La lezione politica delle Arti liberali nel Tempio malatestiano
II. Per una vita tra cittadini uguali e quindi liberi
Nelle bellissime pagine scritte da Stefano Simoncini sulla «pedagogia filosofica» di Leon Battista Alberti (Genova 1404-Roma 1472), incontriamo un'osservazione che possiamo considerare come la premessa all'itinerario artistico delle Arti liberali del Tempio malatestiano di Rimini: Alberti propone una «vis activa per introdurre un principio d'ordine razionale nella vita e nella società» [1].
Questa "proposta" la vediamo appunto realizzata nell'itinerario che le stesse Arti liberali riminesi descrivono: la Natura ispira l'Educazione attraverso la Cultura, il cui scopo è quello di preparare ad una vita tra cittadini tutti eguali, e quindi liberi.
Tre immagini illustrano e riassumono questi scopi: Concordia, Città giusta e Scuola.
Con la Concordia, come leggiamo in Sallustio, «le piccole fortune crescono», mentre con la discordia vanno in rovina «le più grandi»: «Nam concordia parvae res crescunt, discordia maxumae dilabuntur» («De bello iugurtino», X, 6).
Il grande tema della città giusta, osserva Giandomenico Amendola [2], «attraversa tutto il pensiero politico occidentale a partire da 'La Repubblica' di Platone dove si discute della giustizia del governare di cui la città è il risutato».
Dalla cultura classica a quella medievale, il tema della Concordia resta dunque centrale.
Alberti e Poggio Bracciolini, scrive ancora Simoncini in altro saggio [3], sperimentano la vita della Curia romana che per loro diventa «un rifugio obbligato dinanzi allo sfaldamento del rapporto dell'intellettuale con le istituzioni fiorentine». Per loro il potere è «un campo di forze irrazionali in cui dominano la violenza e l'inganno».
Solo la Concordia, suggerisce la cappella riminese delle Arti liberali, permette di realizzare una città giusta che invece i politici del tempo negavano.
E dove attuare questo processo sociale e culturale verso la città giusta? Nella Scuola, che raccoglie ed illustra i saperi, i quali permettono di conoscere quella Natura da cui tutto parte.
L'itinerario riminese si allontana dal principato, forza politica di cui lo stesso Tempio malatestiano è simbolo ed illustrazione di una realtà dominata dalla figura del sovrano che tutto decide e realizza, ed approda alla concezione della Storia e della vita come inquietudine.
Una concezione, osserva Massimo Cacciari [4], che è tipica dell'Alberti e che poi approda appunto a Machiavelli, prolungandosi «nel pensiero italiano sino a Leopardi». Cacciari scrive anche che i tipi della «Mandragola» di Machiavelli «rappresentano i caratteri fondamentali dell'antropologia di Alberti».
Fondamentale, a questo proposito, è un passo di Ezio Raimondi, mio indimenticabile Maestro, illustrato proprio a Rimini nel 2001: l'antropologia di Alberti «deriva da una visione disincantata degli uomini», legata anche ad aspetti autobiografici: «Sempre più Leon Battista Alberti appare un umanista in cui è centrale l'interrogazione sulla vita dell'uomo, fatta non solo di 'dignitas' ma anche di miseria». [5]
Questi tratti legati alla sua autobiografia producono in Alberti il desiderio, se non il bisogno di abbozzare il profilo di una nuova società, non condizionata dal potere aristocratico ma aperta al consapevole contributo di tutti. Scopo della cultura, a cui ci avvia la Natura attraverso l'Educazione, diventa quello di educare ad una vita tra cittadini uguali e quindi liberi.
Negli scritti di Alberti troviamo un passaggio decisamente rivoluzionario: "Se un omicittaolo qualunque mostrasse di saper amministrare gli affari come si comporta di solito la maggioranza dei grandi dei, verrebbe giustamente preso a legnate" ("Momus"). L'unico punto fermo per Alberti resta il valore sociale dell'agire umano, leggiamo in Stefano Simoncini, al quale dobbiamo un documentato ed efficace ritratto dello stesso Alberti, "sospeso tra una vocazione civile e cittadina e una condizione cortigiana necessitata dalla Storia e dalle due personali vicende".
Il valore sociale dell'agire umano resta per Alberti l'unico punto fermo dell'agire quotidiano", e di questo aspetto troviamo "spiegazione" nella nostra Cappella delle Arti liberali, come leggeremo successivamente.

