Antonio Montanari



Profilo di una crisi. Edizione maggiore.

Biografia di Galeotto di Pietramala, cardinale "malatestiano".
22.07.2016

Creato Cardinale nel 1378, Galeotto fugge da Urbano VI nel 1386 dopo che il Papa ha fatto uccidere un Vescovo e cinque Cardinali, e va ad Avignone, da dove scappa nel settembre 1397 perché privato dei redditi riconosciutigli da Clemente VII, recandosi a Valence ed a Vienne, dove muore l'8 febbraio 1398.
Avignone fu detta da Marsilio da Padova «la casa dei mercanti e l'orribile spelonca dei ladri». Per Francesco Petrarca era «la novella ed empia Babilonia da cui bisogna fuggire per salvare l'anima e la poesia».
Diacono, Galeotto ebbe quale vera religione la cultura, ispirandosi alla lezione intellettuale di Petrarca. Lo testimonia la sua biblioteca, in cui erano raccolti «molti e rari libri, generosamente esibiti», come scriveva Nicolas de Clamanges, rappresentante di spicco della cultura universitaria parigina ed autore del trattato «De ruina et reparacione Ecclesie».

«La memoria non è un deposito di oggetti e di immagini ma un processo critico, una volontà di comprendere che sia giudizio, confronto, conoscenza, valutazione».
Ezio Raimondi


Premessa
Nella prima versione della biografia che ho dedicato a Galeotto Tarlati di Pietramala (1356-1398), pubblicata sul web nel maggio 2014, manca una notizia fondamentale che ho presentato successivamente (novembre 2015), e che riguarda la fuga di Galeotto da Avignone sul finire del 1397, prima a Valence e poi a Vienne, dove scompare l'8 febbraio 1398.
Galeotto scappa da Avignone perché quell'ambiente gli era diventato ostile, di pari passo all'ascesa politica dei Malatesti nel mondo pontificio romano, quando Pandolfo III (fratello di sua madre Rengarda) è nominato comandante supremo delle armi della Chiesa, e mentre un cugino di Pandolfo III, Leale, è vescovo di Rimini (1374-1400).
La fuga da Avignone, ricalca quella precedente di Galeotto stesso da Urbano VI verso la stessa Avignone, nel settembre 1386.
E sembra completare un doppio profilo, quello biografico di un Cardinale "ribelle" per restare legato al dettato evangelico; e quello storico generale, in cui si inserisce il dato personale, per cui abbiamo scelto di intitolare queste pagine appunto «Profilo di una crisi».
La biografia di Galeotto Tarlati di Pietramala richiama i principali aspetti della situazione politica europea nella seconda metà del XIV secolo, e rimanda ai fondamentali avvenimenti della Chiesa di Roma e del Papato di Avignone, sul cui sfondo interagiscono guerre, invasioni e massacri.

La prima stesura dei miei scritti su Galeotto Tarlati di Pietramala (aprile 2014), conteneva una dedica ad Ezio Raimondi, scomparso il 18 marzo di quell'anno.
Dedica che qui voglio ripetere, unendo il suo ricordo a quello degli altri miei Maestri all'Ateneo bolognese, come Paolo Rossi, Gina Fasoli, Giovanni Maria Bertin, Luciano Anceschi, Enzo Melandri.

Era il Magistero bolognese di una grande stagione culturale, nella prima metà degli anni Sessanta, in cui il nostro desiderio di imparare trovava la risposta dialettica e dialogica in quei Maestri.
L'argomento di queste mie pagine riguarda l'ultima stagione del Trecento, la grande e drammatica stagione che avverte gli echi petrarcheschi, ed intravede le immagini di un umanesimo che, al contrario della politica e delle armi, intende unire l'Europa, recuperando l'eredità latina e rilanciandola come occasione di analisi storica e culturale.
In un antico saggio (1956), che resta fondamentale ancor oggi, «Quattrocento bolognese: università e umanesimo», Raimondi va alla ricerca di un'identità specifica dell'umanesimo universitario cittadino, chiedendosi se esso abbia avuto «una fisionomia problematica più o meno individuata», e se sia stato «indipendente dagli organismi della cultura tradizionale».
La risposta che Raimondi offre, va oltre l'aspetto che potremmo definire enciclopedico (come serie di nozioni nuove da diffondere tra studenti e/o studiosi), ma soprattutto s'incentra nella questione metodologica che l'autore compendia in modo aperto, problematico, ovvero non sentenzioso o dogmatico: «Queste pagine sono nate dal proposito di dare una risposta» alla domanda sulle caratteristiche dell'umanesimo universitario bolognese.
Raimondi conclude: «Qualora la prospettiva che è venuta emergendo corrisponda sul serio a una storia di uomini impegnati e quasi costretti a vivere nel loro tempo, è doveroso concludere che quell'umanesimo è esistito…».
Quindi, ecco la lezione di Raimondi, da tener presente quando si legge e soprattutto si scrive. La documentazione raccolta permette di dare risposte a domande mai poste in precedenza, ed obbliga a rimettere in discussione presunte verità pigramente ripetute.
Questo significa soprattutto che nessuno possiede la verità storica in tasca per grazia divina; e che le prospettive si costruiscono attraverso ipotesi di lavoro che non sono stravaganze da salotto, ma strumenti operativi che è facile tralasciare, o vilipendere, se si pretende di sentenziare soltanto in base a quello che si sa tra le proprie mura domestiche, con finestre ridicolmente chiuse sul divenire del mondo e della cultura. [Cfr. E. Raimondi, «I sentieri del lettore, I, Da Dante a Tasso», a cura di A. Battistini, Bologna 1994, p. 240.]
In un volume di scritti di Ezio Raimondi [«Tra le parole e le cose, ottobre 2014, pp. 218-219»], dove sono raccolti i suoi interventi per la rivista bolognese «IBC. Informazioni commenti inchieste sui beni culturali», si legge questo passo (pubblicato nel 2010): «... la memoria non è un deposito di oggetti e di immagini ma un processo critico, una volontà di comprendere che sia giudizio, confronto, conoscenza, valutazione. Il passato rivive perché lo si interroga e lo si indaga, perché le sue tracce illuminate dalla ricerca della verità giovino a definire il presente e il suo farsi senso, evento, ragione di vita».
Aggiungo questa citazione per due motivi.
Essa non è strettamente legata al tema di queste pagine, ma rimanda per contrasto alla città in cui vivo, dove lo studio della Storia non è per nulla inteso come «confronto».
E poi perché mi conferma nell'opinione sopra espressa su quanti in questa stessa nostra città pretendono «di sentenziare soltanto in base a quello che si sa tra le proprie mura domestiche, con finestre ridicolmente chiuse sul divenire del mondo e della cultura».


1. Da Avignone a Costanza
Galeotto Tarlati di Pietramala (1356-1398), nominato Cardinale diacono l'11 settembre 1378, vive in uno dei periodi più tragici della storia della Chiesa di Roma, tra la «cattività avignonese» (1305-1377) ed il «Grande Scisma» (1378-1417), sfociato nei roghi del Concilio di Costanza (1414-1418), quando, in nome della Croce, si uccidono Giovanni Huss (1415) e Girolamo da Praga (1416).
Huss, professore a Praga, è eliminato nonostante il salvacondotto imperiale di cui era munito. I particolari dell'esecuzione sono terribili. Lo attaccano ad un palo e gli danno fuoco. I soldati che rinvengono il suo cuore, lo bruciano separatamente. Suo scolaro era stato Girolamo da Praga. Quelle fiamme ricordano quanto accaduto a Roma nel 1354 al corpo di Cola di Rienzo, ucciso con una stoccata nel ventre: fu prima mutilato del capo, poi appeso per i piedi alle forche e colpito per due giorni dalle sassate di scherno dei giovani, ed infine bruciato dai Giudei davanti al mausoleo di Augusto [F. Papencordt, «Cola di Rienzo e il suo tempo», Pomba, Torino 1844, p. 289].
I resti di John Wycliff morto nel 1384, di cui Giovanni Huss è stato il continuatore, nel 1428 per ordine di Martino V, saranno esumati e bruciati nella diocesi inglese di Lincoln (retta da Richard Fleming, fondatore del Lincoln College in Oxford), e le sue ceneri gettate nelle acque del fiume Clyde in Scozia, in esecuzione di un decreto emanato quattordici anni prima, dopo che i suoi libri erano stati banditi nel 1403 e bruciati nel 1415 quando lo si dichiarò eretico a Costanza.
Nell'esperienza di Galeotto come uomo di Chiesa ed intellettuale formatosi sui classici che arricchivano la sua biblioteca, c'è un elemento costante, il suo rimettere in discussione tutto, con uno spirito saldo di ribellione che lo porta a fuggire prima da Urbano VI verso Avignone nel settembre 1386; e poi dalla stessa Avignone, nel settembre 1397, verso Valence e Vienne, dove muore l'8 febbraio 1398.

Papa Urbano VI (Bartolomeo Prignano, successore di Gregorio XI) fa uccidere il Vescovo dell'Aquila Stefano Sidonio (1385) e cinque Cardinali (1386): Marino del Giudice, Giovanni d'Amelia, Bartolommeo di Cogorno, Ludovico Donati e Gentile di Sangro, «personaggi tutti de' più dotti e cospicui del sacro Collegio», scrive Ludovico Antonio Muratori [«Annali», sub 1385, VIII, Giuntini, Lucca 1763, p. 324]. Un altro Cardinale arrestato, l'inglese Adam Easton, si salva grazie all'intervento di Riccardo II re d'Inghilterra.
«Cette conduite d'Urbain aliénoit de lui ses plus affidez. Le Cardinal Pile de Prat Arcivêque de Ravenne, et Gouverner de Corneto, et le Cardinal Galeot Tarla de Pietra Mala l'abandonnérent alors, pour aller joindre Clement à Avignon» [J. Lenfant, «Histoire du Concile de Pise», I, Utrecht 1731, p. 55].
Proprio con Urbano VI s'inaugura la lunga stagione d'intolleranza che sfocia nei roghi "conciliari" di cui s'è detto. Urbano VI, Arcivescovo di Bari, è l'ultimo Pontefice eletto, l'8 aprile 1378, al di fuori del collegio cardinalizio. Il 24 maggio 1384 da Napoli, dove era giunto a fine settembre 1383, si trasferisce a Nocera, rifugiandosi presso suo nipote Francesco Prignano detto «Butillo» (che in spagnolo significa «pallido»). Urbano VI teme che il re di Napoli Carlo III d'Angiò Durazzo stia cospirando contro di lui, con l'aiuto dei sei Cardinali già ricordati, che fa imprigionare l'11 gennaio 1385.
Dopo l'elezione, Urbano VI pronuncia «una furibonda requisitoria contro la corruzione di Cardinali e di prelati» [F. Gaeta, «Il tramonto del Medioevo», ne «La crisi del Trecento», Bergamo 2013, pp. 280-397, p. 286]. Li insulta pubblicamente con epiteti violentissimi, e colpisce mediante provvedimenti che intaccano i loro privilegi e le loro entrate. Minaccia di scomunica i simoniaci. Richiama i Vescovi al dovere di risiedere nelle loro diocesi. Tenta di abbassare l'autorità del collegio cardinalizio nel governo della Chiesa. Sono tutti «elementi di rottura» che preludono al «Grande Scisma».
Il «soggiorno avignonese» dei Papi dura dal 1305 al 1376, iniziando con l'elezione dell'Arcivescovo di Bordeaux, Bertrand de Got (Clemente V, 1305-1314), rimasto in Francia dove allora si trovava.
Clemente V si fa incoronare il 14 novembre 1305 a Lione alla presenza di Filippo il Bello. Soggiorna prima in Guascogna, sua terra d'origine, e poi dal 1309 ad Avignone, città che apparteneva ai conti di Provenza, cioè agli Angiò, sovrani di Napoli, città governata allora da Carlo II re di Sicilia (1248-1309). Ecco perché solitamente si fa iniziare la «cattività avignonese» nel 1309, saltando la premessa del soggiorno francese di Clemente V sino a quell'anno.

Sono sei i successori di Clemente V che restano ad Avignone: Giovanni XXII, Benedetto XII, Clemente VI, Innocenzo VI, Urbano V e Gregorio XI.
Nel 1334 Giovanni XXII (in carica dal 1316), poco prima di morire il 4 dicembre dello stesso 1334, concepisce «il piano di tornare in Italia e trasferirvi la Curia, se non a Roma, città ritenuta insicura, almeno a Bologna», riscuotendo l'opposizione sia di guelfi sia di ghibellini [A. M. Voci, «Il papato avignonese», «Il Medioevo. VII», Roma 2009, pp. 98-103, pp. 102-103].

Il contesto internazionale europeo, dal settembre 1396 a tutto il 1397, è caratterizzato dalle missioni politiche a Roma di inviati dei Re di Francia, Inghilterra, Castiglia, Navarra ed Aragona: «Essi esortarono Bonifacio, e lo pregarono, che, per far cessar lo scisma, volesse rinunziare a tutt'i diritti, che pretendeva avere al pontificato; affermando che Benedetto farebbe il medesimo» [C. Fleury, «Storia ecclesiastica», XIV, Cervone, Napoli 1771, p. 325].
Bonifacio IX risponde «ch'egli era il vero, e indubitabile Papa, che non ve n'erano altri, e che non pretendea di rinunziarvi in niuna forma» [ib.].
Nell'aprile 1397 alla Dieta di Francoforte dei Principi di Alemagna, durata dodici giorni, sono presenti anche «de' Deputati della Università di Parigi, e degl'Inviati di molti Re e di altri Principi»: «si mandò a Bonifacio, per esortarlo alla cessione». Bonifacio tiene a bada «gl'Inviati con le parole, senza dar loro decisiva risposta», anzi cercando di corromperli «accordando loro contra le regole alcune grazie, che desideravano essi, e per gli amici loro» [ib.]. Per cui quegli Inviati «non poterono avanzar nulla per la cessione, ch'era il motivo del loro viaggio».
Proprio in quel settembre 1397 in cui principia la fuga di Galeotto da Avignone, il giorno 10 il Re di Castiglia risponde al Re d'Aragona (che gli aveva mandato due Ambasciatori), di essere favorevole come lo è la Corte di Parigi, alla via della cessione, «approvata da' cardinali, e desiderata da' Fedeli», rifiutando «la via del compromesso» che a Bonifacio poteva apparire non una via di diritto e di giustizia, ma una via volontaria.


