Omicidio Dei Morti
di Amadeo Bordiga
In Italia
abbiamo una vecchia esperienza delle «catastrofi che si abbattono
sul paese» ed abbiamo una certa specializzazione nel «montarle».
Terremoti, eruzioni vulcaniche, inondazioni, nubifragi, epidemie...
Indiscutibilmente gli effetti sono sensibili soprattutto sui popoli
ad alta densità e più poveri, e se cataclismi spesso più
terrificanti assai dei nostri si abbattono su tutti gli angoli della
terra, non sempre tali sfavorevoli condizioni sociali coincidono con
quelle geografiche e geologiche. Ma ogni popolo ed ogni paese ha le
sue delizie: tifoni, siccità, maremoti, carestie, onde di caldo e di
gelo ignote a noi del «giardino d'Europa»; e aprendo il giornale se
ne trova immancabilmente più di una notizia, dalle Filippine alle
Ande, dalla calotta glaciale ai deserti africani.
Il nostro
capitalismo, come cento volte detto, ...poco importante
quantitativamente, ma all'avanguardia non da oggi, in senso
«qualitativo», della borghese civiltà, di cui offrì i più grandi
precursori tra lo splendere del Rinascimento, ha sviluppato in modo
maestro l'economia della sciagura.
Noi non ci
sogniamo di spremere una lagrimuccia se i monsoni spiantano intere
città sulle coste dell'Oceano Indiano, e se le sommerge nel raz de
marée, il mare scatenato, da terremoti subacquei, ma per il Polesine
abbiamo saputo fare arrivare elemosine da tutto il mondo.
La nostra
monarchia era gloriosa per sapere accorrere non dove si danzava
(Pordenone) ma dove si moriva di colera (Napoli), o sulle rovine di
Reggio e Messina rase al suolo dalle scosse sismiche del 1908.
Oggi
il nostro pezzettino di Presidente lo hanno portato in Sardegna e,
se gli stalinisti non han detto balle, gli hanno fatte vedere
squadre in azione di «lavoratori di Potemkin» che poi correvano
all'altra bocca di scenario, come fanno i guerrieri dell'Aida.
Dalle
acque del Po esondato non si faceva a tempo a trarre i profughi, ma
ben vi si ponevano a mollo stival-gommati deputati deputatesse e
ministri, dopo aver predisposto macchine da presa e microfoni per la
pitoccata mondiale in grande stile.
Qui abbiamo la formula geniale:
interviene lo Stato! E la stiamo applicando da buoni novant'anni. Il
sinistrato italico di professione al posto della grazia di Dio e
della mano della Provvidenza ha posto il contributo statale, ed è
convinto che il bilancio nazionale ha limiti più vasti della
misericordia del Signore.
Un buon italiano spende con gioia
diecimila lire spremute dalle sue tasche per arrivare dopo mesi e
mesi a «mangiarsi mille lire del governo».
E non appena in una di
queste contingenze periodiche, che oggi si chiamano con termine di
moda emergenze, ma che affiorano ad ogni novella stagione, si
innestano le immancabili misure e provvidenze del potere centrale,
una banda di non meno specializzati «sinistristi», rimboccatesi le
maniche, si tuffa nella ruffianeria delle pratiche e nell'orgia
degli appalti.
Con autorità, il
ministro delle Finanze di turno, oggi Vanoni, sospende ogni altra
funzione dello Stato e dichiara che non darà un soldo di finanza per
tutte le altre «leggi speciali», perché tutti i mezzi vanno
convogliati nei provvedimenti per la sciagura di attualità.
Miglior prova
non si potrebbe avere che lo Stato non serve a nulla e che se la
mano di Dio ci fosse, farebbe un vero regalo ai sinistrati di tutti
i tipi terremotando o bancarottando questo Stato ciarlatano e
dilettante.
Ma se la
scempiaggine del piccolo e medio borghese rifulge al massimo quando
cerca rimedio al terrore che lo gela nella tepida speranza del
sussidio e dell'indennizzo largitogli dal governo, non meno
insensata appare la reazione dei capoccia delle masse lavoratrici
che nel disastro, essi gridano, hanno tutto perduto, e purtroppo non
le loro catene.