Queste caratteristiche dell'Alberti richiamano il profilo intellettuale di Sigismondo Malatesti fatto da Roberto Valturio nella dedica del suo «De re militari», dove scrive che a lui si debbono i lineamenti delle immagini del tempio, ricavati «ex abditis philosophiae penetralibus» (1. XII, 13). [6]
Riproduciamo integralmente quel profilo di Sigismondo Malatesti: «... tu, o Sigismondo, che nella difesa della religione e nel certame della gloria non sei inferiore ai più illustri condottieri ed imperatori, dopo la conclusione della guerra italica, nella quale hai sconfitto ed annientato tutti i nemici grazie all'invincibile ardimento del tuo animo, volgendo il pensiero dalle armi ai pubblici affari, con i bottini delle città assediate e sottomesse, confidando nella somma religione del santissimo e divino Principe, hai lasciato, oltre ai sacri edifici posti a tre miglia dalla città sul monte e dinanzi al mare, quel Tempio famoso e degno d'ogni ammirazione, ed anche unico monumento del tuo nome regale, entro le mura, al centro della città e nei pressi del foro, costruito dalle fondamenta e dedicato a Dio, con tanta abbondanza di ricchezza, tanti meravigliosi ornamenti di pittura e di bassorilievi, di modo che in questa famosissima città, quantunque si trovino moltissime cose degne d'essere conosciute e ricordate, niente vi sia di più importante, e niente che di più sia stimato da vedere, soprattutto per la grande vastità dell'edificio, per le numerose ed altissime arcate, costruite con marmo straniero, ornate di pannelli di pietra, e nelle quali si ammirano bellissime sculture ed insieme le raffigurazioni dei venerabili antenati, delle quattro virtù cardinali, dei segni zodiacali, dei pianeti, delle Sibille, delle arti e di altre moltissime nobili cose.
Queste immagini possono allettare gli osservatori eruditi e quasi del tutto estranei al volgo, non soltanto per l'eccellente abilità del lapicida e dello scultore, ma anche per il significato delle figure e per i simboli, dai remoti segreti della filosofia ripresi da te, acutissimo e, senza dubbio alcuno, famosissimo principe di questo secolo.
Hai inoltre onorato questi luoghi santissimi con molto eminenti privilegi papali, e con innumerevoli doni e reliquie dei Santi. Soprattutto, oltre a ciò, hai lasciato con unica donazione una grandissima quantità di denaro e di oro raccolta da te in questi anni, e dedicata a Dio, gemme, perle, patène d'oro, calici, bracieri, turiboli, croci, candelabri, pitture, organi, tuniche purpuree e mantelli d'oro intessuto, ed infine moltissimi volumi di libri sacri e profani, e di tutte le migliori discipline.
Innovazione certamente famosa e grande, ideata per l'immortalità, perché hai voluto che non soltanto con l'oro, l'argento, il denaro, od il marmo, la calce o le pietre, ma soprattutto nelle biblioteche si ascoltasse la voce di coloro le cui anime immortali parlano in questi stessi luoghi.
Non potrei proseguire troppo facilmente nel riferire l'insieme delle tue azioni: il tuo nome, oltre che in questi monumenti tanto famosi, è celebrato ovunque al punto che i posteri mai lo ignoreranno e mai ci sarà una fama futura così ingrata che non lo elevi al cielo, e che esso non sia seguìto dalle lodi dovute ed auspicate.» [7]

Ciò premesso, cerchiamo negli scritti dello stesso Alberti le prove che ci permettono di ipotizzare che sia lui l'autore del "progetto" e del percorso intellettuale della nostra Cappella. E partiamo ricordando due suoi testi che ritroviamo nelle sale antiche della Biblioteca Gambalunga di Rimini.
Sono gli «Opuscoli Morali» (Venezia, 1568) e il già citato «Momus» (Roma, 1520), testo con cui si aprono gli stessi «Opuscoli».
Al «Momus» Alberti lavora "alla fine degli anni Quaranta e nella prima metà degli anni Cinquanta", leggiamo in Oliva Catanorchi (2012), presso il sito Treccani.
Nel «Momus» si offre un'immagine negativa dell'umanità, con quelle persone che talora usano maschere di fango per non essere respinte dai loro simili.
Spiega Catanorchi: «L'insistenza albertiana sul tema della doppiezza dell'uomo non è circoscritta al contesto satirico del Momus, ma affiora in molti altri testi, venendo a costituire un vero leitmotiv della sua produzione». Ne consegue una riflessione negativa sulla vita associata, dominata dalla finzione, per evitare di «esporsi ai pericoli che ci vengono dagli altri, in particolare dall'autorità costituita». Il mondo è inteso «come luogo intrinsecamente connotato dalla doppiezza».
