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IL
DESTINO DI ISRAELE NEL CUORE DELL'EUROPA
Articolo apparso su La Repubblica del 12 giugno 2001
di ADRIANO SOFRI
NON perderò tempo a cercare di rendere l' idea dell'angoscia che provoca l'imminenza della guerra guerreggiata fra Israele e Palestina - e chissà chi altri. Immagino che ciascuno la provi. Provo gli stessi sentimenti che ha espresso qui Pirani qualche giorno fa: il rincaro di responsabilità ed errori di Israele non tolgono che sia minacciata la sua stessa sopravvivenza.
Fino a non molto tempo fa, il
logoramento drammatico degli accordi di Oslo è stato
subito con un incredibile ottimismo. Si preferiva
ripetere, ripetersi, che non c'è alternativa alla pace.
C'è, e si è fatta cento volte più probabile. L'Europa
ha un rapporto speciale con Israele. Gli ebrei erano nel
cuore dell'Europa, e la Shoah fu affare europeo. I
sopravvissuti furono, più o meno cinicamente, più o
meno distrattamente, parcheggiati qua e là come persone
fuori luogo - "displaced persons", è questa la
qualifica - e di fatto spinti fuori dal Vecchio
Continente, espulsi appena oltre i suoi confini
geografici.
Del resto, l'antisemitismo, mascherato o no come
antisionismo, trovò il modo di rinascere, e di rinnovare
periodicamente l'emigrazione.
Israele fu un'Europa dirimpetto all'Europa, memoria
rimossa e assoluzione degli europei che si ricostruivano
e prendevano la strada dell'unità. Il destino di Israele
era e continua a essere, geneticamente e moralmente (oltre
che praticamente: è il Vicinissimo Oriente)
responsabilità dell'Europa.
Tutto è complicato, praticamente e moralmente. La
costruzione di Israele avvenne come una colonizzazione
della Palestina. Come in una terra promessa guadagnata al
deserto e alla solitudine. Ma la Palestina era abitata.
La colonizzazione ebraica crebbe a spese degli abitanti
arabi. Si aprì un conto di guerra e di odio che il tempo
non ha risanato, e oggi è esacerbato. Gli ebrei
israeliani più lucidi e capaci di riconoscere le ragioni
altrui sanno che occorre rinunciare agli insediamenti e
ritornare ai confini del 1967. È difficile, ma
necessario, salvo che ci si affidi alla guerra e poi un'altra
guerra e un'altra guerra, finchè duri.
D'altra parte, c'è un punto che ha costituito per i
dirigenti palestinesi un ostacolo forse reale, forse
retorico e pretestuoso, alla trattativa: la questione del
ritorno dei profughi. Si può capire come sia difficile
ai dirigenti palestinesi responsabili dichiarare la
rinuncia al ritorno. Non riesco a capire che la retorica
del ritorno sia accolta e amplificata da intellettuali
palestinesi autorevoli - come Edward Said - o da
sostenitori europei della causa palestinese. I tre
milioni o tre e mezzo di profughi sono nella gran
maggioranza nati nei campi dell'esilio. La ragione "storica"
a sostegno del ritorno non toglie che, com'è evidente a
chiunque, esso sia impossibile se non al prezzo dell'esplosione
dello Stato di Israele, che ne verrebbe travolto come un
Kosovo moltiplicato. Per intenderci: la "storia"
potrebbe giustificare anche il "ritorno" dei
profughi giuliani e istriani in Slovenia e Croazia, ma la
ragionevolezza sconsiglia seccamente un'idea del genere,
e le sostituisce, come dev'essere per Israele e Palestina,
risarcimenti e compensazioni di altro genere.
La "seconda Intifada", col
nuovo coinvolgimento degli arabi israeliani, non fa che
rendere più evidente questa constatazione. La propaganda
sul ritorno non è che un modo per ribadire nell'animo
dei palestinesi l'aspirazione a distruggere lo Stato di
Israele e buttare a mare gli ebrei.
C'è da tempo un'utopia minoritaria, fondata su una
geografia morale, che auspica l'ingresso di Israele nell'Unione
Europea. Di recente è stata ripresa con vigore da Marco
Pannella e dai radicali. Poco fa, durante una visita in
Germania, il presidente israeliano Moshe Katsav,
rispondendo a una rara domanda giornalistica, ha detto di
guardare con favore a quell'idea. Ma il realismo politico
è così forte che la sua risposta, ignorata pressoché
da tutti i media, è apparsa poco più che una frase di
cortesia. Da noi, i pochi che si sono pronunciati si sono
sbrigati a invocare appunto le ragioni del realismo
politico. O, peggio, della geografia fisica: Israele,
ufficialmente, non è in Europa. Una simile dimissione
della politica in omaggio alla geografia del Vicinissimo
Oriente è troppo rassegnata, o troppo distratta.
Geograficamente, la Turchia ha appena un davanzale
europeo. La politica, che celebra la sua bancarotta di
fronte al fanatismo delle due parti nel precipizio
israelopalestinese, dovrebbe riprendere i suoi diritti
proprio dall'Europa: riportando Israele nella propria
geografia civile, a saldo - parziale - di un vecchio e
irrisarcibile conto. E anche riconoscendo il proprio
legame con un paese retto democraticamente in mezzo a
stati retti da dittature militari e regimi personali. Io
penso inoltre che l'ingresso di Israele in Europa
costituirebbe una specie di complemento e insieme di
definitiva giustificazione dell'allargamento ai paesi
dell'Est europeo.
Il modo in cui Joschka Fischer si è
impegnato in questi giorni è un fatto nuovo. Il ruolo
economico dell'Europa nella regione è importante, quello
politico è irrisorio. Per una volta, attraverso il
responsabile della politica estera del paese più grande
d'Europa, Fischer, che mette a frutto un'esperienza umana
per la quale si era tentato di proscriverlo, l'Europa ha
mostrato un'efficacia pratica e, ciò che conta
altrettanto, simbolica, nel pieno di una crisi terribile.
Se l'Europa invitasse solennemente Israele a entrare nell'Unione,
cancellerebbe la mai sopita tentazione araba della
cacciata degli ebrei e del loro Stato: ne diventerebbe
garante come di una propria parte. D'altro canto,
offrirebbe ai dirigenti palestinesi più responsabili la
prospettiva di un'autonomia e insieme di una peculiare
integrazione regionale, economica e civile, con Israele,
in luogo dell'ipocrita slogan della solidarietà araba o
islamista. Gli israeliani più lucidi e aperti, cacciati
oggi nella disperazione potrebbero ritrovare al proprio
coraggio impopolare un orizzonte e una speranza.
Le cose precipitano, certo. Le idee le rincorrono da molto lontano. Ma bisognerebbe promuovere, fra italiani e altri europei e israeliani e palestinesi, una discussione seria e impegnata sul punto dell'ingresso di Israele nell'Unione Europea. Se ci fosse, la discussione aiuterebbe ciascuno, europei e israeliani e anche palestinesi, a riconoscere meglio le proprie responsabilità antiche e recenti e a definire le proprie intenzioni. È tardi per farlo, dunque è il momento di farlo. Temo che sia necessario rinunciare al paesaggio aperto così faticosamente da Oslo, smettere l'ottimismo secondo cui "non c'è alternativa alla pace" - c'è, è la guerra - e ammettere che Rabin è morto, ammazzato da un fanatico israeliano, e che Arafat è sopravvissuto a se stesso. Che la politica ha perduto, e dunque bisogna che la politica riprenda la parola.
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