Questi capi che
si pretendono «marxisti» hanno, in queste congiunture supreme, che
spezzano nel proletariato il benessere derivante dal normale
sfruttamento capitalistico, una formula economica più scema ancora
di quella dell'intervento di Stato. La formula è ben nota: paghino i
ricchi!
Vanoni viene
allora vituperato perché non ha saputo scoprire e tassare gli alti
redditi.
Ma un briciolo
solo di marxismo basta a stabilire come gli alti redditi allignano
dove avvengono le alte distruzione, e su esse si innestano i grandi
affari. La borghesia si paghi la guerra! dissero nel 1919 quei falsi
pastori anziché invitare il proletariato ad abbatterla. La italica
borghesia è sempre lì, e con entusiasmo investe i suoi redditi nel
pagarsi guerre ed altri flagelli, che glieli riportano
quadruplicati.
Ieri
Quando la
catastrofe distrugge abitazioni coltivazioni e fabbriche e piomba
nella inattività popolazioni lavoratrici, essa indubbiamente
distrugge una ricchezza. Ma non è possibile rimediarvi con un
prelievo sulla ricchezza altrove esistente, come con la miserabile
operazione di razzolare in giro pastrani vecchi, quando la
propaganda, raccolta e trasporto costano assai più del valore del
logoro indumento.
Quella ricchezza
sparita era accumulo di lavoro passato, secolare. Per eliminare
l'effetto della catastrofe occorre una massa enorme di lavoro
attuale, vivente. Se quindi della ricchezza diamo la definizione non
astratta, ma concreta e sociale, essa ci appare come il diritto in
certi individui formanti la classe dominante di prelevare sul lavoro
vivo e contemporaneo. Nella nuova mobilitazione di lavoro si
formeranno nuovi redditi e nuova ricchezza privilegiata; e
l'economia capitalista non offre nessun mezzo di «spostare»
ricchezza altrove accumulata per sanare il vuoto fatto in quella
sarda o veneta, come non si potrebbe pigliar pari pari gli argini
del Tevere per ristabilire quelli inghiottiti dal Po.
Ecco perché è
una cretinata l'idea di fare un prelievo patrimoniale contro i
titolari di campi e case e officine intatti, per ripristinare quelli
sconvolti.
Centro del
capitalismo non è la titolarità su tali immobili, ma un tipo di
economia che consente prelievo e profitto su quanto in cicli
incessanti crea il lavoro dell'uomo, e subordina a quel prelievo
l'impiego di questo lavoro.
Così l'idea di
rimediare alla crisi edilizia di guerra col blocco dei redditi dei
proprietari di case non distrutte, ha condotto la dotazione di
abitazioni a condizioni peggiori di quelle determinate dai
bombardamenti. Ma i demagoghi urlano, con facile argomento, e
dicendo cose «accessibili alle masse lavoratrici», perché non si
tocchi il blocco.
Base
dell'analisi economica marxista è la distinzione tra lavoro morto e
lavoro vivente. Noi definiamo il capitalismo non come titolarità sui
cumuli di lavoro passato cristallizzato, ma come diritto di
sottrazione dal lavoro vivo ed attivo. Ecco perché l'economia
presente non può condurre ad una buona soluzione che realizzi, col
minimo di sforzo di lavoro attuale, la razionale conservazione di
quanto ci ha trasmesso il lavoro passato, e le basi migliori per
l'effetto del lavoro futuro.
Alla economia borghese interessa la
frenesia del ritmo di lavoro contemporaneo, ed essa favorisce la
distruzione di masse tuttora utili di lavoro passato, fregandosene
dei posteri.
Marx spiega che
le economie antiche, fondate più sui valori di uso che sul valore di
scambio, non avevano quanto la presente necessità di estorcere
sopralavoro, e ricorda che era solo una eccezione ai fini della
estrazione dell'oro e dell'argento (non per nulla dalla moneta
nacque il capitalismo) il sottoporre il lavoratore allo sforzo fino
alla morte, come in Diodoro Siculo.