All'immagine negativa del «Momus» si contrappone, nella cappella delle Arti Liberati del Tempio malatestiano di Rimini, la finalità della Cultura, cioè educare ad una vita tra cittadini tutti uguali e quindi liberi. Questo aspetto si rivela nelle tre immagini dell'ultima striscia della stessa cappella: esse rappresentano la Concordia, la Città giusta e la Scuola.
Proprio queste tre immagini ci possono suggerire l'ipotesi che l'itinerario descritto nella cappella sia opera dello stesso Alberti, il quale (come leggiamo in Francesco De Sanctis) aveva la «fisionomia dell'uomo nuovo» che al suo tempo si andava elaborando in Italia.
Alberti prospettava un ideale rivoluzionario sotto tutti gli aspetti, perché distrugge ogni istanza teologica quando definisce «astiosa inutilità» l'atteggiamento che fa «rovesciare mali sugli uomini sventurati».
Infine, riprendiamo dallo stesso Alberti ("Libro II della Tranquillità dell'animo"), una citazione da lui inserita, tolta dagli "Epigrammi" di Valerio Marziale (XII, 6, 11-12):
"Tu sub principe duro,
temporibus malis aussus es esse bonum".
"E tu sotto un principe crudele e in tempi corrotti, hai osato essere buono".
Non si tratta di una curiosità letteraria, ma di una fondamentale affermazione dal valore politico e pedagogico, per costruire una società diversa da quella in cui allora si viveva.
La citazione albertiana si legge a p. 82 delle "Opere volgari. I", Firenze 1843. Ad essa noi siamo giunti grazie al saggio di Mario Martelli su Firenze nel volume II, 1 di «Letteratura italiana. Storia e geografia», Torino 1988, p. 74, nota 13.
Il titolo originale di questo scritto albertiano, «Profugiorum ab ærumna libri III», lo possiamo tradurre in italiano: «I tre libri di coloro che evitano la sofferenza»: è un testo scritto in italiano, composto appunto da tre libri, come ricaviamo dalla p. 23 del volume edito a cura di Pompilio Pozzetti nel 1789 a Firenze. Pozzetti (1760-1815) fu docente all'Ateneo di Bologna e segretario della Società italiana delle Scienze.
L'opera è definita da Stefano Simoncini un «intermezzo più equilibrato» nel contesto pessimistico degli altri lavori di Alberti.
In essa «si torna a ragionare, in termini di utilitas collettiva, dei modi per contrastare la fortuna».
Il testo di Simoncini appare nel vol. XI, «Il Quattrocento», de «il Medioevo» a cura di Umberto Eco, Roma 2009.

A proposito del tomo I delle «Opere volgari» curate da Anicio Bonucci, apparso a Firenze presso la Tipografia galileiana nel 1843. I «tre libri portano in vari codici intitolazioni diverse; mentre in alcuni hanno il titolo latino De profugiis aerumnarum; in altri quello di Profugiorum ab aerumna, libri tres; in altri: Della tranquillità dell'animo. Ma noi abbiamo creduto dover preferire quest'ultimo», si legge a p. 4 dell' «Avvertimento» di Bonucci che introduce al testo albertiano.
Alla p. 6 del testo intitolato appunto «Della tranquillità dell'animo libri tre», troviamo quale introduzione all'opera una lettera a Lorenzo Vettori di Carlo Alberti, fratello di Leon Battista, in cui si narra che il manoscritto dei tre libri era andato perduto: "... tu conosci la natura di messer Battista mio fratello; ei non sa negare a persona, cosa la quale gli sia chiesta: non dirò di più. Un certo suo domestico gli chiese questi libri subito che furono compiuti, già passati anni circa trenta; ed ebbe la prima copia originale. Poi diede scuse e negolla avere, e non non sapevamo onde recuperarla. Ora la ritroviamo...".

Leon Battista, spiega Carlo Alberti, "scrisse quest'opera con impeto d'animo allora giovanile, commosso da ingiurie di certi perfidi uomini suoi emuli, occulti nemici".