2. Una nomina, due fughe
A soli ventidue anni, l'11 settembre 1378, il «protonotario Apostolico» Galeotto Tarlati di Pietramala è creato Cardinale diacono (ovvero non sacerdote) da Urbano VI, su proposta del nonno Galeotto I Malatesti, signore di Rimini, la cui figlia Rengarda nel 1348 ha sposato Masio Tarlati di Pietramala, Magistrato municipale di Rimini dal 1346 al 1347.
L'anno prima della sua nomina a Cardinale, nel 1377, a Cesena, per volere di Gregorio XI, Pierre Roger de Beaufort (1370-1378, nipote di Papa Clemente VI [1342-1352]), quattromila cadaveri furono disseminati nelle strade e nei fossati della città (scrive l'abate Guillaume Mollat nella sua storia del Papato avignonese [«Les Papes d'Avignon, 1305-1378», Parigi 1912], p. 163), per opera dei Bretoni guidati dal terribile Cardinal Roberto da Ginevra, il quale nel 1378 diventa il primo Antipapa, con il nome di Clemente VII.
Nel 1386 Galeotto fugge da Urbano VI, prima nella Milano di Gian Galeazzo Visconti e poi ad Avignone, dove nel 1387 è nominato Anticardinale.

Un figlio di Gian Galeazzo Visconti, Giovanni Maria, nel 1408 sposerà Antonia Malatesti, figlia di Andrea Malatesti nato da Gentile da Varano e Galeotto I, il quale da Elisa della Valletta aveva avuto Rengarda, la madre del nostro Cardinal Galeotto.
Antonia Malatesti, che era quindi cugina di Galeotto, passa alla storia per il suo comportamento in occasione dell'uccisione del marito Giovanni Maria da parte di alcuni nobili di corte: lei non volle recarsi in Duomo dove era stata trasferita la salma, peraltro ignorata da tutti. L'unico omaggio al defunto fu quello di «una femina meretrice» che «tollendo una cesta de rose tutto il coperse», come si legge in un articolo di G. Barigazzi (in «Storia illustrata», n. 153, VIII, 1970).
L'astio di Antonia era una reazione al comportamento di Giovanni Maria, definito da Carlo Cattaneo «libe
tino e crudele come Nerone» (cfr. l'introduzione, p. LXXI, a «Notizie naturali e civili su la Lombardia», I, Bernardoni, Milano 1844).

Nel 1397 Galeotto si dimette da Cardinale. Nicola di Clamanges (o Clemanges), che nella celebre «Epistola XII, Mallem tibi laetiora» dà la notizia della sua scomparsa avvenuta a Vienne, infatti definisce Galeotto «nuper Cardinalis», ovvero Cardinale sino a qualche tempo addietro.
La lettera è spedita da Avignone «Ad Gontherum Colli, Galliae Regis secretarium», ovvero Gontier Col, segretario di Carlo VI e di Giovanni, duca di Berry, ed ambasciatore ad Avignone nella primavera del 1395.
Purtroppo l'avverbio «nuper», semplice ma fondamentale per documentare la vicenda biografica di Galeotto, è sfuggito agli storici moderni nella ricostruzione della sua figura attraverso l'«Epistola XII», considerata fondamentale per delineare la cultura umanistica del personaggio, con l'accenno alla sua biblioteca, i cui libri «multi erant et singulariter electi, perlibenter oblatos».
Di fuga di Galeotto da Avignone parla già nel XVI sec. un studioso ed uomo della Curia di Roma, Girolamo Garimberti (1506-1575), in «Vite, Overo Fatti Memorabili D'Alcuni Papi, Et Di Tutti I Cardinali Passati» (Giolito de' Ferrari, Venezia 1567), al cap. XXV, intitolato significativamente «Della Ingratitudine» (pp. 446-447): «essendo fatto Cardinale da Urbano, et compreso tra i suoi più confidenti e cari, si trouò a machinar contra della dignità sua, insieme con alcuni altri Cardinali, che per questo furono priuati dal Papa; per il che Galeotto insieme con Pileo de Prati Cardinale se ne fuggì in Auignone; doue da Clemente di nuouo fu restituito al Cardinalato; si come di nuouo poco dipoi facendo un'altra ribellione con fuggirsene da Clemente, fu reintegrato da Urbano, et premiato da lui di quella tanta ingratitudine; della quale meritaua di esser castigato; et con quella solità seuerità che forse haurebbe, se Galeotto non l'hauesse preuenuto con la morte nel Monte dell'Auernia, doue stà sepolto nella Chiesa de Frati Minori».
Quest'altra «ribellione» secondo Garimberti, dunque, non poté approdare al ritorno a Roma da vivo, per la scomparsa avvenuta, a suo dire, non a Vienne ma alla Verna, un luogo simbolico per Galeotto perché è quello della sua sepoltura, dapprima nella cappella «costruita sulla prima cella di san Francesco» [cfr. A. Giorgi, «Dal primitivo insediamento alla Verna dell'Osservanza», in «Atti del Convegno di Studi 2011», Firenze 2012, pp. 45-68, p. 52], poi nella «cappella della Maddalena» che avevano voluto i genitori di suo padre, ovvero Roberto (Uberto) da Pietramala e Caterina degl'Ubertini.
Questo particolare illumina sopra un altro aspetto: il trasferimento della salma di Galeotto avvenne, tre giorni dopo la morte, ovvero l'11 febbraio «sur le Rhône jusqu'à Avignon», come leggiamo in una lettera di Tieri di Benci, socio d'affari di Francesco Datini, grande mercante di Prato, a Francesco di Marco, imprenditore in una società di lanaioli.
«Da Avignone la salma del cardinale fu portata, per le terre dei Savoia e del duca di Milano, e per la Romagna, e le terre dei conti Guidi, alla Verna» [G. Franceschini, «Alcune lettere del Cardinale Galeotto da Pietramala», in «Italia medievale e umanistica», VII, Padova 1964, pp. 375-404, p. 397].


3. L'epistola «Ad Romanos»
La notizia della fuga da Avignone che leggiamo in Garimberti, non è però accettata da Stefano Baluzio (Étienne Baluze, 1630-1718) che nelle sue «Vitae Paparum Avenionensium» (Muguet, Parigi 1693) osserva: «Illum Hieronymus Garimbertus, scribit mortuum esse in monte Alvernae in summis Apennini jugis ibique sepultum in ecclesia fratrum Minorum. Errat sane dum scribit illum rediisse in gratiam cum Urbano sexto. Nam id falsum esse manifeste patet ex epistola ejus ad Romanos supra commemorata, et ex eo quod mortuus est Viennae» [col. 1364].
La falsità della notizia sulla fuga è dedotta in Baluze da quella epistola «Ad Romanos», di cui lui stesso parla alla col. 1363: Galeotto «scripsit gravem epistolam ad cives Romanos; in qua eos primo redarguit quod ipsi fuerint auctores schismatis, deinde hortatur ut eidem Benedicto, quem multis laudibus ornat, obedientiam prestent».
Se la fuga è del 1397, l'epistola «Ad Romanos» risale però a periodo di poco anteriore al dicembre 1394 [cfr. E. Ornato, «Jean Muret et ses amis: Nicolas de Clamanges et Jean de Montreuil», Genève-Paris 1969, p. 28]. Il titolo completo della lettera è: «Deflet horrendum schisma, hortaturque eos, ut adhaerendo Benedicto XIII, ipsi finem imponant».
Benedetto XIII è il Cardinale Pietro da Luna, eletto il 28 settembre 1394 con i voti di venti dei ventuno cardinali presenti ad Avignone. Era stato fatto Cardinale da Gregorio XI nel 1375. Sino al 1390 fu Legato pontificio nella penisola iberica.
Sul ruolo di Galeotto da Pietramala ad Avignone, è stato osservato che egli, per quanto fosse giovane, «exerçait une grande influence sur ses collègues et il avait même essayé de jouer un rôle de modérateur entre les deux papes» [cfr. B. Galland, «Les papes d'Avignon et la Maison de Savoie (1309-1409)», École Française de Rome n. 247, Roma, 1998, p. 334. In nota si rimanda a G. Mollat, «Dictionnaire d'histoire et de géographie ecclésiastique», 19, coll. 759-760].
Circa i rapporti fra Galeotto e Benedetto XIII, leggiamo in Franceschini: «Lo legava al nuovo pontefice una profonda stima e un'amicizia nata fin da quando aveva potuto riconoscere nel cardinale de Luna specchiata rettitudine e profonda cultura e il comune amore per gli studi di umanità e la ricerca degli antichi testi» [cit., p. 395].


4. La lezione umanistica di Petrarca
L'Umanesimo a cui guarda Galeotto è ispirato alla lezione di Francesco Petrarca. Il quale, in una lettera del 1368 a Urbano V, per esaltare il primato della cultura letteraria italiana, aveva affermato «oratores et poetae extra Italiam non quaerantur».
La frase suscita in Francia forti polemiche. Tra il 1369 e il 1372 l'autorevole teologo dello Studio parigino Jean de Hesdin (1320-1412) compone e diffonde l'epistola «Contra Franciscum Petrarcam», consegnata all'umanista italiano soltanto nei primi giorni di gennaio 1373.
Il 1° marzo dello stesso anno è datata da Padova la risposta-invettiva di Petrarca («Invectiva contra eum qui maledixit Italiae»).
Dopo la morte di Petrarca (1374), il grande Scisma accentua, anche sul piano politico, la rivalità Italia-Francia, e la querelle intorno alla frase dell'umanista italiano riprende, trasformata in un topos propagandistico.
Il momento culminante della querelle è nel breve carteggio fra Nicolas de Clamanges ed il nostro Galeotto, carteggio in parte risalente alla fine del 1394 o all'inizio del 1395, ma completamente riscritto anzi «inventato», per così dire (cfr. D. Cecchetti, «Petrarca, Pietramala e Clamages», Paris 1982, p. 18 et passim), dopo il 1420.
Clamanges controbattendo sdegnosamente alla frase incriminata di Petrarca, traccerà una breve storia della cultura di area gallo-francese, dall'antichità classica al XII secolo, per vantarne l'assoluta preminenza su qualsiasi altra tradizione nazionale».
La lezione umanistica di Galeotto progettava dunque un devoto omaggio alla genialità di Francesco Petrarca che non poteva non incontrare l'opposizione più accesa dei suoi amici in Avignone, per una serie di significativi motivi.
Anzitutto, come sottolinea J. Huizinga [«Autunno del Medioevo», Firenze 1987, p. 449] il preumanesimo di illustri esponenti di quel circolo avignonese come Montreuil e Col, è legato all'erudizione scolastica medievale. Poi c'è l'aspetto biografico di Petrarca che non poteva essere proposto in quella corte, da lui accusata di corruzione nei cosiddetti «Sonetti babilonesi» (136, 137, 138), come nelle lettere «Sine nomine» e nelle Egloghe sesta «Pastorum pathos» («Le cure pastorali») e settima «Grex infectus et suffectus» («Il gregge infetto») [cfr. E. H. Wilkins, «Vita del Petrarca», Milano 2003, p. 78].
Nell'epistola XVIII (penultima) delle «Sine nomine», si parla di vecchi e lascivi bambocci che bruciano nella libidine, precipitando in ogni vergogna, per tacere degli stupri, dei rapimenti, degli incesti, degli adulterii, «che rappresentano ormai il divertimento della lascivia papale» [«qui iam pontificalis lascivie ludi sunt»]» [«Sine nomine, Lettere polemiche e politiche», a cura di U. Dotti, Roma-Bari 1974, pp. 206-210].
Ci sono donne rapite, «violate e ingravidate da seme altrui», poi riofferte dopo il parto «all'alterna sazietà di chi le usa a suo godimento», mentre i loro mariti sono costretti a riprendersi le loro mogli «per rioffrirle di nuovo, dopo il parto, all'alterna sazietà di chi le usa a suo godimento».
Sulle «pagine densissime» delle «Sine nomine», leggiamo in Ezio Raimondi [«Un esercizio satirico ad Avignone» (1956), «I sentieri del lettore», a c. di A. Battistini, I, Bologna 1994] che esse «sorgono dalla sofferenza e dalla protesta del cristiano offeso» [p. 133].
La lezione petrarchesca, ha scritto Loredana Chines, «lascia alle generazioni successive degli umanisti il senso di un dialogo continuo e proficuo tra un passato da riscoprire e un presente da risanare» [«L'umanesimo: caratteri generali», pp. 428-440, «Il Medioevo», XI, Milano 2009, p. 428].
È la lezione che influenza anche Galeotto, al punto di attirargli l'accusa di non essere un buon cattolico a causa delle sue amicizie culturali, come si legge in Jean de Launoy (1603-1678), fecondo ed erudito autore francese [«Opera omnia, Opusculis ineditis...», IV, 2, Fabri, Barrillot, Bousquet, Ginevra, 1732, p. 62].


5. Notizie dalle corti
Il primo a parlare di un ritorno di Galeotto al Papato romano è, dieci anni prima di Garimberti nel 1557, Onofrio Panvinio (1529-1568) nella «Epitome pontificum Romanorum», Strada, Venezia, p. 260.
Secondo Panvinio, che fu agostiniano e lavorò a Roma come «corrector» e «revisor» di manoscritti presso la Biblioteca Vaticana al tempo di Pio IV, il Papa Urbano VI aveva restituito il cardinalato a Galeotto: «Galeottus de Petra Mala [...] cum fido Cardinale Ravennae fugit, verum non longe post in gratiam sororis suae [...]», moglie del nipote del Pontefice, ovvero Francesco Frignano.
Di questa moglie del nipote, e sorella del nostro Cardinale, non si hanno tracce.
Tre sono le sorelle di Galeotto di Pietramala: Elisa morta nel 1366, Taddea che si sposa nel 1372, e Caterina che s'accasa, forse nel 1393.
Quindi potrebbe Caterina ad esser stata coinvolta nella vita sentimentale di Francesco «Butillo». Il quale però poi prende per moglie Raimondina del Tufo, mentre Caterina va a nozze con Nicola Filippo Brancaleoni.
Per Francesco Prignano si legge pure che a Napoli rapì da un monastero «una Monaca professa, di nobile condizione, e la tenne seco nel suo appartamento» («Storia universale», XIII, Tasso, Venezia 1834, p. 131).


6. I giuochi del potere
Clamanges, autore della «Epistola XII, Mallem tibi laetiora», era divenuto segretario di Papa Benedetto XIII su raccomandazione dello stesso Galeotto. Con cui aveva mantenuto particolari rapporti di amicizia.
Galeotto «lo accolse con ogni sorta di amorevolezze, gli mostrò la sua biblioteca e lo fece padrone di usarne, e lo presentò al papa e agli altri cardinali», si legge in un volume fiorentino del 1890 [cfr.: G. Voigt, D. Valbusa, G. Zippel, «Il risorgimento dell'antichità classica. Il primo secolo dell' umanismo», II, Firenze 1890, pp. 340-341].
Questa frequentazione permetteva a Nicola di Clamanges di conoscere tutti i risvolti, anche i più segreti, della vita di Galeotto. E di interpretarne pure le intenzioni eventualmente non espresse per non nuocere ai propri progetti.

