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CARI AMICI VI SCRIVO...

Un'immagine di Fabrizio Quattrocchi (Ansa)

...di chi ha paura degli eroi

D’accordo, si può essere utili alla società anche senza essere un eroe. Soprattutto in quest'ultimo periodo, quello di non dover essere necessariamente degli eroi, è un tema ricorrente, nelle canzoni, nei film, alla tv. Ma è sufficiente questo per farci sentire rabbia, a volte sdegno, spesso odio, verso chi eroe lo è stato? Sentimenti dettati soprattutto da un'ideologia politica che non tollera diverse correnti di pensiero o come in questo caso, il patriottismo. Non è indispensabile essere degli eroi, anche se, spesso, è grazie ad eroi come Quattrocchi, addetto alla sicurezza in Irak che personaggi come la Sgrena possono continuare a scrivere e raccontare i propri punti di vista. Sgrena definisce Quattrocchi un mercenario, ma noi siamo convinti che quell'addetto alla sicurezza o contractor, chiamatelo come volete, ma abbiatene rispetto, non si sarebbe tirato indietro, non avrebbe esitato un attimo, anche nel caso in cui la vita da salvare fosse stata quella della giornalista. Non è indispensabile essere degli eroi, ma si dovrebbe fare volentieri a meno di essere una Sgrena.

PS. Quattrocchi, Medaglia d'Oro al Valore Civile, era l'addetto alla sicurezza in Irak che pochi istanti prima di essere assassinato da terroristi islamici disse loro: “Vi faccio vedere come muore un italiano”. La Sgrena, una giornalista di un quotidiano comunista. (1.4.2006)

...di personaggi in cerca d'”autore”

Soile Lauti: il Crocifisso rimane dov’è

La cittadina finlandese ne chiedeva la rimozione dalla scuola media frequentata dai suoi figli, ad Abano Terme (Padova). Il Consiglio di Stato, però, ha respinto il ricorso, specificando che, il Crocifisso, “è simbolo idoneo ad esprimere l’elevato fondamento dei valori civili”. «Quei valori che soggiacciono ed ispirano il nostro ordine costituzionale, fondamento del nostro convivere civile”. Il Consiglio di Stato sottolinea che “il Crocifisso potrà svolgere, anche in un orizzonte laico, diverso da quello religioso che gli è proprio, una funzione simbolica altamente educativa, a prescindere dalla religione professata dagli alunni».

Una sentenza, questa, utile anche a far capire, alle persone come la signora Lauti che, pur vivendo in una Europa senza più frontiere, non si può prescindere da una regola fondamentale per la civile convivenza: il rispetto per le diversità culturali di ogni singolo paese. Nella Finlandia in cui vivo non sono poche le cose che mi disturbano e in alcuni casi mi offendono. Ne discuto, esprimo le mie opinioni, ma senza avere la pretesa che queste, evidentemente proprie del popolo finlandese o di gran parte di esso, debbano cambiare. Insomma cara signora Lauti, per farle un esempio, il mio amico Franco non ricorrerà al Consiglio di Stato se il sabato sera, unico momento da poter dedicare alla sua famiglia, non esce di casa con i suoi figli per evitargli di assistere allo spettacolo poco decoroso di gente ubriaca che invade il centro della città, che litiga, vomita e orina per le strade. Pur non condividendo tutto ciò, si adegua. (19.2.2006)

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...di buoni e cattivi esempi

Una delle cose da fare per vivere meglio, è non avere in casa la TV. Come già sa chi ha letto le mie lettere al Loggione, a casa mia la tv non c’è, almeno non nella mia dimora finlandese. Lo spettacolo di cui posso godere dalla mia veranda è di gran lunga migliore dei “nei” del pifferaio magico che ogni sera, incorniciato dalla farfalla stilizzata di Rai 1 ci rifila propaganda “porta a porta”. Meglio della ostentata “pipa” del vecchio intellettuale, saggio e liberal che, dalla un po’ meno comoda poltrona di Rai 3 si scandalizza solo in presenza di chi ha scelto di non congelare la Storia. Dell’isola degli ex famosi, di miss gennaio, febbraio..., dei microfoni sbattuti sul volto degli avversari (nemici?) politici, di schiaffi, pugni e calci in diretta. Ah, dimenticavo; e di Berlusconi che passeggia in (cattiva) compagnia nella sua tenuta di Arcore.

