il Rimino - Riministoria
Eruditi e maldicenti.
1756, contestata la riapertura degli avelli nel Tempio.

Il 22 luglio 1756 padre Francesco Antonio Righini, «procuratore» dei Minori Conventuali di San Francesco, apre furtivamente l’Arca degli Antenati, nella cappella della Madonna dell’Acqua al Tempio malatestiano. Con sé porta quale esperto il pittore Giambattista Costa, e come tecnici due muratori: quello che entra all’interno dell’Arca, ne scompiglia i poveri resti. Il 15 agosto Righini ispeziona le casse di marmo nella fiancata esterna destra alla presenza di alcuni testimoni, ed il giorno successivo il sepolcro d’Isotta davanti a dodici persone.
Il francescano compie l’esplorazione degli avelli proprio mentre architetta un colpo con cui spera di diventare famoso. Imbroglia le carte sulla storia della beata Chiara da Rimini, ed inventa la scoperta d'un manoscritto datato 1362, raschiando la data originale del 1685.
La sua impresa al Tempio non piace a molti in città. Le critiche gli piovono addosso abbondantemente. Il 19 agosto padre Righini scrive a Giuseppe Garampi, prefetto dell’Archivio Segreto Apostolico Vaticano e studioso di meritata fama. Invoca una specie d’assoluzione per la sua iniziativa. Gli confida d’aver agito soltanto per «curiosità» ed allo scopo «di porre con ogni sincerità il vero della Storia di ciò che concerne questo nostro magnifico Tempio».


In cerca di notizie
Righini con Garampi non usa la stessa «sincerità» e non ricorda tutto «il vero». Tralascia la visita fatta il 22 luglio all’Arca degli Antenati. Cita solamente la seconda esplorazione dell’Arca, svolta il 16 agosto dopo quella nella tomba d’Isotta. In quest’occasione nell’Arca si vede soltanto un mucchio d’ossa confuse fra gli stracci, grazie all’imperizia di quel muratore pasticcione.
Righini sa poco o nulla della storia illustre della chiesa di cui è custode. Lo dimostra quando, nella stessa missiva, chiede a Garampi di suggerirgli «qualche notizia particolare» attorno «a questo nostro Tempio», da inserire «nella rozza composizione» che gli è stata richiesta, ovvero una storia del Malatestiano. Un suo compagno d’avventura, il filosofo e naturalista Giovanni Antonio Battarra, scriverà in una «Lettera» a stampa (Milano, 1757) che in città attorno alle tombe del Tempio correvano due opposte opinioni. C’era chi, seguendo la tesi di Giuseppe Malatesta Garuffi (1655-1727), riteneva che nella maggior parte di esse vi fossero le ceneri dei ‘titolari’. Altri invece sostenevano che fossero vuote. Righini, secondo Battarra, si era mosso «per decidere chi dei due partiti avesse ragione».


Il mistero d’un silenzio
Il silenzio di Battarra sul progetto del frate (di scrivere qualcosa sulla vicenda secolare del Tempio), s’accompagna a quello sullo stesso padre Righini mai citato nella «Lettera» milanese. Battarra riferisce vagamente di «alcuni Galantuomini» che la sera del 15 agosto «si portarono a que’ Monumenti di Marmo che sono nella facciata laterale del Tempio dalla parte di mezzodì». Resta un mistero perché non indichi il nome del frate come ideatore di tutta l’impresa. Neppure nelle note alla «Lettera», curate da un suo allievo (Epifanio Brunelli), si parla di padre Righini, ma si cita vagamente un «Promotore» dell’iniziativa.
Battarra (come lo stesso Righini) inizia la «Lettera» dal 15 agosto, ‘dimenticando’ l’anteprima del 22 luglio nell’Arca degli Antenati. L’ha ricordata invece in una «Relazione» manoscritta inviata nell’estate del 1756 ad alcuni amici, tra cui lo stesso Garampi che la conservò a noi posteri. Può essere stato lo stesso Righini a suggerire a Battarra di tacere sul 22 luglio.


