Iakov Levi


NIETZSCHE, SHAKESPEARE E GLI EBREI

Gennaio 2002

Il seguente articolo rappresenta il riassunto di alcuni brani di Occidente e Oriente nello specchio di Dioniso e di Apollo, Parte Seconda.


Quello che non vide Nietzsche

Già in Al di là del bene e del male, Nietzsche apparentemente accusa gli ebrei:

 Gli ebrei – un popolo “nato per la schiavitù”, come dice Tacito e con lui tutta l’antichità, “il popolo eletto tra i popoli”, come essi stessi dicono e credono – gli ebrei hanno realizzato quel prodigio del rovesciamento dei valori, grazie al quale la vita sulla terra ha acquistato per un paio di millenni una nuova e pericolosa attrattiva – i loro profeti hanno fuso in una sola parola come “ricco”, “cattivo”, “violento”, “sensuale”, e per la prima volta hanno dato un conio d’obbrobrio alla parola “mondo”. In questo capovolgimento dei valori, in cui rientra l’uso della parola “povero” come sinonimo di “santo” e “amico”, sta l’importanza del popolo ebraico: è con esso che comincia, nella morale, la rivolta degli schiavi (Adelphi, Milano 1977, p. 94).
In questo paragrafo, il filosofo attribuisce l’inizio del rovesciamento di valori, secondo cui ricco viene definito automaticamente come malvagio, già ai profeti, che nella Bibbia si scagliano contro i potenti del regno di Israele e di Giuda.
Quello che Nietzsche non poté capire fu il contesto mentale e culturale degli Israeliti antecedente il primo esilio (587 a.C).
Con l’instaurazione della monarchia, già alla fine dell’XI secolo a.C., si era creata una tensione tra il potere regio che rappresentava il nuovo tentativo delle tribù di Israele di instaurare una sovranità nazionale, sovratribale, e che implicava anche il passaggio ad una vita sedentaria e l’abbandono del culto di Jahvè, il dio dei pastori, per abbracciare i culti politeisti dei popoli sedentari e agricoltori, e tra i profeti che erano i paladini del dio del deserto. Il dio dei pastori era anche il dio dell’unità tribale.
In una società di pastori seminomadi esiste un’uguaglianza sociale tra tutti i membri, che si considerano tutti figli dello stesso padre. In una società sedentaria, invece, avviene un allentamento dei legami del clan e si introduce una divergenza tra ricchi e poveri che si allineano in classi sociali in perenne conflitto, come avverrà anche in Occidente.
Una società tribale è una società senza classi. Quando i profeti si lanciano contro i ricchi, lo fanno in quanto, per loro, uguaglianza sociale era sinonimo di cementazione dei legami arcaici che caratterizzavano gli israeliti prima dell’istituzione della monarchia, e volevano restituire Israele alla purezza della vita del nomade, antecedente alla sua instaurazione. La lotta dei profeti contro la monarchia e contro i "ricchi" era dunque in un contesto sulle priorità nazionali: la lotta tra polis e tribù, in cui i profeti prendono le parti dellla coesione del clan, e non come avverrà più tardi in Occidente, nel contesto di una lotta di classe all’interno della dialettica della Polis, in cui prendessero parte per una classe piuttosto che per una altra.
Ben diversa sarà la situazione dopo il primo esilio, solo allora si creerà quella classe sacerdotale di cui parla Nietzsche in seguito. In Genealogia della morale (Adelphi, Milano 1977, pp.22-25) riprende il motivo del rovesciamento dei valori, questa volta in un contesto più appropriato: attribuisce la nascita del ressentiment ai giudei, come conseguenza della loro condizione di vinti, che li avrebbe portati a ribaltare i valori del bene = aristocratico = vincitore, i valori dell’Imperium romanum, con quelli di vinto = debole = buono. E invero, un trasfigurazione di Jahvè il dio vittorioso, specifico del popolo ebraico, in un dio universale, dopo l’esilio ci fu, ma al contrario di quello che sostiene Nietzsche, malgrado fosse stato trasfigurato in dio cosmico egli continuò a conservare l’altra sua peculiarità di padre specifico della tribù, in quella che diventò l’idea del popolo eletto.
Come Nietzsche stesso ammette nell’Anticristo (par. 25), questo fu un accorgimento per poter mantenere il vecchio Jahvè che, con le sue stesse parole, “lo si sarebbe dovuto altrimenti abbandonare”. Trasfigurare l'essenza del dio fu un accorgimento per mantenere l’unità nazionale che altrimenti sarebbe andata persa, sotto il peso della sconfitta militare e politica. È vero: “il suo concetto diventa uno strumento nelle mani degli agitatori sacerdotali”, ma questi erano quello che era rimasto ai giudei al posto dei re, e rappresentavano anche la volontà di sovranità nazionale che ormai era sfuggita di mano. Fino alla sconfitta definitiva ai tempi di Adriano, i giudei non cessarono mai di ribellarsi ai romani, in rivolte sanguinose in cui il valore militare e la forza rimasero pur sempre il modello per i giovani ebrei che si armavano volta dopo volta, nel futile tentativo di cacciare i romani dalla Giudea. Il capo della più grande rivolta nel 130 D.C., Bar – Kochba, esigeva dai suoi soldati di tagliarsi il dito mignolo come prova di crudezza e di disprezzo per il dolore.
Anche quando, dopo due secoli di lotta, la sconfitta finale fù definitiva la frustrazione non si tradusse in ressentiment, bensì in sublimazione, e quelle energie che erano andate a combattere i romani furono canalizzate nella costruzione del grattacielo spirituale del Talmud. Quando i persiani invasero la Palestina nel 614 d.C., i giudei presero le armi in loro favore nell’ultimo, patetico, tentativo di liberarsi dell’odiata Roma, ma nuovamente furono sconfitti. Nella lotta: “Roma contro Giudea, Giudea contro Roma”(Genealogia della morale, Adelphi, p.40), vinse Roma e non la Giudea. A p. 40 leggiamo: “Roma sentiva nell’ebreo qualcosa come contronatura stessa, per così dire il suo monstrum antipodico”, non per i motivi addotti da Nietzsche, bensì perché l’ebreo si intestardiva a rifiutarsi di far parte dell’ecumene ellenista, come dopo si rifiutò di abbracciare il cristianesimo che ne era l’ultima trasfigurazione. “Se a Roma si inchinano davanti a tre ebrei e un’ebrea…”(Ibidem, p.40) , questo non fu il risultato di una congiura giudaica, bensì l’ultima vendetta dell’Occidente sugli ebrei, che rifiutavano in blocco tutto il modus mentale greco- romano- cristiano: “se Maometto non viene alla montagna, la montagna va a Maometto, se voi non accettate i nostri valori, noi li trasfigureremo fino a che sembreranno i vostri, e voi subirete anatema, poiché non accettate quel che noi decidiamo debbano essere i vostri valori”.
Infatti, il cristianesimo derubò i giudei perfino del nome, e d’ora in poi saranno loro a dichiararsi il vero Israele.
Nietzsche stesso aveva definito una “farsa filologica” quella perpetrata dal cristianesimo sul Vecchio Testamento:
voglio dire il tentativo di svellere il Vecchio Testamento dalle midolla degli ebrei con l’affermazione che esso non conterrebbe nient’altro che gli insegnamenti cristiani e che apparterrebbe ai cristiani come al vero popolo d’Israele, mentre gli ebrei lo avrebbero soltanto arrogato a se stessi (Aurora, Adelphi, Milano 1977, p.62.)
Non dunque la vendetta giudaica su Roma, per la sconfitta subita, bensì la beffa dopo l’insulto dei vincitori sui vinti. Il mondo antico crollò sotto il peso delle proprie tensioni interne, e non fu il cristianesimo ad avvelenarlo, bensì il veleno era già da lungo tempo nell’organismo e si faceva strada con il passare del tempo. Secondo Nietzsche “Il cristianesimo fu il vampiro dell’imperium romano” (L’Anticristo, Adelphi, Milano 1977, p. 88) e  “Il cristianesimo ci ha defraudato del raccolto della civiltà antica” (ibidem, p.92). Ma in realtà, questo stava già marcendo nelle aie e nei magazzini.
Il cristianesimo fu il nome che prese quello che N. definisce il veleno che ormai aveva invaso tutto il corpo, la cancrena che, con le sue stesse parole, si faceva strada nella civiltà occidentale dai tempi di Socrate” (Crepuscolo degli idoli, cap. “Il problema Socrate”)  e ormai aveva finito il suo cammino distruttivo all’interno dell’organismo. Lui stesso ci aveva detto: “non si perisce mai per opera di altri, ma soltanto  di se stessi” (ibidem, p.108) e, spiega Freud, ogni organismo muore per cause interne ("Al di là del principio del piacere", in Opere, B.Boringhieri, Torino 1989, vol. 9, p. 224. e pp. 230 – 235). Il cristianesimo in realtà fu l’ultima salvezza, senza di esso le cose sarebbero probabilmente andate ancora peggio. Il cristianesimo, salvò, trasfigurandolo, quello che era rimasto del mondo antico, in attesa di tempi migliori.
Nell’accusare gli ebrei, Nietzsche cadde nella trappola tesagli da Tacito e da tutti gli ellenisti antisemiti che li odiavano per la loro coesione di gruppo, inconfondibile, anche se sublimata. La vendetta del mondo greco – romano – cristiano consistette proprio nel dichiararsi ispirati dall’ebraismo. Questa fu la risposta al rifiuto giudaico di inserirsi nell’ecumene panellenista apollinea, come aveva fatto, invece, tutto il resto del Medio Oriente semita. Così, per i romani, gli unici semiti = barbari rimasero gli ebrei, isolati, e con le parole di Tacito, “gente di provato odio verso l’umanità” (Hist., V/5). Nietzsche li accusò di essere stati l’utero che generò il cristianesimo, ma questo nacque nell’utero panellenista stimolato dall’odio verso i giudei, e germogliò sul suolo del ressentiment di una cultura estraniata dalle proprie radici, quella ellenista, non quella ebraica. Allo stesso modo, è esatto dire che “Il cristianesimo [non] ci ha defraudato di quello [il raccolto] della civiltà islamica” (ibidem, p.92) , che N. come tedesco, con il suo gusto dionisiaco vede  come molto più raffinata della società post-apollinea, rappresentata dall’Inquisizione spagnola. Come abbiamo rilevato nei capitoli precedenti, questa splendida società pluralista, non poteva coesistere con il mondo monista post-apollineo.