Perché nel settembre 1397 Galeotto si allontana da Avignone?
Quello è un particolare momento non soltanto della storia generale del regno di Francia, quando Carlo VI (in carica dal 1380) cerca di chiudere il Grande Scisma che durerà sino al 1417; ma pure della biografia di Galeotto, privato dei redditi della località di Noves già riconosciutigli dal Papa Clemente VII, per colpa di Gilles Bellemère (1342-1407), esponente di spicco della corte di Avignone, di cui diventa vescovo nel 1392, come si legge in un testo di Henri Gilles [«La vie et les œuvres de Gilles Bellemère», Bibliotheque de L'Ecole des Chartes, CXXIV, Paris 1966, p. 116-117].
Di Clemente VII, Bellemère fu anche ambasciatore presso Carlo VI. Divenne famoso grazie ai suoi «Commentari» al «Decretum Gratiani» o «Corpus iuris canonici» (XII sec.), editi nel 1548.
«Un homme fort près de ses intérêts», lo definisce Henri Gilles. Bellemère era in contatto con gli intellettuali umanisti di Avignone, quindi pure con lo stesso Galeotto che di quel gruppo era il protettore (Coville, p. 406). E Galeotto deve aver considerato il gesto di Bellemère un tradimento pieno di pericoli per il suo futuro.
La questione si trascina dal marzo 1394 all'agosto 1397. Quando Galeotto protesta perché privato dei redditi di Noves. Ma fa altrettanto, e soprattutto «bien fort», lo stesso Bellemère scrivendo persino un trattato per dimostrare in punta di Diritto romano «la justesse de ses prétentions». Per rafforzare «son droit sur Noves», il Bellemère invita «les habitants à prêter un serment public d'obéissance à sa personne, à son église et à sa cour de Noves» [H. Gilles, pp. 117-118].
Siamo proprio alla vigilia della partenza di Galeotto di Pietramala da Avignone per Valence.

Gilles Bellemère era stato preso a servizio dal Cardinale Pierre Roger de Beaufort, futuro Gregorio XI, «en qualité de chapelain et de commensal» (cappellano e famiglio), all'inizio del 1367 ad Avignone. Dove arriva al momento in cui «la cour pontificale faisait ses préparatifs de départ» verso Roma [H. Gilles, pp. 38-39].
Urbano V parte da Avignone venerdì 30 aprile, e passa a Marsiglia dove s'imbarca per il Lazio, giungendo al porto di Corneto in Maremma, accompagnato da sette Cardinali.
Altri quattro Cardinali seguono il diverso itinerario «flaminio», che ha un'indubbia valenza politica: provenendo da Modena, passano per Rimini tra 11 e 25 giugno 1367.
Sono Pierre de Monteruc (11 giugno), e Stefano Aubert (18 giugno), due cugini, figli di fratelli di papa Innocenzo VI (Étienne Aubert, 1282-1362), che viaggiano separatamente.
Assieme invece giungono il 25 giugno altri due cugini, Nicole de Besse, Cardinale di Limoges, ed il nostro Pierre Roger de Beaufort, un cui zio fu Clemente VI, Pierre Roger, quarto papa d'Avignone, dal 1342 al 1352. [H. Gilles a p. 39 in nota 5 rimanda a «Cronache Malatestiane dei secoli XIV e XV», tomo XV, 2 di «Rerum Italicarum Scriptores», a cura di A. F. Massèra, Bologna 1922, p. 29].
Pandolfo II, figlio di Malatesta Antico, il 16 ottobre 1367 partecipa con lo zio Galeotto I (il nonno del nostro Cardinal Galeotto), a Roma, al corteo per il rientro di Papa Urbano V.

Circa la città di Vienne, va ricordato che suo Arcivescovo era Thibaud de Rougement, nominato da Benedetto XIII il 17 settembre 1395. Resta a Vienne sino al 1405, quando è trasferito dal Papa a Besançon, dopo che le truppe di Thibaud hanno avuto pesanti scontri (con vari castelli bruciati), durante la guerra tra lo stesso Thibaud ed i fratelli Guy et Jean de Torchefelon che avevano rifiutato di rendergli omaggio.
Thibaud de Rougement nel 1398 provoca un grave scontro con gli ufficiali reali di Santa Colomba, colpendo con interdetto e scomunica questo antico sobborgo di Vienne. Ne nasce una forte tensione che arriva a coinvolgere Papa e Re.
Le fonti storiche riferiscono di «aspri conflitti» sorti fra Thibaud (che aveva anche il titolo di Conte di Vienne) e Charles de Bouville, governatore del Delfinato, per i «diritti temporali» che gli sono restituiti soltanto nel 1401, dopo un intervento regio dell'agosto 1399.
Il 23 gennaio 1397, a Parigi, Thibaud battezza Luigi, figlio del re di Francia Carlo VI e della regina Isabella, figlia di Stefano II, duca di Baviera, e di Taddea Visconti di Milano (figlia di Barnabo).
L'anno prima Carlo VI ha concordato con Riccardo II d'Inghilterra le nozze di quest'ultimo con la propria figlia Isabella di Valois, una bambina che nel 1400 resta vedova ad appena dieci anni d'età.


7. Notizie italiane
Nel frattempo è nata (1396) la lega di Carlo VI con Firenze, Ferrara, Mantova e Padova contro i Visconti.
Capitano è nominato Carlo Malatesti (fratello di Rengarda, la madre del nostro Cardinale), che nel 1397 a Mantova fa rimuovere un'antica statua di Virgilio, con un gesto ritenuto da Coluccio Salutati oltraggioso verso la poesia, e da Pier Paolo Vergerio indegno d'un principe che pretenda di amare gli studi e la storia.
Quello di Carlo è soltanto un atto politico per segnalarsi al potere ecclesiastico, «credendo un delitto che i cristiani venerassero un uomo non cristiano», come si legge nella biografia di Vittorino da Feltre scritta (1474 ca.) dal suo allievo mantovano Francesco Prendilacqua [«De vita Victorini Feltrensis», Typiis Seminarii, Patavii 1774, p. 93].
Circa i Visconti, abbiamo ricordato che Galeotto Tarlati nella sua fuga dal Papa romano Urbano VI aveva trovato rifugio proprio a Milano presso Gian Galeazzo Visconti. Ed al Visconti Galeotto resta legato, se nel 1390 da Avignone gli scrive auspicando che il vessillo della vipera sventoli sulle sponde dell'Arno, e nel 1391 gli indirizza «una lettera tutta vibrante d'odio contro Firenze» scrive Francesco Novati [«Due lettere del cardinale di Pietramala a Gian Galeazzo Visconti (1390-91)», Archivio storico lombardo, 43, 1916, pp. 185-191, pp. 185-186].
Il nome di Carlo Malatesta va infine legato alle nozze fra la sua nipote Antonia e Giovanni Maria Visconti.

Galeotto «combattendo Firenze colla penna intendeva venir in soccorso de' congiunti suoi che l'assalivano colla spada», commenta Novati [p. 187].
«Florentiam ipsam, valido exercitu circumdate»: è l'invito (anzi una specie di ordine di etica politica, più che un piano di strategia militare), che la penna di Galeotto indirizza al Visconti nella prima lettera: «Illa, illa urbs petenda est, unde pecuniarum auxilia prodeunt, unde erumpunt fraudes, unde armorum gentibus subvenitur: nichil erit impossibile eis, dum eorum ager sine hoste erit, dum nudus agricola solvet ad occasum boves quos ad solis ortum ligaverat; dum lanarum colos trahent ruricole mulieres; dum lucrum diei avarus sed quietus mercator numerabit ad vesperum» [pp. 189-190].
Nella seconda lettera, Galeotto ribadisce che è necessario attaccare la Toscana: «in Tusciam cum reliquis est vertenda manus. Illic bellum extinguatur ubi ortum habuit; illic victoria habeatur, ubi sunt hostes; illic pena infligatur, ubi scelera sunt patrata» [pp. 190-191].

La cronaca politica resta sullo sfondo del giudizio che Francesco Novati compone di Galeotto («Adorno di belle doti morali ed intellettuali»), partendo proprio da quelle due lettere del 1390-91, le quali a suo parere dimostrano «come i contemporanei avessero ragione di lodar l'ingegno e la dottrina del porporato aretino» [p. 188].
Novati osserva pure che la lettera del 1391 era anche vibrante «di gioia per la morte» del conte Giovanni d'Armagnac, ucciso alle porte d'Alessandria mentre combatteva ingaggiato dal doge di Genova «ond'annientare la potenza di Gian Galeazzo Visconti» [p. 185].
Sulla scorta di una nota di Novati [p. 185, nota 2], troviamo nelle «Memorie spettanti alla storia di Milano» (curate da Giorgio Giulini (1714-1780), vol. V, Colombo, Milano 1856, p. 764): «Alcuni scrittori, col nostro annalista milanese, dicono ch'egli [Giovanni d'Armagnac] era ferito; ma i cronisti di Piacenza e di Bergamo, e l'Estense, più giustamente affermano che la grande stanchezza e il caldo sofferto in quel cocentissimo giorno lo ridussero a morire».
Novati aggiunge: «Firenze aveva mossa ai Tarlati una guerra senza quartiere, cercando d'annichilirne la potenza, come aveva distrutta a poco a poco quella de' Guidi, degli Ubaldini e di tant'altri signorotti minori. Costretti a difendersi incessantemente contro l'implacabile avversaria, i Tarlati davan senz'esitare l'aiuto loro a tutti i nemici di lei; in tutte le guerre, grosse o piccine, che Firenze ebbe a sostenere durante il secolo decimoquarto contro i suoi vicini, essa si trovò ognora di fronte i signori di Pietramala. Ed anche nel 1390, non appena che il Visconti s'era deciso a bandire la guerra contro di essa, egli aveva ritrovato ne' Tarlati degli alleati modesti, ma fedeli, tanto più fedeli quanto più la caduta d'Arezzo nelle granfie de' fiorentini aveva esasperato il loro aborrimento ed accresciuti i loro terrori» [ib., pp. 186-187].
Novati [p. 186, nota 2] riporta una lettera di Coluccio Salutati (Cancelliere della Repubblica di Firenze dal 1375 al 1406), in cui il comportamento antifiorentino dei Tarlati di Petramala è deriso con un gioco di parole sul cognome: Tarlati si dice degli alberi putrefatti, e Petramala deriva da «pietra» che sta a signifcare durezza ed ostinazione. Essi, conclude Salutati, «sunt turbatores pacis, insidiatores viarum, mercatorum spoliatores, peregrinorum homicidae et infames latronum principes et fautores».

Su Galeotto, prosegue Novati: «Urbano VI l'avea creato Cardinale diacono di S. Agata. Ma la sua fortuna durò poco. Scoppiato lo scisma, il feroce pontefice lo prese in sospetto; credette, a ragione ovvero a torto non sapremmo decidere, che avesse preso parte al complotto ordito in Genova per sottrarre a morte i cardinali che egli voleva sacrificare alla propria vendtta; ed il Tarlati in pericolo di finir male dové cercare scampo nella fuga. Recossi allora a Pavia, quindi ad Avignone, dove rinnegando il passato riconobbe come vero pontefice l'antipapa Clemente. Ripagato da costui colla dignità cardinalizia di S. Giorgio in Velabro, Galeotto non lasciò più la Francia, donde continuò, fin che gli durò la vita, a tramare insidie contro i suoi nemici maggiori: Firenze ed Urbano» [pp. 187-188].
Novati scrive anche: «Firenze aveva mossa ai Tarlati una guerra senza quartiere, cercando d'annichilirne la potenza, come aveva distrutta a poco a poco quella de' Guidi, degli Ubaldini e di tant'altri signorotti minori. Costretti a difendersi incessantemente contro l'implacabile avversaria, i Tarlati davan sen'esitare l'aiuto loro a tutti i nemici di lei; in tutte le guerre, grosse o piccine, che Firenze ebbe a sostenere durante il secolo decimoquarto contro i suoi vicini, essa si trovò ognora di fronte i signori di Pietramala. Ed anche nel 1390, non appena che il Visconti s'era deciso a bandire la guerra contro di essa, egli aveva ritrovato ne' Tarlati degli alleati modesti, ma fedeli, tanto più fedeli quanto più la caduta d'Arezzo nelle granfie de' fiorentini aveva esasperato il loro aborrimento ed accresciuti i loro terrori» [pp. 186-187].

Se quella lettera di Galeotto diretta al Visconti di Milano, è «tutta vibrante d'odio contro Firenze», come scrive Novati, è perché in essa si proiettano ricordi di famiglia, e s'affacciano motivazioni legate ad una concezione della vita politica tipicamente medievale, in quanto avversa alla gente «nova» che vi stava emergendo.
Non c'è quindi nell'atteggiamento politico di Galeotto verso Firenze soltanto una chiave autobiografica, ma anche il riflesso di quelle concezioni di cui parla il già ricordato Huizinga nel suo celebre saggio «L'autunno del Medioevo», laddove spiega che «il concetto della divisione della società in classi pervade fino in fondo, nel Medioevo, tutte le considerazioni teologiche e politiche» [p. 74].
C'è anche in Galeotto la concezione gerarchica della società che Huizinga descrive nel terzo capitolo del suo saggio, dove ricorda l'attribuzione alla nobiltà del compito di difendere il mondo, di promuovere la virtù e mantenere la giustizia [p. 82].
Firenze era la città che aveva soffocato a mano armata il tumulto dei Ciompi (agosto 1378).
Chiesa ed aristocrazia in Italia avevano vivo il ricordo di quanto accaduto a Parigi nel 1358, con la salita al potere di un mercante, Étienne Marcel, grazie all'azione della borghesia cittadina che così si contrapponeva alla politica monarchica e della nobiltà che la sosteneva. E con l'uccisione dello stesso Marcel, che aveva tentato di collegare la rivoluzione parigina con la rivolta nelle campagne, guidata da un vecchio soldato (Charles Guillaume, sconfitto e ghigliottinato), e soffocata nel sangue.


