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Vincitore "Sezione Narrativa in lingua italiana"

L'Odore del Sud

di Giuseppe Mauro di Arzano (Napoli)

 

 

Fu il mare a dirmelo, capisci?

E’ tutto così chiaro adesso che mi sembra di essere tornato lì, proprio dentro quella notte ed i suoi venti incessanti e senza rosa.

Lo so, è assurdo ricordarlo dopo tre anni, proprio ora e qui, sulla stessa riviera. Accanto a te.

E’ assurdo come il colore di queste onde, non riesco a smettere di guardarle e di contare le mille stelle che si inseguono giocose nel buio, scivolando veloci sull’acqua. Mi confondono i pensieri, a te no? Riesci a guardarle senza provare ad inseguirle, scontrandoti con l’impossibilità delle loro traiettorie, il loro apparire e scomparire, l’armoniosa illogicità delle loro evoluzioni?

E’ il momento, mi disse, non puoi più aspettare.

Non devi.

Ti ricordi le sere perdute ad inseguire una fuga? Questo non è il mio posto, la solita conclusione di ogni discussione e poi le lacrime, quelle tue perchè io avevo imparato ad ingoiarle prima che saltassero fuori, ormai sapevo tenerle a bada.

Ogni volta mi sentivo un po’ più vigliacco. Ed in colpa, certo, chi non si sarebbe sentito in colpa? Sei un egoista, un irresponsabile, un incosciente... sai quante volte ho assorbito quei colpi facendoli miei, fino a sentirmi totalmente immerso in quell’oceano di virtù senza più riuscire a venirne fuori?

E poi ti abbracciavo senza forza e mi sentivo di nuovo vigliacco perchè non riuscivo a fuggire, i volti e le cose ed i luoghi si coalizzavano contro le mie inquietudini, come una diga impossibile da superare.

Fino a quella notte.

Lo so, è assurdo ricordarlo adesso. E’ come calpestare ad una ad una le mille ragioni che ho continuato a costruire e a ricostruire ogni volta, senza mai smettere. Dolorosamente.

Via, finalmente,via da un sole troppo caldo e abbagliante, dalla musica delle strade senza confini, dalla libertà oppressa nel bisogno, da tutti i sogni di riscatto quietamente impazziti.

Via dagli odori di frittura nelle piazze al tramonto, dalle estati piovute da occidente senza fretta e senza voce, dai sapori antichi di nuovi testamenti di spiriti non domi.

Via da te, da noi, da padri e madri e sorelle, dalle voci incontrollate di periferie familiari senza più nome, nessun volto e nessuna ragione.

Via da un figlio venuto troppo in fretta e troppo tardi per essere vero, ultimo ed inutile approdo di un senso ormai smarrito.

Un mosaico di ragioni che ho costruito pazientemente, anni passati a donargli un senso, a cercare di carpirne il significato, ho sempre saputo (o sperato?) che ci fosse un significato da trovare, nascosto nel tutto o in un singolo pezzo beffardamente nascosto sotto ai miei occhi.

E poi, in fondo, ti avevo persa. Ci eravamo persi e lo sapevi anche tu, pure ostinata nei tuoi ti amo senza fine, me li lasciavo scivolare addosso senza rispondere, vinto da una tristezza senza contorni, una mano nei tuoi capelli e gli occhi regalati al soffitto.

Quella notte l’aspettavo da tempo. O forse era lei che mi aspettava, in un futuro che si era fatto presente d’improvviso, senza avvertirmi, nè darmi il tempo di accoglierlo come meritava.

Ricordi? Avevamo di nuovo litigato, ti avevo chiesto ancora di venire via con me e poi il bambino era ormai abbastanza grande per poter sopportare un altro luogo in cui stare e crescere, colori forse più sbiaditi e un tempo certo più veloce, ma senza brogli nè anarchie.

Vattene, mi avevi detto.

Vattene, non voglio più sentirti, non voglio ascoltare ancora la tua rabbia, sono stanca delle tue stanchezze e dei tuoi labirinti senza uscita.

Sono in un buco nero, pensai, mentre guidavo veloce verso il mare. Sono in un buco nero e non ne conosco più la storia, certo non ho modo di uscirne.

