..Approfondimenti

L'Osservatore europeo

 

Pagina iniziale Europa apparente Europa reale Europa futuribile Approfondimenti Segnalibri Mappa sito

 

 

IL TRATTATO DI MAASTRICHT
Un riesame storico del "come" e del "perché"

di PUBLIUS*


Nei riguardi del più grande dei passi compiuti dall´Europa sul cammino dell´integrazione, qual è certamente l´Unione Monetaria nata a Maastricht, è doveroso ripercorrere le tappe che storicamente sono state necessarie perché quel passo fosse finalmente compiuto.
E´ dunque utile affrontare la cronologia degli eventi immediatamente connessi con Maastricht dopo un riesame critico di quando e come è affiorata e maturata l´opportunità della stessa integrazione europea.

Il Trattato di Maastricht è un importante passo del processo di integrazione europea. Sarebbe perciò sbagliato giudicarlo negativamente. Ma sarebbe anche sbagliato pensare che con esso sia superata la soglia di irreversibilità del processo di integrazione.

Sbagliano gli “euro-ottimisti”
Essi dimenticano che l´agonia storica del sistema degli Stati europei risale già al primo conflitto mondiale che rese drammaticamente palese l´inadeguatezza dello Stato ottocentesco europeo a svolgere a garantire la sicurezza e ad assicurare lo sviluppo economico. Come ben ricorda Ludwig Dehio, furono gli USA a rovesciare rapidamente il corso della guerra irrompendo nel 1917 sulla scena europea come grande potenza continentale.
Dehio ricorda anche che già nel Congresso di Versailles c´erano le premesse per un equilibrio bipolare USA/URSS attraverso il controllo della Società delle Nazioni; e se ciò non accadde, lo si deve a due accidenti della Storia: il Senato degli USA respinse l´adesione alla Società delle Nazioni e l´URSS si trovo impelagata nella difesa della Rivoluzione.
Ciò spiega, secondo Dehio, perché la la pace di Vienna (1815) durò un secolo e la pace di Versailles (1919) solo un ventennio.

Cfr. LUDWIG DEHIO, Versailles 35 anni dopo, in La Germania e la politica mondiale nel XX secolo, Milano 1962 (titolo originale Deutschland und die Weltpolik im 20. Jahrhundert, München 1955

Secondo Luigi Einaudi l´esigenza d´un mercato meno angusto di quello possibile nell´Europa dei molti Stati nazionali si era imposta già in quella fase della rivoluzione industriale (nota come “taylorismo”) che portò alla produzione in larga scala massimizzando la produttività specifica attraverso la razionalizzazione del lavoro: fase possibile negli USA –bacino commerciale di dimensione continentale– ma non nell´Europa, frammentata in una pluralità di mercati nazionali.

Cfr. LUIGI EINAUDI, La guerra e l´unità europea, in La guerra e l´unità europea, Bologna 1986, pp. 43-53. Secondo Einaudi Hitler, con la teoria del “Lebensraum” (spazio vitale) , avrebbe còlto lucidamente quest´esigenza, cui pensava di dar risposta con l´imperialismo unificando Europa in un unico Reich. In Europa occidentale, il tentativo di rispondere alla stessa esigenza col consenso democratico prese corpo, secondo Einaudi, nel corso della Resistenza, nel nuovo ordine bipolare istituito a Yalta. Sempre secondo Einaudi, il carattere autoritario del fascismo consegue allo sforzo anacronistico di costringere i rapporti economico-sociali nell´ambito dello Stato nazionale autarchico, contro la prospettiva d´una dimensione continentale del mercato.

Eppure, a dispetto dell´agonia del sistema europeo degli Stati e della sfida perentoria lanciata allo Stato nazionale dallo sviluppo delle forze produttive, l´Europa precipitò nel nazifascismo, cioè nella forma più compiuta del nazionalismo.

Anche la riconciliazione franco-tedesca, asse portante del processo di unificazione europea, non è stata una peculiarità del secondo dopoguerra, ma ha permeato gli ultimi anni ‘20 e i primi ‘30 del secolo scorso culminando nel progetto di unificazione europea di Briand.