Senza tv si può vivere meglio, ma solo un tantino. Oggi pifferai, saggi e signorine “rifatte” hanno a disposizione altri mezzi per sorprenderci e attirare la nostra attenzione. Il più efficace di questi ultimi, naturalmente, è internet. Difficile potervi rinunciare anche per uno come me. Ma difficile, anche, non essere sorpresi da notizie del tipo “la modella... ex fidanzata di Jolie parla del suo amore con la bella attrice”, “un’ombra sulla relazione sentimentale tra i belli del cinema; Angelina Jolie e Brad Pitt”, “il cuore di Ramazzotti rapito da una ragazza americana” Anche se il sito che si sta visitando non è quello di Novella 2000, ma del Corriere della Sera. Che ci volete fare? L’unica è continuare a tapparsi le narici.

E proprio l’altro ieri, sul Corriere della sera, non ho potuto fare a meno di leggere una notizia il cui titolo era: “Rischio di querela per il saluto romano di Di Canio”... o qualcosa del genere. Pare che il giocatore della Lazio si sia rivolto alla tifoseria con il “saluto romano”. È risaputo che parte della tifoseria laziale è di destra, ma non è l’unica ad avere simpatie per questa o quella ideologia politica. Altre squadre di calcio, in Italia, hanno tra gli ultras personaggi molto vicini alla estrema destra e all’estrema sinistra. Ció non fa più notizia. A suscitare scalpore e in alcuni casi addirittura sdegno e preoccupazione, è che un calciatore, per giunta capitano di un noto club, dichiari di condividere coi propri tifosi quel saluto. Di colpo, Di Canio, è diventato “un pericolo per i giovani che imitano gli idoli dello sport” (Cossutta). “E ricordiamoci che il saluto fascista è interdetto e punito dalla nostra costituzione” (sempre Cossutta). Domande: ma il saluto romano, non quello fascista, si può fare senza rischiare di essere condannati? E come si fa a riconoscere il saluto dei Cesare da quello del Duce? È più un cattivo esempio per i giovani, Di Canio che fa il saluto fascista-romano o Di Canio che fa il saluto di Stalin? Che a lamentarsi del gesto del calciatore sia la comunità ebraica italiana, posso capirlo, ma se a parlare di buon esempio è Cossutta, ovvero colui che saluta e sventola gli stessi simboli che furono macchiati del sangue di milioni di innocenti...! Certo non è facile, soprattutto per i più giovani, distinguere il buono dal cattivo esempio. Ancora di più quando, ad avere la pretesa di indicarci la via, sono i rappresentanti del fallimento politico, ideologico, culturale e non ultimo economico di una Italia corrosa dal malaffare e stretta nella morsa di avidi arrivisti e furbi impostori (da destra a sinistra senza tralasciare il centro).

La notizia di cui sopra mi ha fatto tornare in mente un episodio al quale ho avuto modo di assistere non molto tempo fa. Esattamente lo scorso settembre, quando mi trovavo in vacanza in Italia e più precisamente a Roma. Ero sul treno con destinazione Civitavecchia. Nel mio stesso vagone viaggiavano due signore sulla cinquantina, un gruppo di ragazzi e tre giovani intorno alla trentina. Uno di questi ultimi indossava una maglietta nera sulla quale vi era, di color argento, l’effige del Duce. Alla vista del “fascio”, le due signore lasciarono trasparire un'espressione di disgusto. Il viaggio dei tre durò poco, ma lo sdegno delle signore diventò sempre più evidente, al punto da far intuire al fascio ciò che stavano pensando di lui. Prima di scendere, quest'ultimo si avvicinò alle signore e, piegandosi verso di loro disse: “Ah sessantottine! È finito er tempo de la Santa Inquisizione. Dateve 'na svegliata, er Che nun va più de moda e manco li spinelli. Ah generazione de falitiiiiiii!!!”

