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Signor direttore,
Signore e signori,
Permettetemi anzitutto di ringraziarvi per il vostro invito. Sono
lieto di poter parlare in un istituto di grande e antica
reputazione, ma che ha risolutamente scelto di aprirsi alle realtà
europee.
Voi, ragazzi, siete giovani. Cresciuti dopo la caduta del muro di
Berlino, non siete prigionieri degli schemi della Guerra fredda:
l'Unione allargata è il vostro orizzonte naturale. Il dibattito
sul futuro dell'Unione europea è anzitutto il vostro dibattito.
Nella patria di Jean Monnet e di Robert Schuman, in questo Paese
che nutre una concezione ambiziosa del ruolo dell'Unione europea
nel mondo, vorrei oggi distaccarmi un po' dai particolari delle
considerazioni istituzionali. Non voglio parlarvi della
Commissione di oggi, ma dell'Europa di domani.
Ci sono momenti in cui la Storia chiama i popoli a compiere delle
scelte determinanti. Ebbene, io sono convinto che per gli Europei
sia venuto uno di questi momenti. La mondializzazione sta
provocando una rivoluzione analoga a quella provocata, cinque
secoli fa, dalla scoperta dell'America: il mondo si
rimpicciolisce e si moltiplicano gli scambi di idee e di beni.
Di per sé, i nostri Stati nazionali non hanno più la massa
critica necessaria per intervenire in maniera efficace. I popoli
destinati a pesare sull'evolversi degli avvenimenti sono quelli
che avranno preso coscienza di questo cambiamento di scala. Gli
altri dovranno rassegnarsi a subire.
Per affrontare una simile rivoluzione, gli Europei dispongono di
almeno tre carte vincenti.
Anzitutto, c'è il nostro peso economico e commerciale: dal
mercato comune al mercato unico, dal mercato unico all'euro, le
nostre realizzazioni sono tangibili. Di fronte alle sfide che ci
si sono poste, abbiamo saputo, poco a poco, elaborare risposte
adeguate, originali. Rispetto agli steccati economici che
costituivano sino a non molto tempo fa la regola in Europa e alla
pletora di regolamenti che ostacolavano le imprese e i mercati
finanziari, i progressi delle nostre economie sono impressionanti.
La nostra seconda carta vincente è l'allargamento, che farà
della nostra Unione una potenza su scala continentale. Con l'allargamento,
è in atto la riunificazione dell'Europa, ed emerge un
protagonista a livello internazionale. L'insieme potrà contare
sulla sua forza. Sarà inoltre contraddistinto, ed è in questo
che consiste la sua unicità, da un acuto senso della
responsabilità, essendo il prodotto di un'evoluzione storica.
Con l'allargamento si chiude infatti un cinquantennio di
divisione ideologica e si consacra la vittoria definitiva della
democrazia sul totalitarismo, grazie alla sconfitta del nazismo e
del fascismo e alla caduta del muro di Berlino. L'Unione
allargata sarà potente, ma non avrà mai ambizioni di dominio.
Infine, e questo è per me l'aspetto più importante, l'Unione
europea ha una terza carta vincente: un capitale intellettuale
insostituibile, grazie alla diversità delle sue culture, grazie
al livello di istruzione dei suoi abitanti e alle radicate
tradizioni democratiche nazionali.
Grazie a queste carte vincenti, non dobbiamo temere la
globalizzazione, e possiamo al contrario sfruttarla al meglio.
Quasi il 90% dei cittadini europei attribuiscono all'Unione
priorità ambiziose: dal mantenimento della pace e della
sicurezza alla lotta contro la disoccupazione, contro la
criminalità organizzata e l'esclusione sociale.
Questi stessi cittadini, tuttavia, non provano alcun interesse
per le modalità di funzionamento dell'Unione. Questo indica che
è venuto il momento di cambiare il nostro modo di fare l'Europa.
I padri fondatori avevano deliberatamente evitato le questioni
politiche troppo scottanti. Conformemente alla tradizione storica
dell'Europa, in cui i commercianti avevano spesso funto da
precursori, il ravvicinamento spettava agli industriali e ai
mercati.
L'intuizione geniale dei padri fondatori era consistita nel
tradurre un'ambizione politica estremamente elevata, presente sin
dall'origine, in una serie di decisioni più concrete, quasi
tecniche. Questa specie di "deviazione" ha permesso di
andare avanti. Il ravvicinamento ha potuto avvenire passo a passo.
Dal confronto siamo passati alla volontà di cooperare in campo
economico e quindi all'integrazione.
