Antonio Montanari
1. Nel Tempio, un tempo nuovo
2. Umanesimo malatestiano. La Cappella delle Arti liberali

Le Arti liberali. Indice 2019


1. Nel Tempio, un tempo nuovo
Nel Tempio malatestiano di Rimini s'incontra una lezione di assoluta novità, all'interno della Cappella delle Arti liberali, che andrebbe analizzata e studiata seguendo la spiegazione di Cesare Vasoli che, nel 1986 ("La Storia: i grandi problemi dal Medioevo alla età contemporanea"), osservava come nel contesto della cultura umanistica si realizzi tra 1400 e 1500 una "meditata ricerca di nuovi strumenti, tecniche e metodi intellettuali", per la formazione dell'uomo che potesse dominare la realtà e trasformare i modi di pensare.
La definizione di "arti liberali" si deve a Pietro Paolo Vergerio detto "il Vecchio" (1369-1444), autore (nel 1402-1403) di quello che viene definito il primo trattato umanistico di pedagogia, "De ingenuis moribus", apparso a stampa nel 1502.
La prof. Antonella Cagnolati, nel saggio "L'eredità dell'Umanesimo. Pier Paolo Vergerio e le sue teorie educative", apparso sulla "Rivista di Storia dell'Educazione" (2016), ne ha scritto così:
"La sua opera pone in rilievo i doveri sia della famiglia che del precettore nel plasmare il carattere degli adolescenti e, al contempo, disegna un curriculum educativo moderno ed efficace che sarà ripreso dagli umanisti dell’epoca successiva, convertendosi così in un modello pedagogico da imitare". [...] "Cardine e perno dell'intero percorso sono la filosofia e la storia, considerate come basi per ogni successiva formazione di "uomini liberi" [...]". Poi viene "il disegno, che ha la capacità di affinare il senso estetico e l'arte del giudizio su ciò che reputiamo bello, seguito poi dalla retorica che serve per "l'eloquenza elaborata. Un ruolo precipuo spetta quindi alla musica, arte così singolare che riesce a "governare a norma di ragione i moti dell'anima": la sua struttura è tale che, operando sulle proporzioni dalle quali scaturiscono le armonie, può essere correlata alla scienza dei numeri come l'aritmetica, e delle grandezze come la geometria. Ancora due ambiti vengono inseriti nel progetto educativo: l'astronomia, che indaga sui moti delle stelle e dei pianeti, scienza di mirabile bellezza in grado di scoprire le meraviglie del cosmo, e la fisica, attraverso la quale possiamo conoscere «i principi e il mutare delle cose naturali, animate e inanimate, e di quanto è contenuto nel cielo e nel mondo, le cause e gli effetti dei moti e dei mutamenti». Nella riflessione di Vergerio tale coacervo di discipline assume lo scopo di permettere al discente di comprendere per quale di esse sia più portato, al fine di applicarsi con il proprio ingegno solo a ciò che risulta maggiormente adatto alle predisposizioni innate di ciascuno, selezionando opportunamente e dedicandosi ad uno studio analitico e preciso, non onnicomprensivo ed eclettico".

A proposito di arti liberali, è interessante ricordare un passaggio dall'epistola LXXXXV di Seneca, in cui parlando di quella precettistica che aiuta a raggiungere "una perfetta saggezza", egli scrive: "Tutto lo studio è cessato. I maestri delle liberali arti si seguono soli senza compagnia di discepoli nelle scuole" (cfr. p. 217, "Volgarizzamenti classici di Lucio Anneo Seneca", Brescia 1823; p. 301 ed. fiorentina 1717; p. 408 dell'ed. di Palermo 1817, presso G. Assenzio]
In poche parole, la crisi politica del suo tempo era anche frutto del disinteresse culturale che lasciava i "maestri delle liberali arti" senza allievi. Questa lezione di Seneca ritorna alla mente degli intellettuali come Vergerio, aprendo una prospettiva umanistica che troviamo proiettata anche nel Tempio malatestiano di Rimini.
"Vergerio fu lettore e ammiratore del filosofo latino: postille di sua mano si trovano in un codice contenente opere di Seneca (anche spurie), una Vita Senecae gli viene attribuita, nell'Epistolario ricorrono frequentemente il nome di Seneca e citazioni delle sue opere", leggiamo nella tesi di laurea di Alessandra Favero, disponibile sul web, intitolata «Sul "De ingenuis moribus et liberalibus studiis adulescentiae" di Pier Paolo Vergerio il Vecchio. Circolazione, ricezione e interpretazione di una raccolta pedagogica umanistica» (2014).
Gli umanisti riprendono appunto l'ideale dell'humanitas, e delle arti liberali, di «quegli studi - come spiegava il Vergerio († 1444) - degni di un uomo libero, per i quali si ricevono o si esercitano la virtù e la sapienza, lo spirito e il corpo sono indirizzati a nobili cose, e possono essere conseguiti onore e gloria, che, dopo la virtù, sono, per il saggio, i premi più alti; quando invece, per le nature volgari, i soli stimoli all'agire sono il lucro e il piacere» (L. Mezzetti).
L'ideale dell'umanesimo ridiventava così quello di una cultura completa e disinteressata.
Per la figura di Vergerio come pedagogista, si veda l’interessante studio "Pedagogia e Corte nel Rinascimento Italiano ed Europeo" di Michele Rossi (University of Pennsylvania).