Carlo Alberti aggiunge un'analisi dei tre libri: "Voi adunque insieme, quali amate messer Battista, leggete questi libri con diletto; e in quel modo sarete molesti a chi vi ha offeso, e vi avrete utilità. Perocchè il primo libro disputa in che modo si vive senza ricevere a sè maninconia: il secondo ti dà modo e via di purgare dell'animo tuo gli sdegni e dispetti, quando tu gli avessi in qualche parte ricevuti a te: il terzo libro racconta più modi utili a levarsi dalla mente le offese e dolori più gravi, quando tu fossi al tutto oppresso da loro e quasi sunto [consunto]".
Interessante è il titolo "L'umanista come architetto del sapere universale" che apre il discorso su Alberti nel volume "Dalle origini al Cinquecento", a cura di Loredana Chines, Milano 2007, pp. 226-228. A p. 227 leggiamo che, di Alberti, "gli studiosi oggi hanno messo in luce la sua modernità ed originalità anche nel campo letterario, l'unità profonda dell'Alberti artista e umanista".
Tutta la parte dedicata al Quattrocento è a cura di Marta Guerra. Tale volume appartiene alla serie "La letteratura italiana", diretta da Ezio Raimondi.

Ripartiamo dall'inizio, per esaminare alcuni aspetti storico-filosofici delle Arti liberali malatestiane.
Tenendo presente il contesto entro cui si articola tutto il discorso sulle stesse Arti, sembra possibile interpretare il concetto di Natura da cui si parte come «ordine e necessità» secondo la formulazione degli Stoici nella quale, spiega Nicola Abbagnano [8], vengono accentuati l'ordine del divenire e la regolarità della Natura che ad essi presiede.
Questa legge di Natura «è la regola di comportamento che l'ordine del mondo esige sia rispettata dagli esseri viventi».
Regola che, spiegava Diogene Laerzio («Vite e dottrine dei filosofi», VII, 105), era affidata nell'uomo alla ragione. La quale mostra che sapienza, saggezza e giustizia sono i beni ai quali indirizzarci, e da realizzare nella vita, seguendo anche la lezione di Cicerone [9].
Questi indirizzi filosofici sembrano essere alla base del pensiero di Alberti, per cui nel trattato «Della Famiglia» afferma: «tiene giogo la fortuna solo a chi gli si sottomette».
Osserva Abbagnano che da questa considerazione nasce «un maggior obbligo per l'uomo di agire fortemente» [10].
Sembra un ritorno a Seneca, proprio attraverso lo stesso Alberti. Il quale, ha scritto Nicola Gardini, apre i «Libri della famiglia» («uno dei capisaldi del rimo umanesimo in lingua italiana»), con l'esaltazione della «virtus», ovvero del talento personale: «La virtus potrà sempre vincere sulla fortuna con le risorse dell'intelligenza e con la capacità di sopportare qualunque male» [11].
Alberti insiste sulla ragione, spiega Cesare Vasoli [12], come «forma immanente operante in ogni cosa» per indicarci che nella Natura la mente umana può ritrovare «un ordine più profondo del suo apparente procedere casuale». Il cerchio si chiude: la Natura è il quaderno da cui la ragione apprende come comportarsi. La nostra mente è sorretta in questa ricerca dal magistero degli antichi che si offrono come esempio e guida.
Ecco che l'educazione costruisce la nostra personalità seguendo due itinerari paralleli, quello della Storia e quello della Natura. La personalità umana si forma così nel continuo confronto tra questi due aspetti, Storia e Natura.
Ad Alberti si deve l'elogio di chi trova «nella buona e santa disciplina del vivere» una sicura regola di comportamento pubblico e privato; dell'uomo operoso negli uffici civili e nel givermo della Famiglia. Così scrive Cesare Vasoli [13], rimandando ai «Libri della famiglia» composti dallo stesso Alberti.
La «tanta varietà, tanta dissimilitudine» che Alberti descrive nella Natura e quindi nella vita, è indicata da Ezio Raimondi come «simbolo d'una realtà moderna», in un capitolo dal significativo titolo «Dalla natura alla regola» [14].
Titolo che lo studioso Giancarlo Alfano ha definito «celebre» nel suo scritto «Una nuova scienza della letteratura. La poesia tra retorica e logica» [15].
Lo scritto di Raimondi ha in apertura proprio una citazione di Leon Battista Alberti, in cui leggiamo che l'uomo è chiamato a riconoscere «un primo e vero principio delle cose» e quindi a lodare «Iddio insieme con tutta l'universa natura».
Questo passo albertiano, sempre a proposito di Ezio Raimondi, l'ho ritrovato in un mio articolo ("il Ponte", Rimini, 30.09.2001) che ricordava l'intervento dello stesso prof. Raimondi, quale presidente dell'Istituto Beni Culturali regionale, ad un convegno malatestiano riminese.