Come al solito, girai in tondo per mezz’ora prima di trovare un posto dove parcheggiare. Ricordi? Era una delle mie argomentazioni preferite in mezzo ai tanti scarabocchi con i quali dipingevo il nostro mondo, la nostra città, il meridione delle nostre vite.

Tanti luoghi comuni, lo ammetto. Cosa vuoi, disillusione e disincanto sono pagine sottili e trasparenti attraverso le quali spazio e tempo assumono suoni diversi, la verità (ma poi esiste una verità?) si distorce e sembra persino fiera di non essere più quello che era, in una trasformazione senza fine, autoreferente.

Vattene, mi avevi detto.

Non è che tu fossi molto più felice di me, in fondo. Siamo stati giovani, ricordi? Giovani e pieni di rabbia, paladini contro le ingiustizie perpetrate contro un mondo intero e contro di noi, che quel mondo sentivamo nostro fino in fondo, in ogni piccola molecola del nostro essere.

Dobbiamo scappare, l’ha detto Eduardo.

Dobbiamo restare, e lottare per cambiare, fuggire è vigliacco.

Scappare-restare, dicotomia senza uscita, passavamo intere serate ad aggrovigliarci intorno ad ipotesi, ribellioni, speranze ed erano discussioni interminabili, rosse di sudore e di passione.

Forse, semplicemente, curva dopo curva il peso degli anni sconfigge inevitabilmente la voglia di sostenerlo. Ci si lascia andare, schiacciati da oppressioni subdole, che ci abituiamo a sentire leggere, dolci e malinconiche, asfissianti e irrinunciabili.

Ti è successo questo, dimmi? E’ questo che ci ha separati, divisi, spostati irreversibilmente su piani diversi, sopra percorsi lontani e divergenti?

Vattene, non voglio più sentirti.

Lasciai la macchina in una stradina senza uscita – è come il mio buco nero – mi dissi, avviandomi verso il mare.

Non pensavo nulla, no, figurati. I litigi con te mi svuotavano completamente, lasciandomi soltanto una voglia indistinta di non essere, di entrare per caso in una macchina del tempo e ritrovarmi più indietro, o più avanti, in anni da sentire più vicini. Camminai verso il castello, illuminato dai fasci cangianti dell’enel, blu e rosso e poi bianco a susseguirsi velocemente o almeno mi sembrava così.

Sai cosa? Mi era difficile rinunciare all’idea degli odori, ed era l’unico pensiero di cui non riuscivo a liberarmi, quella notte. Il sud è un immenso odore, ricordi come sapevi sfottermi per questo mio aforisma sbandierato in ognuna delle nostre serate da salotto?

Non era un’esibizione di stile, credimi. Per me il sud era davvero un solo, immenso profumo fatto di mille odori diversi, riconoscerli tutti era difficile, forse impossibile, ma tanti erano lì, pronti per essere riconosciuti, e goduti.

Il sale, e le onde sugli scogli, l’asfalto nei giorni di pioggia, il mezzogiorno delle pizzerie, i chiostri verdi e improvvisi tra i vicoli caotici, le sagome morbide delle colline devastate dall’incoltura e da scatole abusive, il calore dello smog sulle vetrine delle strade ottocentesche, l’incenso delle chiese e dei sortilegi, il piscio sulle scale dei sottopassaggi chiusi da decenni o sotto i portici delle gallerie. E poi le verdure, il caffè, i sogni, le voci.

Un solo, immenso ed inafferabile odore.

Vattene.

Mi ero seduto sulla ringhiera metallica del lungomare, avevo voglia di respirare e scavalcare il muretto per raggiungere gli scogli mi venne quasi automatico, indolore. Mi sedetti e mi lasciai trasportare dal vento, assolutamente privo di direzione. So che è difficile crederlo, ma quella sera era come se i venti tutti insieme avessero smarrito la rotta e, con essa, il senso stesso della propria esistenza. Gli sbuffi improvvisi e rabbiosi si accavallavano, si fronteggiavano e si scontravano, come impazziti.

