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LE CONSIDERAZIONI DEL REALE NEL FANCIULLO CONTEMPORANEO

 

di Alessia Biasiolo

Partendo dallo studio dei lavori dello psicologo svizzero Jean Piaget relativi al metodo di elaborazione dell’universo e a come crede siano formati gli astri un bambino, ho voluto verificare se le conclusioni piagetiane sono valide ancor oggi, quando cioè il bambino, esposto ad innumerevoli stimolazioni e sollecitato da continue informazioni, può avere un’idea più vicina alla realtà, rispetto al bambino ginevrino intervistato da Piaget, dell’origine del mondo e di ciò che vediamo. Seguendo i consigli di Piaget relativi a come intervistare un bambino, presenti nel suo lavoro: "Le considerazioni del reale nel fanciullo", ho proceduto ad intervistare alcuni bambini di cinque-sei anni frequentanti l’ultimo anno di scuola materna e ho annotato le loro risposte così come venivano date. Poi ho parlato con bambini più grandi, di sette-otto anni, frequentanti le prime classi elementari, per verificare se andando in una scuola con un programma specifico e crescendo d’età, il bambino cambia la sua idea sulla nascita degli astri e la rende più ‘scientifica’.

Nelle risposte fornite non mancano considerazioni teologiche e morali visto che i bambini hanno spesso fornito un’origine ed una spiegazione scientifico-divina dell’universo, evidentemente di derivazione culturale.

L’ELABORAZIONE DELL’UNIVERSO

Jean Piaget in "La costruzione del reale nel bambino" e ne "Il giudizio morale nel fanciullo", oltre che in "Le considerazioni del reale nel fanciullo", sostiene che l’elaborazione dell’universo da parte dell’intelligenza senso-motoria consiste nel passaggio da uno stato in cui le cose sono centrate intorno ad un Io che crede di dirigere tutto ignorando se stesso in quanto soggetto, ad uno stato in cui, invece, l’Io si colloca, almeno praticamente, in un mondo stabile e concepito come indipendente dall’attività propria. Quest’evoluzione è spiegabile attraverso lo sviluppo dell’intelligenza stessa. Infatti, l’intelligenza procede da uno stato in cui l’accomodamento all’ambiente è indifferenziato dall’assimilazione delle cose agli schemi del soggetto, ad uno stato in cui l’accomodamento dei molteplici schemi si è venuto distinguendo dalla loro rispettiva e reciproca assimilazione. All’inizio, l’assimilazione consiste essenzialmente nell’utilizzazione dell’ambiente esterno da parte del soggetto per alimentare i suoi schemi, ereditari o acquisiti. All’inizio, cioè, l’universo è dato da quadri percettivi mobili e plastici, centrati sull’attività propria: non ci sono oggetti permanenti. Quando però gli schemi si moltiplicano e si differenziano, il reale si dissocia a poco a poco dall’assimilazione e assistiamo ad una graduale distinzione dell’ambiente esterno e del soggetto.

L’universo diventa una serie di oggetti permanenti collegati da relazioni causali indipendenti dal soggetto e situati in uno spazio e in un tempo obiettivi.

Tale universo, invece di dipendere dall’attività propria, si impone al contrario all’Io in quanto comprende l’organismo come parte in un tutto. L’Io prende così coscienza di se stesso, almeno nel suo agire pratico, e si scopre come causa tra le altre cause e come oggetto sottoposto alle stesse leggi degli altri. Passiamo dall’egocentrismo integrale e inconscio ad un’obiettivizzazione crescenti.

Durante i primi due anni dell’infanzia perveniamo ad uno stato di equilibrio vicino a quello del pensiero razionale. Partendo dall’esercizio dei riflessi e delle prime associazioni acquisite, il bambino costruisce, nello spazio di alcuni mesi, un sistema di schemi capaci di infinite combinazioni che annuncia quello dei concetti e delle relazioni logiche. Nell’ultimo stadio del loro sviluppo, questi schemi divengono persino adatti per certi raggruppamenti spontanei ed interni che equivalgono alla deduzione e all’elaborazione mentali.

Il bambino incontra ovviamente una serie di problemi pratici nel suo continuo adattamento all’ambiente, tutti del resto destinati ad essere superati grazie all’intelligenza senso-motoria dei primi due anni. E’ il passaggio dal piano puramente pratico a quello del linguaggio e del pensiero concettualizzato e socializzato che comporta os tacoli che complicano particolarmente i progressi dell’intelligenza.

