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L'Osservatore europeo

 

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DAL PIANO MARSHALL ALLA CECA
Importanza storica del metodo funzionalista di Monnet e necessità di un suo superamento

di PUBLIUS*


Nel lontano 1951 con la nascita della Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio (CECA) ebbe inizio quello che Mario Albertini (1919-1997) chiamava "il movimento storico dell’Europa dalla divisione all’unità"1.
Questo movimento storico è conosciuto comunemente con il nome di "processo di integrazione europea".
Esso ha come punto di partenza le istituzioni della divisione, cioè gli Stati nazionali, e come punto d’arrivo ipotetico (saremo noi tanto fortunati da vederlo?) la federazione.
Fu allora che l’idea d’Europa, a lungo solo un sogno vagheggiato dagli spiriti, spiccò il gran salto dalla sfera del pensiero a quella dell’azione e cominciò ad incarnarsi in forma prima economica, poi politica e giuridica.

Ad aprire un varco tra la dimensione della progettualità politica e quella della realizzazione fattuale fu, come da più voci sottolineato, l’intuizione di "un solo uomo", Jean
Monnet, e del gruppo dei suoi collaboratori. L’intuizione fu che per cambiare il corso degli eventi era necessaria un’azione immediata imperniata su un punto essenziale e tale da mutare la staticità delle cose.
Così scriveva lo statista francese in un memorandum del 3 maggio 1950, rivolgendosi al proprio governo:

"Bisogna cambiare il corso degli eventi, perciò bisogna cambiare lo spirito degli uomini. Le parole non sono sufficienti. Soltanto un’azione immediata imperniata su un punto essenziale può mutare l’attuale staticità.
C’è bisogno di un’azione profonda, reale, immediata e drammatica che cambi le cose e faccia entrare nella realtà le speranze alle quali i popoli tra poco non crederanno più, per dare così ai popoli dei paesi "liberi" la speranza negli obiettivi più lontani che saranno loro assegnati, e creare in essi la determinazione attiva di perseguirli
"2 .

Nella visione di Monnet il punto essenziale, il varco stretto attraverso il quale far passare l’idea europea dall’utopia alla realtà, era l’unificazione del mercato carbosiderurgico europeo, e in primo luogo franco-tedesco. Secondo Monnet l’unità del continente poteva essere solo il frutto di un processo graduale, di un’evoluzione avviata sul terreno economico e tale da creare poi tra i Paesi coinvolti una convergenza di fatto per "settori" o "funzioni", e tendenzialmente sempre più ampia.

Al crocevia dell’Europa sulla strada verso la propria unificazione vi fu dunque l’iniziativa personale di un "non-politico", di un "tecnico", che fu capace di trarre dalla guerra l’importante lezione dell’integrazione settoriale.
Ma per comprendere fino in fondo le ragioni storiche che portarono i rappresentanti di Francia, Germania, Italia, Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo alla firma del trattato di Parigi, bisogna tenere conto per lo meno di due altri fattori: il diffondersi degli ideali europeisti e federalisti negli anni della Resistenza e dell’immediato dopoguerra e, soprattutto, la spinta propositiva proveniente dalla politica americana.

Mentre i popoli del continente erano impegnati nell’assurda lotta fratricida si era diffusa la parola d’ordine degli "Stati Uniti d’Europa" e tra le macerie del conflitto essa si era affermata divenendo la protagonista di una grandiosa rinascita ideale e morale. Ora però sotto l’urgenza della ricostruzione postbellica, nel pieno del dramma della sopravvivenza e della rinascita materiale nazionale, in mezzo ai conflitti sociali e alla lotta per la conquista del potere politico, essa stava cadendo inevitabilmente in secondo piano.

Di fronte all’inerzia dei governi europei e alla resistenza delle classi dirigenti nazionali a promuovere programmi unitari, nel giugno 1947 venne d’oltre Atlantico un potente impulso all’avvio dell’integrazione attraverso il varo del piano Marshall.
Nel quadro del conflitto Est-Ovest, ormai delineatosi in tutta la sua drammaticità, l’operazione infatti subordinava la concessione di aiuti economici per la ricostruzione all’avvio della cooperazione economica continentale fra i Paesi che avessero voluto aderire all’iniziativa.

Nell’ottica americana della strategia di contenimento dell’URSS, solo un’Europa occidentale prospera economicamente e, in prospettiva, forte politicamente, quindi unita, avrebbe costituito un argine invalicabile contro la minaccia del comunismo dilagante.
Inoltre la nascita di un blocco europeo occidentale unitario avrebbe comportato per gli USA indubbi vantaggi in termini economici e militari con la creazione di un mercato stabile, dinamico e pronto ad assorbire i prodotti d’esportazione statunitensi e con la costituzione di un potere politico indipendente e in grado di provvedere autonomamente alla propria difesa, favorendo il disimpegno militare americano nella zona.