Ripropongo qui sotto una mia pagina sul tema, dove osservavo:
Trionfa l'assunto di Coluccio Salutati per il quale gli «studia humanitatis» sono uno strumento per formarsi quali diffusori delle «virtù civili».
E s'intravede il motto albertiano per cui «tiene giogo la fortuna solo a chi gli si sottomette».
In questa "immagine" riminese si raccoglie e sviluppa quella che Eugenio Garin ha chiamato «la conquista dell'antico come senso della Storia», con gli elementi tipici del «primo Umanesimo» che fu esaltazione della vita civile non ancora dominata dalle Signorie.
Alla pagina originale del 2018: La cappella delle Arti liberali nel Tempio

ARCHIVIO
Riministoria. La storia dei Malatesti e Rimini
Tre libri sui Malatesti, 1991 ["il Ponte" n. 7, 1991]
I Malatesti [2001]



2. Umanesimo malatestiano. La Cappella delle Arti liberali.

Rilettura della Cappella delle Arti liberali. 1.
La cappella del Tempio malatestiano detta delle sette Arti liberali, presenta le materie di studio per gli uomini liberi (ai servi toccavano le arti manuali).
Essa va "letta" con alcune precauzioni di metodo.
Le materie sono Grammatica, Dialettica, Retorica (il "Trivio"), Aritmetica, Geometria, Musica, Astronomia (il "Quadrivio").
Nella cappella le immagini sono però diciotto. Per questo motivo uno studioso come Corrado Ricci scrisse che in essa vi è "altro ancora", con un'incerta espressione simbolica delle figure.
Noi proponiamo una veloce lettura delle diciotto immagini suddivise nelle due colonne laterali ed in tre strisce per colonna, partendo dall'alto verso il basso per ogni striscia che indichiamo con lettera dell'alfabeto.
Striscia A: la Natura ispira l'Educazione che opera attraverso la Filosofia.
Strisce B e C, le materie di studio: Letteratura, Storia, Retorica (Arte del discorso), Metafisica (o Teologia), Fisica, Musica.
Nelle due strisce successive (D, E), si mostra come conoscere la Natura attraverso le Scienze che sono: Geografia, Astronomia, Logica, Matematica, Mitologia e Botanica.
L'ultima striscia (F) rivela lo scopo della Cultura, ovvero educare ad una vita tra cittadini tutti uguali e quindi liberi: qui le tre immagini rappresentano la Concordia, la Città giusta, e la Scuola.
Il tema della Concordia ha una doppia lettura. Esso riguarda non soltanto la vita della città (opponendosi ai governi dei prìncipi come Sigismondo), ma pure l'Unione fra le due Chiese (proclamata il 6.7.1439 con un decreto destinato a breve durata). Per quella unione i Malatesti hanno svolto un grande ruolo in nome della Chiesa.
Nella tavola della Concordia si raffigura un'unione matrimoniale: la donna potrebbe essere Cleofe Malatesti, scelta dal papa come sposa (1421) di Teodoro, figlio dell'imperatore di Costantinopoli, e poi finita uccisa.
In quest'ultima striscia (F) con la Concordia, la Città giusta, e la Scuola, si dimostra che le «arti liberali» rendono possibile la conquista della libertà come situazione in cui poter realizzare un'armonica convivenza fra gli uomini, e potersi affermare nella società secondo quanto insegnato da Leonardo Bruni con il suo «umanesimo civile».
Le arti liberali inoltre sono ritenute uno strumento per realizzare un'età nuova attraverso lo studio delle «humanae litterae», alle quali Poggio Bracciolini attribuisce un valore formativo umano e civile, considerando i classici come maestri di virtù civili.
Vale la lezione petrarchesca della ricerca della «sapientia» che era stata rivolta a far risorgere la «misera Italia».
Trionfa l'assunto di Coluccio Salutati per il quale gli «studia humanitatis» sono uno strumento per formarsi quali diffusori delle «virtù civili».

