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OCCHIO

LA STORIA DEL GATTO CON GLI OCCHIALI

 

E’ la prima volta che mi decido a raccontare la storia della mia vita. E perché, chiederete voi. Chi ti conosce, chi pensi sia interessato a te, a sapere chi sei e come vivi. Già, lo so. E, credetemi, non pecco di presunzione dicendo che è importante che voi sappiate la mia storia. Perché io sono un diretto discendente del braccio destro del Marchese di Carabattole, quel gatto lesto e furbo che ha costituito una fortuna per sé e per il suo padrone. Il mio illustre antenato, gatto comune come me, ha piano piano creato un impero, compresa una casa di accoglienza per gatti randagi. Era molto temuto e stimato, soprattutto da quei contadini che aveva costretto a dire che lavoravano per il Marchese di Carabattole, inesistente. Per premiarli fece in modo che ognuno di loro, a patto che continuasse a lavorare per il suo padrone, avesse una paga fissa e una casa confortevole in cui vivere. Da quando diventò il fattore di molte terre, la carestia divenne una parola fuori dal vocabolario e tutto filò per il meglio. Una volta morto il famoso Gatto con gli Stivali, però, le vicissitudini familiari non furono più baciate dalla fortuna allo stesso modo. Ben presto, nell’arco di tre generazioni di gatti (il mio antenato ebbe due micetti da una gatta molto bella e nobile appartenente alla corte della moglie del suo padrone) la fortuna cominciò a diminuire. Nessuno, infatti, aveva l’abilità del nonno; nessuno imparò più a parlare la lingua umana come lui, che lo fece spinto da assoluto bisogno. E così, spinti da lotte familiari, da gelosie, da ritorsioni di gruppi di gatti nobili che si erano visti preferire dei gatti comuni a loro dal pelo lungo e folto, alcuni gatti della famiglia emigrarono. E quello che diventerà mio bisnonno se ne andò tutto solo, un vecchio libro con scritta la storia del Gatto con gli Stivali nella cintura di pelle, unico simbolo, ormai, del casato ricco d’iniziativa di quel favoloso gatto. Arrivò a Brescia in un momento difficile. La città bruciava in alcuni punti, le strade erano intasate da barricate e sacchi, legname, mobili, sporcizia; gli umani urlavano, di tanto in tanto si sentivano spari. Per un gatto il fuoco è spaventoso: il pelo lascia nell’aria della fuga mille scintille e fili di fumo mentre il balzo da un riparo all’altro impedisce che s’incendi del tutto. L’odore di bruciato è fastidioso, soprattutto quando si mescola all’impossibilità di trovare qualcosa da mangiare nella confusione degli uomini che combattono una guerra di ideali di certo meno interessanti di quelli che servono a riempire la pancia ogni sera. E la pancia di un gatto non è difficile da riempire. Pensate quando non c’è niente neanche per quella. Unica fortuna sono i topi che scappano terrorizzati dalle case in fiamme e che si lasciano facilmente intrappolare se la fame batte la fuga almeno di un punto. Il mio antenato si rese conto che le sue sette o nove vite a seconda di come la pensano i bipedi, non sarebbero bastate a sopravvivere a Brescia se non fosse stato per l’eredità di furbizia che si risvegliò in lui all’improvviso grazie al patrimonio lasciatogli dal Gatto con gli Stivali. Saltando da una barricata all’altra arrivò in centro città mentre gli scontri tra gli esseri umani diventavano agguerriti. Raggiunse quella che viene chiamata la Pallata e si rintanò in uno scantinato dove alloggiò a lungo, ospite di un salumiere al quale salvò la vita. Gli stavano sparando alla schiena quando il mio illustre nonno gridò: "Attento" dandogli il tempo di girarsi, accoppare il nemico e mettersi in salvo. L’uomo non capì da chi era provenuto il grido e pensò a come poter fare per ringraziare quell’anonimo salvatore. Il gatto, che era riuscito a mettere in salvo il libro delle memorie di famiglia e il cinturone, non esitò a presentarsi come il garzone del Principe di Carabattole, ovviamente inesistente, anche se gli sembrò naturale ingigantire il titolo onorifico. Il salumiere si spaventò, pensando di trovarsi di fronte ad un nobile venduto alla parte avversa, ma si ricredette in fretta. Quel gatto, che dichiarò il suo padrone morto assassinato all’ingresso della città assediata dalle truppe nemiche, si rivelò capace di ogni meraviglia. Faceva aumentare il numero dei clienti, cacciava i topi lontano dalle salamine e dal formaggio, intavolava qualsiasi tipo di discorso e ben presto il semplice salumiere diventò padrone di varie botteghe del centro, ricco e stimato da tutti. Da quel gatto discenderono numerosi felini domestici di prestigio: uno si accoppiò con una gatta parigina, uno con una gatta austriaca, uno con una gatta ligure, uno decise che aveva abbastanza gatti intorno per avere dei mici anche lui. Una dinastia che prevedeva semp re un gran numero di maschi. I Carabattole, come venivano chiamati questi gatti che presero a girare per corti, per cortili e per cortigiane, divennero famosi in città, tanto che il re sabaudo ne volle uno personale. La storia della mia famiglia cominciò a diventare una saga, tra le guerre umane e le vicissitudini proprie. Non andava sempre tutto a gonfie vele, infatti. Durante la prima guerra mondiale la mia famiglia venne praticamente sterminata dagli umani che non si adattavano a mangiare i topi come noi quando non ci sono i croccantini del supermercato; durante la seconda, il mio bisnonno venne portato da quelli che venivano chiamati partigiani in montagna, chiuso in una bisaccia; suo fratello venne portato in Germania da un soldato che riuscì a salvarsi la vita e l’altro fratello si ruppe una zampa cadendo in una buca causata da una bomba. Non tutto fila sempre liscio. Tuttavia sono orgoglioso di essere un discendente di una nobile razza di gatti, tutti rigorosamente senza pedigree, molti dal muso comune, ma tutti speciali. Nel mio piccolo, per essere degno della fama mondiale del mio antenato Gatto con gli Stivali, ho deciso di essere come quel gatto che si vede nelle fotografie, in qualche manifesto, sulle cartoline. Non che abbia inventato niente di speciale, ma sono il primo Gatto con gli Occhiali della città. Certo, molti hanno cercato di mettere gli occhiali ai gatti per scherzo o, appunto, per delle fotografie. Io li porto sul serio gli occhiali e niente è più stato come prima da quel giorno.