Nota. Galeotto, il politico.
Abbiamo letto in Novati su Galeotto: «Urbano VI l'avea creato Cardinale diacono di S. Agata. Ma la sua fortuna durò poco…» [pp. 187-188].
Novati come fonti cita L. Cardella, «Memorie storiche de' Cardinali della Santa Romana Chiesa», II, Pagliarini, Roma 1793 e N. Valois, «La France et le Grand Schisme d'Occident», II, Paris 1896.
Sull'intervento di Giovanni d'Armagnac, cfr. A. Antonielli, F. Novati, «Un frammento di zibaldone cancelleresco lombardo del primissimo Quattrocento. Testo ed illustrazioni storico-critiche ai documenti contenuti nel Frammento Pallanzese», Archivio Storico Lombardo, 1913, Serie IV, vol. 20, fasc. 40, pp. 304-305.
Giovanni d'Armagnac stipula il 16 ottobre 1390 a Mende un trattato con la repubblica toscana. Il 26 luglio 1391 il suo esercito è «tagliato a pezzi dalle truppe viscontee».
Circa Giovanni d'Armagnac, ricordiamo che era il fratello di Beatrice d'Armagnac, detta «la gaie Armagnageoise», moglie di Carlo Visconti dal 1382. L'anno prima Beatrice era rimasta vedova di Gaston de Bearn o de Foix, nato nel 1365.
«Stimolarono i Fiorentini il re di Francia, e non si sa con quai mezzi l'indussero, malgrado gli stretti vincoli del sangue, a spedire per la Savoia un corpo di diecimila Francesi, comandati dal conte d'Armagnac. Sebbene il duca di Savoia fosse pure stretto parente del conte, che era figlio di Bianca di Savoia, pure lasciò libero il passo a queste truppe. Il comandante conte d'Armagnac era parente stretto di Carlo Visconti, figlio di Barnabò, che viveva miseramente ramingo colla sua moglie Beatrice d'Armagnac»: cfr. P. Verri, «Storia di Milano» I, Marelli, Milano 1783, p. 412.
Tra le genti d'arme assoldate nel 1388 c'è un Giantedesco da Pietramala, figlio di Marco, considerato valorosissimo, e celebrato capitano di ventura, poi onorato da una statua equestre di Giacomo della Quercia nel Duomo di Siena.
In margine alla prima lettera, laddove Galeotto accusa quel sistema che genera la ricchezza della nuova società fiorentina («Illa, illa urbs petenda est, unde pecuniarum auxilia prodeunt, unde erumpunt fraudes...»), si può osservare che nel nostro Cardinale agiscono non soltanto gli istinti legittimi della difesa di interessi famigliari, ma incontriamo pure una ben precisa visione politica, tipica della gerarchia ecclesiastica, non basata sul valore del censo economico "conquistato" e non ereditato, ma su quello che scaturisce dall'esercizio del potere e delle armi che lo sorreggono.
Già i Comuni avevano spogliato i Vescovi della giurisdizione politica sulle città. La posizione di Galeotto è quindi una significativa immagine dello scontro ideologico, si direbbe oggi, che agita il suo tempo.

Nota bibliografica.
La lettera di C. Salutati è presente alle pp. 190-191 di P. Durrieu, «La prise d'Arezzo par Enguerrand VII, sire de Coucy, en 1384», Bibliothèque de l'école des chartes, 1880, tome 41, pp. 161-194; ed alle pp. 233-234 di U. Pasqui, «Documenti per la storia della città di Arezzo nel medio evo», III, Firenze 1937.


8. La visita a Valence
Galeotto di Pietramala resta per più di tre mesi a Valence [cfr. R. Brun, «Annales avignonnaises de 1382 à 1410 extraites des archives de Datini, dans Mémoires de l'Institut historique de Provence, p. 40]. Il Vescovo di Valence è dal 1390 Jean Gérard de Poitiers (ca. 1368-1452), succeduto a Amedeo di Saluzzo (1361-28.6.1419).
Amedeo di Saluzzo era legato a Galeotto di Pietramala dallo stesso interesse verso la cultura, appartenendo a quel «cenacolo umanistico formato dai chierici ed intellettuali, i quali ruotavano attorno a Benedetto XIII ed alla sua celebrata biblioteca ricca di opere giuridiche e stupefacente per i testimoni della classicità che vi venivano custoditi» [cfr. A. Bartocci, «Il cardinale Bonifacio Ammannati legista avignonese ed un suo opuscolo contra Bartolum sulla capacità successoria dei Frati Minori», «Rivista internazionale di Diritto Comune», 17, Roma 2006, pp. 251-297, p. 267].
Coville osserva: «le cardinal qui à Avignon attirait le plus volontieri écrivains et humanistes était Galeotto» [cfr. A. Coville, «La vie intellectuelle dans les domaines d'Anjou-Provence de 1380 à 1435», Parigi 1941, p. 403].
Degli episcopati di Valence e di Die, Amedeo di Saluzzo è amministratore tra novembre 1383 e giugno 1388. Il 23 dicembre 1383 Amedeo è creato Anticardinale da Clemente VII, il cui padre era cugino della madre di Amedeo, Beatrice, figlia di Ugo conte di Ginevra [cfr. P. Rosso, «Cultura e devozione fra Piemonte e Provenza. Il testamento del cardinale Amedeo di Saluzzo (1362-1419)», Cuneo 2007, p. 13].
Il nuovo Antipapa Benedetto XIII (eletto il 28 settembre 1394) invia poi Amedeo di Saluzzo in legazione a Ferdinando re di Aragona. Successivamente (1390) Amedeo lascia il partito di Benedetto XIII e s'accosta a quello di Bonifacio IX (eletto nel 1389), il quale lo nomina cancelliere della Chiesa di Roma. Nel 1403 Amedeo diventa Camerlengo e Protodiacono del Sacro Collegio.
Insomma, l'itinerario di Amedeo di Saluzzo rassomiglia molto a quello di Galeotto di Pietramala. Il quale propone pubblicamente il percorso di risoluzione dei contrasti tra Roma ed Avignone, con la «via cessationis» o «via cessionis», consistente nelle dimissioni del Pontefice di Avignone, quel Benedetto XIII presso cui si era rifugiato lo stesso Galeotto.
Poi Galeotto giustifica lo stesso Pontefice per la sua risposta negativa alla sua proposta, contenuta nella già ricordata epistola «Ad Romanos» del 1394.
Va ricordato pure il ruolo del re di Francia Carlo VI che intendeva riunificare la cristianità come scrive Franco Gaeta, op. cit.], partendo proprio dalla «via cessionis» della rinuncia di entrambi i Papi. Il rifiuto che esprimono, porta la Francia a sottrarsi (1407) alla loro obbedienza, e provocano la crisi dell'autorità papale, poi risolta soltanto al Concilio di Costanza.
Il soggiorno di Galeotto a Valence va collegato anche a quanto si prepara appunto in Francia, ricordando che la corona «fece deliberare la sottrazione d'obbedienza dall'assemblea del clero tenutasi a Parigi tra il maggio e l'agosto 1398» [Rosso, op. cit., p. 18].
Scomparso Clemente VII il 16 settembre 1394, Galeotto da Pietramala si trova al conclave per l'elezione (28 settembre) del nuovo Antipapa Benedetto XIII, l'aragonese Pedro Martínez de Luna (1328-1423).
Poco dopo, comunque prima di dicembre [Ornato, op. cit., p. 28], Galeotto «scripsit gravem epistolam ad cives Romanos; in qua eos primo redarguit quod ipsi fuerint auctores schismatis, deinde hortatur ut eidem Benedicto, quem multis laudibus ornat, obedientiam prestent», come leggiamo in Stefano Baluzio [op. cit., col. 1363].

Riproduciamo qualche brano di questa epistola «Ad Romanos» [col. 1544].
«Tempus est jam, si Deus adjuverit, fugare tantam pestem. et tartari claudere portas, ne schismaticorum spiritus repleautur in posterum, faucesquae satanae insatiabiles stringere, ne christiano cibo quotidie epuletur. In hoc vos meditar decet, in hoc animi vires colligere, in hoc omnis vestra debet esse intentio, ut ecclesiam resarcitam Domino praesentetis, quam sic inconsulte, dividere non puduit».
Come agire?
«Schisma in potestate nostra creare, nutrire ac fovere possumus, illud autem tollere, cum velimus, non est nostrum.»
Poi Galeotto parla di Benedetto XIII, «qui potens est et vult omnes nostros morbos curare, sed illos praesertim qui schismatis putredine catholica corpora corruperunt». Ai Romani dice: «Audite, quaeso, monita sua sancta, salubres eius preces esaudite».
Infine Galeotto tesse un incondizionato elogio di Benedetto XIII: «Ejus mores et integritatem, benignitatem, mansuetudinem, caritatem, pietatem, sinceritatem, aliis forte in populis predicare non incongruum, vobis autem jam diu persuasum esse scio. Nostis hominem et ejus virtutes».
Benedetto XIII ha scelto di riunire la Chiesa, per presentarla a Dio tutta risarcita, lui che la trovò così lacerata: «optat interimere schisma, et jam foedam belluam mactare sua manu». Per questo vi incita, ed implora il vostro aiuto. Partendo da ciò, Galeotto prega i Romani di appoggiare Benedetto «ad candidam ecclesiae unionem».
Come si è visto, le speranze di Galeotto vanno deluse, perché Benedetto XIII cambia opinione.


9. Vienne, 8 febbraio 1398
A Vienne Galeotto di Pietramala muore l'8 febbraio 1398. Come abbiamo già visto, lo racconta Nicolas de Clamanges nell'epistola XII «Mallem tibi laetiora», composta ad Avignone.
Clamanges ha la prova che Galeotto si trovasse a Vienne: è una lettera del Cardinale stesso, inviatagli da quella città. In questa epistola XII, Clamanges ricorda che Galeotto fu per lui un protettore, un aiuto, un intercessore ed un procuratore. Ciò significa anche che il nostro Cardinale trovava ampio ascolto presso la Corte pontificia.
Nell'epistola XII di Nicolas de Clamanges, come abbiamo già scritto, la notizia delle dimissioni di Galeotto è data attraverso un semplice avverbio, «nuper», legato alla parola Cardinale, con cui si documenta la completa rottura tra il Nostro e l'ambiente ecclesiastico avignonese.
Ciò ci permette di parlare di una sua nuova fuga, questa volta dalla sede di Avignone. Dove aveva trovato rifugio quando si era allontanato da Urbano VI, autore dei sei omicidi ricordati.
Le fonti storiche moderne hanno sottolineato l'importanza dell'epistola XII di Clamanges soltanto per quanto riguarda la cultura umanistica di Galeotto, la cui biblioteca era molto ricca di libri rari. Ma questo piccolo ed importante dettaglio del «nuper Cardinalis», sinora dimenticato, rivela qualcosa di ancora più importante, appunto la definitiva crisi dei rapporti di Galeotto con l'Antipapa.
Tornato semplice diacono, come era stato sino al 1378, Galeotto chiude la sua vita inevitabilmente pensando a quella terra toscana da cui provenivano i suoi antenati che tanto erano legati al movimento francescano.

La chiesa principale della Verna è fondata nel 1348 da Tarlato, conte di Chiusi, fratello di Guido, Vescovo di Arezzo; e da sua moglie Giovanna Aldobrandeschi di Santa Fiora. Guido Vescovo è cugino di Roberto Tarlati, nonno paterno di Galeotto.
Discepolo di San Francesco fu un beato Angelo Tarlati, patrizio aretino, scomparso nel 1254. C'è poi un altro beato, Benedetto Sinigardi, patrizio aretino, figlio di Sinigardo Sinigardi e di una Elisabetta Tarlati di Pietramala (forse figlia di una figlia di Guido nato nel 1140).
Su questo beato Benedetto Sinigardi, P. Girolamo Golubovich o. f. m. ha scritto: «il Santo Patriarca Francesco, trovandosi in detto anno [1211] in Arezzo, diede l'abito al giovane Sinigardi», che era nato attorno al 1190 [cfr. «Vita et miracula B. Benedicti Sinigardi», Quaracchi 1905, p. 11].
Nel 1216 o nel 1217 «Benedetto fu destinato dal Capitolo generale e da S. Francesco a primo Ministro provinciale della Marca Anconitana. Egli non doveva avere allora più di 27 anni d'età; ma all'età forse immatura, suppliva certo la virtù provetta» [ib.]. Poi, non prima del 1221, fu terzo Ministro provinciale della Terra Santa e di tutto l'Oriente, riorganizzando la Provincia minoritica [ib.].

Tutto questo "retroscena" francescano si collega al fatto che Galeotto è stato sepolto a La Verna. Dapprima nella cappella della Maddalena (voluta dai genitori di suo padre, Roberto di Pietramala e Caterina degl'Ubertini), e successivamente in quella che lui stesso s'era fatto costruire, nella seconda cappella a sinistra della chiesa maggiore, e che ancor oggi è detta «cappella del cardinale».

Il discorso sui Francescani non può dimenticare un fatto che riguarda il 1379, quando quelli scismatici nel loro Anticapitolo generale di Napoli, convocato da frate Leonardo da Giffone, ovvero Leonardo de Rossi (1335-1407), già fatto Cardinale dall'Antipapa il 18 dicembre 1378, lo appoggiano.
Rossi è poi arrestato dal Legato Apostolico Cardinal de Sangro, e sconta cinque anni di durissimo carcere ad Aversa, prima di fuggire ad Avignone, dove è ben accolto. Poi volta le spalle all'antipapa Benedetto XIII per la sua ostinazione e pertinacia, scrivendo contro di lui un trattato, in cui lo considera un eretico.
Per completare il quadro politico locale di quel tempo, ricordiamo che Guido fu scomunicato e deposto da Vescovo d'Arezzo ad Avignone il 17 aprile 1326, per la sua politica quale «Tiranno e Signore» (così lo chiama Giovanni Villani) della stessa città d'Arezzo, dal 14 aprile 1321 alla morte (avvenuta il 21 ottobre 1327).

Guido e tutti gli altri Tarlati non furono molto amati ai loro tempi, come non sono stati amati da studiosi del secolo scorso, che si sono occupati di loro, ricostruendo confusamente un albero genealogico che addirittura attribuisce al nostro Cardinal Galeotto ben tre inesistenti figli illegittimi, Tommaso, Betto e Guido: cfr. il cit. testo di Pasqui, «Documenti per la storia della città di Arezzo nel Medio Evo, III», p. 394.
Pasqui tuttavia definisce Galeotto «uomo intelligente ed autorevole» [p. XIV] .

Galeotto, se divenne Cardinale grazie al nonno Galeotto I, nell'ultimo periodo del suo soggiorno avignonese dovette subire le amare conseguenze del ruolo di primo piano che i suoi parenti Malatesti svolgevano nella Chiesa di Roma.
Proprio nel 1397 Papa Bonifacio IX conferisce a Pandolfo III (fratello di Rengarda, la mamma del nostro Cardinale), l'incarico di Comandante supremo della Chiesa nonché quello di Rettore del Ducato di Spoleto.
Il circolo alquanto vizioso tra vita politica e vita della Chiesa, si chiude per il Nostro con una specie di assedio che lo incatena ad un ruolo di imputato per colpe non sue, mentre le tensioni tra Avignone e Parigi provocano scintille.
Su questo sfondo avviene quanto Clamanges riassume con quel «nuper Cardinalis», ovvero una storia non scritta che s'inserisce nel profilo della crisi che coinvolge tutte le istituzioni, religiose e politiche, mettendole in conflitto fra loro.


