SHERMAN ALEXIE: INDIANO MODERNO
di F. Pivano
Un giorno chiacchierando con il nostro eroe dell'operazione Mani Pulite
gli ho detto con entusiasmo: " Tu sei il nostro John Wayne arrivato su
un cavallo bianco a cacciare i ladri di cavalli " .
Lui si è rabbuiato e dopo un breve silenzio ha detto: " A me quel John
Wayne che andava in giro ad ammazzare gli indiani non è mica tanto simpatico
".
John Wayne non è simpatico neanche agli indiani.
Ne parlavamo sere fa, 1996, con Sherman Alexie, ventinove anni, sei fratelli,
già autore di sei libri di poesia, una raccolta di racconti e il romanzo
Reservation Blues ( 1995 ), con un nuovo romanzo in preparazione, considerato
lo scrittore del futuro indiano e certo tale da entrare nei prossimi anni
nella rosa dei loro classici ( N. Scott Momaday, Leslie Silko, James Welch
), sposato da due anni con Diane Tomhave della tribù Hidatsa sei anni
maggiore di lui e con lei residente a Seattle; scrive dieci o dodici ore
al giorno o non scrive affatto, gli piacciono le canzoni folk, è appassionato
giocatore ( non solo spettatore ) di pallacanestro, è capitano nella squadra
locale, e gioca come se danzasse: il basket, già in uso tra gli antichi
maya che uccidevano chi perdeva, è con l'alcool e la sterizzazione abusiva
( che è stata praticata a due zie dell'autore ) un'ossessione ricorrente
negli scritti di Alexie.
Quella sera che l'ho incontrato c'era con lui un altro indiano, uno sioux,
amico di Mario Meli specialista in cultura indiana: risiede spesso in
Italia per svolgere attività propagandistica in favore dei problemi della
sua tribù.
Entrambi, lui e Alexie, avevano capelli nerissimi e lisci lunghi fino
alle spalle, le facce grassocce coi denti bianchissimi, i movimenti lenti
tra il diffidente e il sornione.
Non parlavano della loro gloria passata; rispondevano con humour duro
a chi parlava delle penne che segnavano il grado dei loro bisavoli capi
guerrieri.
Non mostravano indignazione, neanche rimpianto, solo stanchezza e molta
ironia: il genocidio che ha distrutto la loro antichissima civiltà pareva
non li riguardasse, non erano neanche invidiosi che tante lacrime si versassero
sull'Olocausto ebraico e così poco sul loro.
Dicevano che era più facile sopportare la perdita della loro lingua, i
massacri di massa, l'espropriazione delle loro terre, di quanto lo fosse
subire i piccoli insulti, l'ostilità degli sconosciuti, le cameriere che
al bar si rifiutavano di servirli.
Parlavano in inglese: ho avuto l'ingenuità di chiedere come mai non parlassero
indiano, si sono messi a ridere.
" Gli indiani appartengono a cinquecento tribù, ciascuna con una sua lingua
", ha detto Alexie. " La tribù più numerosa è quella dei Navajo: sono
duemilaseicento. Gli indiani sono più complessi di quanto pensiate voi
bianchi: sono cittadini del mondo.
Una delle nostre donne aveva predetto che sarebbero arrivati gli uomini
bianchi, ma anche che se ne sarebbero andati ".
Ora gli indiani sono debilitati dall'alcolismo e dalla disperazione, endemici.
La violenza provocherebbe solo altra violenza: l'unica guerra che possono
fare è quella dei videogame, dice Alexie.
Devono agire sulle coscienze per rendersi visibili agli occhi dei bianchi;
dovrebbero avere migliori scuole e università, dovrebbero imparare a vivere
con lo stile dei bianchi.
" Molti indiani sono morti in Vietnam per l'America ", ha detto Alexie,
ma io non mi sento americano: la mia patria è la Terra, i suoi alberi,
i suoi fiumi, le sue montagne. Io sono uno Spokane-Coeur d'Alène ".
Non c'è dubbio che Alexie ha ragione: mi ha fatto ricordare una scuola
del Nuovo Messico, tanti anni fa, dove avevano esposto i disegni dei bambini
indiani. Molti disegni erano già una squallida imitazione dei modelli
di Walt Disney, ma alcuni mostravano enormi soli rossi, sgargianti alberi
verdi, aggressivi fiumi turchesi.
Le orgogliose reazioni di Alexie si leggono ora tra le righe del suo romanzo
Reservation Blues ( me lo ha dedicato con la parola " PACE " ).
Sherman Alexie è uno pseudonimo, ma lo scrittore non vuole usare il suo
nome indiano.
Fa parte della tribù Spokane-Coeur D'Alène ed è cresciuto a Wellpinit,
Washington, nella riserva Spokane.
E' nato all'ospedale Sacred Heart, è cattolico, suo padre fa lavori saltuari,
per esempio come taxista, la madre è assistente sociale.
" Eravamo poveri, dipendenti dai sussidi del governo.
Eravamo borghesi ma per lo standard americano eravamo poveri.
Il primo gabinetto in casa l'ho visto a sette anni: prima dovevamo andare
fuori, all'aperto ".
Gli abbiamo chiesto dei suoi studi. " Ho frequentato la scuola tribale
della riserva e il liceo Reardan, ma erano pessimi.
