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L'Osservatore europeo

 

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DAL DIRITTO DEL PIÙ FORTE AL SOGNO DI UN CONTINENTE MITE

Intervista a Tomaso Padoa Schioppa* comparsa su La Repubblica del 15 giugno 2001

di Antonio Polito

 

Per la copertina del suo libro, che esce oggi per il Mulino, Tomaso Padoa Schioppa ha scelto un disegno di Nino Caruso. Descrive un mitico corpo a corpo, quello tra Europa e il Toro.

Il Toro, nella metafora dell'autore, è lo Stato Nazione, «che si voleva e credeva illimitato, assoluto, immortale», e perciò «era diventato violento, rozzo, idolatra». La giovane donna che stavolta lo «ammalia e piega» è quell'idea che chiamiamo Europa, capace di «addomesticare il potere degli Stati» con la sua «forza gentile, femminile, mortale». Di qui il titolo: Europa, forza gentile. In cinque capitoli, elaborazioni di lezioni tenute in varie città europee, questo raffinato intellettuale che oggi, da banchiere centrale, dell'Europa custodisce la moneta, spiega tecnica, risultati e movenze di questo combattimento.

Come può vincere una «forza gentile»? Sembra quasi un ossimoro...

«Lo è se si associa la gentilezza alla mitezza e la forza alla brutalità. Ma se si scava nei significati, magari esplorando quel monumento della lingua italiana che è il Battaglia, si scopre che gentile origina da "gens", di natali conosciuti e nobili.
Oltre che delicato, ciò che è gentile è anche virtuoso, generoso, magnanimo, civilizzato.
La forza, dal canto suo, è anche morale, dello spirito, non è solo bruta, non è sinonimo di violenza.

Il modo in cui l'Europa ha cercato di unirsi si rappresenta dunque bene con la combinazione di questi due termini.
Tutta la storia della civiltà è stata progresso dalla forza bruta alla forza gentile, dal diritto del più forte all'imperio della legge».

Mi lasci fare la parte dell'avvocato del Toro. Lei dà un giudizio molto severo sullo Stato Nazione. Ne fa il responsabile della tragedia europea della prima metà del Novecento. Lo considera sconfitto dalla Storia. Eppure nei suoi muscoli pulsa ancora la forza della democrazia, delle «chords of affection» che tengono insieme un popolo. Come si spiegherebbe altrimenti questa resistenza della nazione, che si esprime non solo in volontà di potenza, ma anche nella ostinazione «gentile» di piccoli popoli, come quello danese o irlandese?

«Chi conosce l'Italia sa che la gran parte dei nostri concittadini si identificano innanzitutto con la propria città o con la propria regione. Tra Firenze e Siena non è ancora spenta l'eco della battaglia di Montaperti.
La stessa cosa si potrebbe dire per un marsigliese, un bavarese, o un gallese.

L'identità locale resta forte, eppure si è mostrata compatibile con un'identità nazionale.
Perché mai, allora, il nascere di un'identità europea dovrebbe sopprimere quella nazionale?

La mia critica non è alla nazionalità, ma alla pretesa di farla assurgere a valore assoluto.
Gli stati europei sono nati come stati dinastici, edificati con la forza bruta, basti pensare alle stragi con cui fu unificata la Francia.
L'assolutismo si è sentito minacciato anche dalla teoria di Montesquieu sulla separazione dei poteri o dall'avvento della democrazia. Eppure questi progressi non sono stati la fine dello Stato, ma il suo incivilimento. Direi anzi che solo l'Europa unita dà sicurezza alle nazioni.

Ma gli Stati devono accettare la fine del loro potere assoluto, cessando di negare qualsiasi potere al di sopra di se stessi».

Lei scrive, riferendosi alla Germania e all'Italia, che proprio «i paesi che sperimentarono imperialismo e nazionalismo aggressivo con esiti negativi o addirittura disastrosi» si sono «mostrati i membri più convinti e leali dell'Europa unita».
E' dunque il progetto degli sconfitti, in cerca di rivincita, come temono gli anglosassoni?

«Sarebbe il progetto degli sconfitti se fosse un progetto di dominazione, non di unione.
La lezione delle due guerre mondiali vale anche per i vincitori: insegna quanto può essere rovinoso e precario un sistema in cui la pace è affidata esclusivamente al balance of powers».

In un capitolo lei contesta con energia il sospetto inglese, che vede l'unificazione europea come una minaccia per l'isola, perché si sente sicuro solo quando il continente è diviso...