10. Vecchio mondo, nuove idee
Per tornare al quadro generale del tempo, va ricordato che allora si diffondono le idee di Marsilio da Padova che, nel «Defensor Pacis» (composto a Parigi nel 1324), attacca alle fondamenta l'origine divina del Primato di Pietro, oltre a tutta la struttura gerarchica della Chiesa, parlando di «sovranità popolare» e di «Stato di diritto».
Marsilio (che era stato Rettore dell'Università parigina tra 1312 e 1314) fa «una grande battaglia per la libertà civile dello Stato» ed «una strenua difesa di quel piano di civile convivenza umana ove le differenze delle fedi, i contrasti delle ideologie e delle credenze debbono cedere dinnanzi alla sovranità della legge "umana" ed all'uguale diritto di tutti i cittadini», come scrive Cesare Vasoli, nell'introduzione alla sua traduzione del «Defensor Pacis» [Torino 1960, p. 77].
Nel 1407, osserva R. Sabbadini [«Le scoperte dei codici latini e greci ne' secoli XIV e XV», Firenze 1914, p. 74] «alcuni mesi prima che scoppiasse la nuova bufera con la scomunica lanciata da Benedetto XIII contro il re di Francia», Nicolas de Clamanges si allontana dalla Curia avignonese, «ritirandosi per alcuni mesi a Genova», e vivendo un «periodo di solitudine e scoramento», simile a quello del suo antico protettore, Galeotto di Pietramala.
Andandosene da Avignone, Galeotto segue l'esempio del collega di fuga da Urbano VI nel 1385, ovvero di Pileo da Prata che nel 1389 appoggia il Papa romano Bonifacio IX, il quale gli affida nuovamente l'Arcidiocesi di Ravenna dove era stato destinato già nel 1370.
Stefano Baluzio (1630-1718) sostiene il contrario: cioé Galeotto non ebbe la stessa «leggerezza» del collega Arcivescovo di Ravenna dal 1370 («Vitae Paparum avenionensium», a cura di G. Mollat, Parigi 1927, I, col. 1364).
Secondo l'abate Eugenio Gamurrini (1620-1692), il Cardinal Galeotto, «era ornato di una finissima prudenza e di un coraggio insuperabile, per il che si era reso in posto di gran stima e desiderabile a tutti i Principi» (cfr. «Istoria genealogica delle famiglie nobili toscane et umbre», I, Onofri, Firenze, 1668, p. 197).

Galeotto giunge a Vienne in un momento particolare della storia politico-religiosa di questa città.
Nell'estate del 1395 muore l'Arcivescovo Humbert III [cfr. M. Mermet, «Histoire de la ville de Vienne de l'an 1040 à 1801», Parigi 1854, p. 184]. Gli abitanti di Vienne erano esenti dai tributi, ed il delfino aveva mantenuto i loro privilegi e le loro immunità [ib., p. 183], ma il 22 maggio 1390, il giudice maggiore di Vienna Antoine Tholosani emise una sentenza definitiva interamente favorevole alla Chiesa [cfr. pure F. Z. Collombet, «Histoire de la Sainte Église de Vienne», II, Parigi, 1847, p. 356].
Negli antefatti (1339) è coinvolto anche il Cardinale "Gocio de Batagliis d'Aréminie" [ib. p. 156] quale inviato pontificio per conoscere i fatti, onde risolvere le situazioni di contrasto tra potere politico e Papato avignonese. Il quale si esprime il 20 novembre 1340 [p. 157] con una multa al Delfino, da pagare alla Camera apostolica. E con l'ordine che Arcivescovo e Capitolo esercitassero la giurisdizione come un tempo. Clemente VI, succeduto a Benedetto XII, fa assolvere il delfino [p. 162].
Il 2 settembre 1344 Clemente VI annulla il giuramento di fedeltà degli abitanti di Vienne prestato il 22 agosto 1338 [p. 165].
Il 29 marzo 1349 Humbert cede puramente e semplicemente i suoi Stati a Carlo, figlio del duca di Normandia, a condizione che assumessero lui ed i suoi successori il titolo di «delfino» [p. 166]. Schiavo dei Papi, egli sottopose a loro non soltanto i suoi progetti ma pure i suoi atti amministrativi. Il Papa avignonese lo porta a poco a poco a spogliarsi d'una sovranità che avrebbe poi rimpianto [pp. 166-167]. Anche se il delfino sperava di salire in alto nelle dignità ecclesiastiche. Ma poi si sposa con Jeanne de Bourbon [p. 168].
Nel 1389 Carlo VI andando da Parigi ad Avignone si ferma a Vienne, desiderando d'esser considerato come vicario dell'impero [p. 179].

Ritorniamo a Thibaud de Rougement che, come si è già visto, nel 1398 provoca un grave scontro con gli ufficiali reali di Santa Colomba, colpendo con interdetto e scomunica questo antico sobborgo di Vienne [p. 195]. Ne nasce una forte tensione che arriva a coinvolgere Papa e Re. [Cfr. pure M. C. Charvet, «Histoire de la Sainte Église de Vienne», Lyon 1761, p. 341.]
Thibaud de Rougement, nominato da Benedetto XIII Arcivescovo di Vienne il 17 settembre 1395, entra solennemente nella città l'8 dicembre dello stesso anno. Resta a Vienne sino al 1405, quando è trasferito dal Papa a Besançon, dopo che le truppe di Thibaud hanno avuto pesanti scontri (con vari castelli bruciati), durante la guerra tra lo stesso Thibaud ed i fratelli Guy et Jean de Torchefelon che avevano rifiutato di rendergli omaggio.
Le fonti storiche riferiscono di «aspri conflitti» sorti fra Thibaud (che aveva anche il titolo di Conte di Vienne) e Charles de Bouville, governatore del Delfinato, per i «diritti temporali» che gli sono restituiti soltanto nel 1401, dopo un intervento regio dell'agosto 1399. [Cfr. A. Devaux, «Essai sur la langue vulgaire du Dauphiné septentrional au moyen âge», Genève 1968, p. 82.]
Thibaud accusa gli ufficiali regi di averlo privato della sua giurisdizione temporale, e li scomunica.
Thibaud è protagonista nel 1402 di un terribile scontro con Guy e Jean de Torchefelon, su cui rimandiamo a questa scheda.
«Thibaud de Rougemont, prince-archevêque de Vienne de 1395 à 1405, devenu ensuite archevêque de Besançon (1405). Famille illustre dans le comté de Bourgogne. En 1382, le dauphin Charles II devient roi sous le nom de Charles VI. Par un arrêt de 1400, il rétablit l'archevêque Thibault et son chapitre dans leurs prérogatives temporelles sur Vienne. En 1402 les archevêques de Vienne deviennent abbés perpétuels de l'ordre de Saint-Chef et seigneurs du bourg et de ses dépendances, le château de Saint-Chef est pris et ruiné dans la guerre acharnée que se font Thibaud de Rougemont et les frères Guy et Jean de Torchefelon, ceux-ci ayant refusé de faire hommage à l'archevêque de leur château de Montcarra. Le fougueux prélat attaque brusquement ce château et le brûle. Les Torchefelon prennent et incendient celui de Saint-Chef, en font autant de celui de Seysseul et ravagent tous les environs. Lorsque le gouverneur du Dauphiné intervient pour chercher à arrêter ces désordres scandaleux, Thibaud excommunie les officiers du roi. L'année suivante, les Torchefelon brûlent le château de Mantaille. Les troupes de l'archevêque incendient à leur tour le château de Torchefelon. Le pape Benoît XIII saisit avec empressement l'occasion de transférer de Rougemont à Besançon.»
[Fonte: http://empireromaineuropeen.over-blog.org/2015/04/histoire-du-dauphine-archeveche-de-vienne-comte-du-viennois-eveche-de-grenoble-comte-de-grenoble-vicomte-de-briancon.html]


11. Il ricordo di Cola di Rienzo
L'epistola di Galeotto «Ad Romanos» (1394) nasce dalla speranza che il popolo dell'Urbe possa cacciare il suo Papa, per sottomettere l'intera cristianità a quello di Avignone.
Il fallimento delle missioni diplomatiche ad Avignone (1397) farà cambiare idea a Galeotto, assieme alla presa d'atto della sua situazione personale, con la privazione dei redditi della località di Noves riconosciutigli dal Papa Clemente VII.
Nell'epistola «Ad Romanos» si proietta il ricordo storico di quanto accaduto tra 1353 e 1354, durante la cosiddetta «cattività avignonese» (1305-1377).
Innocenzo VI (Étienne Aubert), eletto il 18 dicembre 1352, dopo che ha inviato in Italia il Cardinale Egidio Albornoz per la restaurazione del potere ecclesiastico, utilizza Cola di Rienzo per cacciare il nuovo Tribuno Francesco Baroncelli (appartenente ad una famiglia popolana), e lo fa Senatore.
Ma una rivolta aristocratica, attraverso una sommossa popolare, fa crollare il governo di Cola che, fuggendo travestito da carbonaro, è catturato ed ucciso (8 ottobre 1354).

Tutta la vicenda politica di Cola di Rienzo è avvolta nelle trame politico-religiose. Se nel 1342 è ambasciatore ad Avignone del Governo popolare romano presso Papa Clemente VI; nel luglio 1351, rifugiatosi presso Carlo IV di Boemia a Praga perché cacciato da Roma grazie ad una sommossa popolare, è prelevato e condotto ad Avignone da tre messi papali, dopo che era stato dichiarato eretico per inobbedienza alle cose di Chiesa.
La sua nomina a Senatore ed il suo diventare strumento della politica ecclesiastica, decretano il fallimento del mito popolare di Cola di Rienzo.
Alla vicenda di Cola è legato anche Francesco Petrarca, per la sua lettera (anch'essa intitolabile «Ad Romanos») spedita da Avignone («Sine nomine», IV,10 agosto 1352) in cui si elogia il di lui tentativo di salvare la repubblica, spaventando i malvagi e dando ai buoni liete speranze.
Mentre pendeva sul capo di Cola la minaccia di morte sul rogo in quanto eretico, Petrarca (che aveva conosciuto Cola ad Avignone nel 1342, quando Cola agiva quale ambasciatore del Governo popolare romano), scrive ai cittadini dell'Urbe perché intervenissero con decisione e senza paura in favore del loro concittadino [Dotti, p. 266].
Di questo intervento Galeotto aveva ben presente il peso ed il significato, mentre pure lui si rivolgeva «Ad Romanos», perché prestassero obbedienza a Benedetto XIII.
D'altra parte non poteva ignorare il quadro che Francesco Petrarca aveva tracciato della stessa Avignone, definendola luogo di corruzione, in cui Satana sedeva «arbitro tre le ragazze e quei vecchi decrepiti» («Sine nomine», XVIII), e dove avveniva di tutto per «il divertimento della lascivia papale» che creava una prostituzione oscena perché nascosta dietro il paravento della Religione.
Petrarca accusa la corte papale d'Avignone di corruzione anche nei cosiddetti «Sonetti babilonesi» (136, 137, 138) e nelle egloghe sesta e settima [Wilkins, p. 78]. Nell'epistola XVIII (penultima) delle «Sine nomine», si parla di vecchi e lascivi bambocci che bruciano nella libidine, precipitando in ogni vergogna, per tacere degli stupri, dei rapimenti, degli incesti, degli adulterii, «che rappresentano ormai il divertimento della lascivia papale» [«qui iam pontificalis lascivie ludi sunt»]» [Dotti, pp. 206-210].
Ci sono donne rapite, «violate e ingravidate da seme altrui», poi riofferte dopo il parto «all'alterna sazietà di chi le usa a suo godimento», mentre i loro mariti sono costretti a riprendersi le loro mogli «per rioffrirle di nuovo, dopo il parto, all'alterna sazietà di chi le usa a suo godimento».


Documenti.
Dall'epistola XVIII delle «Sine nomine» di F. Petrarca.
«Tam calidi tamque precipites in Venerem senes sunt. Tanta eos etatis et status et virium cepit oblivio. Sic in libidines inardescunt, sic in omne ruunt dedecus quasi omnis eorum gloria non in cruce Cristi sit, sed in commessationibus et ebrietatibus et que has sequuntur in cubilibus impudicitiis. Sic fugientem manu retrahunt iuventam atque hoc unum senectutis ultime lucrum putant, ea facere que iuvenes non auderent. Hos animos et hos nervos tribuit hinc Bacchus indomitus, hinc orientalium vis Baccharum. O ligustici et campani palmites, o dulces arundines et indice nigrantes arbustule ad honestas delitias et comoditates hominum create, in quos usus et quantam animarum pernitiem clademque vertimini! Spectat hec Satan ridens atque in pari tripudio delectatus interque decrepitos ac puellas arbiter sedens stupet plus illos agere quam se hortari; ac ne quis rebus torpor obrepat, ipse interim et seniles lumbos stimulis incitat et cecum peregrinis follibus ignem ciet, unde feda passim oriuntur incendia. Mitto stupra, raptus, incestus, adulteria, qui iam pontificalis lascivie ludi sunt. Mitto raptarum viros, ne mutire audeant, non tantum avitis laribus, sed finibus patriis exturbatos, queque contumeliarum gravissima est, et violatas coniuges et externo semine gravidas rursus accipere ac post partum reddere ad alternam satietatem abutentium coactos. Que omnia non unus ego, sed vulgus novit et si taceat, quamvis, ne id ipsum taceat, iam maior est indignatio quam metus et minacem libidinem vicit dolor. Hec, inquam, universa pretereo. Malo quidem te hodie ad risum quam ad iracundiam provocare. Ira enim que ulcisci nequit in se flectitur et in dominum suum sevit.»

NOTE
La biblioteca di Galeotto.
Cfr. J. Perarnau I Espelt, «Cent vint anys d'aportacions al coneixement de la biblioteca papal de Peníscola», «Arxiu de textos catalans antics», Institut d'Estudis Catalans, 6, Barcelona 1987, pp. 315-338, p. 317.
Questo ms. (Parigi, Biblioteca Nazionale) è un trattato mistico, il «Liber soliloquiorum animae penitentis ad Deum», eseguito tra il 1387 e il 1398: cfr. E. Castelnuovo, Avignone, «Enciclopedia dell' Arte Medievale» (1991), ad vocem. Esso è cit. tra i testi «qui solebant esse in camera Cervi volantis, nunc vero sunt in magna libraria turris» del «Cabinet de travail» di Benedetto XIII, come risulta dall'inventario M. Faucon, La librairie des papes d'Avignon, sa formation, sa compositions, ses catalogues (1316-1420), d'après les registres de comptes et d'inventaires des Archives vaticanes, Paris, 1886-1887, t. II, p. 27-31.
Esso risulta «copertus de sinerisio colore»: cfr. il cit. testo di Pommerol-Monfrin, «La Bibliothèque pontificale à Avignon et à Peñiscola», I, Rome, 1991, pp. 127, 322.
Cfr. Emile-A. Van Moe, «Deux manuscrits de la bibliothèque de Benoît XIII», Bibliothèque de l'école des chartes, 1940, 101. pp. 218-220, p. 219: «C'est un traité ascétique demeuré anonyme et dont nous ne connaissons pas d'autre exemplaire: "Liber soliloquiorum animae penitentis ad Deum pro impetranda de peccatis venia et gratia lacrymarum". Ce qui fait le mérite, qu'on n'a pas encore signalé, de notre ms., ce sont les initiales historiées qui commencent chacune de ses parties. Au fol. 5, on voit Madeleine aux pieds du Christ. A côté d'elle, un personnage en chape rouge peut parfaitement être reconnu, grâce au chapeau rouge placé à côté de lui: c'est le cardinal de Pietramala. On peut penser qu'il s'agit d'un véritable portrait». Dalla scheda relativa al «Liber Soliloquiorum Animae Paenitentis» della Bibliothèque nationale de France, Département des Manuscrits, Paris, riporto: «Au f. 1, blason peint: d'azur à six carreaux d'or, trois, deux et un, avec la note suivante de la main de Baluze: "Insignia Galeotti Tarlati de Petramala, facti cardinalis ab Urbano VI, anno 1378"; au début de nombreux cahiers subsiste la mention contemporaine: "Pro domino cardinali de Petramala"». Per la provenienza si precisa: «Petramala, Galeotus Tarlatus de; Benedict XIII, Antipope; Fuxo, Petrus de; College de Foix; Colbert, Jean Baptiste; Bibliothèque nationale de France».
Cfr. «mirabileweb.it», sito promosso dalla Società Internazionale per lo Studio del Medioevo Latino e dalla Fondazione Ezio Franceschini.