Diciamolo; il fascio, pur privo di stile e eleganza, non aveva poi tutti i torti. Almeno per quanto riguarda gli spinelli che, in Italia, hanno lasciato il posto a droghe più “efficaci”, di tre o quattro tipi, ognuna per l'occasione giusta. Veri sono anche i fallimenti di quella generazione cui le signore appartengono. Ma che il Che (Guevara) non sia più di moda! Questo proprio no! Anzi, Guevara è tornato non solo di moda tra i giovanissimi che cavalcano, proprio per una questione di riflusso, i miti di quella che fu la generazione degli anni '70, ma è anche diventato il logo del capitalismo. Si, proprio colui che combattè il capitalismo oggi è diventato un marchio, ovvero la quintessenza dello stesso capitalismo. La sua immagine, ritratta da Alberto Korda, non si limita più ad apparire su t-shirt e bandiere, ma anche su tazze, berretti, portachiavi, confezioni da te e su innumerevoli altri prodotti commerciali. Compresa la confezione di un detersivo che ha come slogan: “Il Che lava più bianco”. Piccole e grandi industrie, nessuno si è tirato indietro dall'utilizzare l'immagine del rivoluzionario a fini commerciali. Tra questi, non lo hanno fatto neanche i suoi più “fedeli” sostenitori, come quelli del “The Che store”, il negozio del Che che troviamo su internet e che promette, con i propri articoli, di “soddisfare tutte le vostre esigenze rivoluzionarie”. E che dire del giornalista italiano Gianni Minà? Ha venduto a Robert Redford i diritti del diario di viaggio che Guevara fece in Sudamerica nel 1952. In cambio ha chiesto di poter accedere sul set del film e girare un proprio documentario. Per non parlare di Alberto Granado che era tra gli accompagnatori di Guevara proprio in quel viaggio in sudamerica e che fa da consulente a documentaristi. Ultimamente un articolo de El Pais, ha scritto di lui che passa le sue giornate a consumare vini e pasti costosissimi e a lamentarsi dell'embargo americano contro Cuba che non gli permette di riscuotere i diritti. E così il Che, dal 1997, anno in cui furono scritte su di lui cinque biografie e furono ritrovati i suoi resti presso l'aeroporto boliviano di Vallegrande, ritorna di “moda”. E non solo tra i giovani che manifestano per le strade, ma anche tra politici, calciatori, gente di spettacolo... anche tra coloro, insomma, che hanno scopi ben diversi da quelli che furono o avrebbero dovuto essere del Che. Ma chi era veramente Guevara e cosa sappiamo di lui? A quanto pare, su questo argomento i più onesti risultano essere i giovani argentini che hanno coniato il motto: “Tengo una remera del Che y no sé por qué” Ho una maglietta del Che e non so perché”. I meno onesti sono invece coloro che, come ho scritto, speculano sulla sua immagine, arricchendosi in tutti i sensi. Poi ci sono i giovanissimi, molti di loro il Che lo conoscono proprio attraverso gli speculatori di cui sopra. E se invece Guevara fosse così come lo racconta il saggista Alvaro Vargas Llosa!?

Dal Diario della Sierra Maestra, nel 1957, Guevara sparò a Eutimio Guerra, perché ritenuto una spia. Dopo il gesto disse: “Ho risolto il problema con una calibro 32 nella parte destra del cervello... Ció che apparteneva a lui ora è mio”. Solo più tardi sparò ad Aristidio, un contadino che aveva espresso il desiderio di ritirarsi dalla rivoluzione. Subito dopo ordinava l’uccisione di Echevarria, la cui unica colpa era quella di avere un fratello accusato di crimini imprecisati. L’uccisione fu giustificata da Guevara con un sintetico “Doveva pagare”. In altre occaasioni, il rivoluzionario torturava le vittime simulando l’esecuzione. Secondo la testimonianza di Jaime Costa Vázquez, un ex comandante dell’esercito rivoluzionario, noto come El Catalan, molte delle esecuzioni a morte attribuite a Ramiro Valdés, ex Ministro degli Interni cubano, venivano effettuate per ordine dello stesso Guevara, le cui direttive erano: “In caso di dubbio, uccidete”. Circa venti esecuzioni furono ordinate, sempre dal rivoluzionario, al centro di Cuba, alla vigilia della vittoria. Lo scrive Marcelo Fernandes-Zayas, ex rivoluzionario, successivamente divenuto giornalista. Tra le vittime vi erano contadini che si erano uniti all’esercito per non rimanere disoccupati.