Dopo i successivi adeguamenti (l'Atto Unico, Maastricht,
Amsterdam, Nizza), io sono convinto che questo metodo, che
corrispondeva ai vincoli e agli obiettivi del passato, ha ormai
raggiunto i suoi limiti. Occorre ammodernarlo, perché nell'Unione
europea i tempi "prepolitici" sono ormai finiti: dopo i
mercanti, sono ora i popoli che aspirano a costruire l'Unione, è
tutta la società a sentirsi chiamata in causa.
Al giorno d'oggi, sussistono infatti le condizioni internazionali
ed interne per una vera e propria politicizzazione del processo
di costruzione europea: è venuto il momento di prendere in mano
il nostro futuro e di plasmarlo. È suonata l'ora di costruire l'Europa
politica.
Ridefinendo il "progetto europeo", mettendo in piena
luce i nostri obiettivi, possiamo fare in modo che gli Europei si
approprino dell'Europa.
Io non voglio ancora discutere della forma definitiva che dovrà
assumere l'Unione; vorrei cercare di delineare per quali progetti
essa deve esistere e cosa vogliamo fare assieme. Da questo punto
di vista, condivido l'opinione espressa ieri dal Primo ministro
francese Lionel Jospin: "l'Europa è anzitutto un progetto
politico".
Prima di procedere a qualsiasi altro negoziato istituzionale,
dobbiamo in primo luogo definire quali sono i nostri obiettivi.
Questo chiarimento preliminare ci permetterà di dotarci quindi
di strumenti di intervento all'altezza delle nostre ambizioni. Il
nostro compito, in ultima analisi, è consolidare la democrazia
comune.
Esaminerò questi tre punti uno per volta, sperando che
non consideriate una provocazione fare, qui a Scienze politiche,
un intervento in tre parti.
1. Definire degli obiettivi comuni
Per maggiore chiarezza, vorrei anzitutto distinguere gli
obiettivi interni all'Unione e quelli che l'Unione dovrebbe porsi
rispetto all'esterno.
Obiettivi interni
È nel loro successo che gli Europei devono trovare il senso del
loro futuro: esiste infatti un "modello europeo", certo
sfumato e diversificato, ma che ci contraddistingue. Questo
modello è il risultato di un originale equilibrio storico tra la
prosperità e il benessere, da una parte, e la ricerca di una
società aperta e solidale dall'altra.
Prosperità e solidarietà sono appunto i nostri principali
obiettivi interni. E per poter essere solidali dobbiamo godere di
una certa prosperità.
La nostra prosperità attuale non potrebbe esistere senza il
mercato unico e l'euro: queste conquiste hanno fatto di noi una
potenza commerciale di primo piano, in grado di tener testa all'economia
degli Stati Uniti. Hanno permesso alle nostra imprese di
svilupparsi in un ambiente sicuro, senza ostacoli agli scambi né
rischi di cambio. La competitività delle imprese è cresciuta,
mentre l'inflazione è sotto controllo. Questo risultato mi rende
ottimista: appena qualche anno fa quando ero Presidente del
Consiglio in Italia una simile prospettiva, con dodici Stati, era
tacciata di utopie
Con l'allargamento, il futuro grande mercato integrato potrà
contare sul contributo di 500 milioni di persone. Questa
evoluzione si inserirà nel contesto di una rapida evoluzione
tecnologica. Io non ho alcun dubbio che il risultato sarà
positivo per tutti.
Naturalmente, questo allargamento pone anch'esso delle nuove
prospettive, la questione delle solidarietà.
Si avvicina il momento in cui dovremo discutere delle politica
agricola comune di domani e della politica strutturale dopo l'allargamento.
Che ruolo dovranno svolgere gli agricoltori nella società del
ventunesimo secolo? Come assicurare la competitività e il
rispetto delle richieste dei consumatori? Siamo sempre d'accordo
che si devono aiutare le regioni in ritardo? In base a quali
criteri? Come garantire la ridistribuzione in un insieme così
vasto senza un'amministrazione decentrata?
Solo una strategia concepita a livello europeo potrà assicurare
le sinergie e gli equilibri necessari ai fini delle politiche
comuni di domani. L'esigenza di un'impostazione politica globale
non è in contraddizione con nuove forme di gestione, più vicine
al territorio, più "orizzontali" e che vedano un
coinvolgimento ancor più diretto delle collettività regionali e
locali.
Infine, dobbiamo pensare a cosa significa oggi la "E"
della UEM (l'Unione "economica" e monetaria): troppo
spesso le politiche di bilancio nazionali sono ancora concepite
sulla base degli interessi nazionali, nel momento stesso in cui l'euro
ci pone nella posizione di suddividere i rischi. Si pongono
dunque degli interrogativi: tutti gli Stati prendono le misure
che garantiscono una convergenza duratura? Come privilegiare la
piena occupazione senza far deteriorare gli altri indicatori?