Primo, l’intelligenza senso-motoria cerca soltanto l’accomodamento pratico, cioè mira solamente alla riuscita o all’utilizzazione, mentre il pensiero concettuale tende alla conoscenza come tale e si sottomette così a norme di verità, vuole conoscere ed enunciare verità. Secondo, l’intelligenza senso-motoria è un adattamento dell’individuo alle cose o al corpo altrui, ma senza socializzazione dell’intelligenza come tale, mentre il pensiero concettuale è un pensiero collettivo, che obbedisce a regole comuni. Infatti, anche quando il lattante imita un atto intelligente eseguito da un’altra persona, non si può ancora parlare di uno scambio di pensieri che giunga a modificare la struttura di tali pensieri. Invece, a partire dal linguaggio, la socializzazione del pensiero si manifesta attraverso l’elaborazione dei concetti, delle relazioni e con la costituzione di regole, il che significa che c’è evoluzione strutturale. L’intelligenza giunge ai giudizi di constatazione in funzione della cooperazione con gli altri, poiché la constatazione implica una presentazione o uno scambio e non ha in sé significato per l’attività individuale.

Esiste interdipendenza tra la ricerca del vero e della socializzazione. Quando al piano senso-motorio si sovrappongono il linguaggio e il pensiero intellettuale, l’adattamento dell’intelligenza a queste nuove realtà trascina con sé il riapparire di tutte le difficoltà già superate nell’ambito dell’azione. Per questo, malgrado il livello raggiunto nel quinto e sesto stadio del suo sviluppo senso-motorio, essa non si presenta subito come razionale quando comincia ad organizzarsi sul piano verbale-concettuale. Il bambino non giunge subito a riflettere, con parole e con concetti, sulle operazioni che è già capace di eseguire con atti e non può riflettere su di esse perché, per adattarsi al piano collettivo e concettuale su cui da ora innanzi si muove il suo pensiero, è obbligato a rifare il lavoro di coordinamento tra l’assimilazione e l’accomodamento già compiuto nel suo precedente adattamento senso-motorio all’universo fisico e pratico. Il soggetto, sul piano dell’adattamento senso-motorio all’universo, pur subendo sin dall’inizio le costrizioni dell’ambiente, comincia col considerare le cose come dipendenti dalle sue azioni e giunge solo poco a poco a collocarsi in un insieme coerente e indipendente da lui; il bambino resta a lungo chiuso nel proprio punto di vista prima di collocarlo in mezzo agli altri. L’Io e il gruppo inizialmente sono dissociati in una mescolanza di egocentrismo e di sottomissione alle costrizioni ambientali, per differenziarsi in seguito e dar luogo ad una cooperazione di personalità diventate autonome.

Il pensiero, al suo apparire, è solo assimilazione del reale all’Io, con accomodamento al pensiero altrui, ma senza sintesi tra queste due tendenze e soltanto più tardi conquisterà l’unità razionale che concilia la propria prospettiva con la reciprocità: il pensiero egocentrico, infatti, tende alla soddisfazione e non all’obiettività. E questo lo ritroviamo in varie risposte dei bambini che dicono ciò che gli piace sentire o credere e non ciò che è tangibile.

Durante i primi stadi del pensiero individuale, del resto, si assiste ad una stupefacente docilità del bambino alle suggestioni e alle affermazioni altrui.

Col progredire dell’intelligenza che elabora oggetti e spazio tessendo un fitto reticolato di relazioni, il bambino attribuisce alle cose e alle persone un’attività autonoma e concepisce l’esistenza di relazioni causali indipendenti da lui, mentre il suo corpo diviene una fonte, tra le altre, di effetti integrati in questo sistema d’insieme.

Appena però il bambino è in grado di pensare e di prevedere lo svolgersi dei fenomeni e ad agire su di loro, ecco riapparire sul piano del pensiero l’egocentrismo che sembrava abolito. Sul piano pratico rimangono acquisite l’obiettivizzazione e la spazializzazione della causalità. Questo non gli impedisce di rappresentarsi l’universo come una grande macchina organizzata non si sa bene da chi, con l’aiuto delle persone grandi e in vista del benessere degli uomini e in particolare dei bambini. Per i bambini, gli adulti esistono per occuparsi di loro, gli animali per servirci, gli astri per riscaldarci e illuminarci, le piante per nutrirci, la pioggia per far crescere i giardini, ecc.