Poi sono andato all'università Gonzaga dei gesuiti a Spokane, ma mi sono
stancato dei gesuiti, erano troppo protettivi, così sono andato a una
scuola pubblica, alla Washington State University a Pullman e lì mi sono
laureato in studi americani, cioè storia e letteratura americana. Mentre
ero nel college ho pubblicato duecento poesie ".
Mi sono vergognata come se fosse colpa mia al pensiero che gli eredi spodestati
delle loro terre non avessero neanche scuole degne della loro storia e
dovessero andare a cercarle fuori della riserva. Gli ho chiesto come avesse
cominciato a scrivere poesie.
" Volevo fare il medico, ma sono svenuto tre volte davanti ai cadaveri.
Poi ho pensato di fare l'avvocato, ma i programmi erano troppo pesanti.
Allora sono andato a un workshop di poesia e ho letto un'antologia di
poeti americani; ma nessuno mi ha fatto vedere un libro indiano: il primo
l'ho visto a ventidue anni. Poi sono entrato in un programma internazionale
come segretario, ma intanto mandavo in giro le mie poesie, e me ne hanno
subito pubblicato una raccolta ".
Gli ho chiesto quali erano i suoi " autori " preferiti. Senza esitazione
ha risposto: " Walt Whitman. E poi John Steinbeck, sì, perché racconta
storie picaresche, ma soprattutto perché non parla dell'alta borghesia.
Non posso sopportare i libri di costume, come Henry James, o The Great
Gatsby ( F.S. Fitzgerald 1925 ). Di Hemingway mi piacciono i racconti.
Mi piace Leslie Silko. " Anche Sherman Alexie è stato " scoperto " da
Jay McInerney che l'ha presentato già nel 1994 sulla rivista Panta di
Bompiani come " promessa " degli anni Novanta, con Mark Leyner e David
Foster Wallace; il suo primo libro è stato una raccolta di cinque poesie,
uscita nel 1992 col titolo The Business of Fancydancing. Ora Alexie sta
scrivendo un altro romanzo, Indian Killer ( dove un maschio bianco da
vittima diventa un killer ); ma è venuto in Italia a presentare il suo
Reservation Blues, una picaresca storia agrodolce inventata, però cosparsa
di lievi annotazioni autobiografiche, intrisa non tanto di leggende classiche
quanto della fiducia nella magia e negli interventi magici che hanno tanta
parte nella letteratura e nella fantasia indiane: il libro è un racconto
lirico con echi magici ma anche realisti, pieno di incantesimi ma esatto
nel descrivere la vita indiana moderna. In questo libro Alexie ha immaginato
che in un miscuglio di sogni del passato resi assurdi dalla realtà del
presente ( la sua tribù viveva di pesca al salmone e le hanno bloccato
i fiumi con grosse dighe per impedirle di pescare ) si svolgesse un racconto
lirico e insieme comico.
In una sonnolenta riserva arriva uno straniero ( il leggendario cantante
di blues Robert Johnson, assassinato nella realtà il 16 agosto 1938, resuscitato
in questa favola con la sua chitarra ) che racconta di aver venduto l'anima
al Gentiluomo ( cioè il diavolo ), il quale " penetra nelle corde " della
chitarra. Lo straniero sta cercando una vecchia che vide su una collina,
l'unica in grado di scioglierlo dal suo patto, e il protagonista del libro,
Thomas, lo accompagna ai piedi della collina dove vive la magica Grande
Mamma ( " Quella è mia nonna ", ha detto Alexie ridendo ).
Lo straniero comincia a scalare rapidamente la collina e abbandona la
chitarra. Thomas si accorge che la chitarra suona da sola e sa parlare
come un essere umano; decide di fondare un gruppo di blues con due amici
e lo chiama Coyote Springs. Il gruppo comincia a suonare nei club e nei
bar e ha molto successo. Non è nella trama che il libro rivela le sue
straordinarie qualità, ma in queste irresistibili azioni magiche narrate
con toni realistici e inframmezzate da immagini comiche e descrizioni
liriche.
E' un libro tecnicamente interessante, dove l'assurdo viene sfumato nella
realtà di " quelle case governative costruite dal dipartimento dell'edilizia
" la casa dove vive il protagonista non è mai stata ultimata e le condutture
dell'acqua gelano ogni inverno ( da bambino Thomas dormiva nello scantinato
non finito, con una coperta a fare da parete e una da letto ). Nel parlare
delle tradizioni e delle speranze indiane o nell'alludere alla disperazione
dei superstiti, quando le mette a confronto con la doppiezza dei bianchi
( " I sogni sono falliti, con le prevedibili lacrime ", dice Alexie )
lo humour e il sarcasmo dello scrittore diventano particolarmente taglienti;
proprio come avviene nella raccolta di ventidue racconti Lone Ranger and
Tonto Firstfight in Heaven ( Lone Ranger fa a pugni in paradiso, 1983
), dove si muovono gli stessi personaggi di Reservation Blues, e dove
tutti i giovani indiani sognano di fuggire dalla povertà e dall'umiliazione
- la disperazione - della riserva: sono racconti lirici e spesso comici,
in un tono di divertita tolleranza ma anche di rabbia repressa e soprattutto
di ironia. In entrambi i libri l'unico valore morale superstite è il perdono,
raggiunto attraverso la capacità di giudicare e insieme di amare.
Articolo apparso sul " Corriere della Sera " ( 25 aprile 1996 )
tratto da " Viaggio americano " di Fernanda Pivano - Ed. Bompiani