La fame di
sopralavoro (Capitale VIII, 2: Il capitale famelico di sopralavoro)
non solo conduce ad estorcere ai vivi tanta forza di lavoro da
abbreviarne l'esistenza, ma rende un buon affare la distruzione di
lavoro morto, al fine di sostituirne i prodotti ancora utili con
altro lavoro vivo. Come Maramaldo, il capitalismo, oppressore dei
vivi, è omicida anche dei morti:
«Appena popoli la cui produzione si muove nelle forme inferiori del
lavoro degli schiavi, della corvée ecc., vengono attratti in un
mercato internazionale dominato dal modo di produzione
capitalistico, il quale fa evolvere a interesse preponderante la
vendita dei loro prodotti all'estero, allora sull'orrore barbarico
della schiavitù, della servitù della gleba, ecc. s'innesta l'orrore
civilizzato del sovraccarico di lavoro». Il titolo originale del
citato paragrafo è: «Der Heisshunger nach Mehrarbeit»,
letteralmente: «la fame ardente di sopralavoro».
La fame di
sopralavoro del capitalismo pargoletto, definita dalla potenza della
nostra dottrina, contiene già tutta l'analisi della moderna fase di
capitalismo cresciuto a dismisura: la feroce fame di catastrofe e di
rovina.
Lungi
dall'essere una nostra trovata (all'inferno i trovieri, soprattutto
quando stonano perfino nel fare «doremifa», e si credono creatori)
la distinzione tra lavoro morto e vivo sta nella basilare
distinzione di capitale costante e capitale variabile. Tutti gli
oggetti prodotti dal lavoro, che non vanno al diretto consumo ma
sono impiegati in altra lavorazione (oggi dicono beni strumentali)
formano il capitale costante.
«Col loro
ingresso in nuovi processi lavorativi in qualità di mezzi di
produzione, i prodotti perdono il carattere di prodotti e funzionano
ormai soltanto come fattori oggettivi del lavoro vivente». Ciò vale
per le materie prime principali ed accessorie, le macchine ed ogni
altro impianto che progressivamente si logora: la perdita del
logorio che va compensata chiede al capitalista di investire altra
quota, sempre di capitale costante, che l'economia corrente chiama
di ammortamento. Ammortizzare velocemente, è l'ideale supremo di
questa economia necroforica.
Ricordammo, a
proposito del «diavolo in corpo», come in Marx il capitale ha la
funzione demoniaca di incorporare lavoro vivente nel lavoro morto,
diventato cosa. Che gioia che gli argini del Po non siano immortali,
e vi si possa oggi allegramente «incorporare lavoro vivente»!
Progetti e capitolati sono stati approntati in pochi giorni! Ma
bravi: avete il diavolo in corpo.
«Commendatore,
l'ufficio progetti della nostra Impresa si è fatto un dovere di
predisporre studi tecnici ed economici: le sottopongo la pappa già
bella e cucinata».
E i sassi di Monselice sono stimati, nell'analisi dei prezzi, più
del marmo di Carrara:
«Conservare valore aggiungendo valore è una dote di natura della
forza lavoro in atto, del lavoro vivente; dote di natura che non
costa niente all'operaio, ma frutta molto al capitalista: gli frutta
la conservazione del valore capitale esistente».
Questo capitale semplicemente «conservato», grazie sempre all'opera
del lavoro vivente, è chiamato da Marx parte costante del capitale,
o capitale costante. Ma:
«la parte del capitale convertita [vulgo: investita] in forza lavoro
[salario] cambia [invece] il proprio valore nel processo di
produzione. (...) E produce un'eccedenza, il plusvalore».
La diciamo perciò parte variabile, e semplicemente capitale
variabile.
La chiave è
tutta qui. La economia borghese mette il guadagno in rapporto al
capitale costante, che sta lì e non si muove: anzi che andrebbe al
diavolo se l'opera del lavoratore non lo «conservasse».
L'economia
marxista mette all'opposto il profitto in rapporto al solo capitale
variabile e dimostra come il lavoro attivo proletario:
a) conserva
il capitale costante (lavoro morto);
b) esalta il capitale variabile
(lavoro vivo).