A questo artificialismo più o meno esplicito e coerente corrisponde, inoltre, un latente animismo che attribuisce ad ogni cosa la volontà di rappresentare la propria parte, la forza e la coscienza necessarie proprio per agire secondo le regole.

Così l’egocentrismo causale, che sul piano senso-motorio scompare a poco a poco sotto l’influsso della spazializzazione e dell’obiettivizzazione, ricompare all’epoca degli inizi del pensiero sotto una forma quasi altrettanto radicale. Il bambino non attribuisce più a se stesso la causalità propria degli altri o delle cose, ma incentra tutte queste attività intorno all’uomo e a se stesso.

Bisogna ora vedere come egli rappresenta il meccanismo delle relazioni causali. Infatti, il bambino rinuncia a considerare le sue azioni come la causa di ogni avvenimento, ma non giunge ancora a spiegare l’azione dei corpi se non che per mezzo di schemi ricavati dalla sua attività. Il vento che spinge o la luna che avanza gli appaiono dotati d’intenzionalità e di finalità perché non riesce a rappresentarsi un’azione senza uno scopo cosciente. La causalità può restare egocentrica dal punto di vista rappresentativo, nella misura in cui le prime concezioni causali sono ricavate dalla coscienza del tutto soggettiva dell’attività dell’Io. Comincia a farsi strada nel bambino l’idea di durata e di velocità; egli costruisce a livello di pensiero e non più solo d’azione, delle serie obiettive che collegano la durata interiore al tempo fisico e alla storia dello stesso universo esterno.

I PROBLEMI E I METODI

Due sono i problemi che ci si pone nello studio del bambino.

Possiede il bambino, come noi, la credenza in un mondo reale e la distingue dalle diverse finzioni del suo gioco e della sua immaginazione? Come dà spiegazioni il bambino?

La forma e il meccanismo del pensiero infantile si rivelano ogni volta che il fanciullo entra in contatto con i suoi simili e con l’adulto; il contenuto, invece, si manifesta o non si manifesta a seconda dei fanciulli e a seconda degli oggetti della rappresentazione. Per dare un giudizio sulla logica dei fanciulli spesso basta parlare con loro o anche solo osservarli quando sono insieme. Ma per dare un giudizio sulle loro credenze occorre un metodo particolare per intervistarli.

Il primo metodo che si è tentato di adoperare è quello dei test che consiste nel sottoporre il fanciullo a prove che soddisfino due condizioni: da una parte le domande restano identiche per tutti i soggetti e vengono poste sempre nelle stesse condizioni per garantire l’uniformità del campione; dall’altra le risposte dei soggetti sono riportate su una tabella o su una scala che permette di paragonarle qualitativamente o quantitativamente.

Questo metodo ha due inconvenienti: non permette un’analisi sufficiente dei risultati ottenuti e falsa l’orientamento mentale del fanciullo che si interroga, o per lo meno rischia di falsarlo. Il solo mezzo per evitare queste difficoltà è di variare le domande e alternare i suggerimenti, cioè rinunciare ad un questionario fisso. L’abilità del clinico consiste non nel far rispondere il soggetto, ma nel farlo parlare liberamente e scoprirne le tendenze spontanee. L’ideale è partire da qualche domanda spontanea fatta da fanciulli della medesima età o più giovani e applicare la stessa formulazione alle domande da porre ai fanciulli scelti come soggetti.

Tuttavia, la necessità dell’osservazione diretta pone anche ostacoli che ne limitano l’uso. Il metodo d’osservazione pura è faticoso e pare non possa garantire la qualità dei risultati se non a danno della quantità. E’ impossibile, infatti, osservare molti bambini nelle stesse condizioni.

Tra gli inconvenienti principali, l’egocentrismo intellettuale del fanciullo: può trovarsi in compagnia dei suoi coetanei e intento ai giochi e perciò non interessato alle domande. Oppure in compagnia di adulti tace le risposte perché crede che tutti le conoscano, oppure per pudore o paura di sbagliare. Anche ciò che potrebbe esternarsi in parole resta di solito implicito, semplicemente perché il pensiero del fanciullo non è socializzato come quello adulto. Inoltre, nell’osservazione pura è difficile distinguere nel fanciullo il gioco dalla credenza, dalla fabulazione.