E s'intravede il motto albertiano per cui «tiene giogo la fortuna solo a chi gli si sottomette».
In questa "immagine" riminese si raccoglie e sviluppa quella che Eugenio Garin ha chiamato «la conquista dell'antico come senso della Storia», con gli elementi tipici del «primo Umanesimo» che fu esaltazione della vita civile non ancora dominata dalle Signorie.
Ed il fatto che proprio un Signore come Sigismondo offra questa "immagine" di libertà nel suo Tempio, va letto semplicemente quale contrapposizione al potere ecclesiastico.
L'immagine della Città giusta dell'ultima striscia (F) merita un approfondimento.
La figura femminile in essa rappresentata, regge con la mano sinistra l'archipendolo, «lo strumento che simbolicamente tutto eguaglia», come scrive Vittorio Marchis in «Storie di cose semplici» (Milano, 2008, p. 46).
Altre più antiche testimonianze collegano l'archipendolo alla figura di Nèmesi, che con esso misura «la rettitudine delle umane operazioni» (cfr. G. Minervini, «Vaso dipinto di Ruvo», in «Accademia Pontaniana», Fibreno, Napoli 1845, pp. 81-87, 85).
Nèmesi nella mitologia greca e latina rappresenta la «giustizia distributiva» che punisce chi oltrepassa la giusta misura.
Secondo Aristotele, la «giustizia distributiva» impone che «gli eguali siano trattati in modo eguale e gli ineguali in modo ineguale, cosicché la polis dovrà distribuire oneri e benefici in modo proporzionale» (M. Rosenfeld, «Enciclopedia delle Scienze Sociali», 2001)
Vittorio Marchis (p. 47) spiega poi che l'archipendolo resta «simbolo di equilibrio sino a tutta l'età barocca», come testimonia il suo inserimento nell'«Iconologia» di Cesare Ripa (apparsa a Roma nel 1593).
Da Cesare Ripa riprendiamo due spunti. A noi dalla cultura egizia deriva che, per ritrovare il giusto di una cosa, occorre raddrizzarla come fa l'Archipendolo (p. 456 dell'ed. veneziana del 1645).
L'Archipendolo «per similitudine» insegna che, «rispetto alla rettitudine e all'uguaglianza della ragione», la virtù «non pende à gl'estremi, mà nel mezzo si ritiene» (ib., p. 191).
Nella mano destra, infine, la Città giusta regge la «canna», simbolo delle regole morali e delle Leggi della giustizia divina.
Sul pensiero di Aristotele in tema di giustizia, cfr. il testo di L. Guidetti e G. Matteucci, «Grammatiche del pensiero», Bologna 2012, passim.