Il 5 settembre 1929 il premier francese Aristide Briand propose di fondare gli Stati Uniti d´Europa. Il 9 settembre i rappresentanti degli Stati europei membri della Società delle Nazioni incaricarono Briand di redigere un “Memorandum sull'organizzazione d´un regime di Unione federale europea”; noto come Piano Briand.
Esso fu presentato il 1º maggio 1930 ed esaminato nel corso del 1931 da una Commissione di studi per l´Unione europea.

Cfr. Odile KELLER e Lubor JILEK (a cura di), Le Plan Briand d´union fédérale européenne. Documents, Genève 1991; O. KELLER (a cura di), Travaux de la Commission d´études (1930-1932), Genève 1991

Ciò non impedì, tuttavia, –anche a causa della improvvisa scomparsa del premier tedesco Gustav Stresemann (1878-1929)– che si imboccasse la strada dell´autarchia, dell´anarchia internazionale, della politica di potenza e, infine, del conflitto aperto.
Parlare di “irreversibilità” nel processo attuale di unificazione europea, come in qualsiasi processo storico, appare, dunque, azzardato quanto meno a breve e medio termine.

Sbagliano gli “euro-pessimisti”
I precedenti fallimenti non significano, però, che l´unificazione sia una semplice utopia.
La prospettiva storica che viene qui suggerita consentirebbe di richiamare alcuni elementi di fondo - quelli che Renouvin amava definire come le “forze profonde” - che sono tuttora presenti nelle odierne traversie dell´unificazione europea, anche se non sembrano dispiegarsi con lo stesso vigore con il quale si son dispiegate in altre circostanze.

Al di là di questi contributi, utili per mostrare i limiti di giudizi avventati, un approccio storico appare anche in grado di condurci a una valutazione più accurata del fatto.
Va al riguardo segnalato che una pur sommaria ricognizione dei tornanti cruciali del processo d´integrazione consente di mettere in evidenza il contesto che li favorì nonché quella che Max Weber chiamerebbe la “causa adeguata” che li produsse.

E´ evidente che Maastricht rientra nel novero di quegli atti e che il riferirlo a schemi e modelli relativi a fenomeni che lo hanno preceduto può offrire chiavi di giudizio preziose.

Come sono andate le cose...
La storiografia federalista individua le radici del processo d´integrazione europea nel fatto che la rovina dello Stato nazionale scaturita dalla 2ª guerra mondiale ha permesso a quei fattori, che Dehio ed Einaudi avevano già identificato come attivi al termine della 1ª guerra mondiale, di manifestare compiutamente i loro effetti.

Il processo di unificazione europea è, dunque, da porsi in diretta correlazione con Dresda (200mila morti per la "tempesta di fuoco" scatenata dai bombardieri alleati sulla popolazione sfollata) e Hiroshima (bombe atomiche sulle città giapponesi) nonché con gli sviluppi più recenti della rivoluzione industriale.

L´ordine bipolare, a sua volta, e il diverso atteggiamento che le due potenze egemoniche assunsero verso gli Stati oggetto della loro protezione restrinsero alla sola Europa occidentale l´ambito spaziale del fenomeno.
In questa limitata porzione del globo si manifestò in tutta evidenza non solo una forte spinta all´unità, ma anche l´impossibilità di compierla.
Significativa in proposito fu la politica di de Gaulle.

Mario Albertini la inquadrò nella “eclisse di fatto della sovranità nazionale” sotto la protezione americana.
La situazione oggettiva era tale da spingere i governi degli Stati a cooperare in questa o quella forma, ma altra questione era quella d´indurli a cedere parte della loro sovranità.
La forma corrente di cooperazione era quella di stipulare una convenzione internazionale.

Una forma più sofisticata prevedeva che si desse vita a qualche organizzazione che, per così dire, istituzionalizzasse la cooperazione.
La forma più compiuta era la creazione di una confederazione (niente più che una lega di Stati sovrani o, se si preferisce, di una stretta alleanza internazionale) dalle competenze più o meno estese, che consentisse agli Stati, forzati dalle cose all´unità, di presentarsi alle proprie opinioni pubbliche come se l´avessero raggiunta senza doversi spogliare del proprio potere.

Da queste considerazioni discende dunque che la “confederazione”, piuttosto che una forma evolutiva sulla strada dell´unità federale, è l´ultima trincea della conservazione del potere nazionale.