Il metodo migliore è allora l’esame clinico che gli psichiatri usano come metodo di diagnosi. Il clinico può parlare col malato seguendone le risposte in modo da non perdere nessuna idea delirante. Può portare il malato a parlare di cose critiche, formulando nel contempo ipotesi, variando le condizioni e controllando ogni ipotesi in base alle reazioni provocate dalla conversazione. Il metodo clinico si impara solo a ttraverso una lunga pratica: lo sperimentatore deve riunire in sé due qualità spesso incompatibili; saper osservare, cioè lasciar parlare il fanciullo, senza perdere nulla e nello stesso tempo saper cercare qualcosa di preciso, avere in ogni momento qualche ipotesi di lavoro, qualche teoria da controllare. Lo psicologo deve ovviare alle incertezze del metodo degli interrogatori affinando la propria sensibilità interpretativa. Ci sono cinque metodi di reazioni osservabili all’esame clinico:

1- quando la domanda posta annoia il fanciullo egli risponde a caso senza cercare di divertirsi;

2- quando il bambino risponde alla domanda inventando una storia a cui non crede, parliamo di fabulazione;

3- quando il bambino cerca di accontentare l'esaminatore senza riflettere parliamo di credenza suggerita;

4- quando il bambino risponde con riflessione traendo la risposta dal proprio intimo, senza suggerimento esterno, ma la domanda è nuova per lui, parliamo di credenza provocata. Essa non è né spontanea né suggerita: è il prodotto di un ragionamento fatto su richiesta altrui, ma con materiali e strumenti logici originali.

5- quando il bambino non ha bisogno di ragionare per rispondere a una domanda, ma può dare una risposta pronta perché già formulata, parliamo di credenza spontanea.

Problematico è stabilire il limite tra credenze spontanee e credenze suscitate.

Non bisogna credere che la suggestione sia facile da evitare, soprattutto quando, continuando la conversazione, essa spinge il bambino a perseverare sulla via che ha adottato.

La credenza suggerita non ha alcun interesse per lo psicologo, infatti mentre la credenza provocata rivela abitudini mentali anteriori all’interrogatorio, la credenza suggerita non rivela che la suggestionabilità del fanciullo, la quale non ha nulla a che vedere con la rappresentazione del mondo. Inoltre, è desiderabile poter evitare la fabulazione con la quale i bambini inventano una soluzione al problema posto loro semplicemente perché gli piace.

Il significato esatto della fabulazione è difficile da precisare. Si può paragonare la fabulazione alla mistificazione adulta, oppure alla mitomania degli isterici o contenere residui di credenze anteriori o, più raramente, prodromi di credenze future.

Il bambino raramente sa tacere e preferisce inventare una risposta piuttosto che star zitto. Il bambino fabula quando si diverte.

La credenza suggerita è essenzialmente momentanea quindi bisogna continuare l’interrogatorio in profondità per vedere se ha o meno radici profonde. Bisogna inoltre verificare se la risposta che si sospetta fabula è presente o meno in più bimbi.

L’ORIGINE DEGLI ASTRI: LA RICERCA

Le domande in materia rivolte ai bambini dimostrano che il loro interesse è stimolato dai problemi relativi agli astri. Essi tendono a considerare gli astri fabbricati e a trovare una ragione per questo.

Distinguiamo a questo proposito vari stadi di progressione del pensiero infantile relativo alla formazione degli astri.

1° stadio

Gli astri sono fabbricati da Dio o da degli uomini. Il fanciullo comincia con l’accordare gli attributi caratteristici della divinità ai genitori, poi agli uomini in genere e infine, man mano che scopre i limiti della perfezione umana, a Dio di cui l’insegnamento religioso gli ha dato la nozione trasferendo a lui gli attributi che finisce per negare agli uomini.

2° e 3° stadio

I bambini arrivano a pensare che gli astri abbiano un’origine naturale e che risentano un po’ della cultura adulta.

 

I bambini da me intervistati erano intorno ai sei anni (l’età esatta verrà riportata tra pa rentesi accanto al nome) e sono stati interrogati circa l’origine degli astri, del vento o dell’acqua.

Come ho accennato sopra, l’idea era di confrontare le risposte date dai bambini "piagetiani" con quelle dei bambini di oggi, per verificare se esiste un’evoluzione nelle risposte.