Il contesto degli antefatti.
Per ciò che potremmo chiamare il contesto degli antefatti, inseriamo alcune notizie collegate al nostro tema.
Di «città giusta» parla nella sua «Laudatio Florentinae urbis» (1404) il Cancelliere fiorentino Leonardo Bruni, richiamandosi ad Aristotele, come osserva Eugenio Garin, nel saggio «La città ideale» (cfr. in «Scienza e vita nel Rinascimento italiano», Bari 1965, pp. 33-56).
Bruni, contro il mito di Roma, presenta Firenze quale modello ideale di una «città giusta, bene ordinata, armoniosa, bella». Bruni spiega che la città per essere libera dev'essere giusta, con leggi razionali.
Per quanto ci riguarda, aggiungiamo soltanto che l'Alberti "riminese" del Tempio di Sigismondo, era di famiglia fiorentina.
Secondo elemento. Come scrive F. Alessio, con l'Umanesimo «compare ex novo quel Platone che il grande ignoto della cultura delle scholae» (cfr. «Il pensiero filosofico», in F. Brioschi e C. Di Girolamo, «Manuale di letteratura italiana», I, Torino 1993, pp. 45-80, p. 77).
Platone aveva sostenuto che Giustizia nella Città è assolvere per essa il compito per il quale la Natura ci ha resi adatti («Repubblica», IV).
Come si legge nel «Dizionario filosofico» di N. Abbagnano (1971), la Giustizia «produce accordo ed amicizia», secondo Platone. Il quale ci spiega che per raggiungere la Giustizia dobbiamo avere una vista penetrante, capace di distinguere le parole scritte in carattere minuscolo (che corrispondono alla Giustizia dell'individuo), da quelle che sono scritte in grande, ovvero della Giustizia e delle altre virtù scritte (Cfr. R. Radice, «Platone», Milano 2014, pp. 87-88).
Infine, apriamo il primo volume de «I sentieri del lettore» di Ezio Raimondi (Bologna, 1994, p. 208) dove troviamo la memoria di una crisi bolognese. Ne parla Lapo di Castiglioncello, attorno al 1430.
Inaugurando il suo corso universitario di Eloquenza, egli sostiene: si vive in tempi miseri e luttuosi, ai quali occorre reagire con l'ideale dell'uomo «saggio, forte, liberale e temperante», e con il progetto di affidare ai «boni viri» la difesa della comunità dalle «rivolte, dalle guerre civili, dagli omicidi, dalle rovine pubbliche».
Lapo dimostra così «fede nella rinascita di un mondo morale connesso ai valori più profondi della sapienza antica», osserva Raimondi.
Infine, va ricordato che, già dai primi decenni del Quattrocento, avviene «una generale riorganizzazione del sistema educativo e dei saperi in chiave storica e antiteologica», per cui la «storia» è «in una volta, comprensione del tempo trascorso e modello del presente» (cfr. N. Gardini, «Rinascimento», Torino 2010, pp. 15, 126).
Nella scelta delle immagini c'è la mano dello stesso architetto (ed ottimo scrittore) Leon Battista Alberti, seguace di un umanesimo civile che vuole una società nuova diversa dai principati.
In tutte le immagini è compendiato un programma pedagogico di impronta umanistica: per formare una società rinnovata dalla concordia, si parte dallo studio della natura. In tal modo è eclissata la teologia. Ecco la rivoluzione di Sigismondo e del suo circolo di intellettuali ed artisti, che tanto dispiacque a Pio II.
Il tema della città nuova si collega a quello della «città ideale» proposto dalla famosa opera della scuola di Piero della Francesca, dietro la quale ci sarebbe invece la mano del progettista del tempio riminese, Leon Battista Alberti, autore del "De Re Aedificatoria" (cfr. G. Morolli, "La vittoria postuma: una città niente affatto 'ideale'", ne "L’Uomo del Rinascimento. Leon Battista Alberti e le arti a Firenze fra Ragione e Bellezza", Firenze 2006, pp. 393-399).
La «concordia dei cittadini» d’ispirazione ciceroniana, è citata in un proverbio latino: «Concordia civium murus urbium». Di qui il collegamento allegorico tra la stessa concordia e l’arte edificatoria.
Per la Mitologia si può rimandare a Macrobio che la chiama «narratio fabulosa»: «haec ipsa veritas per quaedam composita et ficta proferetur» ("Commentarii in somnium Scipionis", 2, 7).
Nel Tempio Malatestiano ci sono due epigrafi scritte nella lingua greca, considerate da Augusto Campana come le prime testimonianze del Rinascimento sia italiano sia europeo. Nella cappella dei Pianeti del Tempio, c'è l'immagine del "rematore", letta di solito come raffigurazione dell'anima di Sigismondo, scesa agli Inferi e risalita in Cielo.
Essa ci sembra però riassumere la storia dell'Ulisse dantesco ("Inferno", c. 26, vv. 90-142) che ai compagni d'avventura con la sua "orazion picciola" ("fatti non foste a viver come bruti"), lancia un "manifesto pre-umanistico", come lo definisce un noto studioso dell'Alighieri, Franco Ferrucci.
Ulisse insegna che la nostra dignità sta nel "seguir virtute e canoscenza", anche se ciò può costarci un naufragio in cui però si salva l'uomo. L'uomo di ogni tempo, e non soltanto quello dell'età e delle pagine di Dante. La smorfia del volto del "rematore", richiama l'Ulisse dantesco. I due isolotti rimandano alle colonne d'Ercole. I venti ricordano il "turbo" che affonda la "compagna picciola" (vv. 101-102).
Alla corte di Rimini nel 1441 prima dell'edificazione del Tempio, era giunto Ciriaco de Pizzecolli d'Ancona (1390-1455). Ciriaco ha frequentato i circoli umanistici di Firenze, ed è un "lettore di Dante" che per la sua ansia di sapere ama presentarsi nei panni d'Ulisse, come leggiamo in Eugenio Garin. A Ciriaco potrebbe attribuirsi il suggerimento del tema di Ulisse da inserire nel Tempio, quale parte del discorso umanistico per la cappella delle Arti liberali.