Nel processo di unificazione europea, le cose sono proprio andate così.
Nella situazione di potere che si andava costituendo in Europa occidentale nel secondo dopoguerra, gli Stati imboccarono risolutamente la strada della cooperazione intergovernativa, dando vita a una pletora di accordi e organizzazioni - Consiglio d´Europa compreso , riflettendo sulla natura dei quali Jean Monnet poteva commentare che “tutto ciò apparteneva alla logica del passato” e non avrebbe fatto altro che “condurre a un´impasse”.

Ma quando, nell´inverno ‘49–50, di fronte all´aggressività dello stalinismo, gli americani perentoriamente posero il problema della ricostruzione della Germania occidentale facendo comprendere apertamente alla Francia che, in difetto di un suo accordo o di soluzioni alternative, avrebbero comunque dato corso alla loro decisione, Jean Monnet propose la Comunità del Carbone e dell´Acciaio [CECA] e Robert Schuman seppe ascoltarlo.

Analogamente, quando i governi cercarono di costruire un esercito comune - la CED - senza costruire lo “Stato Europeo”, Altiero Spinelli mostrò l´inadeguatezza del disegno, propose a De Gasperi d´indurre i partner comunitari a dare un mandato costituente all´assemblea della Comunità e De Gasperi seguì questa strada con successo.

Vale la pena di notare per inciso che, se i governi avessero proceduto speditamente alla ratifica del progetto di costituzione della Comunità Politica Europea (CPE) elaborato dall´Assemblea ad hoc senza rimetterlo allo studio di una conferenza diplomatica (la quale si dispose alacremente a smantellarlo sino a seppellirlo), il corso degli avvenimenti avrebbe preso un indirizzo del tutto diverso: la nascita di uno Stato europeo avrebbe anticipato di alcuni decenni il crollo del bipolarismo (ed evitato la folle corsa agli armamenti nucleari).

L´eloquenza dei fatti avrebbe così posto l´urgenza del governo mondiale assai prima di quanto non l´abbia fatto Mikhail Gorbaciov con la sua perestrojka.
Vale ancora la pena di notare che, nel corso dei lavori costituenti dell´Assemblea ad hoc, un rappresentante della Francia d´oltremare, Leopold Sedar Senghor, propose addirittura di estendere il vincolo federale alle colonie francesi in Africa per dar vita all´Eurafrica, un grandioso disegno che non solo avrebbe evitato la tragedia d´Algeria, ma avrebbe già allora posto in termini del tutto nuovi il problema delle relazioni Nord/Sud nel mondo.

E´ noto che il progetto di Comunità politica [CPE] finì per legare le sue sorti a quello della CED e che questa, nel contesto di una nuova situazione internazionale dopo la morte di Stalin e a fronte di difficoltà in Francia e in Italia, giunse ad un inglorioso epilogo di fronte all´Assemblea nazionale francese il 30 agosto 1954, quando, su una “questione preliminare” (question préalable) proposta dal deputato Aumeran, il dibattito sul trattato che avrebbe dovuto istituirla fu rinviato sine die.

Ma la perduta battaglia per la CED e la CPE non fu inutile.
Il progetto di costituzione prevedeva la realizzazione di un mercato comune e gli europeisti che non vollero rassegnarsi alla sconfitta concepirono il progetto di aggirare le difficoltà opposte dagli Stati all´Unione muovendo dall´integrazione economica che, a sua volta, avrebbe comportato la devoluzione all´Europa di un numero crescente di funzioni sinché non sarebbe insorta, quasi naturalmente, l´esigenza di concludere la costruzione europea con il potere politico.

Si affermava così quella filosofia funzionalista che anteponeva l´economia alla politica e prevedeva un processo graduale d´integrazione, confidando quasi in un automatico passaggio dall´unità del mercato a quella del potere: filosofia era permeata da ingenuo ottimismo, come rilevava Luigi Einaudi che in una nota del 2 giugno 1952 (ossia già ai primissimi passi della CECA) scriveva:

“E´ un grossolano errore dire che si comincia dal più facile aspetto economico per passare poi al più difficile risultato politico.
E´ vero il contrario. Bisogna cominciare dal politico se si vuole l´economico”.
[Cfr. Lo scrittoio del Presidente (1948–1955), Torino 1956, p. 68.]