Tutto questo è importante perché, se non continueremo a portare
avanti la convergenza e l'integrazione, il grande mercato si
disgregherà e l'euro non potrà svolgere il ruolo mondiale per
cui l'abbiamo creato.
Il secondo elemento, indispensabile per salvaguardare il "modello
europeo", è la necessità di tutelare il più possibile la
coesione delle nostre società.
Se abbiamo a cuore un modello sociale solidale, "fraterno",
come dice il motto della vostra repubblica, dobbiamo anche
portare avanti l'integrazione: solo la creazione di un'Unione
politica di dimensioni sufficienti ci permetterà infatti di
difenderla su scala mondiale. Tuttavia bisogna rendersi conto che,
nella maggior parte delle economie sviluppate in particolare
negli Stati Uniti e in Giappone, ma anche nella maggior parte dei
paesi europei le diseguaglianze dei redditi si accentuano.
Signore e signori, le nostre società non possono impunemente
assistere al rapido arricchimento di alcuni mentre altri
rimangono tagliati fuori. Tanto per motivi etici quanto per
motivi economici, dobbiamo combattere le diseguaglianze che
lacerano le nostre società.
Pur senza sognare una società perfettamente egualitaria, ci
tenevo a mettervi in guardia contro il pericolo di assistere a un
ulteriore approfondirsi delle differenze. Le nostre società non
potrebbero sopportarlo. Io credo che, sebbene il livello medio
dei redditi sia oggi superiore a quello del passato, noi non
siamo lontani dal punto di rottura.
Assieme, possiamo costruire una "nuova economia all'europea"
in cui l'innovazione, la competitività, la libertà d'impresa
siano dei valori positivi, ma in cui il punto di riferimento
suprema rimanga l'essere umano. Non si tratta, naturalmente, di
armonizzare tutte le regole sociali a livello europeo, ma di
integrare nelle nostre preoccupazioni economiche, come già
abbiamo cominciato a fare, degli obiettivi sociali, come l'occupazione
o la lotta contro l'esclusione e la povertà.
Molte questioni rimangono a tutt'oggi ancora aperte: fino a dove
deve arrivare la flessibilità del mercato del lavoro? Dove
comincia la precarietà? Come evitare che milioni di bambini
crescano in famiglie i cui redditi sono inferiori alla soglia di
povertà? Infine, come integrare i milioni di immigrati che la
società europea ha attirato all'interno delle sue frontiere?
Attualmente, come sapete, i poteri delegati all'Unione europea in
campo sociale sono limitati.
Questo però non è un buon motivo per eludere il dibattito sul
tipo di società che vogliamo e sugli strumenti assolutamente
indispensabili per edificarla. Simili interrogativi non hanno
risposte scontate, e il grande dibattito che si apre deve
affrontarli in via prioritaria. Anche in questo caso, per essere
all'altezza delle aspettative dei suoi cittadini in campo sociale,
l'Unione deve compiere delle scelte generose, e tener fede a tali
scelte; in poche parole, dev'essere governata.
Allo stesso modo, non possiamo scordarci dell'ambiente: dobbiamo
batterci tutti assieme per realizzare, nell'Unione, un'economia
basata sullo sviluppo sostenibile. A qualcuno questo sembra un
concetto astratto, ma per i giovani non lo è: è infatti l'espressione
della solidarietà tra le generazioni.
Fra quindici giorni, al vertice di Göteborg, questo aspetto sarà
il principale oggetto dell'attenzione dei Capi di Stato e di
Governo.
Del resto, in quali settori più che in quelli dell'ambiente,
dell'economia e del sociale possiamo apprezzare il senso della
nostra Unione e il suo valore aggiunto? Quanto è successo negli
ultimi tempi (l'encefalopatia spongiforme bovina, l'afta
epizootica) ha dimostrato le catastrofiche conseguenze di
politiche miopi e rigorosamente nazionali, in realtà molto più
costose della prevenzione e di un intervento concertato a livello
europeo.
L'Unione dev'essere governata, vale a dire bisogna che le
decisioni comunitarie siano prese riflettendo sulle conseguenze a
lungo termine, al di là delle scadenze immediate e dei
condizionamenti politici del momento.
L'Unione, infine, deve promuovere una maggiore coesione sociale,
ciò che presuppone una lotta contro i traffici illegali, la
criminalità organizzata e tutti i flagelli che sfuggono all'azione
di un solo Stato.