Riproduco in calce il mio articolo, come modesto omaggio e sincero ricordo rivolto ad un grande studioso che ebbi come insegnante al Magistero di Bologna, e che fu controrelatore alla mia tesi di laurea in Storia della Filosofia con il prof. Paolo Rossi nel 1966, intitolata «Irrazionalismo e Pragmatismo in Italia dal 1903 al 1915 ('Leonardo', 'La Voce', 'Lacerba')».
La Bologna quattrocentesca che, nel testo del 1994, Raimondi indaga con quell'attenzione che ne fatto uno straordinario ed inimitabile studioso, appare chiaramente da un ricordo della vita universitaria di quel secolo: Lapo di Castiglionchio [16] nell'inaugurare il suo corso di eloquenza, «delinea l'ideale dell'uomo "saggio, forte, liberale e temperante" sullo sfondo dei tempi miseri e luttuosi».
È la stessa Bologna dove nel 1428 Alberti si laurea in Diritto canonico presso la Facoltà di Teologia. E dove tra 1425 e 1426, a ventun anni, scrive in posa latina il «Filodoxus» [17], «nel quale, vien consacrato il principio, che anche gli umili possono conquistare quella gloria che vien loro contrastata da' ricchi e da' potenti» [18].
Lapo di Castiglionchio «addita nei boni viri il presidio che difende la comunità dalle "rivolte, dalle guerre civili, dagli omicidi, dalle rovine pubbliche"». Quello stesso ideale (filosofico e politico assieme) appare nel sistema delle arti riminesi.
Per restare nella situazione italiana del Quattrocento, è giustamente ricordato da Marta Guerra l'interesse di Alberti per una «razionale organizzazione della società» per cui Alberti stesso «riflette davvero l'universo del nuovo uomo del Rinascimento» che esalta costantemente digità e centralità della vita umana [19].

Il contesto storico del 1400 ci rimanda a Pier Paolo Vergerio (1369-1444) che all'inizio di quel secolo compone il «De ingenuis moribus et liberalibus adulescentiae studiis» (1402-1403) che pone, scrive Vasoli [20], «a fondamento di tutta l'educazione la pratica degli studia humanitatis», definiti come quelli che «convengono ad un uomo libero». Il testo di Vergerio diventa il manifesto della nuova pedagogia umanistica, un modello di formazione civile basato sulla letteratura e sul ritorno ai classici, si sottolinea da parte degli storici della Pedagogia.
A ciò si affianchi la volontà albertiana di progettare una nuova società, scrive Simoncini [21], non partendo dalle teorie filosofiche ma «dai suoi fondamenti materiali, da una conoscenza empirica dei bisogni dell'animo umano così come delle morfologie e delle leggi naturali».
È l'itinerario che, nel quadro delle proprie competenze, Alberti elabora con il «De re aedificatoria». Il valore ideale di una costruzione non è soltanto il risultato finale, sembra suggerirci Alberti, ma tutto l'itinerario che ad esse conduce.
Anche la società, dunque, si costruisce con la fatica e con l'impegno che richiedono le opere architettoniche che ci mostrano l'evidenza più semplice: la perfezione finale è data dall'accumularsi delle singole posizioni che ad essa conducono. Allo stesso modo, l'educazione collega e costruisce per realizzare quel mondo migliore che la filosofia umanistica progetta e prospetta, come sogno o illusione in un'epoca in cui la parola pace appare più nei trattati politici tra Stati rivali, che nei fatti di ogni giorno.
Non per nulla il discorso delle Arti liberali culmina nella sesta colonna di immagini con gli scopi della concordia e della città giusta da realizzare attraverso la Scuola.
Se l'educazione avvia il discorso politico, nella Scuola essa culmina, a dimostrazione che la cultura è strumento, scopo e soprattutto premessa per una società migliore.

A Marta Guerra si debbono due importanti contributi storici su Alberti. Il primo è apparso nel 2007 in «Alberti e la cultura del Quattrocento». Il secondo, del 2010, si legge in «Crocevia e capitale della migrazione artistica: forestieri a Bologna e bolognesi nel mondo (secoli XV-XVI)», a cura di Sabine Frommel, alle pp. 37-46, sotto il titolo «La formazione di Leon Battista Alberti a Bologna».