Nel 1959, Fidel Castro affidò a Guevara la direzione del carcere La Cabaña. José Vilasuso, avvocato e professore alla Universidad Interamericana de Bayamon di Porto Rico, ex membro della commissione che si occupava dei processi sommari a La Cabaña, racconta: «Il Che presiedeva la Comisión Depuradora. Il processo rispettava la legge della Sierra: c’era una corte militare e secondo le indicazioni del Che dovevamo agire con convinzione, perché erano tutti assassini e procedere in modo rivoluzionario significava essere implacabili. Il mio diretto superiore era Miguel Duque Estrada. Il mio compito consisteva nel sistemare le pratiche prima che fossero inviate al ministero. Le esecuzioni si svolgevano dal lunedì al venerdì, in piena notte, appena dopo l’emissione della sentenza e l’automatica conferma in appello. Nella notte più orribile che io ricordi, furono uccisi sette uomini».

Secondo la testimonianza di Javer Arzuaga, cappellano, testimone di decine di esecuzioni: «C’erano circa ottocento prigionieri in uno spazio capace di contenerne non più di trecento: ex militari e poliziotti dell’era di Batista, giornalisti, qualche uomo d’affari e alcuni commercianti. Il tribunale rivoluzionario era formato da uomini delle milizie. Che Guevara presiedeva la Corte d’appello. Non ha mai annullato una sentenza. Visitavo il braccio della morte nella Galera de la muerte. Si sparse la voce che ipnotizzavo i prigionieri perché molti restavano calmi, così il Che diede l’ordine che fossi presente alle esecuzioni. Dopo la mia partenza in maggio furono eseguite ancora molte sentenze, io vidi 55 esecuzioni. C’era un americano, Herman Marks, evidentemente un ex carcerato. Lo chiamavamo "il macellaio" perché provava piacere a dare l’ordine di sparare. Difesi davanti al Che la causa di numerosi prigionieri. Ricordo in particolare il caso di un ragazzo, Ariel Lima. Il Che non si smosse. Né cambiò idea Fidel, al quale feci visita. Rimasi così sconvolto che alla fine del mese di maggio 1959 mi fu ordinato di lasciare la parrocchia di Casa Blanca, dove si trovava La Cabaña e dove avevo celebrato la messa per tre anni. Andai a curarmi in Messico. Il giorno che partii, il Che mi disse che ciascuno di noi aveva tentato di portare l’altro dalla propria parte, invano. Le sue ultime parole furono: "Quando ci toglieremo le maschere, ci ritroveremo nemici"».

Circa duecento persone furono uccise solo a La Cabaña.

Carlos Santana, musicista, da un po’ di tempo ama presentarsi in pubblico con una maglietta del Che sulla quale pende un crocifisso. A tale proposito, Paquito De Rivera, jazzista, ha inviato una lettera aperta a El Nuevo Herald, attraverso la quale critica Santana per l’abbigliamento e aggiunge: «Uno dei cubani di La Cabaña era mio cugino Bebo, rinchiuso perché cristiano. Mi racconta con amarezza infinita di quando dalla sua cella, all’alba, sentiva la voce dei tanti che, senza processo, morivano gridando "Lunga vita a Cristo re!"».

Il Paese in cui sono nato, è davvero un gran bel paese. Ognuno, dalle mie parti, è libero di credere nei propri miti, anche se si chiamano Che Guevara. In Italia ognuno è libero di sventolare le proprie bandiere e salutare come vuole, anche se le bandiere e i saluti sono gli stessi che appartennero al comunismo più spietato e sanguinario. Tutto è possibile, nella mia bella e libera Italia. Tutto; tranne fare il saluto romano, quello proprio no!

PS. Il calciatore della Lazio Di Canio è stato squalificato per una giornata e condannato a pagare 10.000 euro di multa. Gli consigliamo, per la prossima volta, di salutare i tifosi con una e-mail del tipo: “Cari camerati, allo stadio ho finto di non conoscervi, ma sappiate che vi porto sempre nel mio cuore. A NOI!” Oppure chiedere di essere ingaggiato da un club scandinavo e godere della libertà di salutare come gli pare.