Questa esaltazione, il plusvalore, è l'imprenditore
che se la becca.
Questo, spiega
Marx, di stabilire il saggio senza tener conto del capitale
costante, equivale a porre lo stesso uguale a zero: operazione
corrente nell'analisi matematica di tutte le questioni in cui
giocano grandezze variabili.
Posto il
capitale costante nullo, resta in piedi il giganteggiare del
profitto capitalistico. Dire questo, è lo stesso che dire che resta
il profitto di intrapresa, se l'incomodo di custodire il capitale
costante è tolto al capitalista.
Questa ipotesi
non è che la odierna realtà del capitalismo di stato.
Passare il
capitale allo Stato, significa porre il capitale costante uguale a
zero. Nulla muta nel rapporto tra imprenditore ed operaio perché
questo dipende solo dalle grandezze capitale variabile e plusvalore.
Analisi del
capitalismo di Stato cosa nuova? Senza prosopopea, siamo in grado di
servirla quale la sappiamo dal 1867 e da prima. È brevissima: c = 0.
Non lasceremo
Marx senza dare, dopo la fredda formuletta, un passo ardente:
«Il capitale è lavoro morto, che si ravviva, come un vampiro,
soltanto succhiando lavoro vivo e più vive quanto più ne succhia».
Il capitale moderno, avendo bisogno di consumatori perché ha bisogno
di produrre sempre di più, ha tutto l'interesse ad inutilizzare al
più presto possibile i prodotti del lavoro morto per imporne la
rinnovazione con lavoro vivo, il solo dal quale «succhia» profitti.
Ecco perché va a nozze quando la guerra viene, ed ecco perché si è
così bene allenato alla prassi della catastrofe.
In America la
produzione di automobili è formidabile, ma tutte o quasi le famiglie
hanno la macchina: si arriverebbe all'esaurimento delle richieste.
Ed allora conviene che le automobili durino poco. Per ottenere
tanto, prima di tutto si costruiscono male e con serie di pezzi
abborracciate.
Se gli utenti si rompono più spesso l'osso del collo
importa poco: si perde un cliente, ma vi è una macchina di più da
sostituire.
Poi si fa ricorso alla moda, col largo sussidio cretinizzante della propaganda pubblicitaria, per cui tutti
vorrebbero avere l'ultimo modello, come le donne che si vergognano
se portano un vestito, magari intatto, «dell'anno scorso».
I fessi
abboccano, e non importa se ha più vita una Ford costruita nel 1920
che una vettura nuova di trinca 1951. Ed infine le macchine disusate
non si utilizzano nemmeno come ferraccio, e si gettano nei cimiteri
delle automobili. Chi osasse prenderne una dicendo: la avete buttata
via come cosa senza valore, che c'è di male se me la aggiusto e vado
in giro? riceve una schioppettata ed una condanna penale.
Per sfruttare
lavoro vivo il capitale deve annientare lavoro morto tuttora utile.
Amando suggere sangue caldo e giovane, uccide i cadaveri.
Così mentre la
manutenzione dell'argine del Po per dieci chilometri esige lavoro
umano, poniamo, per un milione all'anno, è più conveniente al
capitalismo rifarlo tutto spendendo un miliardo.
Altrimenti gli
toccherebbe aspettare mill'anni. Ciò vuol forse dire che il governo
nero ha sabotato gli argini del Po? No di certo.
Vuol dire che
nessuno ha fatto pressioni perché stanziasse il misero annuo
milioncino, e questo non si è speso perché ingoiato nei
finanziamenti di altre «opere grandiose», di «nuova costruzione»,
che preventivavano miliardi. Ora che il diavolo ha portato via
l'argine, si trova qualcuno che, con ottimi motivi di sacrosanto
interesse nazionale, attiva l'ufficio progetti, e lo rifà.
A chi la colpa
di far preferire i grandiosi investimenti?
Ai neri, e ai rossastri.
Gli uni e gli altri cianciano che vogliono una politica
produttivistica e di pieno impiego.