Tutto è iniziato quando mio padre mi avvisò che aveva sentore che qualcosa sarebbe successo nella casa sopra la comoda cantina che ci ospitava tra ceste e scatole. Rumori pesanti di mezzi di ferro ci scuotevano il sonno del mattino e il pisolino del pomeriggio, dopo il lauto pranzo garantito da una padrona simpatica malgrado i mille gridolini che tutte le volte ci metteva nelle orecchie quando veniva a cercarci. Era tutto un tremore e un polverone finché non arrivò lei. Io ero appena capace di scavalcare i muretti con un balzo quando vidi una chioma bionda che si aggirava per la polvere. Ecco, io avrei voluto quella padrona, invece della signora grassoccia simpatica e anziana che ci accudiva da anni. La spiavo, la mia segreta conquista, ogni volta che ne avevo l’occasione e, appena potevo, la seguivo per i vicoli della città. Quando si fermava a fare compere, quando s’intrufolava per un portone dal quale non usciva per ore, quando partiva con un’automobile e mi lasciava per la strada a muso triste, orfano di un’immagine della quale mi ero pazzamente innamorato. Finché un giorno arrivarono dei mobili, dei vetri, e tante tante scatole dove andavo a nascondermi per giocare con i miei fratelli, ma anche per stare vicino a lei. Avevano riempito tutto il posto rimesso a lucido di oggetti che non conoscevo da vicino. Riuscii ad entrare nel locale dietro i piedi di un giovanotto e a saltare su un mobile per vedere meglio che cosa aveva portato la mia innamorata. E lei, senza pietà, mi prese a sculacciate e mi cacciò fuori da quello che ho imparato gli umani chiamano ‘negozio’ con una serie di "Brutto gattaccio" che mi ferirono nel profondo. Non sono affatto brutto: il mio pelo grigio sfumato di bianco e di nero con qualche rado pelo rossiccio ereditato da una nonna, mi rende uno dei gatti più belli del quartiere. Un gatto che, anche avendo una cantina e una donna che mi dà da mangiare, i bipedi chiamano ‘randagio’ perché non sto sempre in una vera casa. Vivo a poche decine di metri dalla casa del primo gatto della famiglia che si trasferì a Brescia, quello che vide i problemi felini delle Dieci Giornate e che era sul palco dei vittoriosi cittadini combattenti quando (e solo lui poteva bearsi di vero e profondo orgoglio) tutti chiamavano la città ‘Leonessa’. I felini ebbero un grande rappresentante da quel momento e tutti i disseminati parenti, anche coloro che erano rimasti nelle terre del Gatto con gli Stivali, invidiavano questa appartenenza, seconda solo al grosso leone di San Marco. E quell’umana mi chiamava "Brutto gattaccio" senza pietà! Comunque durò poco. A forza di trovare il mio muso appiccicato alle vetrine degli ‘occhiali’ si abituò a me, tanto che cominciò a mettermi una ciotola di latte accanto alla porta ogni volta che era lì. Io ne ero sempre più innamorato e mia mamma cominciava a preoccuparsi. "Non puoi amare un’umana" diceva "tu sei un gatto e devi stare con i tuoi simili." Ma io non sentivo ragione. E la cosa più buffa era che più lei mi parlava quando entravo in negozio a bere il latte, più io capivo di sapere parlare la sua lingua, proprio come il mio antenato dagli stivali. E così, dapprima stupita, poi ammaliata da un potere che sapeva appartenere a pochi, anche l’umana capì la mia straordinaria d ote e di potere