Viva l’Italia! (21.12.2005)

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Luoghi comuni

Si dice che la parola italiana più conosciuta o usata nel mondo sia “mafia”. Per qualcuno essere italiano equivale a essere mafioso, un po' per ignoranza, un po' per cattiveria, il luogo comune esiste. La verità è che di mafiosi, quelli veri, in Italia ce ne sono così pochi che risulta difficile spiegare come mai possano avere così tanto “potere”. Semmai è vero che tra gli italiani esistono comportamenti che a volte sono vicini alla mentalità mafiosa. La “raccomandazione” o la necessità di aggregarsi ad un gruppo politico o avere amicizie che contano per ottenere un lavoro, un favore, una vita più agiata. Altro che luogo comune, questa è una realtà che non riguarda più solo gli italiani che vivono nel proprio paese, ma anche una buona parte di coloro che risiedono all'estero. Le “conventicole”, ad esempio, associazioni in cui gli appartenenti si “proteggono” a vicenda con scambi di “favori” che quasi sempre però danneggiano chi è fuori dal giro, non possono definirsi di stampo mafioso ma ci fanno comunque vergognare di essere italiani.

Quello di associare l'italiano alla mafia è il luogo comune che più danneggia la nostra immagine, ma non è l'unico. In realtà ve ne sono una gran quantità, molti dei quali nascono dalle usanze e gli stili di vita degli emigranti di inizio '900, altri dalla martellante propaganda cinematografica. Se i finlandesi credono che gli spaghetti si mangiano arrotolandoli sul cucchiaio, è sicuramente perché l'hanno visto fare agli immigrati. Difficilmente nei ristoranti italiani avranno potuto assistere a uno spettacolo così poco elegante. Se dopo aver cotto la pasta la passano sotto il getto d'acqua fredda, è perchè l'hanno visto fare ai ristoratori italiani. È un sistema utile a bloccare la cottura, e averla pronta per essere servita in qualsiasi momento. È un trucco dei ristoranti che per facilitare il proprio lavoro servono pasti precotti, a danno della qualità, ma che necessità c'è di farlo a casa propria? E soprattutto che utilità c'è nel salare la pasta durante la cottura per poi risciacquarla sotto acqua corrente? Purtroppo è così, gli emigranti, molti di loro, sono colpevoli di aver fatto credere al mondo tante di quelle cose che nella realtà non appartengono alla cultura, lo stile, i modi di fare degli italiani. Non parliamo poi dei film o delle canzoni, soprattutto quelle del dopoguerra. Molti luoghi comuni ci riconducono a Napoli, la città che, per ovvi motivi, ha conosciuto in maniera particolare il fenomeno dell'emigrazione e tra i tanti legati a questa città, citiamo i più famosi.

La pizza è nata a Napoli? – Niente di più falso! La storiella che siamo costretti a subire, ogni qualvolta si parla dell'origine della pizza, è quella del panettiere napoletano che la preparò alla Regina Margherita, non avendo nient'altro da offrirle. Sembra che l'avesse farcita con formaggio, sugo e basilico, quindi bianco rosso e verde come i colori della bandiera italiana, in onore della stessa Regina. Sarà vero o falso, ha poco a che fare col fatto che sia stata inventata in quella circostanza. Ciò che il panettiere preparò, altro non era che la “focaccia”, alimento che risale ad un'epoca ben più lontana di fine '800. Hanno ragione i siciliani quando sostengono che molto prima di quel periodo, in Sicilia, la pizza era già conosciuta. Ma sbagliano anche loro nel sostenere che l'invenzione sia da attribuire alla propria regione. La pizza era in realtà il cibo del popolo, da epoche remote, solo nel dopoguerra trasformato nella farcitura e diventato così come lo conosciamo noi. Molti studiosi ne attribuiscono l'invenzione ai Romani. Nel 1992, nei pressi di Garda, alcuni archeologi trovarono i resti di una focaccia in ottimo stato di conservazione. Dopo accurati studi giunsero alla conclusione che il reperto, avente diamentro di circa quindici centimetri, risaliva ad oltre 4 mila anni fa. C'è da aggiungere che in Egitto, ad esempio, le stesse focaccine si preparavano in svariati modi, anche al miele e, attenzione, venivano chiamate “pita”. Altro che napoletana o siciliana. Per concludere con la pizza, stando a quanto dice Giuseppe Bigazzi, grande esperto di cucina italiana di fama internazionale, se c'è un posto in Italia dove non sanno fare né la pizza né il caffè, quello è proprio Napoli. A proposito di Bigazzi, suggerisco agli amanti della cucina italiana le sue pubblicazioni: La natura come chef (Rai-Eri, 1997); La cucina semplice dei sapori d'Italia (Adn Kronos, 1998); Cinquanta itinerari italiani (Adn Kronos, 1999).