«Hitler ha tentato di invadere le isole britanniche, Napoleone impose loro il blocco continentale.
L'Europa unita, invece, non minaccia la Gran Bretagna, ma l'abbraccia e l'invita anzi a farne pienamente parte.

Io mi auguro che se un giorno gli inglesi decideranno di entrare nella moneta unica lo facciano sulla base di un ampio e convinto consenso popolare, perché aderendo all'Euro ci si esprime anche su un progetto politico, che consiste nell'accettazione della sovranazionalità e di ciò che comporta: la fine del potere assoluto dello Stato Nazione».

Nella «tradizione universalista» dell'Impero Romano e del Cristianesimo, lei individua invece le ragioni storiche per cui l'Italia è culturalmente più pronta di altri al progetto europeo: e ricorda che fu un papa umanista, Enea Silvio Piccolomini, ad usare probabilmente per primo l'aggettivo «europeo».
Ma l'europeismo dell'Italia è anche figlio della debolezza della sua statualità, di una vicenda in cui l'identità nazionale è nata prima dello stato unitario e «per molti secoli non vi ha coinciso». Nasce da qui il paradosso che il libro segnala, di un paese che è «allo stesso tempo il più favorevole all'Europa e quello che meno adempie agli obblighi che essa impone»?

«C'è senza dubbio una debolezza italiana, una capacità di influenza storicamente minore di quella di Francia e Germania.
Eppure questa influenza è stata spesso superiore a ciò che gli stessi italiani pensano, e il libro racconta numerosi episodi in cui è stata addirittura decisiva.
I nostri uomini politici, da De Gasperi a Craxi, da Andreotti a Prodi, sono stati capaci di una determinazione che nella vita politica nazionale era più difficile avere.
Il cinquantennio repubblicano, nonostante la moda di dir male della Prima Repubblica, è stato un grande successo economico e civile. Per la prima volta nella nostra storia di stato unitario, in Europa abbiamo fatto grande politica.
Ma certo la fragilità della statualità italiana, il declino, il quasi silenzio del senso di appartenenza, se non addirittura di fierezza nazionale, è stata debolezza, non gentilezza».

Ora siamo a un punto cruciale di questa vicenda, il dilemma che lei condensa nell'alternativa «continuità o rottura».
Al governo c'è una nuova classe politica, che non ha le stesse ascendenze europeiste.
C'è una componente nazionalista nel governo, con Alleanza Nazionale, c'è una componente regionalista, con la Lega.
Sarebbe davvero una «rottura» della nostra tradizione il tentativo di perseguire con più determinazione l'interesse nazionale?

«L'arte di governo è l'arte della sintesi.
Il fatto che oggi siano al potere anche forze di matrice nazionalista o regionalista non preclude che l'azione di governo possa coniugare la tradizione dell'europeismo italiano e un senso preciso dell'interesse nazionale.
Ne abbiamo anzi bisogno. Non è scontato, ma è possibile e auspicabile.
Bisogna però sapere che cosa significa rimanere fedeli a quella tradizione, perché di Europa parlano tutti, quelli che la vogliono e quelli che non la vogliono.
Anche De Gaulle aveva una sua idea di Europa.

Il punto cruciale è proseguire nell'edificazione di un potere superiore agli stati, nel rispetto del loro ruolo, ma nell'accettazione della sovranazionalità.

E la cartina di tornasole è una sola: il principio maggioritario contrapposto alla regola dell'unanimità.

Non c'è Unione là dove c'è il veto di qualcuno. Sembra un paradosso, ma c'è Unione solo dove si è disposti a dividersi, ad accettare una decisione comune anche quando non è quella che avremmo preferito».

Il successo dell'Europa, lei scrive, comincia quando essa «esce dall'epica e si dà un contenuto economico, quando si fonda non più sulle passioni ma sull'interesse. Non cerca il Bene supremo, ma il benessere». E il risultato è stato spettacolare. Cito dal libro: «Nel 1960 l'economia europea era pari ad appena il 60% di quella americana, a partire dagli anni '90 la supera. Il reddito medio pro capite era pari al 40% di quello americano nel 1960, nel '95 era dell'80%». Non può essere proprio questo successo la spiegazione della «stanchezza d'Europa» che si avverte?
Il traguardo economico sembra raggiunto. Perché bisognerebbe ora passare all'Unione politica?