Allo stesso modo, “[Non] furono i tedeschi a defraudare l’Europa dall’ultima grande messe di civiltà che fosse data all’Europa dei raccogliere” (ibidem, p.93), bensì la civiltà del Rinascimento crollò per via del rigurgito dionisiaco che ne minò l’equilibrio al suo interno, e che era quello stesso che aveva minato l’equilibrio apollineo del mondo antico. Fu la lotta interna tra apollineo e dionisiaco che decise le sorti dell’Occidente e che ne diressero il fato, e mai fattori esterni, certamente non i giudei, che erano occupati dalla propria lotta per l’esistenza nel contesto della problematica delle proprie tensioni interne. Nietzsche avrebbe dovuto saperlo, lui che aveva scoperto la tensione tra apollineo e dionisiaco e inoltre l’inizio della decadenza greca dai tempi di Socrate e Platone  e il suo sfociare nel cristianesimo.
L’ebraismo viveva da sempre la  conflittualità all’interno della sola sfera dionisiaca tra il bisogno di sfogo e la repressione. Non vi è alternativa apollinea nel modus mentale ebraico, vi è solo sfogo dionisiaco o inibizione e repressione, e la dialettica esistenziale si svolge esclusivamente all'interno dei due poli della stessa istanza psichica.
Il ressentiment fa parte solo del contesto mentale di una società divisa in classi sociali, e questo fa parte della sfera del modus mentale apollineo. Con il crollo degli equilibri si producono diffidenza ed estraniazione. L’anatema dei profeti era diretto verso una società che voleva abbandonare la semplicità di vita e di uguaglianza sociale del seminomade e non era inteso come strumento di ressentiment di una classe sociale di estraniati. L’altro equivoco nietzscheano arriva al culmine quando dice che “il primo cristianesimo maneggia soltanto idee ebraiche e semitiche, (vi rientrano il mangiare e il bere dell’Eucarestia, un’idea così tristemente abusata dalla Chiesa, come tutto ciò che è ebraico)”(L’Anticristo, cit.,p. 42). Proprio l’Eucarestia, che è un rito che si ricollega direttamente al pasto totemico di Dioniso, viene propinata come un rito ebraico. Il sangue di Dioniso, tramutato in vino, è donato all’umanità, e il suo corpo, raccolto da Demetra, la dea delle messi e del pane, tramutato in rito ebraico!
Fortunatamente, Nietzsche era genuinamente filosemita, altrimenti sarebbe stato facile passare da questo alla famigerata accusa di omicidio rituale, del quale gli ebrei furono accusati per secoli. La Torà proibisce in assoluto l’ingerimento di qualsiasi tipo di sangue (“il sangue è l’anima”: vedi Gen.,9,4; Deut.,12,23), al punto che un ebreo ortodosso è comandato di immergere nel sale per ore qualsiasi pezzo di carne, prima che gli sia consentito di cibarsene e, aperto un uovo, se scopre anche una minima traccia di sangue, deve disfarsene e gli è proibito adoperarlo.
Ma l’equivoco si svolge addirittura in ideologia , quando Nietzsche dispiega la genealogia del senso di colpa. Wellhausen aveva scomposto il mito biblico della cosmogonia a seconda delle due fonti: Jahvista (J) e Sacerdotale (Q), e aveva correttamente messo a nudo la manipolazione della seconda fonte, ma entrambi le versioni si basavano su tradizioni orali ancora più antiche, che trattavano della preistoria del popolo ebraico. Analizzando il mito biblico, Reik (Theodor Reik, Myth and guilt, New York 1975)  è arrivato alla conclusione che questo mito trattava del peccato originale come un atto di aggressione arcaico, sulla scia delle scoperte di Freud (Totem e Tabù), verso l’albero come personificazione del corpo di Dio padre stesso. Quest’atto di aggressione cannibalistico era il peccato originale e la fonte del senso di colpa.
In questo contesto, il senso di colpa che ne consegue non è certo una particolarità ebraica. Quest’atto di aggressione primordiale appare in un modo o nell’altro nella mitologia di tutti i popoli e il racconto del giardino dell’Eden è la versione biblica di quello che è un mito comune a tutta l’umanità. In entrambe le versioni, quella jahvistica e quella sacerdotale, il peccato è limitato a un atto di aggressione cannibalistica verso il corpo del dio. L’Albero della conoscenza è l’Etz Ha-dàat, come Adamo conobbe Eva sua moglie (Gn.4,1), e la radice è la stessa, ma anche come i sodomiti volevano conoscere gli ospiti di Lot, con la chiara intenzione di sodomizzarli (Gn.19,5. La conoscenza avviene dunque in un contesto genitale. Il peccato originale era il peccato di evirazione e cannibalismo sul corpo di dio-Padre, per incorporarne la conoscenza, esattamente come questo peccato viene perpetrato da Crono sul corpo di Urano, e nella sua inversione nell’atto cannibalistico di Crono nei confronti dei suoi figli. In entrambi i casi l’uomo primordiale evira il padre e lo cannibalizza per appropriarsi della sua conoscenza, l’ostruso sapere sessuale che spetta solo ai padri.
Nella saga biblica il peccato originale non è connesso al rapporto eterosessuale; il mito biblico non condanna la conoscenza per sé, bensì la conoscenza genitale, che è collegata all’aggressione cannibalistica verso l’albero per appropiarsi delle sue peculiarità, della sua “conoscenza”. Evirazione e cannibalismo dei figli verso il padre. Le saghe bibliche della cosmogonia e del diluvio universale sono miti comuni a tutta l’umanità (Vedi Pinocchio, Seconda Parte). Nella Bibbia sono stati censurati e sono diventati più ermetici.
Inoltre, a differenza del cristianesimo, nella tradizione ebraica l’atto sessuale non è considerato peccato. L’unico peccato mortale è l’adulterio, ovvero quello che commette l’uomo esclusivamente con la donna di un altro. La causa è chiara: per impedire vendetta e spargimento di sangue all’interno del clan. Il cristianesimo considera invece peccato mortale qualsiasi rapporto sessuale al di fuori del matrimonio .
Nell’ebraismo, il Nazir (il Nazireo, come Sansone), votava di non bere vino e non tagliarsi i capelli, ma l’astinenza sessuale era ed è tuttora severamente proibita.
Nemmeno la classe sacerdotale ebraica poteva né voleva introdurre un parametro così antitetico al modus mentale ebraico. Nietzsche su questo argomento pecca di insipienza. Le sue supposizioni si basano su un argomento a priori che siano stati gli ebrei a contaminare l’Occidente con il senso di colpa per tutto quel che riguarda la sessualità. Come figlio di un pastore protestante, era stato indotto a credere inconsciamente che la Bibbia sia la fonte di ogni moralità, o immoralità. Il parametro dell’astinenza e della verginità era sempre stato uno dei due poli del’atteggiamento del greco verso la sessualità: promiscuità nella vita giornaliera, ma verginità nelle cellae dei templi. Le dee greche più importanti erano Atena e Artemide, che erano anche dee vergini, mentre le dee semite erano tutte prostitute sacre. A questo paramentro si riallacciò il cristianesimo: la verginità delle dee, ovvero alla sacralità di questo parametro.
Ugualmente per quel che riguarda il diluvio universale. Questo mito appare anch’esso nella mitologia di tutti popoli, dai sumeri ai babilonesi ai greci. È vero che nella saga ebraica appare Jahvè come un dio terribile che ne è la causa, ma questa è la condensazione di un rito iniziatico arcaico, in cui Jahvè, l’iniziatore, spaventa a morte i suoi figli che rinascono dopo il diluvio.
Ugualmente, Apollo, nelle tracce mnestiche della saga iniziatica greca, fa strage nel campo degli achei per un’offesa subita. Ed è anche il dio che emerge dal diluvio universale e sconfigge il Pitone. Apollo è la condensazione sia dell’iniziatore che del novizio che, come Noé, emerge dal diluvio. La saga è la stessa, solo che gli ebrei la censurarono fino a renderla irriconoscibile. Non vediamo la differenza tra l’ira di Jahvè e l’ira di Apollo, o l’ira di Poseidone contro Ulisse per un insulto subito, o l’ira di Zeus verso Prometeo. L’ira degli dei per la hybris degli uomini non è certo un’invenzione ebraica.
L’unica cosa di cui si può accusare i giudei in questo contesto, è di naivetée : Jahvè, così presto a irritarsi, così permaloso, è anche però presto nel calmarsi e nel perdonare, a differenza degli altri dei, che non si arrendono tanto facilmente alle suppliche umane. Questa naivetée li ha portati a creare l’immagine di un dio misericordioso, sullo stampo dell’immagine di un dio padre, patrono della tribù, che deve necessariamente perdonare i suoi figli per perpetuare la propria discendenza.
La classe sacerdotale post-esilica manipolò la mitologia ebraica per poterla conservare. Gli arcaici significati originali erano stati nel frattempo rimossi. Se le antiche saghe parlavano di numerosi dei e di arcaici riti iniziatici, di storie in cui Jahvè appariva insieme ad altri dei, il popolo ebraico, sotto il peso della sconfitta del regno d'Israele e del primo esilio, si era trasfigurato, asserragliandosi in uno stretto monoteismo. Messo di fronte alla scelta tra cancellare completamente le proprie saghe, o modificarle per renderle accettabili nel contesto del nuovo modus mentale, scelse la seconda alternativa. Invece che estraniarsi dal proprio passato, come i greci – romani - cristiani, e i popoli tedeschi e scandinavi, che rinnegarono i propri dei e li misero a morte, dicendo : « noi non siamo loro », in Giudea manipolarono i testi per mantenerli in vita, e Jahvè assunse quelle peculiarità che gli permisero di rimanere a casa sua.
Anche un adulto rimuove le proprie reminiscenze infantili sotto la pressione di un nuovo principio di realtà. Rimuovere non significa necessariamente rinnegare. Le reminiscenze inconsce continuano a esercitare la loro azione sulla vita psichica e a influenzare i comportamenti e le decisioni attuali che rientrano a fare parte del modus di un individuo come di un popolo. La Aufhebung di Hegel : è il nucleo di un concetto superato, al servizio di un’idea più evoluta che proviene da questo. A differenza di Hegel, noi non crediamo che questo sia necessariamente un progresso, ma piuttosto un addattamento, sotto la pressione di un habitat diverso e più ostile. Se si crea un conflitto insanabile tra reminescenze inconsce e esigenze attuali avviene una crisi, una rottura, o in altre parole, una nevrosi. Il popolo ebraico inserì le proprie reminescenze nel nuovo contesto che si era creato, e fu uno sviluppo e non una rottura. Il prezzo da pagare fu la manipolazione degli antichi testi, come il prezzo che paga l’adulto è la rimozione delle proprie memorie infantili.
Per i popoli come per gli individui, l’importante è rimanere fedeli a se stessi.
 