La Tarantella è napoletana – FALSO! La tarantella nasce in Puglia e di lì passa in Calabria, Abruzzo, Sicilia, Basilicata e quindi Campania. Cosa ha a che fare quella campana con la tarantella originale? Quasi nulla. La tarantella, quella vera, è una danza in cui i ballerini si muovono simulando gli effetti del veleno del ragno (Tarantola). Il ritmo aumenta sempre più, sino a quando il danzatore, stremato e in preda alla follia cade al suolo. Che possa piacere o no, è questa una danza che richiede grande abilità e anche dal punto di vista musicale necessita di ottimi esecutori. La tarantella ha poi delle varianti. Il genere comprende altri stili e metodi di esecuzione, come nel caso della Pizzica, danza in cui viene simulata una lotta col coltello. E quella napoletana? Sono in molti a sostenere che altro non è che una semplificazione della tarantella. I movimenti in quella campana poco o nulla hanno a che fare con quelli della tarantella originale. Nella tarantella campana si perde tutta la passione e l'aggressività che la danza richiede. Le più importanti scuole di questo genere musicale le troviamo alle Isole Tremiti o nel Salento, comunque sempre in Puglia. E proprio alle Tremiti, quello che forse è il più noto esponente della musica popolare napoletana, Eugenio Bennato, si è spesso rivolto per studiare l'antica musica pugliese e impreziosire le sue composizioni. Altro che Funiculì Funiculà o Tammuriata Nera, la Tarantola è tutt'altra cosa!

Napoletani simpatici e ironici? A questo punto dovremmo parlare dei “doppi sensi” e del “detto e non detto”, modi di comunicare che sono ricorrenti nel linguaggio napoletano e non solo in quello popolare. Ironia che spesso e volentieri si trasforma in sarcasmo. Non voglio però avventurarmi in pareri personali che potrebbero intaccare la suscettibilità dei partenopei, abituati da tempo alle lusinghe di politici, gente di spettacolo e di tutti coloro che vedono nel folto numero di abitanti della Campania un ottimo serbatoio cui attingere voti, consensi ecc. (15.8.2005)

Paolo Leone

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Gli italiani e il problema dell'immigrazione

