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Racconto Segnalato come "meritevole di pubblicazione"

Buio appeso male

di Fabio Beccacini di Imperia

 

 

Oggi non riesco a scrivere nemmeno il mio nome dritto sul verso giusto del foglio.

La notte mi ha preso gli occhi e se li è mangiati in umido.

Mi ha portato al ristorante del carpe diem e mi ha lasciato senza parole con il metronomo drogato e fuori tempo.

È arrivata con il suo carrello portavivande pieno di brutti pensieri. Maitre di una vita senza menù alla carta mi ha porto il conto da pagare per la mia stupida voglia di non volermi dare per vinto.

E provare a continuare.

Sorrideva il cameriere. Lo pagano per questo. Per sorridere e consigliare i piatti del giorno.

Sono riuscito solo a piangere.

Allora ho chiuso gli occhi.

È rimasto un deserto di spilli da camminarci sopra a piedi nudi.

E faceva più male non vederne la fine che sentirli conficcarsi nella carne.

Non suonerà il campanello questa sera.

Non suonerà due volte, la prima appena un drin leggero e la seconda pigiando forte con tutto il  polpastrello.

Non  arriverà lei alle dieci e un quarto, con il suo odore di sudore da lavoro e testa china a raschiare pedate nei corridoi; uno sbuffo di fatica in cima alle scale. Non chiuderà l´ ombrello sul pianerottolo.

Niente più gorgoglio di caffè alle sei e trentacinque, il sole sotto le coperte che se ne strafotte. Niente più giornate a pulire cessi, niente più palpebre livide sotto agli occhi. Più niente di niente.

Quando sono arrivato c´era il padrone di casa all´angolo del palazzo.

E per una volta non mi ha detto di abbassare la musica, o di chiudere civilmente la porta dell´ ascensore, o di ricordarmi di pagare la rata del condominio.

-Mi spiace- ha detto solo -Mi spiace- e aveva nonostante tutto la faccia patetica da contrizione pubblica.

C´era un sacco di gente intorno al caseggiato.

Pincopallini in abito da sera, un giornalista che mi ha fatto delle foto una volta che ho vinto un premio letterario e che mi ha detto -Salve-, vicini di casa e la figlia del notaio che mi ha sorriso triste.

Ma io non avevo ancora capito per cosa si dispiacesse quello strozzino del padrone.

Ma quando uno sconosciuto si è spostato dal centro dell´attenzione per farmi partecipare allo spettacolo.

Ma quando ti volti per un istante e ti accorgi di aver corso troppo.

Ma quando la vita se ne fotte dei tuoi calcoli matematici e non serve a niente la testa contro il muro o pregare, qualche Cristo in una chiesa di periferia.

Mia madre era andata prendere un po´ d´aria fuori dalla finestra e i carabinieri avevano tracciato un perimetro di gesso intorno al mio dolore.

Non arrivo mai in tempo agli spettacoli, neppure quando è mia madre a volare giù come un gabbiano per vedere che cosa succede, se poi   rimane un silenzio duro  e acido come scorza di limone. Neppure per guardare se le è rimasto un sorriso, se almeno quella cosa, fare un volo,  tagliarsi le vene e guardare colare il sangue nel bianco smaltato di un lavandino,  spegnere il sonno in un calice di vino  assieme a cento gocce di Valium,  guardare in faccia un treno e chiudere gli occhi sperando che possa rimettere in ordine le idee dopo averle fatte a pezzi per sempre, se almeno fare una di queste cose in ordine sparso, le abbia regalato un po´ di serenità a basso prezzo.

Ero fuori di me con le gambe tremanti e il cuore che sgommava all´impazzata e picchiava in testa fuori giri.

Qualcuno  mi aveva infilato in gola un pugno di bianco d´ uovo che non riuscivo a mandare giù. Era tutto fermo, remoto, immobile.

Nessuno parlava. Solo contro il muro stava un manifesto delle elezioni politiche con un candidato che mi sorrideva di plastica e mi chiedeva il voto per un futuro più rosa. Insieme.

L´ aria era quella corrusca e baluginante di una serena giornata di maggio.

Intorno al corpo c´ era un cerchio di gesso e il militare che lo aveva appena eseguito se ne stava lì con l´aria indecisa.

-Lei è il figlio?- mi aveva chiesto il carabiniere di sinistra quello con le basette alla saracena e i baffetti alla Charlie Chan.

Io non avevo risposto  niente.

-Mi scusi, ma devo chiederglielo  di nuovo. È sua madre?...-

Ancora silenzio addomesticato dal vento.

Un pieno gravido di aria vacante  su e giù per la via e la mia testa.

-No, era mia madre, ma questo lo capisce già da lei credo-

Poi mi ero girato verso Silvia Bonello, la figlia del rinomato notaio cittadino e le avevo chiesto se aveva da fare per quella sera.

Poi mi hanno detto che sono svenuto.

Ora invece sono qui.

Cento venti metri quadri di appartamento in via verdi 19.

Una scatola talmente grande per una persona sola da sentirla cadere sulla pelle.

Un´incontro di muri che somma ogni giorno che passa   una  distanza a una distanza.

Una lontananza che cresce infinita tra lei e me.

Metto  l´acqua sul fuoco, un piatto e un bicchiere in tavola.

Una stazione radio che ronza a intermittenza.
Apparecchio un´assenza per cena.

Mangio in silenzio guardando d´in quando la parete ingiallita dai brutti pensieri.

Sulla lavagnetta metallica c´è ancora scritto -Questa sera non torno a mangiare. Sono a lavorare dal dottor Bertolaso- non l´ho più cancellato.

Ma chissà come in due anni non me ne sono mai accorto.

Allora mi appresso alla finestra e tiro la tenda.

In strada due bambini stanno giocando a nascondino, un motorino  frena all´angolo della curva con uno stridio controllato, sul muro ancora il manifesto elettorale ormai ridotto a brandelli, il candidato  senza parole con uno strappo al posto delle labbra.

Mi viene da sorridere, mi sembra tutto innocuamente a posto come un gatto che si pulisce il buco del culo dopo aver mangiato, come un bacio della buonanotte, ma quando guardo più su verso il cielo mi accorgo che il buio è ancora appeso male. Che da quel pomeriggio di maggio non sono più riuscito a metterlo a posto. Ci ho provato con il vino, le donne e le puntine da disegno, ma niente. Rimane sempre un angolo che viene giù, che ogni tanto si stacca.

Che quando l´ aria si prende la notte, che quando scende la sera, non è un giorno che finisce.

E´ mia madre che non c´è più.

 

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