Secondo Anthony Grafton, è Ciriaco a comporre le epigrafi riminesi, ispirandosi a quelle napoletane da lui trascritte ("Leon Battista Alberti. Un genio universale", 2003, p. 315).
A proposito della figura dantesca di Ulisse, è utile rileggere quanto osservato da Ezio Raimondi ("Le metamorfosi della parola. Da Dante a Montale", 2004, pp. 190-191): "... l'avventura di Ulisse è anche l'avventura vitale di Dante scrittore in esilio". Petrarca sente che la figura di Ulisse "non è Dante ma può servire a dare anche la grande dimensione di Dante".
Raimondi si riferisce alla lettera XV, libro XXI delle "Familiares", diretta a Boccaccio. In cui leggiamo questo passo: "In quo illum satis mirari et laudare vix valeam, quem non civium iniuria, non exilium, non paupertas, non simultatum aculei, non amor coniugis, non natorum pietas ab arrepto semel calle distraheret, cum multi quam magni tam delicati ingenii sint, ut ab intentione animi leve illos murmur avertat; quod his familiarius evenit, qui numeris stilum stringunt, quibus preter sententias preter verba iuncture etiam intentis, et quiete ante alios et silentio opus est". ("E in questo non saprei abbastanza ammirarlo e lodarlo; poiché non l’ingiuria dei concittadini, non l’esilio, non la povertà, non gli attacchi degli avversari, non l’amore della moglie e dei figliuoli lo distrassero dal cammino intrapreso; mentre vi sono tanti ingegni grandi, sì ma così sensibili, che un lieve sussurro li distoglie dalla loro intenzione; ciò che avviene più spesso a quelli che scrivono in poesia e che, dovendo badare, oltre che al concetto e alle parole, anche al ritmo, hanno bisogno più di tutti di quiete e di silenzio.")
Il punto di Petrarca "non civium iniuria, non exilium, non paupertas, non simultatum aculei, non amor coniugis, non natorum pietas", rimanda al c. XXVI, vv. 94-97 dell'"Inferno" dantesco: "Né dolcezza di figlio, né 'l debito amore lo qual dovea Penelope far lieta....".
Ecco quindi il citato giudizio di Raimondi: Petrarca sente che la figura di Ulisse "non è Dante ma può servire a dare anche la grande dimensione di Dante".
Raimondi prosegue: "L'Ulisse di Dante è una controfigura negativa di Dante stesso. Presenta, sul piano dell'azione di colui che esplora l'ignoto, qualcosa che per Dante rappresenta la sua stessa operazione poetica, e che Petrarca individua subito".
Nel 1628 l'irlandese padre Lucas Wadding (1588-1657), professore di Teologia e censore dell'Inquisizione romana, scrive che Sigismondo dedica il Tempio di Rimini alla memoria di san Francesco, ma con immagini di miti pagani e simboli profani.
Gli risponde dalla stessa Rimini nel 1718 Giuseppe Malatesta Garuffi con la "Lettera apologetica [...] in difesa del Tempio famosissimo di san Francesco", sostenendo che il testo di Wadding contiene alcuni periodi pieni di calunnia contro il sacro edificio.
Garuffi esamina dottamente le singole cappelle del Tempio: ha fatto studi teologici (è sacerdote) ed è stato direttore della Biblioteca Alessandro Gambalunga di Rimini (1678-1694).
A Garuffi risponde immediatamente un anonimo riminese, con una pedante requisitoria in difesa di padre Wadding. La replica di Garuffi arriva nel 1727. Il ritardo di tanti anni significa soltanto indifferenza verso argomenti ritenuti giustamente deboli.
Il discorso dei miti pagani e dei simboli profani, è una costante del dibattito culturale sul Tempio riminese, da cui sono derivate pure le tentazioni di farne un luogo pieno di misteriose velleità esoteriche. Contro di esse mette in guardia Franco Bacchelli in un saggio prezioso (2002).
Bacchelli osserva che "vi sono certo buone ragioni per diffidare" delle interpretazioni massoniche suggerite da una citazione del "De re militari" di Roberto Valturio. In essa si accenna alla suggestione esercitata sopra Sigismondo dalle "parti più riposte e recondite della filosofia". Bacchelli ricorda un passo di Carlo Dionisotti: quando si trattava di fede cristiana, "Valturio era intransigente: non poteva fare a meno di registrare la pratica della divinazione, ma la deplorava e la interdiva nel presente come arte diabolica".
Per la cappella dei Pianeti nel Tempio riminese, Bacchelli conclude che i bassorilievi dimostrano la convinzione del committente "che è nei cieli che bisogna ricercare la causa, se non di tutti, almeno dei più rilevanti accadimenti terrestri".
Questo principio è "pacificamente accettato" nelle corti poste tra Venezia, Ferrara e Rimini, prima che sul finire del XV secolo Giovanni Pico della Mirandola proceda "ad una radicale negazione dell'esistenza degli influssi astrali".
Bacchelli illustra le contraddizioni del Tempio Malatestiano che rispecchiano quelle delle menti di Sigismondo e del suo ambiente, in cui convivono elementi cristiani ed echi pagani.
Il testo di Bacchelli è fondamentale per comprendere il senso dell'Umanesimo riminese: un grande progetto culturale che si realizza sia nel Tempio sia nella (scomparsa) Biblioteca dei Malatesti in San Francesco.
Il dato locale di Rimini va però inserito nel contesto "padano" descritto da Gian Mario Anselmi con un avviso: è necessario ridisegnare una nuova geografia, non per semplificare le cose, ma per comprendere e valorizzare "una complessità irriducibile a tradizionali formule di comodo".
La Biblioteca dei Malatesti in San Francesco, a fianco del Tempio, è la prima pubblica in Italia, e modello di quella gloriosa (e sopravvissuta) di Cesena. Ideata da Carlo Malatesti (1368-1429), progettata nel 1430 da Galeotto Roberto «ad comunem usum pauperum et aliorum studentium», nasce nel 1432.
Accoglie moltissimi volumi donati da Sigismondo e procurati dai suoi uomini di corte, fra cui c'è Roberto Valturio.
Sono testi latini, greci, ebraici, caldei ed arabi, tracce del progetto umanistico di Sigismondo per diffondere una conoscenza di tutte le voci classiche.
Nel 1475 Valturio lascia la propria biblioteca a quella di San Francesco, ad uso degli studenti e dei cittadini con la clausola che i frati facciano edificare un locale nel sovrastante solario, dato che quello al piano terra era "pregiudicevole a materiali sì fatti", come scrive Angelo Battaglini (1792).
Il trasporto al piano superiore avviene nel 1490. Lo testimonia una lapide trascritta non correttamente: nel testo latino non c'è il verbo "sum" (io sono) ma l'aggettivo "summa", legato alla parola "cura". L'abbaglio sintetizza il disinteresse culturale verso il tema dell'Umanesimo riminese.
Il saggio di Franco Bacchelli si trova nel volume dedicato alla "Cultura letteraria nelle corti dei Malatesti", a cura di Antonio Piromalli, con scritti pure di Augusto Campana e di Aldo Francesco Massèra. È il XIV della "Storia delle Signorie Malatestiane", edita da Bruno Ghigi.