Partiamo da lontano, da oltre trent'anni fa, quando piccoli gruppi di extracomunitari, soprattutto nordafricani, cominciarono ad invadere pacificamente la penisola. Ero un bambino a quei tempi e ricordo con quale simpatia e curiosità i meridionali li accolsero. Il fenomeno era agli inizi e gli immigrati si fermavano soprattutto nel sud Italia. All'epoca, tra gli articoli che vendevano in giro per la città, vi erano la “mosca”, un fermacarte enorme e pesante lavorato a immagine dell'insetto e una canna di bambù, lunga pressappoco 50 centimetri avente a una estremità un calzascarpe e all'altra una manina riprodotta in plastica, utile a grattarsi la schiena. Cose inutili e, diciamolo, non proprio belle esteticamente, ma che molti compravano per simpatia verso i nuovi ospiti. Il tempo passò e nel giro di una decina d'anni gli extracomunitari cominciarono ad arrivare in gran numero in Italia e non solo dall'Africa. La mosca e la canna di bambù continuarono ad esserre vendute, ma ormai si confondevano tra le centinaia di articoli che gli immigrati disponevano sulle bancarelle o sui tappeti. Da articoli di ferramenta ad accendini, ricambi per auto, cassette audio pirata. Giá qualche commerciante italiano cominciò a manifestare il proprio malumore. Gli extracomunitari vendevano i propri articoli quasi sull'uscio dei loro negozi, a prezzi bassissimi, non dovendo pagare le tasse. Più tardi il loro commercio si sviluppò ulteriormente e alle cose già citate si andarono ad unire articoli di bigiotteria e imitazioni di accessori di abbigliamento delle grandi firme. Oggi, li troviamo anche come massaggiatori sulle spiagge della Riviera Adriatica e in Versilia, piacere di signore in età avanzata che si lasciano palpare, perchè di massaggi sicuramente non si tratta, visto che di qualifiche da fisioterapista non vi è neanche l'ombra. Da oltre trent'anni a oggi, abbiamo assistito quindi alla violazione di una gran parte delle leggi italiane e direi europee, pur di garantire il “pane” ai nostri amici venuti da terre più o meno lontane. Dall'evasione fiscale alla pirateria, alla pratica abusiva della professione (o qualcosa del genere, ho poca dimistichezza con i nomi delle leggi, mi limito a rispettarle). In tutta questa giungla di illegalità, cosa facevano i politici per garantire ai cittadini il rispetto delle regole? Vi sembrerà strano, ma i politici si davano da fare e tanto. Cominciamo col dire che, furono proprio loro a “instaurare” in Italia una regola non scritta , ma spesso applicata, “ricatto morale”, che consisteva nell'essere accusato di razzismo nel momento in cui qualcuno chiedeva che anche gli extracomunitari rispettassero le leggi. Ma per quale motivo i nostri politici difendevano ad ogni costo gli immigrati che sguazzavano e sguazzano nell'illegalità? Come dicono loro per aiutare chi sta peggio di noi? Sciocchezze! I politici, gran parte di loro, hanno intravisto negli extracomunitari i loro potenziali elettori, quando un giorno avrebbero essi ottenuto la cittadinanza. Si sono quindi dati da fare perchè la ottenessero. E poi, siccome un politico, di solito non pone limiti alla propria furbizia, ha intravisto nella difesa degli extracomunitari anche i voti degli imprenditori, piccoli, medi e grandi. Non dimentichiamo che, gran parte degli immigrati, lavora con stipendi di gran lunga più bassi di quelli di un lavoratore italiano, accontentandosi di vivere in 20 in “abitazioni” di pochi metri quadrati. La scusa, la più banale che alcuni politici hanno dato agli italiani è quella che fanno lavori che gli italiani non vogliono più fare. Qualcuno mi spieghi allora come mai in tutta Europa e anche oltre ci sono migliaia di immigrati italiani che fanno come lavoro quello del lavapiatti, del portuale etc etc. Una notizia di pochi giorni fa, apparsa su molti giornali, ci informa che in Versilia, a Forte dei Marmi, è in atto una rivolta guidata addirittura da un consigliere diessino. Sarebbero stati ingaggiati dei vigilanti, anche extracomunitari, per tenere lontani dalle spiagge gli abusivi. Ora oltre al rischio di essere definita razzista, l'iniziativa di quel consigliere rischia di far perdere voti alla sinistra, soprattutto quelli provenienti da taluni imprenditori e quelli delle mature signore da spiaggia. Ci pensi bene Prodi prima di fare passi che possano in qualche modo cambiare la meschina e ipocrita politica del buonismo e del ricatto morale; sempre che vinca le prossime elezioni. A proposito, quasi dimenticavo. Tra i non razzisti, vanno inseriti tutti quegli onesti cittadini italiani che, pur di aiutare i loro fratelli extracomunitari, acquistano da loro cd pirata, borse, cinture, abiti di grandi firme taroccate e altre cose di dubbia provenienza. Non dimentichiamo inoltre che, chi producce tutte queste cose, non sono gli extracomunitari, ma qualche organizzazione che ha molto a che fare con la mafia. Poverini, anche loro vanno aiutati? (3.7.2005)

Paolo Leone

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Melissa Panarello - Autointervista”

Carissimi lettori,

purtroppo anch'io, messo alle strette dall'inesorabile operazione di marketing che continua a ruotare intorno alla giovanissima scrittrice Melissa Panarello, anch'io che mi tengo alquanto lontano da televisioni e giornali più o meno seri, ma sempre pronti a scaraventarti sul carro dei “creduloni” adulatori di déi più o meno potenti, mi vedo costretto a scrivere di lei. La “costrizione” viene da un'intervista, anzi autointervista, che la signorina Panarello ha “regalato” in occasione dell'uscita del suo nuovo libro, al mensile per uomini Max e di conseguenza rimbalzata su alcuni quotidiani italiani anche se come titolo di fondo pagina. Da questa ho estrapolato alcune frasi che hanno suscitato il mio interesse:

