutti dal letargo invernale.
Possiamo
immaginare, anzi siamo convinti che quanto accadeva a Catania,
dopo l'uscita del suo libro, le avesse in qualche modo
scombussolata la vita. In senso positivo, voglio dire. Sappiamo
che Panarello è una giovane dotata di acuta intelligenza,
quindi vedere le sue foto sui giornali o essere indicata dai suoi
concittadini, doveva averle fatto intendere che, la sua
“provocazione” aveva avuto l'effetto sperato e che
cominciava a raccoglierne i frutti. Da Catania agli studi
televisivi romani o milanesi, il passo non è poi così
lungo, l'importante è essere sostenuti da un buon
accompagnatore che ci indirizzi nel modo giusto. Gli ingredienti
sono sempre gli stessi, anzi col tempo sono diminuiti; sesso e
“scandalo”, e il gioco è fatto. Da una parte
alcuni genitori, seduti davanti allo schermo stanno pensando che
Melissa potrebbe essere la loro figliuola, mentre talune
figliuole, plagiate dalla martellante pubblicità, pensano
che Melissa sia il risveglio mentale di una cultura ancora troppo
condizionata dal cattolicesimo. Tra discussioni più o meno
infuocate e incomprensioni dovute a differenze generazionali,
ecco che la siciliana “ribelle” ci induce a scoprire
che in fondo tra Catania e Milano il passo è ancora meno
breve. Tutto rientra nella norma della propaganda più o
meno occulta a cui siamo ormai collaudati. Anche quando, senza
pudore alcuno (ancora una volta) la Panarello parla di
“comparsate” e di foto pubblicate. Come se qualcuno
l' avesse costretta con la forza ad apparire in televisione o a
sua insaputa avesse “regalato” le sue foto ai
giornali. Eh no, cara signorina Panarello, il vittimismo proprio
non le confà. Mi scusi, ma non rientra nella parte che si
è o le hanno imposto.
A
questo punto l'Italia comincia ad andare stretta a Melissa, tanto
che, come lei stessa dice, 40 Paesi ormai credono in lei e nel
suo libro. Ecco, così ci piace la catanese Melissa P,
presuntuosa, priva di pudore. Talmente sicura di sé da
farmi dubitare di quello in cui invece credevo sino a pochi
minuti fa; cioè che, il suo libro, lo lenggiate o no, non
farà alcuna differenza.
Ed
eccola finalmente in Finlandia uscire dall'aeroporto e lasciarci
esterefatti nel constatare che il ghiaccio che si scioglie ai
suoi piedi, diviene acqua sulla quale la dea Melissa comincia a
camminare. I finlandesi, si sa, sono grandi bevitori e senz'altro
può essere successo che qualcuno di loro, saturo di birra
abbia avuto una simile visione. Ma che addirittura la Panarello
abbia risvegliato tutti i finlandesi (anche noi italiani in
Finlandia?) dal “letargo invernale”... Non sarebbe il
caso che qualcuno svegliasse la signorina o le suggerisse di non
abusare in sostanze che provocano sogni artificiali?
Aspettando
il ritorno in Finlandia di Melissa Panarello, torno ad
addormentarmi con un libro di Mika Waltari. Anche lì si
parla di falsi déi e di “strani” profeti.
(14.6.2005)
Paolo
Leone
vai
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