Ora il produttivismo, creatura
prediletta di don Benito, consiste nel mettere su cicli «attuali» di
lavoro vivo, su cui l'alta impresa e l'alta speculazione fanno
miliardi.
E allora aggiorniamo a spese di Pantalone le macchine
invecchiate degli alti industriali, e aggiorniamo anche gli argini
dei fiumi dopo averli lasciati sfondare.
La storia di questi ultimi
anni di gestione amministrativa dei lavori di stato, e della
protezione all'industria, è piena di questi capolavori, che vanno
dai rifornimenti di materie prime rivenduti sotto costo ai lavori «a
regia» consistenti nella «lotta contro la disoccupazione» a base di
«capitale costante uguale a zero».
In parole povere, spendiamo tutto
in salari, e l'impresa non avendo altra attrezzatura che un badile
per uomo, convince il commendatore come sia utile un movimento di
terra; prima la si porta tutta da qui a lì; e subito dopo la si
riporta da lì a qui.
Se il
commendatore esitasse, l'impresa ha sottomano l'organizzatore
sindacale: una dimostrazione dei braccianti, badile in spalla, sotto
le finestre del ministero, e ci siamo. Viene il troviero e supera
Marx: i badili, solo capitale costante, han figliato plusvalore.
Oggi
Indubbiamente le
proporzioni del disastro lungo il Po sono state imponenti, e le
valutazioni dei danni sono crescenti. Ammettiamo che la superficie
coltivata italiana ha perduto 100 mila ettari ossia 1.000 chilometri
quadrati, all'incirca un trecentesimo del totale, un 3 per mille.
Centomila abitanti hanno dovuto lasciare tale sede, non la più
addensata d'Italia, ossia in cifra tonda un cinquecentesimo della
popolazione, il 2 per mille.
Se l'economia
borghese non fosse pazza, si potrebbe fare un conticino banale. Il
patrimonio nazionale ha subito un grave colpo, comunque nella zona
non è che in parte distrutto, ad acque ritirate: in sostanza la
terra agraria è rimasta e la decomposizione di sostanze vegetali,
con l'apporto di melma, in parte compensa la fertilità perduta. Se
il danno è un terzo del capitale totale, esso vale l'uno per mille
del capitale nazionale.
Ma questo ha un «reddito» medio del 5 per
cento ossia del 50 per mille. Se per un anno ogni italiano risparmia
appena un cinquantesimo del suo consumo, il vuoto è colmato.
Ma la società
borghese tutto è, fuori che una cooperativa, anche se gli alti
filibustieri del capitale indigeno sfuggono Vanoni dimostrando che
le «carature» della loro azienda le hanno distribuite tra tutti i
dipendenti.
Tutte le
operazioni produttivistiche della economia italiana e internazionale
sono dal più al meno tanto distruttivistiche quanto lo
sconvolgimento padano: l'acqua entra da una parte e scappa
dall'altra.
Un tale problema
è insuperabile in campo capitalistico. Se si trattasse del piano di
fare in un anno le armi per dare ad Eisenhower le sue cento
divisioni, la soluzione si trova.
Sono tutte operazioni a ciclo
breve ed il capitalismo va a nozze se la commessa di diecimila
cannoni ha il termine di cento giorni e non di mille. Non per nulla
c'è il pool dell'acciaio!
Ma il pool
dell'organizzazione idrogeologica e sismologica non si può fare, a
meno che l'alta scienza del tempo borghese non riesca davvero a
provocare in serie, come i bombardamenti, anche le alluvioni e i
terremoti.
Qui si tratta di
lenta e non accelerabile trasmissione secolare, di generazione in
generazione, di risultati di lavoro «morto» ma tutelatore dei
viventi, della loro vita e del loro minore sacrificio.
Ammesso ad
esempio che dal Polesine l'acqua vada via in pochi mesi e si chiuda
prima di primavera la falla di Occhiobello, si tratterà di un solo
ciclo annuo di raccolto perduto: qualunque «investimento» produttivo
non potrà rifarlo, ma la perdita è ridotta.