Fazi Editore, ha deciso di pubblicare il mio scritto. Poco meno di un anno dopo mi sono ritrovata a camminare per strada a Catania e a essere indicata dalla gente. Entravo nelle edicole e vedevo il mio nome sui giornali. Alcune riviste riportavano la mia foto in prima pagina. Accendevo la tv e vedevo la mia faccia, sentivo la mia voce. Accendevo il telefonino e venivo ricoperta da centinaia di telefonate del mio ufficio stampa. Non che non fossi contenta, intendiamoci, ma non ho mai pensato di misurare il mio successo in base alle interviste che rilasciavo, alle comparsate televisive o alle foto pubblicate. Sapevo, ho sempre saputo, che il successo è qualcosa che va ben oltre la popolarità.

[---] l'Italia si è rimpicciolita ed è diventata una piccola tessera di un enorme mosaico, un mosaico costituito dai 40 Paesi che hanno creduto in me e nel mio libro[---].

L'ultimo Paese che ho toccato è stato la Finlandia, ancora immobilizzata dal ghiaccio e dal vento. Doveva arrivare una Melissa P. come me per risvegliare tutti dal letargo invernale.

Possiamo immaginare, anzi siamo convinti che quanto accadeva a Catania, dopo l'uscita del suo libro, le avesse in qualche modo scombussolata la vita. In senso positivo, voglio dire. Sappiamo che Panarello è una giovane dotata di acuta intelligenza, quindi vedere le sue foto sui giornali o essere indicata dai suoi concittadini, doveva averle fatto intendere che, la sua “provocazione” aveva avuto l'effetto sperato e che cominciava a raccoglierne i frutti. Da Catania agli studi televisivi romani o milanesi, il passo non è poi così lungo, l'importante è essere sostenuti da un buon accompagnatore che ci indirizzi nel modo giusto. Gli ingredienti sono sempre gli stessi, anzi col tempo sono diminuiti; sesso e “scandalo”, e il gioco è fatto. Da una parte alcuni genitori, seduti davanti allo schermo stanno pensando che Melissa potrebbe essere la loro figliuola, mentre talune figliuole, plagiate dalla martellante pubblicità, pensano che Melissa sia il risveglio mentale di una cultura ancora troppo condizionata dal cattolicesimo. Tra discussioni più o meno infuocate e incomprensioni dovute a differenze generazionali, ecco che la siciliana “ribelle” ci induce a scoprire che in fondo tra Catania e Milano il passo è ancora meno breve. Tutto rientra nella norma della propaganda più o meno occulta a cui siamo ormai collaudati. Anche quando, senza pudore alcuno (ancora una volta) la Panarello parla di “comparsate” e di foto pubblicate. Come se qualcuno l' avesse costretta con la forza ad apparire in televisione o a sua insaputa avesse “regalato” le sue foto ai giornali. Eh no, cara signorina Panarello, il vittimismo proprio non le confà. Mi scusi, ma non rientra nella parte che si è o le hanno imposto.

A questo punto l'Italia comincia ad andare stretta a Melissa, tanto che, come lei stessa dice, 40 Paesi ormai credono in lei e nel suo libro. Ecco, così ci piace la catanese Melissa P, presuntuosa, priva di pudore. Talmente sicura di sé da farmi dubitare di quello in cui invece credevo sino a pochi minuti fa; cioè che, il suo libro, lo lenggiate o no, non farà alcuna differenza.

Ed eccola finalmente in Finlandia uscire dall'aeroporto e lasciarci esterefatti nel constatare che il ghiaccio che si scioglie ai suoi piedi, diviene acqua sulla quale la dea Melissa comincia a camminare. I finlandesi, si sa, sono grandi bevitori e senz'altro può essere successo che qualcuno di loro, saturo di birra abbia avuto una simile visione. Ma che addirittura la Panarello abbia risvegliato tutti i finlandesi (anche noi italiani in Finlandia?) dal “letargo invernale”... Non sarebbe il caso che qualcuno svegliasse la signorina o le suggerisse di non abusare in sostanze che provocano sogni artificiali?

Aspettando il ritorno in Finlandia di Melissa Panarello, torno ad addormentarmi con un libro di Mika Waltari. Anche lì si parla di falsi déi e di “strani” profeti. (14.6.2005)

Paolo Leone

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