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Racconto Segnalato come "meritevole di pubblicazione"

Rinuncia di un osservatore

di Emanuele Ravasi di Lecco

 

 

"Tutte le responsabilità che potrebbero gravare sulle mie spalle sono state allontanate. Sono più vicino alla libertà."

Lo disse un mio vecchio parente, non ricordo se fosse uno zio o un nonno. Importa poco.

Ci penso spesso. Forse attendo di essere spinto in una situazione simile dai fastidiosi scatti delle lancette del tempo. Forse non ho ancora appreso tutti i significati impliciti della frase.

Da tempo ormai rifletto seduto su questa panca bianca, fredda. Mi trovo in un giardino. E’ molto pulito, ben tenuto, dalla struttura molto regolare. Ancora non ho raggiunto una conclusione certa. Sono un indeciso, forse per questo sono ancora seduto, forse per questo non sono ancora salito sulla torre.

La gente intorno a me si affanna a salire scale... continuamente, sempre alla ricerca della sommità di questa torre di Babele. Sono come fantasmi. Eterei, non mi vedono, non mi parlano perché non li seguo, non mi degnano di attenzione perché non sono come loro. Non voglio esserlo, ho paura e coraggio di non conoscere.

Li osservo dal basso, sempre seduto, fermo, silenzioso.

Mi chiedo cosa li spinga a salire. Li vedo concentrarsi sui gradini uno alla volta, cercare di non mettere mai il piede in fallo. Iniziano spavaldi e sorridenti. Alcuni salgono a coppie o a comitive. Cominciano facendo conversazione per ingannare il tempo durante la salita. I gruppi che intavolano un discorso serio sono le persone che resistono di più. Altri scelgono di salire soli, evitano di fare conoscenza con chi si trova nelle vicinanze, procedono molto lentamente per risparmiare le forze ma è la continua formazione di pensieri preoccupati che li distrugge. C’è chi si porta un walkman tascabile e canta sottovoce, piangendo. C’è chi sale mentre legge un libro, a tentoni, cercando di non precipitare. C’è chi sale fumando interi pacchetti di sigarette, sempre nervoso, pronto a spingere via chiunque lo infastidisca.

Nessuno di loro arriva mai alla sommità, quale sia la tecnica scelta per proseguire verso l’alto. Ad un certo punto del cammino accade loro qualcosa che li spinge a buttarsi.

Ogni tanto qualcuno si ferma, si volta verso il panorama e, se ha fortuna, lo fa durante il tramonto o l'alba. Alcuni scacciano subito la confortante distrazione e proseguono, altri si commuovono davanti a tale bellezza e si buttano. Può succedere anche che la fine del viaggio sia causata dai soli pensieri. Si comincia a riflettere senza interruzione, dopo aver esaurito gli argomenti di conversazione, le pile per il walkman, le parole del libro o le sigarette. Si giunge a qualche conclusione talmente paranoica o sconfortante o rassegnata o tutte queste cose insieme… e si sfocia nella decisione del suicidio.

Le persone più sincere, quelle che hanno capito veramente il loro errore, sono quelle che si gettano con un sorriso ironico. Hanno inteso tutto, sanno perché non serve raggiungere la sommità, conoscono il motivo per cui è perfino inutile tentare di arrivare in cima. Ma anch’essi scelgono di buttarsi, frustrati dall’idea di un’estenuante discesa a piedi, per le scale che hanno appena inutilmente percorso.

Tutto questo… l’ultimo salto… è un estremo tentativo di tornare a raggiungere le bellezze del giardino intorno alla torre.

Sanno che è la fine, ma ormai non importa. Le loro lacrime sembrano salire verso l'alto, dal loro punto di vista, mentre cadono. Il suono dell’aria che il loro corpo fende durante la discesa è l’unico che odono. Non riescono a sentire le grida di chi in quel momento realizza la propria follia durante la salita, né il candido cinguettare degli uccelli che possiedono l’invidiabile dono del volo.

Ed io li vedo cadere, uno dopo l’altro.

Ho scelto: non voglio salire, né volare. Preferisco rimanere ad osservare, circondato da bellissimi fiori e da cadaveri.

 

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