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L'Osservatore europeo

 

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http://www.repubblica.it/quotidiano/repubblica/20010910/commenti/01idea.html

L'UNIONE EUROPEA NON E' SOLO RETORICA

di GIULIANO AMATO


QUANDO ho letto il commento di Ralf Dahrendorf al dibattito che ha avuto sull'Europa con Daniel Cohn Bendit ("L'Europa unita ultima utopia", "la Repubblica" del 5 settembre), mi sono augurato in cuor mio che la prossima volta gli capiti, sullo stesso tema, un interlocutore diverso. Dahrendorf infatti non è un euroscettico, ma capisco benissimo la sua reazione di fronte agli eccessi di retorica europeista: allora l'Europa unita è solo un'utopia e quindi non serve a risolvere i problemi che la gente ha davanti. Scendete da cavallo - questo è il suo implicito invito - e trovate il modo di occuparvi di quei problemi, guardando con più realismo a ciò che è (e non a ciò che appare nel vostro tecnicolor) l'Europa oggi esistente.
L'invito è più che fondato, ma posso assicurare a Dahrendorf che è proprio in questa chiave che si intende lavorare per rafforzare l'Europa e per tornare a farla apprezzare dalla maggioranza dei suoi cittadini. Il problema infatti è proprio qui, nel divario che si è venuto creando fra le ansie e le attese degli europei e ciò che l'Europa appare ai loro occhi: una macchina complicata, distante, esattamente quello che dice Dahrendorf, "tante minuzie tecniche", dalle quali non emerge che cosa essa faccia e a che cosa serva davvero.
E questo è un vero paradosso nel mondo di oggi, perché in esso buona parte delle ansie dei nostri cittadini nascono da questioni che nessuno stato nazionale può risolvere da solo e rispetto alle quali la dimensione europea è a volte quella minima per poter fare qualcosa.

Così è per la sicurezza davanti alle tante fonti di instabilità che ci circondano (Dahrendorf dice giustamente che c'è la Nato, ma ormai capita molte volte che siano gli stessi americani a preferire che, pur coordinati alla Nato, siamo solo noi europei ad occuparcene); e così è per il controllo della criminalità organizzata e per quello dei flussi di immigrazione clandestina, per la sicurezza dei cibi e per quella dei mari, per la difesa dai guasti ambientali e per quella dai poteri economici e finanziari che hanno posizione dominante in mercati non più nazionali, per dare alla nostra ricerca scientifica dimensioni e ricadute che in nessuna economia solo nazionale sarebbero altrettanto efficaci e competitive.
Basta leggere i dati di Eurobarometro per capire che queste non sono astrattezze. Si tratta al contrario di ciò che gli europei, interrogati sull'Europa, si aspettano da essa; e giustamente, perché in altre parti del mondo si cerca faticosamente attraverso accordi bilaterali di costruire quel tessuto sopranazionale che noi abbiamo già; e che non a caso risponde ad una assillante priorità del nostro tempo, se è vero che al fondo del problema della globalizzazione c'è la asimmetria fra attività che sono fuggite al di là dei confini nazionali e regole e istituzioni democratiche che sono largamente rinchiuse entro quei confini.
Ecco allora il senso delle riforme europee a cui dobbiamo lavorare: adeguare l'architettura istituzionale europea alle missioni a cui essa dovrà corrispondere. Il che significa più cose: creare più integrazione dove serve più integrazione (la gente ne vuole di più proprio nei settori che oggi ne hanno di meno, e cioè la politica di sicurezza e di difesa e la cooperazione giudiziaria e di polizia); dare più spazio agli Stati e alle Regioni dove è invece nelle loro mani la responsabilità di decidere, uscendo da quella retorica paneuropea che ha sovrapposto malcerte competenze comuni a quelle, appunto, degli Stati, in aree nelle quali non si capisce oggi giorno chi è responsabile di che cosa; rendere in questo modo più chiari e più trasparenti i processi di decisione, lavorando a tal fine anche sull'altra sovrapposizione che oggi rende tutto gelatinoso, quella fra Consiglio, Commissione e Parlamento europeo: sarà l'ora di far conoscere anche a Bruxelles la divisione dei poteri, concentrando nella Commissione i poteri esecutivi e liberando il Parlamento dalla codecisione sulle misure delle scale a pioli e dei pezzi di ricambio?
Dicono giustamente gli inglesi che prima ancora del ‘gap' di democrazia è il ‘gap' di efficienza nel rispondere alle domande che le si rivolgono quello che rende l'Europa così povera di consensi popolari. E in fondo è proprio così, perché la democraticità di una organizzazione mi interessa, quando per altre ragioni mi interessa l'organizzazione e cioè quando essa fa qualcosa in cui mi identifico. Ai fini però di una tale identificazione, il problema europeo non è solo quello dell'efficienza. Lo riconosce anche Dahrendorf, quando trova controproducente che l'Europa dedichi risorse ed energie a garantire non libertà di commercio, ma costose protezioni ai suoi prodotti agricoli. Perché è controproducente? Perché l'Europa non risponde soltanto ad una pragmatica ragione di funzionalità e di efficienza. Nella nostra lunghissima storia si è venuta affermando – ce lo insegnava Federico Chabod una "idea di Europa", che fu all'origine l'idea della libertà contro il dispotismo e che si è arricchita nel tempo con i diritti umani, la democrazia, i diritti sociali, la coesione. Questa – Dahrendorf lo sa non è retorica: superate le guerre fra di noi, superate le tragedie dei regimi totalitari, questo è il patrimonio che l'Europa ha lasciato a se stessa e al quale il mondo intero sta attingendo da secoli. C'è anche la preservazione di questo patrimonio nella nostra comune missione futura e proprio perché c'è – e perché vogliamo che mantenga l'universalità delle origini dobbiamo scrostare l'Europa dai protezionismi e dagli egoismi che lo contraddicono. Altrimenti sarebbe davvero soltanto retorica.
Davanti a noi c'è del resto un cruciale passaggio (motivo esso stesso delle necessarie riforme), che gli egoismi cominciano a guardare con diffidenza e nel quale invece si sommano le diverse ragioni di una rafforzata identità europea. Mi riferisco all'allargamento, che è fonte insieme di maggiore stabilità e di maggiore sviluppo per tutti (al di là degli inevitabili negoziati sulla spartizione dei fondi di coesione) e che è anche recupero dei naturali confini dell' "idea di Europa" e dei valori che essa porta con sé.
Lasciamo allora che siano i giuristi a discutere sulla forza giuridica della Carta dei diritti approvata a Nizza. Di sicuro come ci ripete con meritoria tenacia il Presidente Ciampi essa esprime il senso del nostro essere insieme, il senso delle responsabilità che affidiamo alla nostra unione ed anche quello delle responsabilità che rimangono su ciascuno di noi e sulle nostre istituzioni statali. "I diritti presi sul serio" non é solo il titolo di un celebre libro di Ronald Dworkin. E' anche il sottofondo non retorico della ricostruzione europea su cui –spero con Dahrendorf e in sintonia con le opinioni pubbliche dei nostri paesi lavoreremo nei prossimi mesi.

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