Tutte queste questioni, tutti questi obiettivi interni dell'Unione
che ne sono perfettamente consapevole, signore e signori ho
trattato in modo molto sintetico, sono questioni eminentemente
politiche. Richiedono quindi un metodo di lavoro politico e delle
risposte concepite con la piena partecipazione dei cittadini e
dei loro rappresentanti.
Obiettivi esterni
Dopo aver brevemente accennato a quelli che potrebbero essere i
principali obiettivi interni dell'Unione allargata, passerò ora
ai nostri obiettivi esterni.
Essere una potenza in divenire, una "potenza potenziale"
se mi permettete il gioco di parole: ecco il paradosso che
caratterizza la situazione dell'Europa nel mondo odierno.
Noi non dobbiamo accontentarci di questo: l'Unione di domani, l'Unione
che andrà dal Mediterraneo al Polo Nord, dall'Atlantico alle
grandi pianure dell'Europa orientale, quest'Europa dovrà
riuscire a parlare con una voce sola sulla scena mondiale. A
questa condizione, e solo a questa condizione, potremo farci
ascoltare e potremo agire in maniera efficace.
È assolutamente essenziale, perché l'Europa deve svolgere il
proprio ruolo nella "governance" mondiale: nei rapporti
tra Stati europei, lo Stato di diritto ha sostituito i brutali
rapporti di forza. Dopo tante sanguinose guerre, gli Europei
hanno proclamato il loro "diritto alla pace". Noi
possiamo quindi svolgere un ruolo assolutamente unico: portando a
compimento l'integrazione, diamo al mondo l'esempio riuscito di
un metodo per la Pace.
Nell'Unione, il peso rispettivo degli Stati non è l'unico
criterio seguito, le alleanze non costituiscono la regola. In
poche parole, i rapporti di forza sono attenuati. Questa è una
conquista notevole, che potrebbe facilitare l'introduzione, su
scala universale, di quelle regole del gioco che la
globalizzazione richiede. Abbiamo inoltre saputo sviluppare le
procedure di voto, caratteristiche del processo democratico,
laddove molte organizzazioni internazionali stentano a procedere
per la necessità di trovare l'unanimità.
Senza aggressività nei confronti di nessuno, senza arroganza,
dobbiamo essere fieri di quanto abbiamo realizzato e, nel nostro
comune interesse, adoperarci per tutelarlo.
Il primo obiettivo esterno dell'Unione dovrà essere quindi
assicurare la sicurezza degli Europei, dar loro la stabilità
politica cui aspirano.
Grazie soprattutto alla Francia e al Regno Unito, che sono all'origine
della dichiarazione di Saint-Malo, l'Unione ha imparato la
lezione delle guerre balcaniche degli ultimi dieci anni. E così
che prende corpo, in tempi molto ristretti, una politica europea
della sicurezza e della difesa e che si è deciso di rendere
operativa, entro il 2003, una forza di reazione rapida di 60.000
soldati.
Questi impegni si devono ancora concretizzare, ciò che richiede
una riorganizzazione approfondita delle forze armate dei nostri
paesi e delle scelte di bilancio.
Infine, per esercitare un'effettiva leadership nel settore della
sicurezza, l'Unione non potrà continuare ad evitare alcuni
interrogativi a lungo ignorati: per quale causa saremmo pronti a
morire assieme? Fino a che punto è possibile, con delle
soluzioni tecnocratiche, "esportare stabilità", e
quando occorre impegnare delle vite umane? Un insieme sprovvisto
di unità politica può agire, a lungo termine, soprattutto
attraverso la distribuzione di crediti? L'Unione dispone dei
mezzi tecnologici e finanziari per garantire la propria sicurezza?
Ecco dunque un buon numero di domande per un autentico dibattito
politico, nel senso più nobile del termine.
Ma l'Unione dovrà anche, e forse soprattutto, superare la
frammentazione e la complessità dei suoi strumenti di politica
estera.
A questo proposito vorrei essere chiaro: l'Unione europea,
fortunatamente, ha una politica commerciale rispettata, perché
è forte e integrata. Ma una politica commerciale non basta a
fare delle relazioni esterne; una politica commerciale non basta
ad esistere sulla scena mondiale.
La politica estera dell'Unione continua a balbettare. Non è
ancora adulta, spezzettata com'è tra diplomazie nazionali, il
Consiglio dei Ministri, l'Alto Rappresentante istituito dal
trattato di Amsterdam e la Commissione.
È questo, a mio avviso, il principale settore nel quale l'Unione
politica può compiere rapidi progressi. Se non lo farà, si sarà
lasciata sfuggire un formidabile valore aggiunto.