Rilettura della cappella delle Arti liberali. 2.
Prima di L. B. Alberti: Marsilio da Padova e il Defensor pacis.
Attorno al 1324, Marsilio da Padova compone il Defensor pacis contro Giovanni XXII ed a favore delle posizioni assunte da Ludovico il Bavaro.
Difensore della pace, come osserva Gianmarco Altieri (in un saggio in «Storia delle dottrine politiche», 2010, sul web), è l'imperatore: «Lo scopo dell'opera dell'imperatore, dunque il suo fine, è proteggere l'ordine e difendere la pace nei territori europei». Altieri definisce Marsilio «uomo molto colto e curioso».
Marsilio vuole confutare le posizioni teocratiche e teorizzare un governo "democratico" in cui tocca al popolo di fare la legge «a beneficio della comunità», seguendo il dettato aristotelico contenuto nella «Politica» (III, IV), come lo stesso Marsilio dichiara (I, 3, 6): ogni cittadino dev'essere libero e non accettare l'altrui "dispotismo".
Per questi motivi, spiega Cesare Vasoli, «il nome di Marsilio resta legato ad una grande battaglia per la libertà civile dello Stato, ad una strenua difesa di quel piano di civile convivenza umana ove le differenze delle fedi, i contrasti delle ideologie e delle credenze debbono cedere dinnanzi alla sovranità della legge "umana" ed all'uguale diritto di tutti i cittadini». [1]
La «grande battaglia per la libertà civile dello Stato» di cui parla Vasoli per Marsilio da Padova, è stata giustamente definita un «contributo veramente rivoluzionario della teoria dello Stato di Marsilio soprattutto perché pone a tutti i cittadini - indipendentemente dalle ideologie e dalle fedi - uguali doveri (cedere di fronte alla sovranità della legge) e uguale diritto» [2].
Marsilio, come spiega Vasoli [3], si distacca dalla tematica tradizionale del pensiero politico medievale, «segnando il punto d'inizio di una considerazione dello Stato e delle società umane destinata a restare per secoli a fondamento della nuova scienza politica».
Con Marsilio, «non è più la giustizia a fondare la legge, ma questa quella» [4]. Con Marsilio da Padova, dunque, si entra nell'ambito culturale il quale prelude all'Umanesimo civile che vediamo raffigurato a Rimini nelle immagini della Cappella delle Arti liberali al Tempio di Sigismondo, tutte giocate a dimostrare che il loro scopo principale è educare alla "polis", creando Concordia tra i cittadini, ai quali tocca di costruire la "città giusta" con leggi per formare persone moralmente integre.
Quelle immagini rispecchiano e realizzano i progetti albertiani di un "umanesimo civile" ben espresso da un passo del suo trattato «Della famiglia»: Iddio volle negli animi umani «un fermo vincolo a contenere la umana compagnia, giustizia, equità, liberalità, e amore» per meritare grazie e lode presso «li altri mortali», e pietà e clemenza presso il Procreatore.