Ho intervistato sia maschi che femmine e ho notato che le risposte non sono diverse tra sessi, anche se nel maschio le risposte sembrano essere più tecniche mentre nella femmina c’è un atteggiamento, spontaneo, di recitazione, come se la risposta fosse un racconto teatrale. Inoltre, ho voluto confrontare le risposte date a quest’età (indicativamente rientranti nel primo stadio di Piaget) con quelle date da bambini di sette anni e mezzo o otto anni (rientranti già nel secondo-terzo stadio piagetiano) per verificare se la scolarizzazione porta ad un’idea diversa sull’ origine degli astri. Riporterò solo alcune risposte, le più significative, date a quell’età perché differiscono di poco le une dalle altre.

Il bambino scolarizzato parla con maggiore cognizione di causa, sa cosa sono le nuvole o perché piove, spiega con tono pacato e normale, non con enfasi come il bambino più piccolo, dimostrando di avere bene interiorizzato le lezioni adulte, quelle dell’insegnante in modo particolare. Nel bambino di otto anni c’è già minore posto lasciato alla fantasia. Se gli si pongono domande nuove, alle cui risposte non ha ancora pensato, tace un attimo e pensa, cercando poi di dare una risposta plausibile, non fabulata, ma presumibilmente catalogabile come credenza provocata. Inoltre, c’è il ricorso frequente a una causalità divina sia nelle risposte date dal bimbo di sei anni, sia in quelle date a otto.

I bambini di cinque-sei anni di cui riferirò, frequentano un asilo comunale cittadino di indirizzo montessoriano. Alcuni di questi bambini seguono le lezioni di religione, altri no, ma entrambi quando gli si chiede l’origine degli astri dicono che sono stati creati da Dio. La differenza tra i bimbi dei due gruppi sostanzialmente è che il bambino che possiede un’educazione religiosa specifica riesce a spiegare (e forse a spiegarsi) meglio il perché c’è stata la creazione: parla con maggiore fluidità anche se a quest’età sembra ripetere solo discorsi già sentiti; dice che il mondo l’ha creato Dio, ma senza troppa convinzione, quasi la storia divina fosse una favola raccontata dai grandi e appunto perché una favola, da ripetere quasi a memoria senza averne percepito nella sua interezza il senso (problema del resto che i bambini non paiono porsi). I bambini citano Dio perché sanno di dire una cosa giusta e accettabile, ma temono che gli si chieda qualcosa di più perché non sanno cos’altro aggiungere. Talvolta risolvere la risposta con la parola ‘Dio’ è comodo perché pare che essa non ammetta altre repliche, che sia una risposta ricevuta dagli adulti per togliersi dall’imbarazzo di domande assillanti dei piccoli. Quando gli si chiede di descrivere Dio, gli si illuminano gli occhi: pensano un attimo e poi dicono ciò che sembra a loro, senza curarsi di rispondere giusto o sbagliato. Finalmente diventano spontanei sull’argomento e dimostrano di avere pensato talvolta a dare un volto e una figura a quest’essere invisibile. Sembrano pensare a Dio come ad un eroe buono e capace, in grado di fare ciò che nessuno, compresi i grandi, sa fare. Questo atteggiamento l’ho poi confrontato con quello dei bambini di seconda elementare frequentanti una scuola privata cattolica, in cui due ore settimanali sono dedicate allo studio religioso. Appunto per verificare se questo atteggiamento di fabulazione sull’esistenza di Dio permane ancora, anche in forma latente, anche dopo un’educazione sistematica sull’argomento. Effettivamente il bambino di otto anni è più preparato: risponde con sicurezza che il mondo l’ha creato Dio, che Dio vive in cielo e non si può vedere, ma dà la netta impressione di parlare di un essere tipo Babbo Natale. Si sa chi è, ma è bello credere che sia una favola. Il bambino comincia ad avere un’idea sempre più chiara di Dio, ma gli piace soprattutto di Lui l’idea che sappia fare tutto ciò che nessuno può, proprio come l’eroe delle favole o, meglio, l’eroe buono di film e cartoni animati. E’ un Dio in pratica ancora molto terreno e poco divino.

LE RISPOSTE

LUIGI (6;0)

- Cos’è la luna?

- Luna? E’ una cosa perché se c’è il sole al posto della luna non c’è il buio e se c’è il sole l’uomo non poteva addormentarsi.

Per Luigi la luna esiste perché serve all’uomo: serve a portare la notte e a creare il buio per fare dormire.