A proposito di Galland, «Les papes d'Avignon et la Maison de Savoie (1309-1409)», già cit., quel testo prosegue: «Ces deux cardinaux se trouvèrent complètement déconcertés lorsqu'éclata la rupture entre Urbain VI et Charles de Duras à la fin de 1384. En effet, le pape de Rome, désormais plein de méfiance pour son entourage, se laissa aller à des manifestations de fureur et à des gestes d'une rare violence: il fit torturer et emprisonner les six cardinaux qui l'avaient accompagnés à Naples. Pileo et Galeotto étaient de ceux qui pouvaient redouter le même sort: en effet, le cardinal de Ravenne s'était compromis en essayant de réconcilier Urbani VI avec Duras, et on pouvait reprocher à Pietramala ses ouvertures en faveur des clémentins. Dès 1385, Pileo se joignit à d'autres cardinaux pour dénoncer la violence du pape dans un long manifeste adressé au clergé de Rome 121. C'était la rupture: elle fut consommée l'année suivante. Pileo et Galeotto décidèrent ensemble de fuir l'Italie. Ils se réfugièrent d'abord à Pavie chez Gian Galeazzo Visconti et publièrent un nouveau manifeste contre le pape qui les avait créés (8 août 1386). Enfin, en 1387, ils se rendirent à Avignon et firent leur soumission à Clément VII». («Les cardinaux de Ravenne et de Pietramala, ayant intercédé en faveur de leurs collègues prisonniers, se crurent menacés à leur tour, et prirent la fuite»: cfr. N. Valois, La France et le grand schisme d'Occident, II, Picard, Paris 1896, p. 118. Sul ruolo di Galeotto, cfr. qui pure p. 187, alla nota 3, dove si definisce «piccante» l'episodio che vede il nostro Cardinale della corte d'Avignone complimentarsi con Gian Galeazzo Visconti per la sua vittoria: «à vrai dire», osserva Valois, questo Tarlati si rallegrava della sconfitta di Firenze con una lettera datata Avignone, 17 agosto 1391. Nel 1386 Galeotto Tarlati era scappato a Milano presso Gian Galeazzo Visconti, come si vedrà infra, fuggendo da Urbano VI, prima di recarsi ad Avignone.

Abbiamo già visto che nel 1379 i Francescani scismatici nel loro Anticapitolo generale di Napoli, convocato da frate Leonardo da Giffone, ovvero Leonardo de Rossi (1335-1407), già fatto Cardinale dall'Antipapa il 18 dicembre 1378, lo appoggiano. Rossi è poi arrestato dal Legato Apostolico Cardinal de Sangro, e sconta cinque anni di durissimo carcere ad Aversa, prima di fuggire ad Avignone, dove è ben accolto. Poi volta le spalle all'antipapa Benedetto XIII per la sua ostinazione e pertinacia, scrivendo contro di lui un trattato, con cui lo considera un eretico.


NOTE BIBLIOGRAFICHE GENERALI
R. Brun, «Annales avignonnaises de 1382 à 1410 extraites des archives de Datini, dans Mémoires de l'Institut historique de Provence.
R. Brun, «Annales avignonnaises de 1382 à 1410, extraites des archives de Datini», «Mémoires de l'Institut historique de Provence», 12 , Marsiglia 1935.
H. Gilles, «La vie et les œuvres de Gilles Bellemère», Bibliotheque de L'Ecole des Chartes, CXXIV, Paris 1966. (Alle pp. 117-118, si richiama un documento, il G 449, n° 1, custodito presso «Archives départementales de Vaucluse et de Haute-Loire», e si cita da M. Mielly, «Trois fiefs de Vévêché d'Avignon: Noves, Agel et Verquîères des origines à 1481, Uzès, 1942, p. 260-261.)
A. Bartocci, «Il cardinale Bonifacio Ammannati legista avignonese ed un suo opuscolo contra Bartolum sulla capacità successoria dei Frati Minori», «Rivista internazionale di Diritto Comune», 17, Roma 2006, pp. 251-297, p. 267.
Sul ruolo culturale di Amedeo di Saluzzo, cfr. P. Rosso, «Cultura e devozione fra Piemonte e Provenza. Il testamento del cardinale Amedeo di Saluzzo (1362-1419)», Cuneo 2007,
«Le spoglie del Tarlati furono successivamente traslate nella cappella di San Pietro d'Alcantara, anche detta del Cardinale, posta sopra l'originaria 'cella del faggio', odierna cappella della Maddalena», si legge in nota ad un saggio di M. Mussolin, «Deserti e crudi sassi: mito, vita religiosa e architetture alla Verna dalle origini al primo Quattrocento» pp. 117-136, in «Altro monte non ha più santo il mondo», a cura di N. Baldini, Firenze 2012, p. 125, nota 19.
In F. Gonzaga, «De origine Seraphicae religionis Franciscanae eiusque progressibus», ex typographia Dominici Basae, Roma 1587, p. 235, si legge che le ceneri dell'illustrissimo Cardinale Galeotto furono poste in una cappella voluta da Caterina da Pietramala, consorte di Roberto, all'inizio del XIV sec., nel luogo dove era stata la prima cella di san Francesco: «Id sacellum, quod passim Cardinalis Cardinalis dicitur, fuit prima beati Francisci cellula».
Che Roberto sia il nonno di Galeotto è attestato da un documento che si legge in L. Tonini, «Rimini nella Signoria de' Malatesti», Albertini, Rimini 1880, IV, 2, p. 173, e richiamato in IV, 1, p. 260.
Su Roberto da Pietramala, cfr. sub 1347 in «Cronache Malatestiane dei secoli XIV e XV», tomo XV, 2 delle «Rerum Italicarum Scriptores», a cura di A. F. Massèra, Bologna 1922, p. 16.
La cappella fu dedicata a Santa Maria Maddalena, come scrive padre Francesco da Menabbio nel «Compendio delle maraviglie del sacro monte della Verna», Ad istanza di Niccolò Taglini, Venezia 1694, p. 25. Esistono altre edizioni del volume, «in Fiorenza, per Pietro Nesti al Sole», 1636, e quella veneziana del 1782, in cui alle pp. 38-39 troviamo: «Dicesi ancora la Cappella del Cardinale, perché in essa riposano l'ossa dell'Eminentissimo Galeotto degl'Ubertini d'Arezzo, Conte di Pietra Mala, e Cardinale di S. Chiesa, il quale morì in Avignone nel tempo dello Scisma, che accadde sotto Urbano VI e le sue ossa furono quassù portate, e sepolte in detta Cappella conforme egli aveva ordinato, per la singolare divozione, che portava a S. Francesco». Il passo con «Galeotto degl'Ubertini» suggerisce, ci sembra ovviamente, il cognome della nonna Caterina.
(Questo stesso testo è nell'edizione fiorentina, presso la Stamperia granducale, 1856, pp. 29-30.)
Della cappella voluta da Roberto da Pietramala e da sua moglie Caterina, si parla pure in B. Mazzara, «Leggendario francescano», III, Poletti, Venezia 1689, p. 70. Cfr. pure G. Rondinelli, «Relazione sopra lo stato antico e moderno della città d'Arezzo ecc.», Bellotti, Arezzo 1755, p. 48.
Circa il 1386, in L. Maimbourg, «Histoire du grand schisme d'Occident», Mabre-Cramoisy, Parigi 1686, p. 218, si parla di Urbano VI e dell'uccisione dei sei cardinali: qualunque sia stato di modo di farli morire, diversi secondo le fonti, resta il fatto che questa serie di omicidi «est assez conforme à son humeur, plûtost cruelle que severe, qui le rendit extrêmement odieux à ceux- mêmes qui étoient ses plus affidez. En effet, deux des Cardinaux qui l'avoient le mieux servi, Piles de Prate Arcivêque de Ravenne, & Galeot Tarlat de Pietra-mala, redoutant cét esprit vindicativ, s'allerent rendre au Pape Clement, qui les mit au nombre de ses Cardinaux».

Sull'intervento di Giovanni d'Armagnac, cfr. A. Antonielli - F. Novati. «Un frammento di zibaldone cancelleresco lombardo del primissimo Quattrocento. Testo ed illustrazioni storico-critiche ai documenti contenuti nel Frammento Pallanzese», Archivio Storico Lombardo, 1913, Serie IV, vol. 20, fasc. 40, pp. 304-305.
Giovanni d'Armagnac stipula il 16 ottobre 1390 a Mende un trattato con la repubblica toscana. Il 26 luglio 1391 il suo esercito è "tagliato a pezzi dalle truppe viscontee".
Circa Giovanni d'Armagnac, ricordiamo che era il fratello di Beatrice d'Armagnac, detta «la gaie Armagnageoise», moglie di Carlo Visconti dal 1382. L'anno prima Beatrice era rimasta vedova di Gaston de Bearn o de Foix, nato nel 1365.
«Stimolarono i Fiorentini il re di Francia, e non si sa con quai mezzi l'indussero, malgrado gli stretti vincoli del sangue, a spedire per la Savoia un corpo di diecimila Francesi, comandati dal conte d'Armagnac. Sebbene il duca di Savoia fosse pure stretto parente del conte, che era figlio di Bianca di Savoia, pure lasciò libero il passo a queste truppe. Il comandante conte d'Armagnac era parente stretto di Carlo Visconti, figlio di Barnabò, che viveva miseramente ramingo colla sua moglie Beatrice d'Armagnac.» [P. Verri, «Storia di Milano», I, Marelli, Milano 1783, p. 412]

In margine alla prima lettera, laddove Galeotto accusa quel sistema che genera la ricchezza della nuova società fiorentina («Illa, illa urbs petenda est, unde pecuniarum auxilia prodeunt, unde erumpunt fraudes...»), si può osservare che nel nostro Cardinale agiscono non soltanto gli istinti legittimi della difesa di interessi famigliari, ma incontriamo pure una ben precisa visione politica, tipica della gerarchia ecclesiastica, non basata sul valore del censo economico "conquistato" e non ereditato, ma fondata su quello che scaturisce dall'esercizio del potere e delle armi che lo sorreggono.
Già i Comuni avevano spogliato i Vescovi della giurisdizione politica sulle città. La posizione di Galeotto è quindi una significativa immagine dello scontro ideologico, si direbbe oggi, che agita il suo tempo.

Tra le genti d'arme assoldate nel 1388 c'è un Giantedesco da Pietramala, figlio di Marco, considerato valorosissimo, e celebrato capitano di ventura, poi onorato da una statua equestre di Giacomo della Quercia nel Duomo di Siena.

«Ebbe tre figli illegittimi», conclude la nota biografica del Cardinal Galeotto di Pietramala che illustra la genealogia del nostro personaggio nel cit. volume di Ubaldo Pasqui (p. 394).
Si tratta di una notizia falsa. Questi tre figli «naturali» sono fratelli di Marco, figlio di un altro Galeotto Tarlati, cit. appunto a p. 58 del suo stesso lavoro, nel terzo volume dove appare la falsa genealogia. Un Galeotto che è anteriore al nostro cardinale, e che fu signore di San Niccola e di Soci, come leggiamo a p. 375 (cap. 6) della «Storia delle repubbliche italiane dei secoli di mezzo», di J. C. L. Sismondo Sismondi, I, Storm-Armiens, Lugano 1838 (cfr. anche p. 413, tomo VI, dell'ed. italiana 1818, s.l.).
I nomi di questi tre inesistenti figli illegittimi del Cardinale sono riportati nella genealogia dello stesso, di p. 390: Tommaso, Betto, Guido.
Tra parentesi.
Tommaso rimanda al nonno del Cardinale, detto Masio o Magio.
Betto, ovvero Benedetto, richiama Benedetto Sinigardi (1190-1282), figlio di una Elisabetta Tarlati, compagno di San Francesco e poi proclamato beato. Da ricordare pure che si rinnova anche un nome celebre nella storia della letteratura, perché ad un Tommaso di Pietramala, Cino da Pistoia indirizzò la canzone Lo gran disio che mi stringe cotanto, chiedone la sua protezione in qualità di capitano del popolo della sua città. Siamo nel 1303. Il testo della parte della canzone di Cino da Pistoia che ci interessa, è il seguente: «Canzone, vanne così chiusa chiusa / entro 'n Pistoia, a quel di Pietramala, / e giungi da quell'ala, / da la qual sai che 'l nostro segnor usa; / poi dì, se v'è 'l diritto segno, in agio: / "Guardami, come déi, da cor malvagio"».
Sull'argomento, cfr. M. Barbi, «Studi danteschi», V, 1922, p. 120; S. Ferrara, «La poésie politique de Cino da Pistoia», in «La poésie politique dans l'Italie médieval», a cura di A. Fontes Baratto, M. Marietti, C. Perrus, Parigi 2005, pp. 215-256, p. 232.
Infine Guido ricorda il Vescovo Guido Tarlati, Signore di Arezzo dal 14 aprile 1321 alla morte, avvenuta il 21 ottobre 1327.

Nota bibliografica, su altri volumi consultati:
L. Mayeul Chaudon, «Nuovo dizionario istorico», XXVI, Morelli, Napoli 1794
F.-Z. Collombet, «Histoire de la Sainte Église de Vienne», II, Lecoffre, Parigi 1847
Bernardo da Decimo, Secoli serafici, Viviani, Firenze 1757, pp. 68-69
Su Petrarca, cfr. pure J. Spicka, «La sentina dei vizi: poetica e motivi del Liber sine nomine di Petrarca», «Critica letteraria», 146, a. 38, fasc. 1, Napoli 2010, pp. 3-20.
Per Onofrio Panvinio, si veda in «Dizionario Biografico degli Italiani», 81 (2014), la voce redatta da Stefan Bauer.


Francesco Petrarca, Cola di Rienzo e la Chiesa di Avignone
Di Cola di Rienzo parliamo nella pagina «L'epistola "Ad Romanos" del 1394: il modello di Francesco Petrarca».
Altra nostra pagina su Cola, è quella dedicata alla sua morte violenta, «Il ricordo di Cola di Rienzo».
Qui riproduciano alcune citazioni dal volume di E. Dupré-Theseider, «I papi di Avignone e la questione Romana», Firenze 1939.