L’accusa in città: «troppo audace»
Righini, il 19 agosto, con Garampi osserva che restava da aprire soltanto un altro sepolcro, quello di Sigismondo: «se la curiosità mi trasporterà a farlo voglio farlo con tutta la pulizia possibile», cercando di avere presenti il vicario generale della diocesi, il notaio «ed altre persone graduate per testimonj». Il desiderio di agire, per così dire, alla luce del sole e «con tutta la pulizia possibile», nasce dalla volontà di mettere a tacere le malelingue che lo hanno «tacciato per troppo audace». Padre Righini confida a Garampi di non curarsi però dei «latrati» insussistenti e vani indirizzati alla propria persona. E precisa d’aver agito «colla licenza» del vicario generale della Diocesi e del «Religioso superiore» dell’Ordine a cui appartiene.
Finalmente il 21 agosto c’è la ricognizione alla tomba di Sigismondo, a cui concorrono più di trenta amici di padre Righini. Il vicario non interviene, ma si presenta il Capoconsole pro tempore Lodovico Battaglini. L’assenza del vicario, il canonico Francesco Maria Pasini (futuro vescovo di Todi ed educatore, un po’ sfortunato, di Aurelio Bertòla), è interpretata come un modo elegante per non approvare un’azione sulla quale gli avversari di padre Righini avanzavano dubbi circa il rispetto di alcune norme del Diritto canonico.
Garampi conosce dunque tutti i particolari della vicenda malatestiana soltanto dalla «Relazione» manoscritta di Battarra, contenente il racconto completo delle esplorazioni, a partire proprio dal 22 luglio e dall’Arca degli Antenati. Dal confronto tra questa «Relazione» di Battarra (senza data) e la lettera del francescano, Garampi poteva dedurre che padre Righini aveva voluto nascondere l’atto iniziale della sua impresa per non apparire quello sprovveduto che apertamente si confessava con il suo silenzio. Il 5 settembre Battarra (provetto disegnatore ed incisore) invia a Garampi un abbozzo del cadavere di Sigismondo.


Il dottor Bianchi si è offeso
Quando padre Righini scrive a Garampi dei «latrati insussistenti e vani» rivolti contro la sua persona, sa con certezza chi poteva accusare: Giovanni Bianchi, medico, naturalista, docente di Anatomia umana a Siena dal 1741 al ’44, e rifondatore dell’Accademia dei Lincei nel ’45. Secondo Battarra, il suo maestro Bianchi era fra quanti militavano nel partito dei cenotafi, cioè delle tombe vuote. Bianchi se l’è presa a male perché è stato tenuto fuori dall’impresa. In effetti, in città egli era l’unico che per dottrina ed esperienza fosse in grado di esprimere consapevolmente un parere scientifico e storico sull’esplorazione agli avelli del Tempio. Alla quale fu presente un suo ex allievo, il medico Giambattista Brunelli, fratello di Epifanio, assieme al collega Girolamo Grassi.


«Ignoranti e di poca mente»
Quando pubblica sulle «Novelle letterarie» di Firenze una recensione delle «Notizie intorno ad Isotta da Rimino» di Giammaria Mazzuchelli [vedi «Passioni malatestiane del 1718», «Ponte», 5.10.2003], Bianchi sottolinea con studiata malizia d’aver appreso che il sepolcro della donna di Sigismondo era stato da poco aperto «privatamente».
A Bianchi scrivono lo stesso Mazzuchelli ed alcuni redattori editoriali di Venezia, per saperne qualcosa di più. Lui risponde a tutti, ma prima di avviare le missive al corriere, le legge pubblicamente in città. Ce lo fa sapere Battarra in una lettera del 7 maggio 1757 ad un suo corrispondente, Ferdinando Bassi: Bianchi sostiene che quei «sepolcri sono stati aperti privatamente da un Fraticello ignorante che si è unito con alcuni di poca mente e che nottetempo sono andati a frugacciare» nelle tombe. Alla lettura di queste missive, Bianchi accompagna commenti cordialmente osceni in faccia allo stesso Battarra ed agli altri della compagnia di Righini.