Chiara Di Giorgio (in «Filologia e critica», 01.01.2009) parla del primo saggio: «Il contributo di Marta Guerra ("Alberti e Bologna", pp. 203-222) inaugura la II sezione degli Atti (I luoghi dell'Alberti), illustrando alcuni documenti notarili dell'Archivio di Stato di Bologna che testimoniano della presenza dello scrittore nella città felsinea negli anni 1426-1427, documenti che confermano le memorie del nobile bolognese Carlo di Giovanni Ghislieri, che ricorda l'Alberti quale frequentatore della propria biblioteca; sulla base di queste testimonianze, Guerra prova a ricostruire le possibili frequentazioni dell'umanista presso la locale università, da Giovanni Aurispa a Gasparino Barzizza, da Francesco Filelfo a Lapo da Castiglionchio il Giovane fino ad Antonio Beccadelli detto il Panormita.» (A p. 203 del saggio di Marta Guerra, Alberti è detto una delle menti «universali» dell’Umanesimo.)
Già nel primo volume della «Storia della Emilia Romagna», a cura di E. Berselli, Bologna 1975 si legge, nel saggio di Lao Paoletti (1936-1980), p. 609, della frequentazione di Alberti nel 1428 alle lezioni di greco di Francesco Filelfo.
Un altro testo di Marta Guerra, «La formazione di Leon Battista Alberti a Bologna», 2010, si legge in «Crocevia e capitale della migrazione artistica: forestieri a Bologna e bolognesi nel mondo (secoli XV-XVI)», a cura di Sabine Frommel, alle pp. 37-46.
Sugli anni universitari di Alberti a Bologna, scrive Guerra che le prime informazioni giungono a noi dalla Vita latina dell'Alberti stesso (di controversa attribuzione), la cui ultima edizione è stata congedata nel 1972 da Riccardo Fubini e Anna Menci Gallorini sulla rivista «Rinascimento».
Da questo testo ricaviamo che Alberti «studiò per qualche anno, a partire dal 1424, il diritto sia canonico che civile, senza specificare tuttavia in quale città e presso quale Studio». Alberti «per la fatica dello studio si ammalò, per giunta non ricevendo assistenza dai parenti, indifferenti e crudeli».
Marta Guerra poi scrive: «Proseguiti dopo la prima infermità gli studi di legge, di nuovo Alberti, per giunta povero, si ammalò, e questa volta più gravemente. I medici gli proibirono categorici le fatiche della giurisprudenza e così il Nostro, non rassegnato in nessun modo ad abbandonare gli studi, decise di dedicarsi a materie meno faticose e meno mnemoniche, come la filosofia e le arti matematiche. Secondo la Vita ci troviamo a questo punto nel 1428».
Nel «Commentarium» preposto alla seconda edizione della «Philodoxeos fabula», prosegue Marta Guerra, il nostro Alberti «afferma di avere composto la commedia a Bologna, dove si trovava per studiare diritto canonico già al momento della morte del padre avvenuta il 28 maggio 1421, e, oltre a trattare del difficile rapporto coi parenti (così come nelle Intercenali Erimna e Pupillus), afferma di essersi laureato, descrivendo poi una festa di laurea nel De commodis litterarum atque incommodis, opera composta appena dopo avere lasciato Bologna e gli studi di legge».
Marta Guerra cita poi un documento archivistico che conferma la presenza di Alberti «studente in diritto canonico» a Bologna, dell'11 maggio 1426, presso il notaio bolognese Rolando Castellani.
Marta Guerra rimanda allo storico del diritto Giovanni Rossi che spiega: Alberti fu «autore di un trattatello specificamente dedicato al tema della giustizia, il De iure (composto proprio a Bologna nel 1437 e dedicato al giurista Francesco Coppini da Prato) ove si distacca dalla giurisprudenza medievale, per riallacciarsi, da vero umanista, alle fonti classiche, soprattutto ciceroniane, del diritto».
Leggiamo ancora in Marta Guerra: «Potrebbe verosimilmente essere accaduto - ed è un'ipotesi ancora di Rossi - che Battista, iniziati gli studi in utroque iure, abbandonasse il diritto civile per proseguire il solo diritto canonico, anche in considerazione della propria debolezza fisica e dei problemi di salute. Potrebbe anche essere accaduto che Alberti avesse completato il cursus studiorum senza conseguire la laurea: nell'università medievale i due momenti potevano non accompagnarsi, sia perché era possibile esercitare la professione anche con la sola frequenza degli esami (è il caso per esempio del giurista Antonio Pratovecchi che insegnò all'università con successo fin dal 1410, laureandosi solo nel 1424), sia perché la cerimonia di laurea era un costo non facilmente sostenibile: e al proposito si legga quanto Anna Laura Trombetti Budriesi scrive nel 1988 sull'esame di laurea presso lo Studio bolognese (in «Studi e Memorie per la storia dell'Università di Bologna»)».