Infine, e questo è anche un obiettivo esterno, è urgente
intervenire per difendere il nostro ambiente, che si tratti della
tutela della biodiversità, dello sviluppo di un'agricoltura
sostenibile o del riscaldamento del pianeta.
Su quest'ultimo punto, sappiate che io sono assolutamente
determinato: l'Unione europea si batterà per salvare l'Accordo
di Kyoto. Ne va della nostra leadership. Ne va del nostro senso
di responsabilità.
Nonostante qualche incertezza, la maggior parte del mondo
scientifico concorda nel riconoscere l'urgenza di un intervento.
Non è accettabile che i paesi industrializzati, massicci
produttori di CO2, sfuggano alle loro responsabilità. Come ho già
scritto sulla stampa francese, siamo pronti a discutere con gli
Stati Uniti le loro eventuali difficoltà, ma non rinnegheremo
questo accordo. Nella situazione attuale il protocollo di Kyoto,
che è il frutto di anni di negoziati, è la migliore opzione
possibile.
Gli argomenti per una riflessione approfondita dunque non mancano.
Tutti gli interrogativi fondamentali, tutti i tentativi di
assegnare all'Unione degli obiettivi all'altezza della sfida
della globalizzazione sfociano in una stessa diagnosi: l'Unione
ha bisogno di maggiore coerenza e, in numerosi settori chiave, di
maggiore integrazione.
Si impone un salto di qualità.
2. Dobbiamo dotare l'Unione di strumenti all'altezza delle nostre
ambizioni
Signore e signori, non basta volere un'Europa forte, un'"Europa
potenza". Occorre anche darle gli strumenti per portare
avanti la sua politica, ivi compresi gli strumenti istituzionali
e finanziari. E occorre anche cambiare il metodo negoziale, dato
il valore intrinseco del dibattito politico.
Strumenti più forti
La situazione attuale è abbastanza critica: dopo decenni di
progresso e di successo, l'Unione rischia di restare a metà del
guado. In assenza di nuovi impulsi in assenza di un soprassalto
degli Stati membri e delle istituzioni comunitarie, l'allargamento
potrebbe tradursi in un'unificazione continentale solo
superficiale.
I cittadini, che cercano una società più giusta, troverebbero
invece solo una zona di libero scambio. Io non voglio vedere l'Unione
trasformarsi in un gruppo di Stati incapace di agire e di
sviluppare un autentico progetto politico.
Contrariamente a qualcuno, io non vedrei un brillante futuro
nella moltiplicazione delle cosiddette strutture leggere, dei
"segretariati" o dei "comitati di direzione",
che comunque non sarebbero volutamente delle autorità politiche.
La democrazia ne soffrirebbe perché le decisioni di istanze
informali di questo tipo non sarebbero né trasparenti, né
sottomesse al Parlamento europeo, né suscettibili di ricorso
davanti alla Corte di giustizia.
Le procedure comunitarie offrono ai cittadini, checché ne dicano
i loro detrattori, un gran numero di garanzie. A questo riguardo,
non si insisterà mai abbastanza sull'apporto determinante della
Corte di giustizia. Ed io credo che il suo rafforzamento sia un
grande merito del trattato di Nizza.
In conclusione, io ne concludo prudentemente che la struttura
attuale dell'Unione, che ospita al tempo stesso il pilastro
comunitario e delle istanze intergovernative, è probabilmente
superata.
Darò altri tre esempi:
Anzitutto, la gestione dell'Unione economica e monetaria non è
efficace né coerente: in campo monetario, la Banca Centrale
Europea è indipendente, ma oggi non ha un interlocutore stabile
che rappresenti una visione d'insieme degli orientamenti
economici dell'Unione e dei suoi membri. Gli ultimi grandi
orientamenti di politica economica vanno nella direzione giusta,
ma molto resta ancora da fare per poter disporre di un vero
"governo economico". Solo la Commissione, su mandato
del Consiglio, può essere l'interlocutore della Banca Centrale:
è infatti la Commissione che incarna l'interesse generale
comunitario, è nel suo ambito che si può efficacemente svolgere
la valutazione globale della politica economica dell'Unione.
Qualsiasi altra soluzione concepita in risposta al problema della
rappresentanza esterna dell'euro non risponderebbe alle esigenze.
Nel campo della politica estera, ieri il Primo ministro ha detto
molte cose vere, che mi trovano molto vicino. Vorrei quindi
mantenermi nella sua logica con il mio secondo esempio: in
politica estera così come in altri campi, sarebbe illusorio
attendersi dei risultati da un sistema intergovernativo.