Lo Scacco nietzschiano

Non è un caso che il filosemitismo di Nietzsche si rinforzasse di pari passo con la sua risolutezza ad istituire “un regime dionisiaco” in Europa, e risanarla così dalla sua decadenza. Nietzsche arriva perfino ad augurarsi che gli ebrei prendano il potere in Europa, per imprimere così il loro carattere nell’europeo, e si rattrista solo a constatare che quelli invece non abbiano la minima aspirazione al riguardo, bensì solo il proprio inserimento nella cultura europea (e Nietzsche vide in questo un’attenuazione dei sani istinti ebraici) (Al di là del bene e del male, cit., pp.164 -5). Cosa aveva portato Nietzsche, non solo a rigettare e disprezzare l’antisemitismo, ma persino ad augurarsi che gli ebrei volessero compiere un coup d’état culturale come unica panacea alla soluzione della decadenza europea?
Nietzsche vedeva, nell’ebraismo contemporaneo, la controcorrente al filisteismo e alla corruzione esistenziale dell’uomo occidentale. Per parafrasare il Vangelo: “la salvezza viene dai giudei” (Gv.4,22). Se Nietzsche aveva accusato i giudei della classe sacerdotale del I secolo di essersi staccati dalle proprie radici dionisiache, che trovano invece piena espressione nel Vecchio Testamento, e di avere preparato così l’avvento della “cosa funesta”, il cristianesimo, riscatta completamente l’ebraismo contemporaneo da questa accusa, e si aspetta dagli ebrei europei del suo tempo di contribuire al risanamento dell’Europa, come i loro avi dell’età romana avevano contribuito, preparando il cristianesimo, alla sua degradazione.
Nelle ultime lettere della sua vita, Nietzsche si firma “Dioniso” (a Overbeck), “Il Crocifisso” (a Peter Gast), e nella sua ultima invettiva contro il cristianesimo, si firma “L’Anticristo”(L’Anticristo, cit., par. 88). Se la sua attitudine verso il cristianesimo era stata di condanna univoca, quella verso il Cristo stesso era stata ambivalente. Non contro Cristo, infatti, si era gettato Nietzsche, bensì contro i suoi discepoli, che ne avevano trasmesso il messaggio nella sua versione apollinea, ovvero anti-dionisiaca.
In una delle sue ultime lettere dopo il crollo finale, datata 6 Gennaio 1889, scrivendo a Burckhardt, Nietzsche si descrive come il Cristo, che viveva in povertà, come il figlio di Dio che si trasfigura in Dioniso e opera come anticristo, e postula: “io sono tutto quello che c’è nella Storia” in un “Nota bene” di questa lettera, aggiunge: “ho ordinato di incatenare Caifa e Guglielmo, Bismarck e tutti gli antisemiti”. Quindi, unisce in un’unica associazione, il prete ebreo Caifa con l’imperatore tedesco, con Bismarck e con tutti gli antisemiti. Ovvero: Caifa e la classe sacerdotale ebraica, che secondo Nietzsche preparò l’avvento del cristianesimo, vengono associati ai filistei tedeschi e a tutti gli antisemiti.
Cosa avevano in comune costoro? Ora ci è chiaro: erano lo strumento di repressione di ogni istinto dionisiaco. Secondo Nietzsche, i preti ebrei avevano trasfigurato l’ebraismo, come i seguaci di Cristo e tutti i dirigenti della cultura occidentale avevano trasformato la civiltà greco – romana, e prodotto la decadenza, e per Nietzsche la decadenza non è altro che il rinnegamento delle proprie radici dionisiache. E di questo infatti accusa i tedeschi. Vedeva in loro solo la volgarità di pulsioni dionisiache rimosse, senza nessuna canalizzazione come medium di sublimazione.
Sentiamo cosa dice:

E perché non dovrei andare fino in fondo? Mi piace fare piazza pulita. Passare per spregiatore par excellence dei Tedeschi fa parte della mia ambizione. Già a ventisei anni ho avuto modo di esprimere la mia diffidenza per il carattere tedesco (terza Inattuale, p71)-- per me I Tedeschi sono impossibili. Ogni volta che provo a immaginarmi un tipo di uomo che vada contro a tutti i miei istinti ne viene fuori un tedesco. Quando voglio “sondare” un uomo, per prima cosa osservo se ha in corpo un qualche senso della distanza, se ovunque vede il rango, il grado, l’ordine fra uomo e uomo, se sa distinguere: è questo che fa il gentilhomme; in tutti gli altri casi si appartiene senza scampo alla categoria cordiale, ah!, così bonaria della canaille. Ma i Tedeschi sono canaille--ah! sono così cordiali…Il rapporto con i Tedeschi degrada, il Tedesco livella…Eccettuati I miei rapporti con alcuni artisti, e innanzi tutto con Richard Wagner, non ho mai passato mai una buona ora con dei Tedeschi…Insomma i Tedeschi non hanno piedi, hanno solo gambe…I Tedeschi non hanno alcuna idea della loro volgarità, ma questo è il superlativo della volgarità-- non si vergognano neppure di essere dei semplici Tedeschi…Parlano di tutto, credono di essere loro a decidere tutto, temo che anche su di me abbiano preso le loro decisioni…-La mia vita intera è la prova de rigueur di queste affermazioni. Vi cercherei invano un segno di tatto, di delicatesse verso di me. Da parte di Ebrei si, mai finora da parte di Tedeschi (Ecce Homo, cit., pp.123-4)
Gli ebrei contemporanei, invece, secondo Nietzsche, si riallacciavano direttamente alle antiche radici, scavalcando direttamente l’eredità sacerdotale, che aveva prodotto un Paolo e i suoi funesti disegni.
Ora ci è anche più chiara l’ambivalenza di Nietzsche verso il Cristo, il dio in croce, morto come Dioniso, ma rinato come Apollo, la cui figura era stata arruolata dai suoi continuatori per sradicare ogni essenza dionisiaca, nucleo esistenziale del mondo antico. Anche per Nietzsche, quindi, che auspica la salita degli ebrei d’Europa come antidoto al filisteismo post-apollineo, era  valida la formula: ebrei = dionisiaco, e da qui il suo filosemitismo, attivo fino all’esasperazione. Nietzsche vedeva se stesso come Dioniso, Cristo / Anticristo, ovvero Cristo dionisiaco, in contrasto al Cristo apollineo (“il Crocifisso”), in quanto era stato Dioniso a essere stato divorato, e negli ebrei contemporanei i suoi unici veri seguaci, in quanto avevano conservato la propria essenza dionisiaca antiapollinea.
Per riassumere: Nietzsche aveva erroneamente concepito il cristianesimo come il prodotto di un ebraismo sacerdotale staccatosi dalle proprie radici dionisiache, e immerso in un ressentiment da vinti. Questa percezione errata gli era venuta dalla similitudine del meccanismo degli sconfitti socialmente, nell’ambito delle tensioni di una società apollinea, mentre invece i giudei vivevano la propria realtà esistenziale, e non avevano intrapreso dialoghi di nessun genere con la cultura che li aveva sopraffatti militarmente. Questa disfatta militare non si era mai tradotta in disfatta esistenziale, e quindi continuava a persistere l’odio, ma questo non si era mai tradotto in ressentiment.
L’odio per i romani e per la cultura greco – romana apollinea era aperto, violento e senza nessun compromesso, e non adottarono mai una strategia mentale di schiavi e di sconfitti. Come a Iotapata (la fortezza ebraica espugnata da Vespasiano nel 68 A.D.), e Massada (rocca espugnata da Silva nel 73), alla sconfitta seguì il suicidio dei difensori.
La censura dei testi, intrapresa dalla classe sacerdotale, di cui Nietzsche ebbe notizia dalla lettura di Wellhausen, la trasfigurazione del dio di Israele in tiranno del suo popolo erano stati degli espedienti interni, ai quali gli ebrei avevano acconsentito inconsciamente, come strumenti per la propria sopravvivenza nazionale, e per la propria cementazione nelle nuove condizioni che si erano create. Infatti, attraverso questo accorgimento, il dio – padre di una tribù compatta diventò il dio – padre di un popolo disperso, e ne mantenne così la coesione. Quello che era stato un dio locale, legato al luogo, un dio “in situ”, come tutti gli dei primitivi, compreso quello descritto nell’Antico Testamento, diventò necessariamente un dio universale poiché dispersi e universali erano diventati i giudei. Il tormentato dialogo tra Occidente ed ebrei, non ebbe mai la sua controparte in un dialogo tra questi e Occidentali.
Questo dialogo rimase un monologo, per mezzo del quale l’Occidente discute da sempre solo con se stesso.
Gli ebrei furono da sempre una controparte immaginaria. Come si lamenta Nietzsche: “gli ebrei potrebbero avere già in questo momento la preponderanza, anzi il vero e proprio dominio oggi sull’Europa, ed è altrettanto certo che essi non lavorano e non fanno piani a questo scopo”(Al di là del bene e del male, cit., p.165), e questo meraviglia Nietzsche. Ciò non deriva da una “attenuazione” degli istinti ebraici, ma da una mancanza di volontà da parte di questi di intavolare un dialogo che non ha ragione di essere.
Se “desiderano solo essere assorbiti e risucchiati dall’Europa, in Europa” (ibidem, p.165), è perché nelle condizioni attuali (ai tempi di Nietzsche), questa era una necessità pragmatica per la propria sopravvivenza. Cambiate le condizioni (ai nostri giorni), e riconquistata la propria indipendenza, hanno rinunciato a inserirsi in un panorama, che nel frattempo per loro è diventato soltanto un grande cimitero.
Nietzsche aveva bisogno degli ebrei affinché facessero da esempio ai popoli d’Europa su che cosa volesse dire essere collegati alle proprie radici dionisiache. In ciò Nietzsche vide giusto. Vide cioè che questi vivevano una realtà esistenziale dionisiaca, anche se repressa canalizzata e sublimata. Vide in loro la continuità esistenziale, la mancanza di estraniazione dalle proprie radici, che invece avevano minato la cultura occidentale. Ma a causa di questa essenza dionisiaca, invece di essere portati ad esempio, gli ebrei furono massacrati. Nietzsche non aveva capito che non si può indirizzare una cultura artificialmente in una direzione piuttosto che in un’altra. Decodificò la fenomenologia, la diagnosi, ma non la sua prognosi.
Se, come abbiamo enfatizzato nei capitoli precedenti, l’antisemitismo occidentale era nato come meccanismo di difesa dal proprio substrato dionisiaco rimosso, è ovvio che il problema non avrebbe potuto essere risolto riproponendo una soluzione non solo scartata, ma mantenuta nella sua rimozione attraverso un investimento energetico continuo. E proprio i tedeschi, con la loro cultura filistea e pseudo-apollinea non mediata, erano i  più vulnerabili a un rigurgito di dionisismo barabarico, che si tradusse in fobia verso gli ebrei (e come abbiamo visto, verso gli zingari), rappresentazione esistenziale di un dionisismo sublimato, e a loro precluso.
Caifa era stato messo in catene dalla fantasia di Nietzsche, insieme all’imperatore tedesco, a Bismarck e a tutti gli antisemiti, poiché questi avevano messo in croce il Cristo – Dioniso, il suo dio prediletto, con il quale adesso egli si identifica. Quindi, gli antisemiti diventano ora i veri Anticristo, i nemici della Buona Novella dionisiaca e i suoi stupratori.
In un’unica allucinazione, Nietzsche condensa il doppio senso del suo messaggio: all’immagine di un Cristo trasvalutatore di tutti i valori del mondo antico, agitatore politico venuto a minare e distruggere il nucleo dionisiaco dell’essenza occidentale, si sovrappone Dioniso stesso, personificazione di questi valori, in croce, con cui Nietzsche si identifica. In questa istantanea, antisemiti sono gli assassini di Dioniso, il vero dio, il prete ebreo Caifa lo consegna al martirio come i continuatori dell’imperatore tedesco e di Bismarck consegneranno gli ebrei ai forni crematori e alle camere a gas: sia questo che quelli sono gli assassini del dio, gli stupratori della verità e della vita, ma Nietzsche non poteva sapere che questo assassinio simbolico, perpetrato sui valori dionisiaci, si sarebbe materializzato poi come assassinio reale, perpetrato su uomini in carne e ossa.
L’allucinazione di Nietzsche si traduce in una realtà non meno allucinatoria. I tedeschi, assassinando gli ebrei, tentarono di assassinare il Dioniso rimosso che abitava dentro di loro e diventarono solo una caricatura grottesca del dio, del dionisiaco, e dei valori cari a Nietzsche. Nietzsche aveva auspicato un’Europa in cui i valori ebraici avrebbero preso il sopravvento. Non aveva previsto la reazione fobica di una cultura che si sentiva minacciata dalla presenza del dionisiaco. La fobia si trasformò in paranoia, e questa produsse il genocidio.
Nietzsche era, dopotutto, un inguaribile ottimista. Aveva decodificato, con le sue intuizioni folgoranti, l’enigma della tortuosa mente occidentale. Credeva che indicare la via sarebbe bastato. Ma la mappa che egli aveva disegnato fu stracciata da coloro che non potevano più trovare la strada: “Chi brucia i libri prima o poi brucia anche la gente”, aveva detto Heine. Gli antisemiti, ovvero gli anti-dionisiaci, si vendicarono di lui, eleggendolo a proprio ispiratore, e non avrebbero potuto trovare vendetta più sottile. Il vero ressentiment, quello di una cultura che non riusciva a venire a termini con il problema della propria identità, fu il catalizzatore dell’esplosione paranoica genocida.
Non il ressentiment sottile degli schiavi contro i propri padroni, e dei vinti sui vincitori, ma quello frastornante e violento di un popolo consumato dalla frustrazione di non potere più ricollegarsi alle radici della propria identità.