Uno stile da «villano»
Battarra protesta con Giovanni Lami, direttore delle «Novelle» per la recensione di Bianchi dove si parla dell’esplorazione della tomba di Isotta fatta «privatamente», e gli invia una «relazione di dette aperture», che è pubblicata il 29 aprile 1757, e che provoca la furia del dottor Bianchi. Questa lettera di Battarra a Lami portò Alessandro Tosi (1927) ad attribuire a Battarra medesimo la paternità del testo apparso sulle «Novelle».
Lo stile di questo scritto non è però quello di Battarra. Fra le espressioni usate, e che Bianchi critica (per lui sono «parole da villani del nostro contado»), ve n’è una che si riferisce all’Arca degli Antenati: in mano ad un cadavere giudicato di donna, fu trovata «una rama d’ulivo». Battarra nel testo inviato manoscritto a Garampi ha scritto correttamente: «in mano un ramo d’Ulivo». Proprio nelle note di Epifanio Brunelli alla «Lettera» milanese di Battarra, appare la stessa espressione censurata da Bianchi, «una rama d’ulivo in una mano». Può essere questa la prova (stilistica) per attribuire lo scritto fiorentino non a Battarra ma ad Epifanio Brunelli.
Dal fatto che la «Relazione d’apertura d’Avelli» sia stata inviata a Firenze da Battarra, non deriva nulla circa la sua paternità letteraria. Battarra conosceva Lami, delle cui «Novelle» Epifanio diventerà collaboratore soltanto successivamente. Nel 1759 Epifanio vi pubblica la recensione proprio alla «Lettera» milanese di Battarra, senza avvisare quest’ultimo (il quale, nel frattempo, ne aveva inviata a Lami una di suo pugno).


«Cose infami da forca»
Il dottor Bianchi reagisce duramente alla «Relazione». Con Mazzuchelli dichiarerà che l’ha elaborata Battarra, dopo aver letto nella seconda edizione delle Notizie su Isotta dello stesso Mazzuchelli (1759), che essa era «d’altra penna» da quella di Battarra. Bianchi invia varie lettere a Lami, sostenendo che quello scritto portava disonore alle «Novelle», e che esso era stato composto «male e scioccamente» soltanto per combattere la sua affermazione fatta sull’apertura della tomba d’Isotta compiuta «privatamente». Questi signori, scrive Bianchi, hanno commesso il reato di violazione di sepolcro, «cose infami che hanno in oltre con sé la pena della forca».
Battarra con il suo corrispondente Bassi, il 21 giugno 1757 osserva che Bianchi lo ha colpito «con un esercito d’impertinenze», ed è «diventato sì fanatico» da farsi compatire dappertutto, e da divenire inavvicinabile. Ma il 29 settembre Battarra ricorre a lui, per chiedergli una visita urgente al padre «aggravato dal mal d’orina». Pace fatta.
Secondo Battarra, il dottor Bianchi aveva giudicato il mancato invito alle esplorazioni nel Tempio al pari d’un delitto di lesa maestà. Al nipote di Bianchi, Girolamo (anch’egli medico), Battarra confida: suo zio se l’è presa con me, «ed il maggior mio dispiacere è di vederlo rendersi pressocché ridicolo e puerile». Giovanni Bianchi interpreta la vicenda in modo diverso. Rammenta che cinque anni prima, proprio dagli ecclesiastici riminesi, è stato montato lo scandalo per la sua lettura ai Lincei del discorso sull’«Arte comica», messo poi all’Indice con una procedura che Giuseppe Garampi giudicò rapida ed «improvvisa». Per non dire quasi irregolare.


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Antonio Montanari


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846/07.10.2003/25.09.2011