NOTE
[1] Per il testo di Marsilio, rimandiamo all'ed. della sua opera, con traduzione di Cesare Vasoli, Torino 1960. Qui, nell'«Introduzione», curata dallo stesso Vasoli alle pp. 9-78, troviamo la parte da noi citata (cfr. p. 77). Circa il testo di Marsilio, leggiamo in Battaglia, La vita di Marsilio da Padova e la filosofia politica del Medio Evo, Firenze 1928, p. 45 che si ipotizza con argomenti esigui una collaborazione ad esso di Giovanni di Jandun, il quale «almeno indirettamente» dovette collaborare con Marsilio (p. 43). Giovanni di Jandun fu «magister artium» e docente nel collegio di Navarra (p. 38). Giovanni era «uomo di svelta ed acuta intelligenza» che ben presto «salì in gran fama, sia per l'insegnamento ai quale si dedicò, sia per le dotte sue opere di filosofia» (p. 38). Ricorda poi Battaglia (p. 50): «Compiuto cosi il Defensor pacis, Marsilio si sottrasse al pettegdlo scandalistico ambiente parigino, e con il suo amico Giovanni di Jandun fuggì in Germania presso l'imperatore Ludovico», a Norimberga (cfr. p. 182). Su ciò, si veda pure alla p. 180 dove si ricostruisce la cronologia dei fatti: il 19 giugno 1324 Marsilio affitta una casa a Parigi, che non abierà mai, non pensando alla minaccia papale, mentre il 24 dello stesso mese termina il Defensor. Quando «forse ancora si svolgeva il processo del vescovo di Parigi, Giovanni XXII in una sua bolla del 3 aprile 1327 accennava ai due eretici Marsilio e Jandun, e rimproverava a Ludovico, per la seconda volta scornunicato, di trattenerli presso di sé» (p. 183).
Per le notizie biografiche, cfr. G. C. Garfagnini, Alcune osservazioni intorno al Defensor pacis di Marsilio da Padova, «Annali del Dipartimento di Filosofia. Università di Firenze», 9-10, 2003-2004 [ma 2005], pp. 33-41,33-34, dove leggiamo: «Il 24 giugno 1324, a Parigi, Marsilio pone la parola fine al Defensor pacis; il 23 ottobre 1327, ad Avignone, il pontefice Giovanni XXII condanna al rogo l'opera (dopo che l'autore era già stato scomunicato il 9 aprile); il 10 aprile 1343, in concistoro, Clemente VI, dà notizia della morte del maestro e proclama ufficialmente che è finalmente venuto meno il peggiore nemico della Chiesa che si fosse mai visto. Sono tre date che tratteggiano, in controluce, la figura di un grande filosofo e pensatore politico che, nel corso della seconda parte della sua vita, ha cercato, sia nell'agire politico che negli scritti, di porre in pratica gli elementi fondamentali dell'intuizione da cui era nato il Defensor pacis e con cui aveva cercato di risolvere una serie di problemi che avevano ossessionato i maestri delle arti sin dalla prima apparizione dell'Etica aristotelica e, successivamente, della Politica: che cos'è lo stato, quale sia l'organizzazione migliore per una effettiva «congregatio civium», su che cosa riposi la legittimità di qualsivoglia comunità politica e quale sia il vero fine di essa».
Qui leggiamo pure: «Il Defensor pacis è un'opera complessa (e non solo dal punto di vista quantitativo), che fonde insieme le caratteristiche dell'originalità di pensiero del suo autore con quelle della struttura formale articolata in "dictiones", in cui elementi di concettualizzazione politica, argomenti di polemica esegetica e conclusioni autoritative trovano la loro giusta collocazione secondo le norme della trattatistica scolastica e con tutto il massiccio apporto delle necessarie "auctoritates". Ma vi è anche un altro elemento che merita di essere sottolineato, soprattutto tenendo d'occhio il contesto temporale e la vicenda personale di Marsilio, e cioè l'altissima levatura spirituale che accompagna l'indubbia padronanza filosofica dell'autore. Lo scomunicato ed "eretico" Marsilio, infatti, si mostra in queste pagine, in massima parte concepite come una deliberata e netta contestazione dell'operato della Chiesa, come un uomo partecipe di sentimenti di elevata spiritualità; e ciò non sembri un paradosso. Il Padovano, certamente, non è uno "spirituale" né è la sua militanza antiavignonese, in comune con Guglielmo d'Ockham e Michele da Cesena, nelle file dei sostenitori di Ludovico il Bavaro a dare un senso a questa spiritualità, né la sua partecipazione all'aspra discussione originata dall'interpretazione della "povertà" di Cristo e degli Apostoli all'interno ed all'esterno dell'ordine francescano; anzi, le sue prese di posizione sul problema della povertà nella Chiesa vanno in direzione diversa da quella presa dai due frati minori. Esse provengono da una precisa presa di coscienza sia di ciò che l'uomo è, nel suo essere composto di un elemento spirituale e di uno materiale, nella sua fattuale singolarità sia di ciò che significa per quell'uomo, così come di fatto è, il messaggio cristiano» (pp. 35-36).
Cfr. pure, sulla biografia, l'opera ed il contesto storico, E. Emerton, The Defensor pacis of Marsiglio of Padua, Cambridge 1920.
[2] Cfr. S. Guglielmino-H. Grosser, Il sistema letterario, I. Duecento e Trecento, Milano 1987, p. 329.
[3] Cfr. nell'«Introduzione» cit., p. 75.
[4] Cfr. R. Esposito, «Il pensiero politico», pp. 81-93 in Manuale di letteratura italiana, I, a cura di F. Brioschi e C. Di Girolamo, Torino 1993, p. 87.

Queste due pagine sull'Umanesimo malatestiano, si trovano anche nella sezione dedicata a Galeotto di Pietramala, cardinale "malatestiano":
1. Rilettura della cappella delle Arti liberali.
2. Prima di L. B. Alberti: Marsilio da Padova e il Defensor pacis.