comunicare con me. Diventammo amici e, invece di chiamarmi "Brutto gattaccio" cominciò a chiamarmi Occhio, il suo terzo occhio, diceva. Io presi una posizione comodissima in una cesta in vetrina (i passanti credevano che fossi finto) dove sonnecchiavo osservando i bambini che entravano a provarsi occhiali colorati, piccoli grandi di ogni tipo. Mi stancai ben presto di quella comoda vita. Sì, è vero, non era male, ma io ero il lontano nipote del Gatto con gli Stivali, di gatti che avevano combattuto per la loro libertà in varie guerre a fianco o contro gli umani. E io ero, invece, schiavo di una bipede bionda e di una ciotola di latte! Un giorno la donna grassottina e simpatica che si occupava degli altri componenti della mia famiglia, entrò nel negozio per comperare un paio di occhiali e, vedendomi, chiese: "Lo tiene qui lei? Mi fa piacere, è il più bel gatto della famiglia!" e la cosa riuscì a distogliermi dal mio riposino per alcuni minuti. Eppure non ero ancora felice. Avevo l’umana dei miei sogni, ma nessun alloro al mio attivo e dovevo conquistarmene almeno uno prima di diventare un comune ‘gatto da salotto’, come veniamo definiti di tanto in tanto. Finché non mi affascinai davanti ad una scatola con una luce che si accendeva e si spegneva e che, quando era accesa, si muoveva di qua e di là davanti agli occhi attoniti degli umani che la guardavano. Provai anch’io a vedere qualcosa in quella scatola, ma i segni non li capivo. Allora guardai un cartello che al posto dei segni aveva dei succulenti pesci, grandi e piccoli, quasi in scala. Quel posto mi piaceva sempre di più, a parte la finta umana, una bambola, che la mia innamorata mi mise accanto alla cesta un giorno. Pessimo gusto. Non si capiva chi dei due fosse vero. Un giorno un cucciolo umano chiese: "Perché quel gatto non ha gli occhiali come la bambola?" e io non ci trovai niente da ridere. "Perché è un gatto vero" gli risposero. Io mi aspettavo che la dispettosa vocina dicesse: "Ma i gatti veri non stanno in vetrina!" e anche se non lo fece, io lo sentii lo stesso. Dovevo riscattarmi. E il mio giorno non si fece attendere. Un pomeriggio, poco dopo l’orario di apertura, quattro individui si fermarono a lungo davanti alla vetrina per osservare la merce esposta. Io sonnecchiavo con un solo occhio, come spesso fanno i gatti, e non li perdevo di vista. Mi era abituato ad interessarmi agli umani, ai loro vestiti, a come si potevano abbinare i colori degli occhiali al colore dei capelli, ma quelli non avevano niente da abbinare a qualcosa. Due entrarono in negozio con aria indifferente, mentre i due rimasti fuori presero a guardarsi intorno con circospezione, controllando la situazione. Io capii le parole: "Ci dia i soldi della cassa" mentre qualcosa di minaccioso spuntava dalla mano di uno di loro e l’altro arraffava delle montature da mettere in un sacco. Il mio pelo si fece ritto sulla schiena, fiutavo il pericolo. Qualcosa stava accadendo proprio lì e io non potevo non essere pronto a prendere l’occasione della mia vita. "Stai tranquilla" dissi alla mia ospite e lei capì che poteva contare sul mio aiuto. I loschi si guardarono intorno, non sapendo da dove veniva la voce, e dissero: "Non bluffare, sappiamo che sei sola!"

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