Continuazione

Nella sua introduzione all’antologia delle opere di Nietzsche, Sergio Moravia riassume i motivi per i quali la lucida opera demolitrice di Nietzsche non poté essere seguita da una altrettanto lucida opera edificatrice di una sintesi come soluzione esistenziale:

L’opera annunziatrice, o addirittura costruttiva voluta da Nietzsche non aveva spazi visibili di sviluppo all’interno della prospettiva nietzscheana. In effetti, verso quali obiettivi poteva Nietzsche volgere il suo progettato Magnus Opus, una volta scritto quello che aveva scritto negli ultimi testi pubblicati? Non poteva ovviamente volgerlo verso obiettivi di tipo religioso–metafisico: Dio è morto, i principi e i valori trascendenti sono stati o distrutti o ricondotti genealogicamente alle sorgenti terrene; non poteva neppure credere molto alla percorribilità di itinerari di tipo anarco – vitalistico. Invero, essi erano stati suggeriti negli scritti morali del 1886–87, e sono presenti anche nell’Opera mai scritta. Ma questo percorso spesso indicato, non è mai sviluppato. L’appello all’individuo e agli istinti era stato, in un altro contesto, molto fruttuoso. Ma né l’individuo (biologicamente inteso), né gli istinti, potevano rappresentare la base adeguata per il nuovo messaggio. Perché ciò fosse stato possibile, Nietzsche avrebbe dovuto essere stato Freud, e magari un Freud liberato da quelle pastoie positivistiche che resero così difficile e ambiguo lo sviluppo della stessa psicoanalisi. Ma Nietzsche non è Freud. Non può distendere in un discorso organico e fondato le pur geniali intuizioni o la dimensione istintuale inconscia dell’uomo. Non può, in particolare, collegare in modo soddisfacente il piano degli istinti biologicamente intesi con il piano degli atti culturali, e quello dell’individuo con quello della comunità ( Friedrich Nietzsche, La Distruzione delle certezze, a cura di Sergio Moravia, La Nuova Italia, Firenze 1976,  p.LXVII) .
Quello che l’autore chiama “lo scacco finale di Nietzsche”, non è solo
l’illegittimità, l’inutilità, l’assurdità di tentare di costruire chicchessia a livello intellettuale. Può emblematizzare cioè l’impossibilità e l’insensatezza dopo la grande crisi della civiltà occidentale moderna (indotta anche da Nietzsche e da altri pensatori ma non solo da loro) di volere edificare un nuovo essere, una nuova condizione per l’uomo con mezzi filosofici (Ibidem, p. LXIV).
Ma vi è qualcosa di più. Nietzsche, in realtà, aveva usato il suo bisturi da chirurgo per isolare la cancrena che invadeva la società occidentale, ma questa faceva parte integrante dell’organismo stesso, poiché non aveva messo radici casualmente, ma come conseguenza inevitabile dello sviluppo che questa società aveva intrapreso, e senza il quale non avrebbe avuto una propria identità, ovvero non sarebbe semplicemente esistita.
Quando le tribù greche si organizzarono a polis, abbandonarono l’arcaica fedeltà alla legge del padre, e i legami e gli affetti del clan, intrapresero anche la strada dell’astrazione e quindi della rimozione degli affetti più genuini e vitali. La parola “tribale” divenne un insulto, “fedeltà di sangue” simbolo di barbarie. Ma il sangue è quello che scorre nelle vene. Patto di sangue quando lo si mescola a quello degli altri membri del clan, e si diventa così un corpo solo. Autoprivandosi di questo affetto vitale essenziale, l’uomo occidentale creò per la prima volta nella storia dell’esistenza umana una scissione tra se stesso e gli altri.
Per l’uomo primitivo, il clan dei fratelli era un corpo solo, quindi non esisteva una divergenza di interessi tra il singolo membro e gli altri. Per lui la vita scorreva da sola, senza bisogno di astrazioni e filosofia. Non esisteva nemmeno una divergenza d’identità tra sé, gli altri, e perfino la natura che lo circondava. Le sue verità sensoriali erano anche l’unica verità che lo interessava. Le pietre e gli alberi avevano un’anima come la sua. Quindi, niente distinzioni come soggetto e oggetto, pensante e pensato. Non esisteva una divergenza tra sentire e pensare, e questo era un unico flusso energetico.
Distaccatosi da questa realtà esistenziale, l’uomo poté solo sostituirle con la costruzione di quei modelli illusori che Nietzsche riuscì così lucidamente a demolire. Senza questi modelli non può esistere la società occidentale. Distrutta la sintesi, l’analisi restituisce la società al primo gradino: la tribù, ed eventualmente l’orda primitiva. A differenza del singolo, che attraverso l’analisi può ricostruire una migliore sintesi, la società non è in grado di operare una simile metamorfosi, bensì solo imboccare una via che, anche se diversa, si basi sugli stessi presupposti, perché questi sono anche i presupposti della propria identità, e questa è l’unica che conosce.
Nietzsche può analizzare la genealogia della morale occidentale, ma non può cambiare niente, perché lo sviluppo intrapreso da questa società era l’unico possibile. Come non si può cambiare il moto dei corpi celesti analizzandone la fenomenologia, così non è possibile cambiare il corso della storia della società solo perché se ne è svelato il meccanismo.
Il singolo, attraverso la conoscenza, può acquistare un grado più alto di libertà individuale, quando gli vengono aperte le porte dell’autorealizzazione, all’interno del datuum del principio di realtà nel quale egli si trova. La società non possiede questa libertà, ed è destinata a svilupparsi secondo il percorso impostole dalle forze che premono su di essa nelle varie direzioni. Nessuna analisi della fenomenologia di queste forze potrà mai modificare la dinamica del movimento. Non leggi di natura bensì casualità di una fenomenologia che, non conoscendo nessun principio di non contraddizione, cede alle pressioni che subisce e si muove in una direzione piuttosto che in un’altra. Nietzsche può maledire il cristianesimo a suo piacere ma questo, come abbiamo visto, non fu una causa, bensì un effetto. Non una nuova forza emersa dal nulla, ma una conseguenza, la metamorfosi di un corpo sotto la forza delle pressioni interne ed esterne che si esercitavano su di esso. Inveire contro di esso è come inveire come il maltempo. Si può auspicare il bel tempo, ma non lo si può programmare né costruire. Il meglio che può fare il singolo è conoscere le condizioni meteorologiche e muoversi al meglio all’interno di esse.
Gli ebrei, nel corso della loro esistenza, furono esposti a forze che ne determinarono lo sviluppo, tanto complesso questo, quanto complesse erano state quelle. La società occidentale fu esposta ad altre forze e pressioni, e quindi il suo sviluppo fu diverso, antitetico.
Il destino volle che si creò un’incompatibilità tra le diverse soluzioni intraprese.
 