Il gradualismo funzionalista sembrò vincente finché si trattò di gestire le decisioni assunte nel Trattato di Roma, (a sua volta nato da un “atto di costruzione” pari a quello del progetto della CPE).

La fase della cosiddetta “integrazione negativa”, ossia il raggiungimento dell´Unione doganale, si concluse il 30.06.1968: in anticipo di 18 mesi su quanto era stato programmato..

Ma, giunti a quel traguardo, se non si voleva retrocedere, occorreva proseguire verso l´Unione economica e monetaria, cioè verso il potere politico europeo.
"Unione economica" significa politica comune, impossibile senza un bilancio adeguato e senza effettivi poteri decisionali, cioè senza poteri di governo che, seppur nell´ambito di competenze limitate come si conviene in una struttura federale, sono poteri originari e indipendenti da quelli nazionali o subnazionali.
"Unione monetaria" significa strappare agli Stati quello che, insieme con l´esercito, è il simbolo più vistoso della loro sovranità.

Gli Stati s´illusero di percorrere queste strade con il metodo degli accordi intergovernativi, la filosofia dei piccoli passi, le conferenze diplomatiche.
Il Vertice dell´Aja (12 dicembre 1969) e quello di Parigi (19-20 dicembre 1972) ebbero il grande merito di proporre obiettivi ambiziosi (l´Unione economico-monetaria e quella politica, da realizzarsi entro il 1980), ma s´illusero soltanto di poterli conseguire proprio perché incorsero in questo grave errore di metodo.
E´ significativa al riguardo la vicenda del Piano Werner, che si proponeva d´istituire la moneta europea e il potere europeo al termine di un processo gradualistico, dimenticando che quel potere era indispensabile per produrrre e sorreggere quello stesso processo.

Si trattava, a ben vedere, di un enorme errore di carattere... ideologico (nel senso usato da Karl Mannheim in ambito sociologico e trasposto da M. Albertini all´ambito politico)..
L´errore era quello di assegnare agli Stati, e non già all´Europa, la facoltà di produrre armonizzazione delle politiche fiscali, convergenza delle politiche di bilancio, stabilità dei prezzi, equilibrio dei conti con l´estero, ecc..

Ma il carattere ideologico dell´errore consisteva soprattutto nel fatto che i governi non avevano tenuto conto delle coordinate internazionali entro le quali si svolgeva il processo di unificazione europea.
Queste erano pur sempre quelle dell´equilibrio bipolare, ma nell´ambito delle relazioni atlantiche la crescita dell´unità europea e la sempre più manifesta incapacità degli Stati Uniti di far fronte a compiti gravosi sulla scena internazionale avevano creato tensioni cui potevano offrirsi risposte positive solo con l´aperta assunzione di responsabilità mondiali da parte dell´Europa, impossibile senza la creazione del potere europeo.

E il Piano Werner si concluse con un fiasco!
Le famose decisioni di Nixon del 15 agosto 1971 e quindi il primo shock petrolifero nell´autunno del 1973 sconvolsero il sistema monetario internazionale fondato sul principio del gold exchange standard e provocarono, con il regime pressoché generalizzato della fluttuazione, una forte spinta alla chiusura delle diverse economie e un gravissimo danno per lo stesso acquis communautaire.

In questa situazione i federalisti, da tempo impegnati nella battaglia per il voto europeo e per riaffermare così il primato della politica sulla economia, produssero un nuovo “atto di costruzione”.

E´ certo difficile accertare quanto la loro azione abbia influito sull´orientamento del neoeletto presidente francese, Valéry Giscard d´Estaing.
Fatto sta che egli, nel Vertice di Parigi del 9-10 dicembre 1974, sostenne la posizione dei federalisti.
Ciò che è indiscutibile è che questi, a partire dalla loro azione in Italia che giunse a formulare il primo progetto di legge d´iniziativa popolare della storia repubblicana, seppero dar vita a un vasto movimento in Europa che vide scendere in campo, con iniziative forti, Mitterrand, Pleven e Rossi in Francia, Nothomb e Chabert in Belgio, Mommer e Majonica in Germania, Brown nel Regno Unito, ... e soprattutto riuscirono a riunificare i diversi movimenti federalistici nell´Union Européenne des Fédéralistes [UEF].