Sottolinea giustamente Giuseppe Mammarella che il piano Marshall "
dimostrò la volontà americana di impegnarsi nella ricostruzione economica e politica dell’Europa, al di là dei dubbi che erano continuati a sussistere fino al 1947. Questo, ovviamente, comportava anche l’impegno a difenderla contro le minacce esterne e interne."3

Per evidenti ragioni di carattere materiale, oltre che psicologico, per primi furono i governi europei ad accogliere con entusiasmo l’offerta d’aiuto americana, impegnandosi nella creazione di un organismo in grado di condurre una gestione coordinata dei finanziamenti, l’Organizzazione Europea per la Cooperazione Economica, OECE (aprile 1948), primo strumento ed espressione, almeno sulla carta, della cooperazione economica europea.


Il Consiglio d'Europa oggi. www.coe.int

Quasi simultaneamente, stavolta dal cuore del continente, le forze federaliste riunite nel congresso dell’Aja (maggio 1948) adottavano una risoluzione per indire un’Assemblea costituente composta da "membri scelti dai vari parlamenti dei Paesi partecipanti, allo scopo di consigliare le misure pratiche immediate dirette a promuovere […] l’unione dell’Europa"4 .

La proposta fu discussa dai ministri degli Esteri degli Stati interessati e si tradusse nella creazione del Consiglio d’Europa (maggio 1949) che in poco tempo trovò l’adesione di tutto il continente, o quasi.

Questo Consiglio era però ben lontano dal rispondere alle aspirazioni dei federalisti, in quanto semplice luogo di dibattiti e organo di consultazione sotto lo stretto controllo dei governi nazionali, cioè ente internazionale assolutamente privo di poteri di intervento e quindi in se stesso negazione di un vero potere politico.

In sostanza, tanto l’OECE che il Consiglio d’Europa, ispirati ad una miope logica confederale, non facevano registrare grossi passi in avanti verso la meta dell’unità europea.

Tuttavia, nonostante la loro debolezza strutturale, essi "
svolsero - secondo Sergio Pistone - una funzione preparatoria di una certa importanza"5 , favorendo a più livelli i contatti tra le forze politiche europee e rendendole più sensibili ai problemi dell’integrazione.
In breve, le due organizzazioni disposero un terreno favorevole alla nascita della CECA.

S’è detto che in questa direzione la spinta statunitense fu fondamentale.
Per meglio capire il perché di questa affermazione bisogna tenere presente che un punto fondamentale della dottrina del contenimento stava nella ricostruzione economica, politica e militare della Germania occidentale, a causa della sua posizione strategica geopolitica ai fini del consolidamento del blocco atlantico.

Fu così che, a fronte della decisione alleata di eliminare i controlli sull’industria pesante tedesca, il governo francese assunse l’iniziativa.
Timoroso della rinascita di un’economia tedesca del tutto autonoma, eventualmente capace di alimentare un risorgente nazionalismo aggressivo, esso propose di sottoporre a un comune controllo europeo il mercato carbosiderurgico, ovvero un settore di punta dell’industria dell’epoca, legato alla produzione bellica e, per di più, pomo della discordia della secolare storica inimicizia franco-tedesca.

Questo era, in sostanza, il contenuto della famosa dichiarazione Schuman del 9 maggio 1950: il ministro degli Esteri francese, ispirandosi apertamente al disegno di Monnet, individuava infatti nella riconciliazione tra la Francia e la Germania il pilastro dell'unificazione europea.
L’unità dell’Europa non poteva farsi d’un tratto né in una costruzione globale, ma doveva essere il frutto di realizzazioni concrete, capaci di creare una solidarietà di fatto, tale da porre le premesse per la federazione europea, che rimaneva, comunque, l’obiettivo finale.