Quello che vide Shakespeare

Potrà sembrare strano, a questo punto, che l’intuito più sottile sul meccanismo dell’ antisemitismo sia venuta da un drammaturgo inglese dell’età elisabettiana, che nulla sapeva di correnti apollineee e dionisiache, di sublimazione e di “Roma contro Giudea, Giudea contro Roma”, e che i suoi contemporanei accusavano di “scarsa cultura”.
Shakespeare aveva percepito l’aspetto sotterraneo di questa corrente dionisiaca che emergeva dall’inconscio in una rappresentazione figurata di tutto ciò che è antitetico al modello apollineo della società occidentale. Aveva capito che questa era la proiezione di passioni inconsce che veniva incontrata da un controinvestimento pulsionale, in una lotta che trova la sua espressione nella figura di Antonio-Apollo il rappresentante del bene e della luce, contro il dio caprino Dioniso-Shylock, rappresentante di foschi istinti rimossi. Shylock-Dioniso, rappresentante del diavolo, sembra avere la meglio fino all’ultimo momento, quando la luce e il bene della giustizia veneziana trionfano su di lui e lo rimandano nei sotterranei dell’inferno, da dove era emerso.
Il Mercante non è quindi una  tragedia, ma una commedia, la rappresentazione della lotta tra bene e male, in cui il bene trionfa come un deus ex machina, in accordo con le aspettative di una folla perennemente minacciata da ciò che non vuole sapere né sentire: la propria essenza pulsionale. Se nella tragedia avviene un’identificazione dello spettatore con Dioniso e le sue pulsioni, e il dio-eroe è destinato a morire dopo avere completato la sua missione parricida, nella commedia invece, nel Mercante, Shylock, muore come Dioniso, ma l’identificazione della folla è con l’altro polo, Antonio-Apollo; Shylock non è l’eroe, bensì la sua antitesi.
Questo sviluppo rispecchia la metamorfosi della società occidentale dai tempi di Eschilo, in cui l’uomo non aveva ancora rimosso la propria essenza dionisiaca bensì si identificava con questa ed era pronto ad accettare le conseguenze e la pena che accompagnano questa identificazione. Nella Venezia di Antonio, questa identificazione era sentita come una grave minaccia, e dunque rimossa, e il diavolo viene lasciato emergere solo per venire negato e rinnegato energicamente. Non a caso si parla con tanta insistenza di carne, traccia mnestica dell’antico atto cannibalistico, in cui il dio viene trucidato e divorato.
L’inversione è chiara: Dioniso-Shylock esige una libbra di carne, poiché questa è proprio la sua carne, che esige, dopo che era stata divorata nell’antico rito: e così emerge dalla rimozione per riappropriarsi di ciò che, anche secondo l’opera shakespeariana, è suo di diritto. Ma infine il diritto di Apollo trionfa nuovamente su quello di Dioniso, ed è questa la giustizia che sarà celebrata.
Shakespeare dunque ci parla della vittoria di Apollo su Dioniso (la saggezza apollinea trionfa sulla pulsione dionisiaca di divorare). Shakespeare crea sulla scena la rappresentazione figurata dei due poli nella loro antitesi, adoperando chiaramente lo stereotipo caricaturale di Shylock = Dioniso = capro = ebreo.
Così facendo, egli sembra dare in pasto alla sua folla la preda a cui questa anela, ma quanto più spinge all’estremo la rappresentazione stereotipata, tanto più in realtà crea la caricatura di coloro nei cui abissi viene creato tale stereotipo, e quella che sembra la caricatura dell’ebreo diventa alla fine la caricatura dell’antisemita.
Shylock perde la bella figlia, perché bellezza e soavità non spettano a lui, rappresentazione figurata della bruttezza e della malvagità. Egli viene lasciato anelare ai suoi prodotti fecali (il denaro), e anche di questi viene infine privato, come atto di nobile giustizia apollinea. La figlia lo deruba degli anelli e dei gioielli, poiché anche questi non gli spettano. Tutto ciò che si associa a beltà, nobiltà e valore, spetta di diritto ai cristiani; la figlia trasfigura nella sua persona un’origine dionisiaca in bellezza apollinea, come un brutto anatroccolo che si trasformi in un cigno (vedi la battuta di Solanio (III, i): “E Shylock, per parte sua, sapeva che all’uccellino erano spuntate le penne, e allora la natura vuole che lascino il nido”) , e in una Porzia/Nerissa, le dee greche che rappresentano l’ideale del bello e dell’apollineo. Porzia, Nerissa e Gessica rappresentano infatti l’antica triade verginale olimpica, ripristinata per dare il premio all’eroe apollineo.
Nella tragedia eschilea, apollineo e dionisiaco erano i poli di un’unità, una sola realtà esistenziale. Il pubblico non era composto da spettatori, ma da protagonisti. Vivevano nel tremore delle membra e del pianto la propria esperienza esistenziale. Nella tragedia non esisteva caricatura o derisione. Nella commedia, invece, il pubblico deride e si fa scherno delle  proprie rimozioni e così riesce anche a esorcizzarle.
Shakespeare sembra avere creato esattamente l’opera che tutti si aspettavano da lui. Ma quando finalmente Shylock apre la bocca, il suo grido di dolore si ripercuote, come una martellata sul pubblico: questo non è più lo stereotipo che parla, bensì l’ebreo, e le sue parole sono un atto di accusa contro l’uso che il mondo apollineo ha fatto della sua figura, a uso e consumo dei propri bisogni, senza curarsi della realtà umana ed esistenziale che così facendo ha calpestato. Per un momento, Shakespeare fa uscire l’uomo dalle vesti del protagonista della commedia, come per avvertirci: “attenti, vi ho dato quello che volevate sentire, ma se credete che dietro lo stereotipo non ci sia l’uomo, vi sbagliate. La caricatura siete voi, con i vostri bisogni tenebrosi”.
Antonio infatti aveva detto: “Il mondo è un teatro dove a ciascuno tocca recitare una parte” (I, i). Ovvero Shakespeare ci avverte che si trattava solo di teatro e di parti, come in una rappresentazione apollinea da Euripide in poi. Non è realtà, vita vera, come invece è la tragedia eschilea. E Shylock recita la parte assegnatagli fedelmente, fuorché in questa scena, dove Shakespeare ci mette all’improvviso di fronte a un colpo di scena, spogliando Shylock della sua parte e presentandoci l’uomo nella sua verità, libero dalle vesti che altri gli avevano imposto. Cade la maschera, si spoglia della pelle di capro di cui lo avevano rivestito, e si rivela come lo specchio delle altrui proiezioni, riflettendo l’immagine di chi guarda. L’antisemita razionalizza la sua passione, e si preclude da solo la possibilità di giungere a sbrogliare un nodo cruciale della sua costituzione psichica.
Ma la presa di posizione del grande drammaturgo inglese fu talmente imbarazzante per l’occidente antisemita, che questo sentì il bisogno di correre ai ripari: ed ecco che lo stesso Shakespeare venne accusato di antisemitismo, lui che attraverso la sua arte ne aveva svelato il meccanismo reale. Ogni volta che si parli del Mercante, o ci si accinga a rappresentarlo sulla scena, gli intellettuali occidentali, si sentono in dovere di criticare quest’opera per il suo presunto antisemitismo. Gli antisemiti non possono perdonare a Shakespeare di essere stato al di sopra di questa tenebrosa passione, e di avere sollevato il velo, alzando il sipario, sugli stereotipi che la caratterizzano. Estrema ironia: non vogliono mettere la sua effigie sulla moneta dell’Euro, la moneta dell’Europa unita, perché, a causa del suo presunto antisemitismo, non ne sarebbe degno.
Sottilissimo meccanismo di vendetta!
I nazisti elessero Nietzsche a loro precursore, per vendicarsi del suo filosemitismo e del profondo disprezzo nei confronti dei tedeschi e del loro filisteismo. I nazisti non potevano certo convivere con il filosemitismo militante di Nietzsche, e perpetrarono una radicale mistificazione dei suoi scritti, così i dirigenti europei non possono convivere nemmeno con la semplice percezione che Shakespeare sia stato anche solo al di sopra degli stereotipi così radicati nella psiche europea.
E così, Shakespeare non avrà la sua effigie sulla moneta ufficiale dell’Europa unita. Questo grande uomo non è considerato sufficientemente un “buon europeo” e, guarda caso, perché era “antisemita”.
 