Alla pagina successiva: III. Le Arti liberali malatestiane


NOTE II. Per una vita tra cittadini uguali e quindi liberi
[1] Le pagine di Simoncini («L. B. A., l'homo faber, il tempo e la pedagogia filosofica», pp. 123-141), sono tratte da un volume curato nel 2009 da Umberto Eco, sapiente ed indimenticabile Maestro della cultura europea, «Il Medioevo. 11, Quattrocento. Filosofia, Scienza, Letteratura». Il saggio di Simoncini si trova pure ne «La filosofia e le sue storie. L'età moderna», Bari 2015, pp. 44-49. La citazione è ricavata dalla conclusione del saggio, in cui è riassunto con grande efficacia il pensiero di Alberti.
[2] Cfr. G. Amendola «Le retoriche della città. Tra politica, marketing e diritti», Bari 2016, p. 41.
[3] Si trova nello stesso cit. volume del 2009 («Il Medioevo. 11, Quattrocento. Filosofia, Scienza, Letteratura»), ed è intitolato «La politica a corte e il sovrano ideale: diverse visioni del potere prima di Machiavelli», pp. 191-205, cfr. p. 198.
[4] Cfr. in «Machiavelli e la filosofia politica», Roma 2019, pp. 12-13.
[5] Cfr. in «Templum mirabile», Rimini 2003, pp. 20-21.
[6] Cfr. in «Filosofia. Storia parole temi. Dizionario INE-PUR di N. Abbagnano», Milano 2018, vol. XIII, p. 289. Il brano di Valturio che riproduciamo di seguito, si trova in conclusione dell'inizio del «De Re Militari», l. XII, c. 13, dove egli tratta di Castel Sigismondo.
[7] Cfr. in A. Montanari, Sigismondo, filosofo umanista, «La Signoria di Sigismondo Pandolfo Malatesti, II. 2, La politica e le imprese militari», Ghigi, Rimini 2006, pp. 319-339.
[8] Cfr. in «Filosofia. Storia parole temi. Il pensiero greco di N. Abbagnano», Milano 2018, vol. I, p. 254. In Diogene Laerzio, sempre in VII, 105, si ricorda il pensiero stoico secondo cui «il requisito di ogni bene» è legato al suo essere relativo «alla vita ammissibile con la ragione» ed alla vita «in armonia con la natura». Per l'opera di Diogene Laerzio, «Vite dei filosofi», rimando all'ed. con traduzione di M. Gigante, apparsa in due volumi nel 1962. Il libro VII, da cui abbiamo riprodotto la breve citazione, è nel vol. primo: il passo che ci interessa è alla pag. 336. Qui leggiamo anche: le cose degne di essere scelte «sono quelle che hanno un valore, degne di essere evitate sono quelle che non hanno valore». Gli Stoici intendono per valore «un certo contributo alla vita equilibrata dalla ragione (e questo è il requisito di ogni bene); ma intendono anche una certa mediata potenza o utilità che contribuisce alla vita secondo natura, come quel contributo che ricchezza e salute apportano alla vita secondo natura; un ulteriore significato del termine 'valore' essi traggono dallo scambio di merci quale è stabilito dall'esperto intenditore; per es. scambiare un carico di frumento con un carico di orzo più il mulo. Queste citazioni sono alle pp. 114-115, tomo secondo, dell'ed. di Milano, 1845, con traduzione del conte Luigi Lechi.
[9] Cfr. in «Filosofia. Storia parole temi. Il pensiero greco di N. Abbagnano», Milano 2018, vol. I, p. 254. In Diogene Laerzio, sempre in VII, 105, si ricorda il pensiero stoico secondo cui «il requisito di ogni bene» è legato al suo essere relativo «alla vita ammissibile con la ragione» ed alla vita «in armonia con la natura». Per l'opera di Diogene Laerzio, «Vite dei filosofi», rimando all'ed. con traduzione di M. Gigante, apparsa in due volumi nel 1962. Il libro VII, da cui abbiamo riprodotto la breve citazione, è nel vol. primo: il passo che ci interessa è alla pag. 336. Qui leggiamo anche: le cose degne di essere scelte «sono quelle che hanno un valore, degne di essere evitate sono quelle che non hanno valore». Gli Stoici intendono per valore «un certo contributo alla vita equilibrata dalla ragione (e questo è il requisito di ogni bene); ma intendono anche una certa mediata potenza o utilità che contribuisce alla vita secondo natura, come quel contributo che ricchezza e salute apportano alla vita secondo natura; un ulteriore significato del termine 'valore' essi traggono dallo scambio di merci quale è stabilito dall'esperto intenditore; per es. scambiare un carico di frumento con un carico di orzo più il mulo. (Queste citazioni sono alle pp. 114-115, tomo secondo, dell'ed. di Milano, 1845, con traduzione del conte Luigi Lechi, 1786-1867).