In questo come in altri campi, la coerenza e la globalità
potranno essere ottenute solo istituendo un collegamento tra i
due rami dell'esecutivo: il Consiglio che decide e la Commissione
che esegue. Io resto pertanto convinto che l'Alto Rappresentante,
che peraltro fa un lavoro notevole, sarebbe ancora molto più
efficace se fosse anche membro della Commissione europea.
Si tratterebbe sempre di esecuzione sotto il controllo permanente
del Consiglio dei Ministri. Ma tutto sarebbe più semplice, più
coerente ed efficace.
Ultimo esempio: l'Europa della giustizia e degli affari interni.
Dei settori delicati per le libertà pubbliche quali il diritto
penale o la cooperazione tra forze dell'ordine sfuggono al
controllo del Parlamento e della Corte perché sono trattati in
ambiti intergovernativi. È questa l'Europa che vogliamo a lungo
termine?
Mi sembra spesso un'ingiustizia che si rimproveri all'Unione il
suo carattere non democratico, quando ad alcune delle politiche
oggetto di queste critiche le norme comunitarie non si applicano!
In termini molto più generali, dobbiamo portare a termine il
processo che consiste nel sostituire la votazione, procedura
normale in un ambito democratico, all'unanimità.
Si tratta di tendere verso un sistema decisionale basato sul voto,
sistema efficace e comprensibile a tutti. E a questo proposito
non posso che ripetere quanto mi lascia perplesso l'esito del
Consiglio europeo di Nizza in materia di estensione del voto a
maggioranza qualificata.
Ma si tratta ancor più di acquisire davvero una cultura della
maggioranza, in cui le decisioni rispecchiano la volontà del
maggior numero, ma si impongono a tutti. Troppo spesso noi
cerchiamo l'unanimità anche quando non esiste, ciò che comporta
la paralisi. Per superare le reticenze dell'uno o dell'altro, non
c'è che una soluzione: votare.
Tutto quello che si è costruito di duraturo in Europa, è stato
realizzato grazie all'armoniosa cooperazione degli Stati e delle
istituzioni sovranazionali attorno ad un metodo: il metodo
comunitario.
L'intuizione dei padri fondatori è stata appunto quella di
proporre una costruzione istituzionale originale che non fosse né
federale, né intergovernativa. Ed è proprio perché la Comunità
economica europea ha superato questo dilemma tra "supestato"
e "Stati contrapposti" che è entrata nella storia.
Essa unisce, anziché accentuare il confronto, ed è per questo
che essa è diventata una soluzione per il futuro.
Ecco dunque la mia ambiziosa concezione, come ex Presidente del
Consiglio italiano e come Presidente della Commissione, del
dibattito sul futuro dell'Europa.
Un nuovo metodo comunitario, basato sul dibattito
Il dibattito è aperto su larga scala, ovunque in Europa: ha il
vantaggio di permettere chiarimenti, di demistificare ciò che
risulta complicato o viene percepito in maniera scorretta.
Il dibattito chiarisce le tendenze profonde. Lo stesso dicasi per
la redazione della Carta dei diritti fondamentali proclamata a
Nizza. Questo è il segnale che l'Unione ha superato un passaggio
irreversibile. Con la sua proclamazione, ci siamo definitivamente
trasformati in Unione dei diritti e delle libertà. Questi
diritti e queste libertà costituiscono lo zoccolo fondamentale
dell'Unione, le conferiscono un'indispensabile legittimità e
varano un nuovo processo costituzionale europeo.
Il dibattito sembra a volte polarizzarsi: è quello che succede
attualmente alla questione della ripartizione delle competenze
tra l'Unione e gli Stati. Si tratta di una questione centrale,
perché una delle poste in gioco nel dibattito sul futuro dell'Europa
è offrire ai cittadini un'Europa in cui si sentano a loro agio,
vale a dire in cui svolgano un ruolo politico al tempo stesso a
livello locale, nazionale ed europeo.
Il radicamento a livello locale è necessario in un mondo aperto,
globalizzato, che può incutere paura. Le Nazioni sono e
rimarranno un quadro di riferimento essenziale, alla luce della
nostra storia e delle nostre culture. Senza il livello europeo,
tuttavia, siamo condannati a subire nel migliore dei casi delle
norme venute dall'esterno, a subire un mondo concepito altrove.
Si impone quindi l'esigenza di capire meglio la ripartizione
delle responsabilità in Europa. A mio avviso, però, la risposta
non va cercata unicamente in termini di competenze astratte, in
compartimenti stagni o definitivi.