Freud e Nietzshe

Freud aveva avuto il sospetto che la felicità dell’uomo sia minata dai suoi stessi sforzi per ottenerla, per lo meno per quello che lo riguarda come collettività. Nel 1924, riflettendo sulle resistenze alla psicoanalisi  aveva detto:

La civiltà umana poggia su due pilastri, di cui uno è il controllo delle forze della natura, l’altro è la limitazione delle nostre pulsioni. Il trono della regina è retto da schiavi in catene… Le esigenze pulsionali insoddisfatte fanno sì che egli avverta con un senso di oppressione costante le pretese della civiltà (“Resistenze alla Psicoanalisi”, in op.cit, Vol.10, p.55.
E ora ci è più chiara anche un'altra frase di Freud “Trattenere l’aggressività e comunque malsano, porta alla malattia”, e così dicendo non ci aveva altro che confermato la saggezza biblica: “Un’attesa troppo prolungata fa male al cuore, un desiderio soddisfatto è albero di vita” (Prov. 13,12).
Ma non porta forse alla malattia anche il predominio assoluto delle forze dell’Es? Non ci ha insegnato forse lui stesso che il ritiro delle energie dalla sfera dell’Io e la regressione a una psiche dominata esclusivamente dalle pulsioni dell’Es porti alla perdita del principio di realtà, all’allucinazione e alla psicosi? (“La Perdita della realtà nella nevrosi e nella Psicosi”, in op.cit., vol 10, pp. 39-43)
Freud, nei suoi scritti, non parlò mai di apollineo né di dionisiaco. La sua attitudine verso Nietzsche non può essere definita altro che “perturbante”. Si sentiva attratto dall’uomo Nietzsche, come emerge dalle numerose menzioni che compaiono nei suoi scritti e, d’altra  parte, si faceva un punto d’onore di non averlo mai letto, come in un sospetto tentativo di non sentirsi l’”epigono” del suo grande precursore. Freud non parlò mai di dionisiaco, ma parlò di “Es”; non parlò mai di apollineo, ma parlò di “Io”. Ma il parallelismo tra i concetti introdotti da Nietzsche e le istanze psichiche postulate da Freud era troppo evidente per non essere notato. L’unica concessione che fece al dunque fu questa:
gli eventi della storia, gli influssi reciproci tra natura umana, sviluppo civile, e quei sedimenti di avvenimenti preistorici di cui la religione è il massimo rappresentante, altro non sono che il riflesso dei conflitti dinamici tra l’Io, l’Es e Super-Io, studiati dalla psicoanalisi nel singolo individuo: sono gli stessi processi ripresi su di uno scenario più ampio (“Autobiografia”, poscritto del 1935, in op.cit., vol.10, p.139).
Una delle cose che più turbava Freud era il legame enigmatico tra la psiche dell’individuo e la psiche della collettività. In Totem e Tabù , afferma:
Senza l’ipotesi di una psiche collettiva, di una continuità della vita emotiva degli uomini, che permetta di prescindere dall’interruzione degli atti psichici, dovuti alla transitorietà dell’esistenza degli uomini individuale, la psicologia dei popoli in generale non potrebbe sussistere. Se i processi psichici di una generazione non si prolungassero nella generazione successiva, ogni generazione dovrebbe acquisire ex novo il proprio atteggiamento verso l’esistenza e non vi sarebbe in questo campo nessun progresso e in sostanza nessuna evoluzione (in op.cit., vol.7, pp.160-161).
Nel 1921, quando si occupa della psicologia delle masse (In op.cit., vol. 9, p.304.) , fa dipendere l’autoidentificazione degli individui che costruiscono un’organizzazione simile dalla assunzione collettiva dello stesso ideale dell’Io (Super-Io). Questo spiegherebbe il fenomeno per il quale un massa, e per estensione anche un’intera collettività, interagiscono come se si trattasse di un singolo e con la stessa fenomenologia delle azioni psichiche dell’individuo. Questo sarebbe il meccanismo per mezzo del quale la psicologia del singolo, moltiplicata per il numero dei membri di una collettività, si traduce in “anima collettiva”.
Nella lezione 30 dell’Introduzione alla Psicoanalisi, mentre si occupa del problema della telepatia, Freud ritrova lo stesso filo della problematica della psiche collettiva: "Il processo telepatico consisterebbe nel fatto che un atto mentale di una persona suscita il medesimo atto mentale di un’altra persona” (in op.cit., vol.11, p.667.) E ancora:
È noto che rimanga un mistero come venga a formarsi una volontà collettiva tra grandi comunità di insetti. È possibile che si formi attraverso questa trasmissione psichica diretta. Nulla vieta di supporre che questo sia il metodo originario, arcaico di comunicazione tra gli individui, e nel corso dell’evoluzione filogenetica esso sia stato sopraffatto dal metodo migliore di comunicare che si avvale di quei segni che gli organi di senso sono in grado di captare. Ma chissà che il metodo più antico non sia rimasto sullo sfondo, e si affermi ancora in certe condizioni, per esempio nel caso di una folla eccitata dalle passioni (ibidem, p.168) .
 Quindi, una “storia comune”, che passi da padre in figlio per mezzo di una trasmissione inconscia del pensiero, ma ancora di più, un’esperienza esistenziale, una formazione culturale, non è altro che l’insieme delle soluzioni esistenziali intraprese da una collettività sotto lo stress della sfida esterna.
Nel suo “Uomo Mosè”, alla fine della sua lunga e produttiva vita, Freud lascia da parte le esitazioni interiori e lega finalmente l’Es dell’individuo a quello della collettività (op.cit., vol.11, pp. 418-419). Questa volta, attraverso la filogenesi, che definisce “un’eredità arcaica”. Di questa eredità arcaica Freud aveva già parlato un anno prima, in "Analisi terminabile e interminabile" , e lì l’aveva attribuita non solo all’Es ma anche all’Io, poiché:
È certo che una parte considerevole di ciò che per noi è ereditario fu acquisito dai nostri progenitori. Quando parliamo di “eredità arcaica”, normalmente pensiamo solo all’Es, supponendo, a quanto pare, che all’inizio della vita individuale l’Io non esista ancora. Eppure non dobbiamo trascurare il fatto che l’Es e l’Io sono originariamente una cosa sola, e non si tratta da parte nostra di mistica sopravvalutazione dell’ereditarietà se riteniamo attendibile l’ipotesi che per l’Io non esistente siano già determinate le direzioni dello sviluppo, le tendenze e le reazioni che esso in seguito metterà in risalto. Non si potrebbero spiegare altrimenti le particolarità psicologiche di certe famiglie, razze, nazioni , perfino nel loro atteggiamento verso l’analisi. Ma  c’è di più: l’esperienza analitica ci ha indotti alla persuasione che perfino contenuti psichici ben determinati come il simbolismo non hanno altra origine che la trasmissione ereditaria; inoltre, in base a diverse ricerche sulla psicologia dei popoli, ci vien fatto di supporre che anche altri sedimenti non meno specifici dell’antica evoluzione umana siano presenti nell’eredità arcaica (op.cit., vol.11 p.523)..