Umanesimo riminese. Studiamolo
La conferenza di Cacciari su Piero della Francesca

"il Ponte", Rimini, 26.02.2012
A proposito dell'Umanesimo tragico di cui ha trattato a Rimini il prof. Massimo Cacciari, riferendosi alla "Resurrezione di Cristo" di Piero della Francesca, una piccola ricerca su Internet permette di ricostruire la fortuna della formula.
Nel 1994 appare nell'annuario del Centro mondiale di Studi umanisti, che ha un vago sapore esoterico più che di analisi della cultura dell'Umanesimo in senso stretto.
Nel 2004, a proposto del proprio libro "Della cosa ultima", il prof. Cacciari dichiara al "Mattino" di Padova: "Da tempo vado pensando che occorrerebbe, anche sulla traccia dell’autentica storiografia filosofica italiana da Gentile a Garin, rivalutare la nostra tradizione. È un umanesimo tragico, ma appunto di una tragedia che si conclude con un Ma 'vittorioso'...".
Nel 2005, il prof. Cacciari a Caserta tratta dell'Umanesimo tragico parlando di quattro testi letterari: il canto XXVI dell’Inferno; il De vita solitaria di Petrarca; la Lettera al Vettori di Machiavelli; l’Infinito di Leopardi. Ricorda anche il vero testimone dell’Umanesimo tragico, Leon Battista Alberti, consapevole che è una stupida pretesa quella di essere "fabbro del proprio destino".
Nel 2007 a Milano, all'Università San Raffaele, si laurea brillantemente Silvia Crupano (Roma, 1983), con una tesi dedicata al pensiero tragico di Leon Battista Alberti: "Virtus contra fatum. La dialettica dell’Umanesimo tragico. Per una Filosofia della Storia" (relatore Andrea Tagliapietra, correlatore Ernesto Galli della Loggia).
Nel 2010 il prof. Cacciari tiene una lezione magistrale a Napoli intitolata "L'umanesimo tragico di Leopardi".
Per tornare all'inizio del nostro discorso, sarebbe molto importante che nella nostra città ci si decidesse a ricordare l'Umanesimo riminese, in cui confluiscono tutti i temi dell'Umanesimo italiano.
Come dice il prof. Cacciari, "occorrerebbe rivalutare la nostra tradizione".
Un'annotazione conclusiva. Cacciari collega il concetto di "tragico" al 1453, ovvero alla caduta di Costantinopoli. Forse si potrebbe andare un pochino più indietro, sino al 1415, anno in cui culmina la tragedia dell'Europa cristiana. Durante il Grande Scisma (1378-1417), Giovanni Huss assieme all'allievo Girolamo da Praga è mandato al rogo, dopo essere stato invitato con salvacondotto imperiale a Costanza, dove si trovavano i padri conciliari. Inizia allora una fase drammatica in Boemia, che dura sino al 1433. Sono fiamme che ne preannunciano altre: nel 1553 per Miguel Serveto a Ginevra su decisione dei calvinisti, ed il 17 febbraio 1600 a Roma per Giordano Bruno.
Giustamente, Franco Cardini (come si legge sul "Ponte" del 5 febbraio scorso) smorza i toni dello "scontro di civiltà", che alcuni vorrebbero far iniziare appunto nel 1453 e culminare nel 1683, anno dell'assedio di Vienna. Cardini osserva: non fu un conflitto di civiltà, ma soltanto "storico". Da questa differenza Cardini arriva alla conclusione che non si debbono "incentivare pericolosi contrasti religiosi", partendo da episodi militari o politici che hanno provocato sì rotture ma spesso pure accordi.
Nel suo libro recente dedicato all'argomento (pp. 3-8), introducendo il tema Cardini osserva che tre-quattro secoli sono stati "dominati, sul piano della politica e dei rapporti interstatuali, da una tensione che si traduce in una rete complessa e mutevole di alleanze e di rivalità".
Pure questo aspetto riguarda Rimini da vicino. Sigismondo Malatesti fa il condottiero al soldo di Venezia nella crociata in Morea dal 1464 al 1466. La sua condotta non approda a nulla, anzi è considerata grandemente dannosa. Il 25 gennaio 1466 egli fa ritorno a casa. Sembra, come in effetti è, un uomo sconfitto. Ma il bottino che reca con sé, le ossa del filosofo Giorgio Gemisto Pletone (nato a Costantinopoli nel 1355 circa e morto a Mistra, Sparta nel 1452), gli garantiscono un prestigio perenne. Con la tomba che le accoglie nel Tempio, Sigismondo offre l'immagine di Rimini quale faro di sapienza che poteva illuminare Roma, l'antica e lontana Bisanzio e la vicina Ravenna.
E con Pletone, oggi, si torna da dove si era partiti, a quell'Umanesimo riminese da studiare nella sua vera portata, al di là delle suggestioni esoteriche che nel 2001 portarono a proclamare (il povero) Sigismondo "massone ad honorem".

Umanesimo riminese
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