Più che incoraggiare tali compartimenti stagni, quali che siano,
dovremmo permettere ai vari livelli di prendere decisioni che
siano complementari.
Occorre rispondere all'aspirazione generale delle popolazioni di
essere governate al livello più vicino ogniqualvolta possibile,
ed efficacemente, ciò che presuppone, in alcuni casi, delle
decisioni a livello centrale europeo piuttosto che locale o
nazionale.
È questo che si riassume nel concetto di "sussidiarietà"
inteso nel modo migliore. L'Unione non deve occuparsi di tutto:
deve anzi riorientarsi su alcuni compiti strategici, dare degli
orientamenti e svolgere il suo ruolo globale.
Sono ben consapevole che un esercizio di ripartizione delle
competenze tra livello nazionale e livello europeo comporta un
rischio: quello di non essere altro che una ripetizione, con
altri strumenti, dei dibattiti e dei disaccordi sulla sostanza
stessa del progetto europeo.
Per alcuni, si tratterà soprattutto di "rinazionalizzare"
delle competenze già trasferite o, al contrario, di "comunitarizzarne"
di nuove, secondo criteri desunti dalla sensibilità dell'opinione
(pubblica??) a questo o quel proposito o delle finanze pubbliche.
Per quanto mi riguarda, io entrerò in questo dibattito senza
secondi fini, pensando alla sostanza e chiedendomi, caso per caso,
come possiamo raggiungere meglio i nostri obiettivi, se con
competenze separate o condivise. Anche se questo potrà forse
sembrare complicato, dobbiamo ragionare in termini funzionali e
lasciare al sistema una certa elasticità.
Per illustrare quanto sostengo, prenderò un esempio: l'istruzione.
È chiaro che la responsabilità primaria deve competere agli
Stati o alle regioni, ma il livello europeo può certamente
apportare un valore aggiunto, in particolare:
Facilitando gli scambi, il reciproco riconoscimento dei diplomi e
l'adozione di griglie armonizzate per la valutazione delle
competenze acquisite;
Permettendo un confronto tra le esperienze su argomenti quali la
lotta contro gli insuccessi scolastici, la formazione permanente,
la violenza a scuola ecc.
Offrendo delle borse e incoraggiando la costituzione di validi
centri di ricerca.
Per concludere a proposito della sussidiarietà, mi sembra
essenziale che il controllo di quest'ultima spetti alla Corte di
giustizia, organo indipendente che per vocazione funge da arbitro
nei conflitti, come le corti costituzionali dei nostri Stati.
Affidare tale controllo a una "seconda Camera" o "Camera
delle Nazioni" costituirebbe un passo indietro per il
diritto nell'Unione europea, un passo verso l'arbitrarietà della
congiuntura politica.
Giungo così al terzo e ultimo punto.
3. Consolidare la democrazia comune
La democrazia europea non sfuggirà alle grandi questioni del
diritto costituzionale che gli Stati Nazione sono venuti poco a
poco forgiando, e in particolari a quelle attinenti alla
separazione dei poteri tra esecutivo, legislativo e giudiziario,
ai "checks and balances", se mi consentite un'espressione
inglese, o anche a quella del consenso alle imposte.
Tutte queste questioni rimangono aperte. Noi dovremo darvi delle
risposte ambiziose quanto le nostre tradizioni democratiche
nazionali. Per me, così come per tutto il Collegio, che conta
una grande maggioranza di ex parlamentari e di ex ministri, è
assolutamente essenziale.
Se le questioni sono quelle del diritto costituzionale classico,
le risposte dovranno tuttavia essere originali. Dare alla realtà
comunitaria delle soluzioni nazionali è una tentazione, ma
probabilmente non basta a risolvere il problema.
Tra le sfide specifiche che l'Unione europea dovrà raccogliere,
una delle più difficili è quella della legittimazione
democratica delle sue decisioni. Tutti ne avvertono l'esigenza,
ma non vi è nulla di più soggettivo.
In realtà, io continuo a stupirmi della tenace convinzione che
le istituzioni europee soffrano di un deficit di "legittimazione";
in fin dei conti, infatti,
Il Consiglio è composto da membri dei Governi nazionali;
la Commissione è nominata dai Capi di Stato e di Governo ed
approvata dal Parlamento europeo, che può esprimere un voto di
censura nei suoi confronti;
la maggior parte degli atti europei sono discussi nei Parlamenti
nazionali, nell'assemblea parlamentare europea o negli uni e nell'altra.
L'impressione, comunque, è quella. Il cittadino vuole avere la
garanzia di non cedere competenze ad istituzioni meno affidabili
di quelle che conosce a livello nazionale.