Non so per quanto tempo rimasi lì, ma le stelle si mossero ed il cielo con loro.

Non voglio più sentirti.

Ma cosa ti chiedevo in fondo? E poi era a te che lo chiedevo o ero ogni volta di fronte ad uno specchio invisibile, a combattere contro me stesso e le mie contraddizioni insensate? Non voglio andar via di qui, questo è il mio posto, dicevi tra le lacrime provocate da ogni mia sentenza senza appello.

Riesco a vederti ed il tuo profilo è lo stesso di allora, di sempre, gli occhi fissi verso il mare a chiedersi perchè ed i capelli senza ordine, nè ambiguità. Ma stanotte non piangi, anche se so che stai ricordando la mia voce, le mie lettere, quella maniera un po’ infantile che avevo di compiacermi delle mie espressioni astruse, prolisse, disordinatamente allineate. Stanotte non piangi, e perchè dovresti farlo?

Sono stanca delle tue stanchezze e dei tuoi labirinti senza uscita.

Sono in un buco nero, pensai in mezzo ai venti impazziti. Mi alzai perchè era ora, perchè quella voce mi era nata dentro, non ne conoscevo l’origine ma c’era, chiara e forte. Irresistibile.

E’ il momento, mi disse, non puoi più aspettare.

Non devi.

Soprattutto, non sapevo più imparare la pazienza, e la semplicità del tutto.

Arte difficile, la rassegnazione. Esercizio complicato, il vivere dentro un quotidiano fatto di rinunce e di piccole gioie, a riempire prigioni dalle sbarre piene di ruggine con fiori colorati, dipingendo i muri con tromp l’oeil raffiguranti cieli azzurri e campi di papaveri.

Non ero già più, capisci? In fondo, non feci che prenderne atto. E scivolare lentamente nel buio delle onde intorno al castello fu come una liberazione, una coincidenza di stati finalmente raggiunta.

E adesso che ricordo tutto, dovevo venire a dirtelo.

Fu il mare, capisci? Fu il mare che mi disse di andare, che era ormai tempo, che non potevo più aspettare.

So bene che riesci a sentirmi, anche se non puoi vedere i miei occhi e non puoi sentire i miei passi di fantasma che ti corrono accanto. So bene che non ci credi, che non credi alla mia voce che sibila attraverso il vento e si nasconde nel buio, nè alla voce del mare ed alla sua capacità di essere, e di capire.

Avevo smarrito l’odore, amore mio.

Hai capito bene, ho detto proprio amore mio, perchè adesso so di essere ancora innamorato di te, adesso che è ovviamente e banalmente troppo tardi e adesso che il mare, giudice clemente ma senza appello, ha consentito che io ricordassi e che ti raccontassi la mia verità.

Avevo smarrito l’odore e con esso la voglia di essere, il mare lo aveva capito meglio di me e non c’è altro da aggiungere, in fondo.

E se sono qui, stanotte, è per aiutarti a ritrovare la strada, la tua e a dimenticare la mia voce, i miei occhi, le mie mani e tutti i nostri ultimi anni, uno dopo l’altro. Ascoltami, amore  e prova a cercarmi in mezzo alle onde. Ecco, guardami, adesso sono lì tra il castello e gli scogli, ombra tra le ombre, a gridarti che la rassegnazione è un’arte difficile ma che anche quella della tenacia soffre della stessa difficoltà. Che tra l’incapacità di lottare e la furia cieca c’è tutto un mondo ed è lì che devi restare e che devi portare nostro figlio. Che puoi e devi insegnargli a rubare l’odore al vento, a farlo suo e a non smarrirne il senso perchè so che, a differenza di me, tu non l’hai mai perduto.

Addio, amore mio. Non posso dirti che sarò sempre con te perchè non è così e poi questo non è il finale di un film americano, ma so che ora posso andarmene perchè in fondo non ho altro da dirti e perchè so che sei riuscita a sentirmi, e che adesso imparerai finalmente a stare senza di me.

E poi perchè mentre cadevo giù in fondo, quella notte, ebbi l’impressione che i venti ritrovassero la rotta, e questo non riesco ancora a spiegarmelo.

 

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