In questo modo diventa chiaro come alla psiche del singolo individuo corrisponda anche una psiche collettiva, che proiettata in una rappresentazione figurata si traduce in dionisiaco o apollineo
Sul perché la psiche occidentale abbia intrapreso una via piuttosto che un’altra, scartandola dalle proprie soluzioni esistenziali, e sul perché invece la psiche ebraica non abbia mai contemplato questa alternativa, e abbia invece potenziato al massimo la via dionisiaca, canalizzando tutte le energie in una dialettica tra i due poli della stessa istanza psichica, repressione e sublimazione, non è completamente chiaro, ma ci pare di avere puntato il riflettore su alcuni aspetti finora rimasti nebulosi.
Nietzsche e Freud sono i due più grandi uomini della nostra epoca.
Freud non riuscì mai a venire a termini con il proprio essere ebreo. Freud, l’ebreo, era turbato dalla sua stessa attrazione irrazionale verso le proprie radici. Lo scienziato positivista era “dionisiaco” suo malgrado, e tentava inutilmente di esorcizzare questo dionisismo attraverso la sua scienza. Attratto da Nietzsche, lo respingeva per paura di essere condizionato nella sua “obiettività scientifica” (vedi, Iakov Levi, Un'analisi del dissenso tra Freud e Jung. La genealogia di un turbamento, in Dialegesthai. Rivista telematica di filosofia).
Le verità esistenziali delle intuizioni di Nietzsche lo perturbavano, rischiando di minare la sua fede nel dogma della razionalità scientifica e dell’immanenza dell’osservazione empirica. Intuito versus empirismo, Erlebniss versus osservazione scientifica.
Solo nella fase più tarda della sua vita, Freud “si arrese” e dichiarò di sentirsi ebreo, anche se lui stesso non seppe precisare che cosa questo realmente significasse. Per Freud, il proprio ebraismo rimase sempre qualcosa di presente, immanente ma irrazionale, come il proprio dionisismo.
Nietzsche, tedesco, allattato e cresciuto nel grembo di un antisemitismo luterano feroce e radicale, tradusse la propria oscura attrazione per gli ebrei in filosemitismo esasperato e irrazionale: è il sentimento più forte che emerge dall’intero Corpus nietzscheano.
Aveva identificato consciamente ebraismo con dionisismo?
Pare di no. Una realizzazione conscia di questa associazione, avrebbe smussato le sue dichiarazioni esplosive di filosemitismo militante. Per Nietzsche gli ebrei non erano solo un “oscuro enigma”, come per Hegel, un problema filosofico dalla difficile soluzione come per tutti i filosofi occidentali. Gli ebrei, per Nietzsche, erano sia il problema che la soluzione. Da loro si attendeva la salvezza. Li accusava di essere alle radici di tutto il male (il cristianesimo) e di tutto il bene; loro avevano avvelenato l’Europa, ma loro erano anche gli unici che avrebbero potuto salvarla. Alla visione cristocentrica di Hegel, Nietzsche sostituì una visione ebraico-centrica. Ai suoi occhi gli ebrei erano la personificazione della salvezza dionisiaca. Il messaggio messianico cristiano fu così solamente spostato, non rinnegato. Il nuovo messia sarebbe stato Dioniso incarnato negli ebrei.
L’unico sospetto che gli emergeva timido nella mente, e che lo turbava, era che forse questi non avevano nessuna predisposizione a incarnare la figura del Salvatore per redimere l’Europa. Fu solo sul suolo delle speranze messianiche di Nietzsche che si può capire sia il suo filosemitismo che il suo presunto antisemitismo.
Come il bambino fa dipendere dalla figura del padre onnipotente sia tutto il bene che tutto il male, così l’attrazione irrazionale per gli ebrei era la causale che dava origine alle sue esplosioni antiebraiche, come strumento della sua avversione per il cristianesimo: antiebraico e insieme attivamente filosemita. Questo dualismo può essere compreso solo sullo stampo dell’ambivalenza infantile verso la figura paterna.
La convinzione che attribuiva all’ebraismo come origine del cristianesimo aveva le sue radici nell’insipienza, ma forse anche da quello che aveva imparato, bambino, dal padre predicatore protestante, e che aveva poi rimosso. E da qui forse il legame tra ebraismo e figura paterna. Aveva imparato dal padre che il cristianesimo veniva dopo e dall’ebraismo, e lui sapeva che Apollo era venuto dopo e da Dioniso. Né Nietzsche, né tantomeno tutti gli altri filosofi occidentali conoscevano l’ebraismo. Giudea e giudei, dai loro primi incontri con l’Occidente furono da sempre presi in prestito come strumento/pretesto di un monologo dettato dalla conflittualità emotiva dell’autoidentità occidentale. Se Nietzsche fosse vissuto ancora mezzo secolo, avrebbe potuto toccare con mano la futilità del suo monologo patetico con il giudaismo. Gli europei assassinarono il designato messia dell’europeità. Gli ebrei presero il destino nelle loro mani e diventarono il messia solo di sé stessi.
Freud si illudeva di salvare l’umanità attraverso una scienza di cui negava energicamente la sostanza: una scienza “ebraica” suo malgrado. Nietzsche si illudeva di salvarla attraverso la persona fisica degli ebrei: Dioniso resuscitato. Entrambi si nutrivano di fantasie messianiche. Al di là di ogni filosofia, la vita si rivelò più forte. Sia Nietzsche che Freud avrebbero dovuto prevederlo. L’Erlebniss vitale dell’Occidente fece precipitare nuovamente questo nella propria fobia antidionisiaca, e l’Erlebniss esistenziale ebraico, il filo della propria identità nazionale, li riportò a conquistarsi l’indipendenza, e da popolo disperso ripresero nel sangue e con la forza quella Giudea che era stata loro carpita nel sangue e con la forza. Il motto romano Iudaea capta diventò il motto ebraico Iudaea restituta. Nietzsche si aspettava da loro che salvassero l’umanità, ma questi, seguendo il proprio Erlebnis, si dimostrarono molto più efficaci nel salvare solo sé stessi. Il monologo occidentale con gli ebrei fu svuotato di qualsiasi controparte immaginaria e si rivelò esattamente per quello che era: un fantasma.

Links:
Nietzsche e la psicoanalisi
Da un Forum su Nietzsche: Nietzsche, il padre e l'antisemitismo
Es e Io nello specchio di Apollo e di Dioniso
Il silenzio e la parola
Di Maestri e di allievi
Medusa, the Female Genital and the Nazis

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