Recitava il testo della dichiarazione:

L’Europa non si farà d’un tratto né in una costruzione globale: si farà attraverso realizzazioni concrete – creando anzitutto una solidarietà di fatto. L’unione delle nazioni europee esige che l’opposizione secolare tra la Francia e la Germania sia eliminata: l’azione intrapresa deve interessare in primo luogo la Francia e la Germania. […]
Con la messa in comune di produzioni di base e l’istituzione di una nuova Alta Autorità, le cui decisioni vincoleranno la Francia, la Germania e i paesi che vi aderiranno, questa proposta realizzerà le prime basi concrete di una federazione europea indispensabile al mantenimento della pace.
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L’idea incontrò subito un favore generalizzato, rispondendo ad un’esigenza universalmente avvertita sul continente: quella di avviare la rinascita tedesca ma in un sistema europeo capace di fornire garanzie di sicurezza.
Si trattava, inoltre, di dare consistenza politica e capacità contrattuale internazionale alla voce di un’Europa stanca e decadente, ancora rappresentata dai vecchi Stati nazionali, certo sempre più piccoli, se non proprio agonizzanti, in uno scenario mondiale dominato dalle superpotenze.
Per gli stessi motivi, unitamente alla consapevolezza che solo attraverso la via dell’integrazione europea poteva passare la riabilitazione internazionale della Germania, fu entusiastica in primo luogo la risposta del governo tedesco di Adenauer, al quale la proposta era principalmente rivolta.

Fu così che il 18 aprile 1951 nacque a Parigi la cosiddetta "Piccola Europa".
La nuova Comunità, pur avendo competenze limitate al mercato del carbone e dell’acciaio e pur essendo sottoposta a un forte controllo da parte degli Stati nazionali, presentava importanti embrioni federali:
1) il ruolo decisivo attribuito a un organo di governo indipendente quale l’Alta Autorità,
2) l’efficacia immediata degli atti legislativi e giudiziari comunitari all’interno dei Paesi membri,
3) la regola del voto a maggioranza per una parte delle deliberazioni del Consiglio dei ministri,
4) la previsione dell’elezione diretta dell’assemblea parlamentare.


La CECA nell'Europa del 1951


Peraltro, anche e soprattutto la presenza di questi elementi spingeva il Regno Unito a non sottoscrivere il trattato, nonostante le pressioni americane.
Sta di fatto che il processo innescato dalla CECA, il cui metodo era destinato a segnare quasi tutte le successive tappe del processo di integrazione, avrebbe avuto una portata sempre più ampia, arrivando a coinvolgere un numero sempre maggiore di Paesi europei, Regno Unito compreso, anche se tuttora euroscettico.

In conclusione si deve dire che, rispetto ad un passato di divisioni e guerre, fu grandiosa l’inversione di marcia operata dall’Europa attraverso la prima Comunità: essa pose le fondamenta di quella casa comune europea nella cui costruzione i popoli del continente sono tuttora impegnati.
Infatti è passato mezzo secolo ma l’opera non è ancora conclusa: il ritardo è in parte dovuto proprio alle contraddizioni di fondo che il piano Schuman e il criterio funzionalista portavano con sé.

Il limite di questo criterio, denunciato dai federalisti fin dagli esordi, stava in quello stesso punto di forza che pure gli permise nel dopoguerra di vincere le resistenze dei governi nazionali in direzione dell’unificazione: l’aver messo tra parentesi il potere politico e aver ignorato il problema cruciale del trasferimento della sovranità dal livello nazionale a quello europeo.

Questo è il motivo per cui ancora oggi l’Europa unita, già gigante finanziario, rimane un nano politico e appare quasi solo una potente (per non dire mostruosa) macchina burocratica, lontana dai propri cittadini.
Questo il motivo per cui abbiamo l’euro, ma non ancora un governo politico dell’economia.


E per cui, in uno scenario mondiale turbato dai venti di guerra ieri come oggi, prima e dopo l'attacco a New York e Washington dell’11 settembre 2001, la voce dell’Europa, che è in definitiva quella della pace, non è in grado di farsi sentire.

Il metodo "Monnet" ha dato il via alla lunga marcia dell’Europa verso la sua unità.
Ora si tratta di tagliare il traguardo con un ultimo rigoroso slancio federale.

1. "Il federalismo", Bologna, 1993, p. 229.

2. Tratto dal memorandum Monnet del 3 maggio 1950, in Lucio Levi – Umberto Morelli, L’unificazione europea. Cinquant’anni di storia, Torino 1994, p. 79.

3. G. Mammarella, Storia d’Europa dal 1945 a oggi, Roma – Bari, 2000, p. 148.

4. Medesimo testo della nota 3, p. 172

5. S. Pistone, L’integrazione europea. Uno schizzo storico, Torino, 1999, p. 26.

6. Medesimo testo della nota 1, p. 84

 

*Relatori:
Saverio Cacopardi, Pierangelo Fiora, Simona Giustibelli, Luigi V. Majocchi, Marco Spazzini, Arnaldo Vicentini

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