[p. 83] «Abbiamo nominato dianzi Francesco Petrarca. Sappiamo che la Curia avignonese non ebbe più aspro e tenace avversario di lui, che adunò ed espresse in modo specialmente incisivo la massima parte delle accuse che da parte italiana si movevano al sistema avignonese. [...] importante è per noi il contributo positivo che il poeta arrecò alla soluzione della «questione romana».

[p. 84] «Egli fu in relazione personale con quasi tutti i papi avignonesi. [...] Di tale sua favorevole posizione egli non mancò di valersi, e non tanto per ricavarne vantaggi personali, quanto per combattere una nobile lotta in prò del ritorno a Roma, lotta che, iniziata verso il 1334, durerà per quasi un quarantennio, senza tregua, e sarà condotta con tutte le armi che l'arte e l'amor di patria offrivano al poeta.
Scrivendo a Benedetto XII, egli fa parlare la città stessa, in sembianza di matrona, stanca e negletta al punto che deve nominarsi, affinché il papa la riconosca: ohimè, che non era così un tempo, quando ambedue i suoi sposi la accompagnavano! Se il pontefice ha espresso un giorno il desiderio che la sua salma sia tumulata in Vaticano, perché non traduce in atto ancor da vivo tale suo lodevole proponimento? Anche a Clemente VI Roma parla in figura di sposa abbandonata, esalta le glorie sue antiche e piange le presenti miserie. Ha ricevuto or ora un annuncio che l'ha riempita di gioia: la promessa concessione del Giubileo. Potrà essa allora, abbracciando tutti i suoi figli, contemplare in essi i lineamenti dello sposo e padre assente!
Siamo negli anni in cui il Petrarca si incontra in Avignone con un altro "fedele di Roma"»: Cola di Rienzo, e la questione romana entra in una nuova fase».

[p. 88] «Sul finire del 1342 giungeva in Curia la consueta ambasceria dei Romani, che veniva ad offrire al nuovo papa la signoria sulla città, rinnovando, come sempre in quella occasione, le più calde preghiere perché il sovrano ritornasse alla sua legittima sede.»
Clemente VI, «buon parlatore ed esperto di scappatoie diplomatiche, [...] in sostanza, non promise nulla.»

[p. 89] «Un oscuro scrivano, tale Nicola di Lorenzo, detto al modo dialettale Cola di Rienzo [...] davanti al papa ed al consesso dei cardinali, ripetè anch'egli il fervido appello per il ritorno a Roma e per la concessione del Giubileo, ed in più portò al papa le lamentele del popolo di Roma contro i baroni, "derobbatori de strada", e causa principale per cui la città giaceva desolata. Lo ascoltò il papa con interesse e diletto di conoscitore, perché Cola parlava assai bene, con copia di citazioni classiche e sacre, con mirabile oratoria. Ma nemmeno l'appassionata eloquenza di Cola potè convincere il papa al grande passo».

[p. 98] Il 1° agosto 1347 Cola conferisce in modo solenne la cittadinanza romana a tutta l'Italia.

[p. 102] «Cola di Rienzo si trovò prestissimo, quasi senza volerlo, spinto nella posizione estrema di ribelle contro l'autorità delle somme chiavi, ed obbligato ad affrontare la realtà che, in modo veramente incomprensibile, aveva misconosciuta. Costretto a prender posizione, egli dovette fatalmente rivolgersi contro la Curia ed il papa, di cui tuttavia continuava a professarsi figlio devoto; e riprendere l'accusa municipale romana, aver il Papato avignonese causato la rovina della città con la sua ostinata assenza.»

[pp. 103-104] «Cola di Rienzo - nel luglio del 1350 - si presenta in Praga a Carlo IV, e gli comunica un vaticinio di carattere spiritualistico, relativo agli eventi immediatamente futuri, il quale era ricavato dalle letture fatte sulla Maiella e specialmente dai colloqui con il misterioso frate Angelo. Come leggiamo in una fonte non italiana, Cola aveva detto al re che entro un anno e mezzo vi sarebbe stata una grande persecuzione del clero, per cui il papa stesso avrebbe corso grave pericolo, e molti cardinali sarebbero periti. Poi sarebbe succeduto un altro papa "pauper", che avrebbe ricondotto la sede in Roma, dove avrebbe edificato un tempio in onore dello Spirito Santo. Sarebbe conseguita la conversione di tutti gli infedeli, in modo che dopo quindici anni vi sarebbe stato "unus papa et una fides", ed il pontefice, il re ed il tribuno insieme avrebbero costituito in terra quasi una immagine della Trinità!»

[p. 107] «Cola distrusse con le sue stesse mani ciò che aveva edificato.»

[pp. 139-140] «Se Cola di Rienzo, riecheggiando Sant'Agostino, aveva scritto "noi lavoriamo come quelli che sono posti sul confine della sesta età, e già il sesto angiolo previsto da Giovanni ha posto la bocca alla tromba della quale in breve s'udirà il clangore ed il terribile suono", anche Petrarca partecipava della credenza che l'ultima età del mondo fosse ormai cominciata. "Piangemmo l'anno 1348 [quello della peste] di questa ultima età, ma ora sappiamo che quello non era se non l'inizio dell'età del pianto" [Seniles, III, 1].

La morte violenta di Cola, narrata in F. Papencordt, «Cola di Rienzo e il suo tempo», Pomba, Torino 1844, p. 289:
«Fu condotto al luogo detto del lione, ove i condannati ascoltavano la sentenza e là stette alcun tempo senza che alcuno il toccasse; finché Cecco del Vecchio diedegli una stoccata nel ventre; il notaro Treio gli spaccò il cranio; e allora addosso l'un dopo l'altro. Quantunque al primo colpo morisse, s'infierì atrocemente contro il cadavere; annodatigli i piedi, lo trascinarono sino in piazza di San Marcello, presso alle case dei Colonna; ove, tutto sconcio dalle ferite e mutilato del capo, fu appeso pei piedi alle forche. Pendette due giorni e una notte, fra gli scherni dei ragazzi che vi gettavano pietre; sinché per ordine di Giugurta e di Sciarretta Colonna, tratto al Campo dell'Austa, davanti al mausoleo di Augusto, venne bruciato dai Giudei ad un fuoco di cardi secchi. L'avere di Cola fu derubato dal popolo, assieme alle armi ed ai cavalli dei forestieri; in camera sua fu trovata una lista di cittadini, ai quali proporzionatamente voleva imporre una contribuzione di 400, 100, 50 e 10 fiorini d'oro...»

Dal cit. «I papi di Avignone e la questione Romana» di Dupré-Theseider [p. 212]: «Grandi signori, i cardinali della corte di Avignone! Abitava ognuno in un proprio castello entro la città, la cosidetta "livrea" (o librata, perché destinata, «livrèe», al loro servizio), che a volte occupava il posto di una cinquantina delle piccole case dei cittadini avignonesi.

La citazione di Carlo Cattaneo è presa dal suo «Notizie naturali e civili su la Lombardia» (1844), Milano 2001, p. 102, partendo da un articolo di Giuseppe Barigazzi, apparso nel 1970 in «Storia illustrata» n. 153. Da cui ricaviamo il brano seguente (presente in http://www.superstoria.it).
Carlo Malatesta, ex generale di Gian Galeazzo, chiamato da Giovanni Maria a riordinare l'amministrazione dello Stato, gli lascerà alcuni consigli nei quali non fa mistero della sua preoccupazione per la crudeltà del sovrano. "La crudeltà" gli dice "è sempre odiosa, indecente e non di rado funesta... Meglio è perdonare che distruggere... Non s'intraprendano guerre senza necessità... Sia inviolabile nel mantenere la parola data, e imparziale per la giustizia. Le cariche si diano al merito, non mai al prezzo...". Mai niente fu più inutile di questi consigli. Carlo Malatesta partiva da Milano nel 1408; vi era arrivato nel 1406, in piena peste. Durante il suo governatorato, il duca aveva sposato una sua nipote, Antonia. Giovanni Maria lo aveva chiamato dopo essersi liberato della soffocante stretta di Antonio e Francesco Visconti, due "faziosi mestatori" che un giorno erano con lui e l'altro contro di lui come quando, subodorando la vendetta per la morte della reggente, pur di rimanere al potere si schierano con i figli di Bernabò, i grandi nemici del duca, e costrinsero il sovrano a cedere Bergamo e la Ghiara d'Adda a Mastino, che di Bernabò era figlio legittimo; Brescia, la Val Camonica, e la Riviera di Salò a Giovanni, detto il Piccinino, figlio di Carlo e quindi nipote di Bernabò; e a dare in feudo ad Estorre, figlio naturale di Bernabò, i feudi di Martinengo e di Marengo. A vent'anni di distanza dunque Giovanni Maria cominciava a pagare il conto aperto da suo padre con il colpo di stato del 6 maggio 1385 allorché si era impadronito della signoria attirando in un tranello Bernabò e i sui due figli maggiori, Rodolfo e Ludovico cioè lo zio-suocero e i cugini-cognati.


Documenti.
Appendice. Galeotto Tarlati, la fuga da Avignone
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Aggiorniamo la biografia di Galeotto Tarlati di Pietramala (1356-1398), Tra la Croce e la spada. [2014, pdf Scribd]. Versione html della pagina inserita su Scribd, 9 luglio 2016:
Galeotto Tarlati, la fuga da Avignone.

Nel 1397 Galeotto fugge da Avignone, soggiorna per alcuni mesi a Valence e poi si reca a Vienne, città "ad Rhodanum fluvium sita", nel Delfinato, dove scompare l'8 febbraio 1398.
Nicolas de Clamanges, nella celebre epistola XII "Malle tibi laetiora" (diretta "Ad Gontherum Colli, Galliae Regis secretarium", ovvero Gontier Col, segretario di Carlo VI e di Giovanni, duca di Berry, e nella primavera del 1395 ambasciatore ad Avignone), in cui leggiamo la notizia della scomparsa "clarissimi viri et optimi Galeoti de Petra Mala", ci precisa che Galeotto era stato Cardinale "nuper", ovvero "nei tempi andati" ("Sacrosanctae nuper Romanae Ecclesiae Diacon Cardinalis").
Il che significa che si era dimesso da ciò che Nicolas stesso definisce come "il vertice pesante di una eminente carica" ("in praecipui honoris arduo culmine positus").
Questo passo dell'epistola XII documenta il contrasto fra Galeotto ed il Papato di Avignone, autorizzandoci a parlare di una fuga del nostro Cardinale da quella Corte pontificia.

Nicolas de Clamanges come Rettore dell'Università di Parigi fu in rapporto diretto con Regno e Papato: scrive infatti una lettera al Re Carlo VI, due a Papa Clemente VII, due ai Cardinali d'Avignone ed una a papa Benedetto XIII, come leggiamo in un testo di tesi di laurea del 1849, presentata da Alexis Descazals.
Il quale annota: "ses avis et ses conseils furent appréciés à Paris comme à Avignone. Benoît XIII fut même tellemet charmé de Clémangis, qu'il se décida à l'appeller après bien des hésitations, accepta ce poste important dans l'espoir d'être utile à l'Église; mais ses espérances furent déçues. Eloigné des conseils secrets de la papauté par ceux auxquels trop de franchise aurait pu nuire, il se vit forcé de résigner ses fonctions en 1397".

Il viaggio di Galeotto a Valence e Vienne (una città in grave crisi politico-religiosa), avviene in un particolare momento della storia del regno di Francia, quando Carlo VI (in carica dal 1380) cerca di chiudere il Grande Scisma.
A Parigi nel 1324 Marsilio da Padova (Rettore dell'Università parigina tra 1312 e 1314), ha composto il "Defensor Pacis", opera in cui si nega ogni potere giurisdizionale o politico alla gerarchia ecclesiastica. Per Marsilio, il vero "Defensor Pacis" era il potere politico dell'imperatore, non quello religioso del Papa.
Il 23 ottobre 1327 Giovanni XXII condanna l'opera di Marsilio, per cinque tesi in essa sostenute, ed ordina (invano) il suo arresto.

Questo sfondo politico è molto anteriore, ma sembra condizionare anche la scelta di Galeotto di andarsene da Avignone alla fine del secolo, se stringe rapporti con l'ambiente umanistico di Parigi di cui fa parte Nicolas de Clamanges. Il quale redige le nove epistole ufficiali dell'Università di Parigi, che aveva affrontato la questione della fine dello Scisma.
Di quelle epistole c'è un significativo apprezzamento sullo stile, da parte di Galeotto di Pietramala, "Cardinale letterato" come lo si definisce ancor oggi (cfr. Jean-Claude Polet, "Patrimoine littéraire européen,VI, Prémices de l'humanisme, 1400 - 1515", Bruxelles 1995, p. 154).

Circa la fuga a Valence e Vienne, cfr. H. Gilles, "La vie et les œuvres de Gilles Bellemère", Bibliotheque de L'Ecole des Chartes, CXXIV, Paris 1966, pp. 30-136, 116-117.
Gilles Bellemère (1342-1407) fu esponente di spicco della corte di Avignone, non soltanto quale vescovo di questa città dal 1392, ma soprattutto come figura "celebre tra i Giuriconsuti (...) per le dottissime decisioni, consigli e letture da lui date alla luce", secondo quanto leggiamo nella "Istoria della città d'Avignone, II", di S. Fantoni Castrucci, Hertz, Venezia, 1678, p. 323, nota 55.
Nel lavoro di Gilles, si legge che egli fu "un homme fort près de ses intérêts". Papa Clemente VII aveva autorizzato Galeotto di Pietramala a percepire i redditi della località di Noves. Successivamente, proprio per colpa di Gilles Bellemère, i settecento fiorini che gli spettavano gli furono tolti: "Le droit du cardinal de Petramala sur Noves devenait donc caduc".

Circa Vienne, cfr. F. Orlendi, "Orbis sacer et profanus illustratus", Paperini, Firenze 1728, p. 425.
Di Vienne si parla anche nell'elenco dei Cardinali, con succinte annotazioni biografiche, che eleggono Benedetto XIII (28 settembre 1394) in B. von Langen-Monheim, "Die Informatio seriosa Papst Benedikts XIII. von 1399", p. 205 (web 2005), con l'indicazione della data "circa 1396".