[10] Cfr. in «Filosofia. Storia parole temi. Il pensiero greco di N. Abbagnano», Milano 2018, vol. I, p. 254. In Diogene Laerzio, sempre in VII, 105, si ricorda il pensiero stoico secondo cui «il requisito di ogni bene» è legato al suo essere relativo «alla vita ammissibile con la ragione» ed alla vita «in armonia con la natura». Per l'opera di Diogene Laerzio, «Vite dei filosofi», rimando all'ed. con traduzione di M. Gigante, apparsa in due volumi nel 1962. Il libro VII, da cui abbiamo riprodotto la breve citazione, è nel vol. primo: il passo che ci interessa è alla pag. 336. Qui leggiamo anche: le cose degne di essere scelte «sono quelle che hanno un valore, degne di essere evitate sono quelle che non hanno valore». Gli Stoici intendono per valore «un certo contributo alla vita equilibrata dalla ragione (e questo è il requisito di ogni bene); ma intendono anche una certa mediata potenza o utilità che contribuisce alla vita secondo natura, come quel contributo che ricchezza e salute apportano alla vita secondo natura; un ulteriore significato del termine 'valore' essi traggono dallo scambio di merci quale è stabilito dall'esperto intenditore; per es. scambiare un carico di frumento con un carico di orzo più il mulo. (Queste citazioni sono alle pp. 114-115, tomo secondo, dell'ed. di Milano, 1845, con traduzione del conte Luigi Lechi, 1786-1867).
[11] N. Gardini, «Le 10 parole latine che raccontano il nostro mondo», Roma 2019, p. 132. Nel volume si veda proprio il sistema dei saperi che s'articola nel pensiero di Seneca attorno alle arti liberali, pp. 26-28: esse portano alla virtus, ovvero all'eccellenza morale (p. 28).
[12] Cfr. C. Vasoli, «L'Umanesimo e il Rinascimento», in «Umanesimo e Rinascimento. 12. L'espansione europea e la civiltà del nuovo mondo», Milano 2013, p. 44.
[13] Ib., p. 25.[14] Cfr. alle pp. 303-314 del primo volume de «I sentieri del lettore» (Bologna 1994).
[15] Si veda nel volume «La letteratura italiana e la nuova scienza. Da Leonardo a Vico», a cura di S. Magherini, Napoli 2017.
[16] Torniamo al primo volume de «I sentieri del lettore» (Bologna 1994), p. 208, nel saggio «Quattrocento bolognese: università e umanesimo» [1956], pp. 205-241. Qui si ricorda la crisi dell'Università cittadina (p. 207), e poi quella della politica nel 1440 (p. 209).
[17] Cfr. C. Calcaterra, «Alma mater studiorum», Bologna 1948, p. 147.
[18] Cfr. E. Savino, «Un curioso poligrafo del quattrocento, Antonio de Ferrariis», Bari 1941, p. 361.
[19] Cfr. «Il Quattrocento», in «Dalle origini al Cinquecento», vol. I de «La letteratura italiana diretta da Ezio Raimondi», Milano 2007, p. 205. Tutta la sezione che riguarda il Quattrocento (pp. 199-236) è opera della stessa prof. Guerra.
[20] Cfr. il cit. Vasoli, L'Umanesimo e il Rinascimento, p. 40.
[21] Cfr. le pp. 135-136 del testo cit. alla nota 1. Due perni morali individua Alberti, nella vita comunitaria: la ricerca della 'felicitas' e quella della 'utilitas', per cui «l'unico punto fermo» è «il valore sociale dell'agire umano» (p. 140).



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Umanesimo malatestiano. Prima di L. B. Alberti: Marsilio da Padova e il Defensor pacis [2015]
Umanesimo malatestiano. Nel Tempio, una cultura senza segreti. [2014]
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Umanesimo riminese. Per essere liberi Tama 1066, il Ponte, 29.01.2012
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