Senza dubbio, le nostre istituzioni sono troppo complicate. E da
questo deriva il paradosso che laddove i poteri comunitari sono
ben definiti (concorrenza, commercio estero), per quanto estesi,
l'autorità vi corrisponde. Laddove invece sono poco chiari o
complessi, l'autorità comunitaria stenta ad affermarsi.
La questione della trasparenza a livello comunitario si intreccia
d'altronde con una questione ancor più complessa, che potrei
riassumere così: come si possono gestire le politiche
comunitarie con la partecipazione dei cittadini in un'organizzazione
molto più decentrata di quanto non sia attualmente?
Io credo infatti che sia molto difficile migliorare il
funzionamento delle istituzioni europee senza procedere allo
stesso tempo, nel quadro delle norme esistenti, ad una revisione
approfondita dei meccanismi di partecipazione delle entità
nazionali e infranazionali, d'interazione e di gestione
decentrata delle politiche comuni. È questo il tema del Libro
bianco sulla governance, che la Commissione pubblicherà in
luglio.
L'altro aspetto essenziale dell'edificazione di una democrazia è
quello del consenso all'imposta. Secondo me, qualsiasi
riflessione di grande respiro sul futuro dell'Unione europea deve
vedere all'ordine del giorno la riforma del suo finanziamento.
La questione delle risorse europee deve costituire parte
integrante del dibattito sulla sussidiarietà: ogni livello
decisionale deve poter contare su risorse chiaramente individuate
e proporzionate alle missioni che gli sono state affidate.
Nella prospettiva dell'allargamento, la creazione di un'imposta
europea (da definirsi), che sostituisca l'attuale sistema dei
contributi nazionali, fonte permanente di conflitti tra gli Stati,
sarebbe indubbiamente una soluzione opportuna, peraltro spesso
evocata. Esistono delle soluzioni, e le soluzioni sono non tanto
tecniche quanto politiche: la concentrazione dei mercati
finanziari e industriali permette di immaginarne altre.
Dovremmo inoltre aprire un dibattito sulle dimensioni del
bilancio europeo. Questa è spesso una fonte di critiche
abbastanza poco obiettive, per non dire irrazionali, in base alle
quali l'Unione europea costerebbe troppo. Ma chi ha presente gli
ordini di grandezza? Chi sa che noi non dedichiamo neppure l'1,27%
delle nostre ricchezze all'Unione europea, ivi compresi la
politica agricola e i fondi strutturali? L'ordine di grandezza
attuale sarebbe piuttosto dell'1,09 %.
Nel dibattito che è già iniziato e che deve durare sino al 2004,
io distinguo due impostazioni: da una parte si privilegiano le
questioni di fondo, dall'altra si dà la priorità alle
istituzioni.
Personalmente, non vedo contraddizioni tra questi due modi di
affrontare la discussione. Io condivido le preoccupazioni degli
uni e degli altri.
Come ho detto all'inizio del mio intervento, è svelando i suoi
obiettivi e riconoscendo il suo carattere di progetto politico
che l'Unione potrà costruirsi. Dobbiamo dunque iniziare a
discutere tra noi cosa vogliamo fare assieme, come Lionel Jospin
ci ha invitato a fare ieri. Senza un progetto comune, senza
politiche comuni non ci potrà essere un'Europa forte.
In seguito, però, una volta definita la sostanza, dovremo
rapidamente trarre le conseguenze delle nostre ambizioni: senza
istituzioni forti e rispettate, senza mezzi finanziari non ci sarà
neppure alcuna "Europa potenza". Il rischio che
corriamo è quello del consenso su uno statu quo apparente mentre
il mondo cambia, mentre l'Unione stessa cambia. Il Cancelliere
Schroeder ha dunque ragione a proporre un chiarimento dei ruoli,
rispettivamente, della Commissione e del Consiglio dei Ministri.
Non dobbiamo mai scordare neppure che senza un chiarimento dei
ruoli delle diverse istituzioni, e senza coinvolgimento attivo
nella costruzione europea dei livelli nazionali e infranazionali
non ci sarà democrazia. Senza cittadini che si sentano
politicamente interessati ai tre livelli locale, nazionale ed
europeo non ci sarà una vasta adesione delle popolazioni.
È alla sintesi tra queste due impostazioni che io intendo
lavorare. È in questa direzione che dobbiamo portare avanti il
dibattito per il 2004, e che io vorrei ora rispondere alle vostre
domande.
fonte: http://europa.eu.int/rapid/start/cgi/guesten.ksh?p_action.gettxt=gt&doc=SPEECH/01/244|0|RAPID&lg=IT
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