Se invece si
pensa che tutti gli argini del Po e degli altri fiumi potrebbero
cadere in difetto frequentemente, tanto per le conseguenze della
trascurata manutenzione di un trentennio di crisi, quanto per il
disastroso disboschimento in montagna, allora il rimedio riesce
ancora più lento.
Nessun capitale verrà ad investirsi per la bella
faccia dei nostri pronipoti.
Invano scrissero
i nostri babbi:
Non restano che pochi saggi di foresta vergine, che
vegeta senza intervento del lavoro umano.
Il sistema forestale
diventa quindi pressoché afrodisiaco, malgrado il minimo capitale di
esercizio.
Tuttavia il bosco di alto fusto, il più importante nei
riguardi della pubblica economia, esige sempre lunghissima attesa
prima di dar prodotti apprezzabili.
Sebbene la scienza forestale
abbia mostrato che l'anno per il più utile taglio non è quello della
massima longevità della essenza, ma quello in cui l'accrescimento
corrente equivale l'accrescimento medio, bisogna sempre contare ad
esempio in una foresta di querce su 80, 100 e anche 150 anni di
attesa. Capitale minimo; attesa a vederlo rendere 150 anni! Di
Vittorio e Pastore scaraventerebbero il libro, se mai l'avessero
aperto, dalla finestra.
Come
nell'operetta: rubar, rubar, il Capital (l'amor) non sa aspettar...!
Vi è di peggio.
Relativamente poco si è parlato del disastro in Sardegna, Calabria e
Sicilia. Qui il dato geografico è radicalmente diverso.
Nella Valle
padana la scarsissima pendenza ha determinato il ristagno delle
acque, impantanate su terre argillose e impermeabili nel fondo.
Nel
Meridione e nelle Isole, per le stesse cause di forte precipitazione
e di disboscamento in monte, è stata la enorme pendenza con cui la
costa scende sul mare a causare la rovina, e i torrenti in poche ore
hanno strappato dall'ossatura rocciosa sabbie e ghiaie, distrutto
campi e case, pur facendo poche vittime.
Non solo
irreparabile è il saccheggio operato dai liberatori alleati nelle
magnifiche foreste dell'Aspromonte e della Sila, ma qui il
ripristino dei terreni percorsi dall'alluvione è praticamente
impossibile;
non solo antieconomico ai fini degli «investitori» e
dei, «soccorritori» (più pelosi dei primi, se pensabile).
La poca terra
vegetale non solo, ma i radi strati non rocciosi che le facevano da
labile supporto sono stati asportati;
terra che molte volte in
lunghi decenni era stata portata su, cosa incredibile, dal miserrimo
coltivatore.
Ogni piantagione, anche arborea, è venuta giù colla
terra; e galleggiavano sulle acque del mare gli alberi di aranci e
limoni divelti, alimento di una coltura e di una industria in certi
paesi assai redditizie.
Il nuovo
impianto di un vigneto distrutto può farsi entro due anni, ma di un
agrumeto non si arriva alla piena resa in frutto che dopo 7 o 10
anni: i capitali di impianto e di esercizio sono fortissimi.
Naturalmente non troveremo nei buoni trattati il costo dell'opera
impensabile di portare di nuovo la terra sciolta a centinaia di
metri di quota; e le acque la riporterebbero via prima che le radici
delle piante l'avessero fissata al sottosuolo.
Nemmeno le case
si possono ricostruire dove erano: per ragioni tecniche e non
economiche. Cinque o sei disgraziati paesi della costa ionica della
provincia di Reggio Calabria non saranno più ricostruiti nell'antica
sede in collina, ma sulle marine.
Nei secoli di
mezzo e dopo che le devastazioni avevano fatte sparire anche le
tracce delle magnifiche città costiere della Magna Grecia, all'apice
della coltura e dell'arte nel mondo antico, le misere popolazioni
agricole si salvarono dalle incursioni di pirati saraceni abitando
villaggi costruiti su picchi di monte, poco accessibili e meglio
difendibili.
Venuto il
governo «piemontese» fece lungo il litorale strade e ferrovie, e
dove la malaria non lo vietava, per la prossimità tra monte e
spiaggia, ogni paese ebbe presso la stazione la sua «marina». Si
rese così conveniente portar via legname.