La morte avviene l'8 febbraio 1398 non ad Avignone, ma a Vienne città "ad Rhodanum fluvium sita", nel Delfinato, secondo Stefano Baluzio (Étienne Baluze, 1630-1718).
C'è chi parla della stessa Avignone; e chi riporta invece il nome di Assisi.
Per Avignone, cfr. S. Fantoni Castrucci, "Istoria d'Avignone e del Contado Venesino", I, Hertz, Venezia 1678, p. 288. Qui si aggiunge la notizia (vera) che il suo cadavere fu traportato nella Chiesa dei Padri Minori "nell'Alvernia".
A p. 290 si precisa che l'abitazione da Pietramala ad Avignone, posta nella parrocchia di S. Desiderio ("la Casa e Torre dietro il Monastero di S. Chiara"), fu comprata da Lorenzo di Fortias, ed era allora posseduta dai Fortias signori di Monreale. (Fortias ovvero Fortià.) La chiesa di Santa Chiara è famosa perché sui suoi gradini Laura apparve a Petrarca per la prima volta nell'aprile 1327.
Per Assisi, cfr. L. Cardella, "Memorie storiche de' Cardinali della Santa Romana Chiesa", II, Pagliarini, Roma 1793, p. 286. Si veda pure Giorgio V. Buonaccorsi, "Antichità ed eccellenza del Protonotariato Appostolico Partecipante", Benedetti, Faenza 1751, p. 103, dove il luogo di Assisi è messo come notizia principale, con l'aggiunta che Galeotto fosse ritornato all'ubbidienza di Urbano VI, e da lui perdonato.

Circa la data della morte, ce la indica Carla Bozzolo, nel saggio introduttivo (pp. 17-179) al volume "Un traducteur et un humaniste de l'époque de Charles VI, Laurent de Premierfait", Sorbona, Parigi 2004.
Qui, a p. 20, tale data è appunto l'8 febbraio 1398. Essa è ricavata, secondo quanto leggiamo nella nota 16, dal lavoro di R. Brun, "Annales Avignonnaises de 1382 à 1410, extraites des Archives de Datini, Mémoires de l'Institut Historique de Provence", 14 (1937), pp. 5-57, p. 40.
Gli archivi sono quelli di Francesco di Marco Datini, grande mercante di Prato, che ad Avignone aveva come rappresentante Boninsegna di Matteo: cfr. ib., p. 35. A p. 40 del testo di Brun si legge che Pietramala "est mort à Vienne, près de Lyon. Il y a plus de trois mois, il était allé demeurer à Valence, puis il se rendit à Vienne et c'est là qu'il est mort".

Torniamo a Baluzio, che è autore delle "Vitae Paparum Avenoniensium". Nel cui vol. I, col. 1364, si legge che il Cardinale Galeotto "obiit Viennae ad Rhodanum ex morbo calcoli; ut docet, qui tum erat apud Avenionem, Nicolaus de Clemangiis epist. 12 in qua illum mirifico laudat".
L'epistola XII di Nicola de Clemagiis, intitolata "Mallem tibi laetiora", è leggibile nella di lui biografia, "Vita Nicolai de Clemangiis", 1696, Francoforte e Lipsia 1697, contenuta nel primo tomo di "Rerum Concilii Oecumenici Constantiensis", Genschi, Francoforte e Lipsia 1697, p. 75. Dove, in nota, è riprodotto il testo latino completo ("mihi tamen pia dignatione amicissimus erat").
La si trova pure a p. 49, in N. De Clemangiis, "Opera omnia, apud Iohannem Balduinum", Lugduni 1613. Si tratta della lettera cit. supra ("ut docet, qui tum erat apud Avenionem, Nicolaus de Clemangiis epist. 12 in qua illum mirifico laudat"). A p. 50, si legge: "Obijt autem Viennae [...] qua ex urbe, ad me nuperrime egregiam pulcherrimamque Epistolam transmiserat [...]".
L'Epistola XII è diretta "Ad Gontherum Colli, Galliae Regis secretarium". L'epistola è integralmente riprodotta in N. de Clemangiis, Opusculum de ruina Ecclesiae, Tipis Löwianis, Posinii 1785, in nota alle pp. 126-127, richiamando nel testo Galeotto da Pietramala, morto "calculo Viennae" (p. 126).

Baluzio smentisce ogni altra notizia relativa ad Assisi od Avignone. E si ricorda essere falsa la versione di Gerolamo Garimberti, "La prima parte delle vite, overo fatti memorabili d'alcuni papi, et di tutti i Cardinali passati", Giolito de' Ferrari, 1517, pp. 446-447. Dove prima si legge che Galeotto era tra i più confidenti e cari del Papa, e "si trovò a machinar contra della dignità sua, insieme con altri Cardinali", per cui se ne fuggì da Roma in Avignone. E poi troviamo che Galeotto scappa, "facendo un'altra ribellione" per la quale meritava di esser castigato, se la morte "nel Monte dell'Avernia" non l'avesse impedito.
Baluzio demolisce questa seconda parte della versione dei fatti: Garimberti erra "dum scribit illum redisse in gratiam com Urbano sexto. Nam id falsum esse manifeste patet ex epistola ejus ad Romanos supra commemorata".

A proposito di questa epistola, ricordiamo: scomparso Clemente VII il 16 settembre 1394, Galeotto da Pietramala si trova al conclave per l'elezione del nuovo Antipapa (avvenuta il 28 dello stesso mese di settembre), Benedetto XIII, l'aragonese Pedro Martínez de Luna (1328-1423). Poco dopo, Galeotto "scripsit gravem epistolam ad cives Romanos; in qua eos primo redarguit quod ipsi fuerint auctores schismatis, deinde hortatur ut eidem Benedicto, quem multis laudibus ornat, obedientiam prestent", come leggiamo in Stefano Baluzio (col. 1363).
Il titolo della lettera dice tutto: "Deflet horrendum schisma, hortaturque eos, ut adhaerendo Benedicto XIII, ipsi finem imponant".
Giuseppe de Novaes (autore di "Elementi della storia de' sommi pontefici", IV, Rossi, Siena 1803, p. 245) parla pure lui di Vienne, ma non cita la fonte, appunto Baluzio.

Baluzio, per provare che Galeotto è morto a Vienne, cita l'epistola XII di Nicola de Clemangis "de morte Galeoti de Petra Mala Cardinalis".
Sulla morte a Vienne, cfr. A. Coville, La vie intellectuelle dans les domaines d'Anjou-Provence de 1380 à 1435, Parigi 1941, p. 406. Come fonte si cita F. Novati, Due lettere del cardinale di Pietramala a Gian Galeazzo Visconti (1390-91), Archivio storico lombardo, 1916, p. 188, nota 2. Ma qui non si trova nulla al riguardo (si parla invece della morte del conte d'Armagnac). La morte a Vienne per calcoli è ricordata in una lettera di Nicolai de Clemangiis, Opera omnia, Lugduni Batavor, XDCXIII, Ep. XII, p. 50 ("obiit autem Viennae, calculo, ut aiunt"), cit. a p. 58, nota 58 di R. Sabbadini, Le scoperte dei codici latini e greci ne' secoli 14 e 15, Sansoni, Firenze 1905. Cfr. anche D. Cecchetti, Petrarca, Pietramala e Clamanges, Parigi 1982, p. 178, dove è riportata la stessa lettera.

A Coville ("La vie intellectuelle", p. 406) si deve questa analisi: "Un événement montre bien qu'il y avait sous la protection du Cardinal une sorte de groupe littéraire", in cui figurano ad Avignone Giovanni Moccia, napoletano, segretario del Cardinale Giacomo Orsini, Jean Muret, Laurent de Premierfait, ed a Parigi Jean de Montreuil e Gontier Col. Quell'avvenimento, scrive Coville, è la morte a Vienne dello stesso Cardinal Galeotto di Petramala: "Nicolas de Clamanges exprime tout son chagrin. Muret et Moccia ne sont pas moins dèsolés. Tous les trois se sont mis à composer des épitaphes, qu'ils soumettent aux amis de Paris".

Galeotto Tarlati scompare non nel 1396, come si legge solitamente, ma l'8 febbraio 1398.
La precisazione si deve a Carla Bozzolo, nel saggio introduttivo (pp. 17-179) al volume "Un traducteur et un humaniste de l'époque de Charles VI, Laurent de Premierfait", Sorbona, Parigi 2004. Qui, a p. 20, tale data non è appunto il 1396 ma l'8 febbraio 1398.
Essa è ricavata, secondo quanto leggiamo nella nota 16, dal lavoro di R. Brun, "Annales Avignonnaises de 1382 à 1410, extraites des Archives de Datini", Mémoires de l'Institut Historique de Provence, 14 (1937), pp. 5-57, p. 40.
Gli archivi sono quelli di Francesco di Marco Datini, grande mercante di Prato, che ad Avignone aveva come rappresentante Boninsegna di Matteo: cfr. ib., p. 35. A p. 40 del testo di Brun si legge che Pietramala "est mort à Vienne, près de Lyon. Il y a plus de trois mois, il était allé demeurer à Valence, puis il se rendit à Vienne et c'est là qu'il est mort. On l'a apporté ici par eau. C'était un grand ami de maître Naddino".
Su maestro Naddino (Nandino, ? Nadino da Prato ma recte Nardino da Firenze), citiamo da J. Hayez, "Veramente io spero farci bene...". Expérience de migrant et pratique de l'amitié dans la correspondance de Maestro Naddino d'Aldobrandino Bovattieri médecin toscan d'Avignon (1385-1407), Bibliothèque de l'École des Chaters, 2001, 159, 2, pp. 413-539, p. 447: "Au cours de l'année 1388, maestro Naddino s'attira les faveurs de trois autres prélats italiens, Tommaso Ammannati, Pileo da Prata, Cardinal "de Ravenne", et Galeotto Tarlati da Pietramala. Ces deux derniers, transfuges récents du camp d'Urbain VI, lui accordèrent l'un et l'autre une pension de 30 florins".
In nota 179 della stessa p. 447, si aggiunge che alla morte di Galeotto "maestro Naddino, pour qui il était un "molto grande amicho", viendra de Carpentras rendre les honneurs à son corps transporté sur le Rhône jusqu'à Avignon". La figura di Naddino è al centro del saggio di R. Brun, Naddino de Prato, médecin de la cour pontificale, Mélanges d'archéologie et d'histoire, 40, 1923, pp. 219-236.
A p. 225 si cita Galeotto, da una lettera di Naddino: "Il Cardinale da Pietramala, s'aspetta a questi di, e credo governare l'ostallo suo, come il suo camarlingo m'a detto per sua parte. Credo far bene a tempo...". La cit. è in Hayez cit., pp. 507-508, n. 17, da busta n. 1091, 133431.
Il termine "ostallo" rimanda a "stallo" ovvero "dimora", da cui "ostello", attestato anche nel Vocabolario della Crusca (Turbini, Venezia 1680, p. 824).
Circa lo stile di Naddino, valga come exemplum l'incipit della lettera che qui c'interessa: "Charissimo fratello magiore, io non v'ò scripto più tenpo fa perché ben due mesi sono stato tra due pensieri, o del venire di costà o mandare per la donna".
A p. 224 Naddino ricorda di aver tra i suoi clienti ("m'à preso per suo medico e null'altro vuole") anche "Messer di Ravenna" ovvero Pileo arcivescovo di Ravenna (come si precisa ib. in nota 4). Circa la ricordata città di Valence ("il était allé demeurer à Valence"), va aggiunto che dal 1390 (al 1448) il suo vescovo è Jean II de Poitiers (cfr. J.-J. Latouille, "Histoire de l'université de Valence (1452-2000)", Parigi 2012, cfr. p. 18). Jean II de Poitiers succede a suo fratello Charles il 7 settembre 1390 all'età di ventidue anni (cfr. E. H. J. Wallet, "Description du pavé de l'ancienne cathédrale de Saint-Omer", St. Omer, 1847, p. 104).

Perché Galeotto se ne va da Avignone prima a Valence e poi a Vienne? La risposta è in un testo, apparso a Parigi nel 1966, su Gilles Bellemère (1342-1407), esponente di spicco della corte di Avignone, non soltanto quale vescovo di questa città dal 1392, ma soprattutto come figura "celebre tra i Giuriconsuti (...) per le dottissime decisioni, consigli e letture da lui date alla luce", come si legge nella "Istoria della città d'Avignone, II", di S. Fantoni Castrucci, Hertz, Venezia, 1678, p. 323, nota 55.
Nel testo parigino del 1966 (H. Gilles, "La vie et les œuvres de Gilles Bellemère", Bibliotheque de L'Ecole des Chartes, CXXIV, pp. 30-136, 116-117) si legge che egli fu "un homme fort près de ses intérêts". Papa Clemente VII aveva autorizzato Galeotto di Pietramala a percepire i redditi della località di Noves. Successivamente, proprio per colpa di Gilles Bellemère, i settecento fiorini che gli spettavano gli furono tolti: "Le droit du cardinal de Petramala sur Noves devenait donc caduc", scrive Gilles.

Su Jean de Launoy, cfr.:
Alfred Coville, "Le Traité de la ruine de l'Eglise (De corruptu ecclesie statu) de Nicolas de Clamanges, et la traduction française de 1564", Parigi 1936;
Robert Boussat, "A. Coville. Le Traité de la ruine de l'Eglise de Nicolas de Clamanges et la traduction française de 1564", in "Bibliothèque de l'école des chartes", 1938, tomo 99, pp. 371-372.
J. Lenfant, Histoire du concile de Constance, I, Humbert, Amsterdam 1727.

Circa il debutto avignonese e la cit. da "B. Galland, 1998", cfr. B. Galland, "Les papes d'Avignon et la Maison de Savoie (1309-1409)", École Française de Rome n. 247, Roma, 1998, p. 335, testo e nota 123.
Per Nicolas de Clamanges, cfr. Alexis Descazals, "La traité de Nic. Clemangis intitulé: De Corrupto statu ecclesiae", 1849, pp. 8-9, nota 1 p. 8.
Su Gontier Col, cfr. C. Bozzolo, "L'humaniste Gantier Col et Boccace", in "Tableaux Vivant", Lovanio 2002, pp. 15-22. (Qui si sottolinea il ruolo di primo piano avuto da Col sia in ambito umanistico sia nell'ambiente politico.)
Cfr. pure A. Coville, "Gontier et Pierre Col et l'humanisme en France au temps de Charles VI", Parigi 1934, ove alle pp. 167-186 si tratta di Galeotto: a pag. 171 si legge che Clamanges arriva ad Avignone alla fine del 1397 come segretario di Benedetto XIII: "Galeotto fu son patron". A Col è dedicato il cap. IX, pp. 187-190.

Pagine collegate al tema:
L'epistola "Ad Romanos" del 1394. Pagine collegate al tema:
001a1. 1567, si parla di fuga da Avignone.
001a2. 1693, si nega la fuga da Avignone.
001a3. Fonti: Baluzio e Galeotto di Pietramala.
001a5. L'epistola "Ad Romanos": il modello di F. Petrarca.
001a5a. Documenti: i testi di F. Petrarca. [05.12.2015]
001a5b. Immagini: "Sonetti babilonesi" di F. Petrarca. [07.12.2015]
001a5c. La morte violenta di Cola di Rienzo. [08.12.2015]
001a5d. Petrarca, Cola di Rienzo e la Chiesa di Avignone. [08.12.2015]
001aa. Note bibliografiche.
002h. Sulla data e sul luogo della sua scomparsa.

All'indice generale delle pagine su Galeotto.

Nell'immagine d'apertura, il rogo di Huss, dalla "Spiezer Cronik" di Schilling il Vecchio (1485).

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