«Per due ragioni: la pace su cui si è fondato questo benessere non è irreversibile finché l'Unione politica è incompleta.
Nel 1914 si viaggiava senza passaporto in Europa e nessuno pensava che si fosse alla vigilia di una tragedia.
La pace di oggi è meno precaria solo perché l'Europa non è più il centro del massimo potere mondiale, non perché è sufficientemente unita.
La seconda ragione è che l'Europa vive nel mondo, ed è tuttora troppo divisa e debole per essere al riparo dalle turbolenze esterne e per poter influire sugli affari globali quanto la sua economia e la sua storia le consentirebbero.
La gran parte dei teatri di instabilità mondiale sono alle frontiere dell'Europa: Balcani, Medio Oriente, Nord Africa.
E ne siamo minacciati ben più che gli Stati Uniti.

E' vero che il benessere ha narcotizzato il bisogno di Unione, e che oggi bisogna fare appello più alla ragione che all'istinto di sopravvivenza.
Ma quel bisogno non è minore.
Una splendida decadenza è sempre in agguato; accadde anche alla Grecia dopo la conquista romana o all'Italia dopo il '400, quando erano ancora al vertice della potenza economica e culturale, di perdere il controllo sul proprio destino per carenza di unità politica.

Laddove l'Europa è già unita, con l'Euro, ne sperimenta subito la convenienza, mettendosi al riparo dagli choc esterni: è accaduto con la crisi finanziaria asiatica, il boom americano degli anni '90, il rincaro del petrolio.
Pensi a come reagì l'Europa alla crisi finanziaria degli anni '80 o allo choc petrolifero degli anni '70. E' stato l'Euro stavolta che ci ha protetto, e ha impedito un'amplificazione di crisi su scala globale».

L'Euro è definito nel suo libro come una «moneta-fiducia», il cui valore cioè è assicurato non dalla convertibilità con l'oro, ma dall'indipendenza della autorità monetaria che lo garantisce. La moneta separata dalla statualità è il sogno di molti banchieri centrali. Eppure lei sembra sentire il peso di questa solitudine, e invoca affianco alla Banca un governo dell'economia. Perché?

«Prima che l'Euro ci fosse, nello stesso mondo delle banche centrali c'era chi pensava che non si potesse avere la moneta unica prima dell'Unione politica.
Altri, come me, ritenevano che l'Unione monetaria era necessaria per completare il mercato unico e che l'Unione politica, pur indispensabile, non ne fosse una precondizione.
Ma tutti ritenevamo che nel tempo integrazione monetaria e politica dovessero ricongiungersi. L'indipendenza dell'autorità monetaria, in un regime di moneta fiduciaria, è essenziale perché all'àncora dell'oro si sostituisca l'àncora della stabilità dei prezzi.
E la stabilità dei prezzi in Eurolandia è oggi la più alta da decenni.
Questo è il valore della moneta: se chiede a un americano quanto vale il dollaro, lui non pensa al cambio, ma alla stabilità dei prezzi.
Eppure, per essere indipendenti bisogna essere indipendenti da qualcosa. E quel qualcosa è oggi un'Unione in divenire, un progetto in corso ma ancora non concluso.
Abbiamo dunque indipendenza più solitudine: non penso che la Banca Centrale ne abbia niente da guadagnare».

Lei riprende nel libro la nota metafora della bicicletta: l'Europa viaggia su due ruote, bisogna sempre pedalare per non cadere. Ma non c'è il rischio che correndo a capofitto verso un traguardo sempre nuovo, verso un «risultato finale», si rischi di cadere?
Non sarebbe più saggio rallentare, di tanto in tanto?

«La metafora della bicicletta è nata con riferimento all'esigenza di rafforzare la capacità di decisione comune. Dal Trattato di Roma del '57 a Maastricht nel '92, il principio maggioritario si è via via esteso, poi il processo ha rallentato.
Oggi stiamo verificando che quella metafora è tuttora valida.
Il referendum irlandese ne è la riprova: quando non si è in grado di andare avanti, si cade.
Uno dei paradossi dell'Europa di oggi è che molto spesso l'insoddisfazione per come funziona viene attribuita all'opposto della verità: c'è troppo poca Europa, non troppa.
Da un'Europa di alto profilo non si vuole essere esclusi.
Di un'Europa di basso profilo si avverte solo il fastidio».


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* Tomaso Padoa Schioppa (1940), laureato in economia alla Bocconi nel 1966, specializzatosi negli anni '70 al MIT, già direttore della Banca d'Italia e presidente della CONSOB, oggi è membro del comitato esecutivo della Banca Centrale Europea.

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