Non resteranno
domani che le marine, ed in esse si ricostruiranno faticosamente
alcuni abitati.
A che pro' d'altra parte il contadino risalirebbe la
pendice, ove nulla più può allignare, e gli stessi strati rocciosi
denudati e slittanti non consentono di rifare le case?
E quei
lavoratori, alla marina, che faranno?
Oggi essi non possono più
emigrare; come i calabresi delle bassure malsane ed i lucani delle
«crete maledette», rese sterili dall'ingordo taglio dei boschi che
rivestivano il monte e degli alberi che erano disseminati per i
pascoli di collina.
Certo che in
simili condizioni nessun capitale e nessun governo interverrà, a
totale vergogna della indecente ipocrisia con cui si è esaltata la
solidarietà nazionale ed internazionale.
Non è un fatto
morale o sentimentale che sta alla base di tutto questo, ma la
contraddizione tra la dinamica convulsa del supercapitalismo a cui
siamo arrivati, e ogni sana esigenza di organizzazione del soggiorno
dei gruppi umani sulla terra, in modo da trasmettere utili
condizioni di vita nel corso del tempo.
Il «premio
Nobel» Bertrand Russel, che pontifica in tono pacato sulla stampa
internazionale, denunzia che l'uomo sta troppo saccheggiando le
risorse naturali, e già se ne può calcolare l'esaurimento. Riconosce
che i grandi poteri fanno una politica assurda e pazza, denunzia le
aberrazioni dell'economia individualista, e scherza sull'Irlandese
che dice: perché devo pensare ai posteri? Hanno essi mai fatto nulla
per me?
Il Russel pone
tra le aberrazioni, insieme a quelle del mistico fatalismo, quella
del comunista affermante: togliamo di mezzo il capitalismo e la
questione si risolve. Dopo tanto sfoggio di scienza fisica biologica
e sociale, egli non riesce a vedere come un fatto altrettanto fisico
l'enorme grado di dispersione di risorse sia naturali che sociali,
essenzialmente legato ad un dato tipo di produzione, e pensa che
tutto si risolverebbe con un predicozzo morale o un fabiano appello
alla saggezza degli uomini in alto e in basso.
Il ripiegamento
è pietoso: La scienza diviene impotente davanti ai problemi
dell'anima!
Quelli che
veramente traversano la strada all'umanità nel fare decisivi passi
avanti nell'organizzazione della sua vita non sono davvero i
sopraffattori e dominatori che ancora osassero fare vanto della loro
volontà di potere; ma è il pullulare dei benefattori slavati e dei
lanciatori di piani ERP e di catene della fraternità, come di
colombaie della pace.
Passando dalla
cosmologia all'economia, Russel fa la critica delle illusioni
liberali sul toccasana della concorrenza, e deve ammettere:
«Marx aveva predetto che la libera concorrenza tra capitalisti
sarebbe finita nel monopolio, la quale previsione si dimostrò giusta
quando Rockefeller stabilì virtualmente per il petrolio un regime
monopolistico».
Partito dalla
esplosione del sole che ci trasformerà un giorno all'istante in gas
(il che darebbe ragione all'Irlandese), Russel finisce miseramente,
nel lattemiele:
«Le nazioni che desiderano la prosperità devono cercare più la
collaborazione che la concorrenza».
È un caso,
signor premio Nobel, per voi che avete scritto trattati di logica e
metodologia scientifica, che Marx abbia calcolato l'avvento del
monopolio con cinquanta anni buoni di anticipo?
Se quella era
buona dialettica, l'opposto della concorrenza è il monopolio, non la
collaborazione.
Prendete buona
nota che Marx previde anche come scioglimento dell'economia
capitalistica, monopolio di classe, non la collaborazione, che con
tutti i Truman e gli Stalin di buona volontà siete dedito ad
incensare, ma la guerra delle classi.
Com'è venuto
Rockefeller, «a da veni Baffone»! Ma non dal Kremlino. Quello, in
barba a Marx, sta per rasarsi all'americana.
Da "Battaglia
Comunista"
n. 24, 19-31 Dicembre 1951
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