GIULIO (5;4)

- Cos’è la luna?

- Una cosa che fa il buio.

- Ci può essere il buio senza luna?

- C’è il sole.

- Perché la luna si chiama luna?

- Perché fa buio.

- Si poteva chiamare la luna con un altro nome?

- No.

FRANCESCA (5;11)

- Cos’è il sole?

Ride.

- Sembra una palla.

- E cosa fa?

- Fa luce.

- Se non si fosse chiamato sole come si sarebbe chiamato?

- No, non si può.

- Perché?

- Perché è fatto di palla, è bollente.

- Ma se l’avessero chiamato CASA come sarebbe stato?

- Non sarebbe stato rotondo.

GIULIO (5;4)

- Cos’è il sole?

- E’ una cosa rotonda con i raggi.

- Com’è cominciato il sole?

- Dal cielo, da Dio.

- Perché si chiama sole?

- Perché illumina tutto.

- E se non illuminasse ...?

- Luna.

Confrontiamo queste risposte con quelle date dai bimbi intervistati da Piaget.

JACOT (6;6)

- Com’è incominciato (il sole)?

- Col calore.

- Che calore?

- Del fuoco.

- Dov’era il fuoco?

- In cielo.

E ora confrontiamo queste risposte con quelle di Michela frequentante la seconda elementare.

MICHELA (7;9)

- Cos’è il sole?

- E’ una palla di fuoco.

- Com’è cominciato il sole?

- Dopo che Dio ha costruito tutta la terra.

- E’ stato Dio a fare il sole?

- Sì, ha creato anche questo pianeta.

- E chi l’ha chiamato ‘sole’?

- Dio.

- E Dio poteva dargli un altro nome?

- No, altrimenti ... altri nomi non sono adatti.

- Perché?

- Perché non ci stavano bene: sole è una cosa un po’ lucente: dà idea della luce. Se lo chiamavano pianta non dava l’idea.

- E il sole poteva essere freddo?

- No, non poteva riscaldare la terra.

- A cosa serve il sole?

- Serve a vedere e per farci un po’ di caldo.

- Ma se non ci fossero stati gli uomini, il sole ci sarebbe stato lo stesso?

- No, ... sì, altrimenti non potevano crescere le piante.

Si notano immediatamente le differenze tra i bambini italiani. Ciò che risulta interessante, però, è che se c’è un certo parallelismo tra le risposte dei bambini svizzeri di Piaget e quelli italiani intervistati oggi, le età sono molto diverse. Passano al 2°-3° stadio di Piaget i bimbi svizzeri di nove-undici anni, mentre oggi l’età è molto abbassata, dai sei agli otto anni.

Per non parlare degli stili di vita diversi che portano Luigi a dare queste risposte:

- Com’è cominciato il sole?

- Non lo so.

- E’ sempre stato in quel posto?

- No, va anche dagli altri Paesi.

- Come ci va?

- Fa un viaggio con una macchina! (Ha il tono di chi dice una cosa ovvia ad un adulto che non sa niente. C’è un certo grado di animismo, in queste risposte: il sole è come un umano e come tale sembra comportarsi).

- Tu l’hai vista?

- Sì.

- Dov’è la macchina del sole?

- Nel cielo.

- Come fa ad andare?

- Col motore.

- Il sole ci sale sopra?

- Sì.

- Come fa?

- Apre la portiera e va.

- Quando tu guardi in cielo la vedi la macchina?

- Sì, un sacco di volte.

- Com’è fatto il sole?

- Rotondo.

- Di che cosa è fatto?

- Booh ... di fuoco!

- Brucia?

- Sì.

- Anche noi?

- No.

- Perché?

- Perché non lo tocchiamo.

- Si muove il sole?

- Sì.

- Come fa?

- Con la macchina.

- Se tu cammini, lui ti segue?

- Sì.

- Segue solo te o anche gli altri?

- Anche gli altri.

- Come fa a seguirli tutti?

- Ci sono mille soli.

- E perché non ne vediamo mille in cielo?

- Perché seguono gli altri.

Le risposte date da Luigi, il tono con cui le dava, dimostrano che aveva già pensato qualcosa circa i fenomeni da lui osservati. Si era già chiesto perché c’era il sole e poi la luna o perché il sole lo seguiva quando lui si muoveva. I bambini di Piaget non avrebbero forse mai pensato al sole in automobile.

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