L´Unione Europea dei Federalisti, nata nel 1947 al Congresso costituente di Montreux, si era scissa nel corso del Congresso di Lussemburgo (24 marzo 1956) tra favorevoli e contrari al metodo dell´integrazione funzionalistica che andava affermandosi con il progetto della CEE.
La riunificazione avvenne al Congresso di Bruxelles (13–15 aprile 1973).

Si rianimarono di conseguenza anche il Movimento europeo e tutti i sinceri europeisti che, nelle diverse forze politiche e sociali, erano incapaci di prendere essi l´iniziativa, ma erano disposti a seguire quanti avessero osato muovere il primo passo.

E´ del 2 dicembre 1975 la decisione (assunta a Roma dal vertice europeo, per la prima volta detto Consiglio Europeo, come verrà istituzionalizzato nell´AUE) d´indire al più presto le prime elezioni europee.
Si riconosceva così il diritto dei cittadini a partecipare alla costruzione dell´Europa e si avviava un clima politico nel quale diventava possibile porre un freno alla selvaggia fluttuazione monetaria.
E´ in questo contesto che matura e decolla il Sistema Monetario Europeo (SME, Consiglio europeo di Brema, 6-7 luglio 1978).

Come sappiamo, l´elezione a suffragio universale diretto del Parlamento europeo offriva a Spinelli l´occasione per dar vita al secondo tentativo di costruire lo Stato europeo.
Portando nel corso della prima legislatura l´intero Parlamento ad approvare la sua proposta di riforma democratica delle istituzioni , Spinelli rafforzò in modo considerevole l´elemento soggettivo che poteva ormai contare sull´azione non più della sola avanguardia federalista, ma di un´intera istituzione della Comunità, l´unica, tra l´altro, investita apertamente di una legittimità democratica.

Su questa base di potere era possibile sfidare i governi.

Dapprincipio con successo!
François Mitterrand, il 24 maggio 1984, di fronte al Parlamento europeo, si schierò solennemente a favore del progetto di Spinelli e, per superare le difficoltà che provenivano come al solito dal Regno Unito della Thatcher, dalla Grecia e dalla Danimarca, al Consiglio europeo di Fontainebleau (25-26 giugno 1985), propose di affidare lo studio del documento non ad una conferenza diplomatica, ma a un comitato di saggi - il Comitato Dooge - ciascuno dei quali era nominato dal proprio capo di Stato o di governo e responsabile personalmente nei suoi confronti.

Questo espediente non fu però sufficiente a produrre l´unanimità che tutti i governi auspicavano, sicché il problema di Fontainebleau si ripropose al Consiglio europeo di Milano (28-29 giugno 1985), al termine del quale fu deciso a maggioranza di convocare una conferenza intergovernativa che avrebbe dovuto decidere, all´unanimità, la modifica dei Trattati.

L‘esito negativo era dunque scontato.
E, in effetti, al Consiglio europeo di Lussemburgo (1-2 dicembre 1985), dalla “montagna” del Trattato di Unione, usciva il topolino dell´Atto unico, cioè un documento che, al di là di una frettolosa e insignificante cosmesi istituzionale, proponeva l´obiettivo, assai poco ambizioso e ancor meno originale, d´istituire un vero e proprio mercato interno che realizzasse finalmente le quattro fondamentali libertà previste dal Trattato di Roma (libertà di circolazione di merci, servizi, capitali e persone) a partire dal 1º gennaio 1993.

Va osservato che molta responsabilità per questo insuccesso va ascritta al presidente della Commissione, Jacques Delors, sempre piuttosto sordo ai discorsi di carattere istituzionale e più incline, coerentemente con la sua formazione marxista, a sottolineare il primato dei fenomeni “strutturali “(il mercato e le sue implicazioni di carattere sociale) rispetto a quelli “sovrastrutturali” (le istituzioni politiche).

Occorre però riconoscere che Delors seppe riscattarsi cinque anni dopo a Maastricht.
Anzi: spaventato quasi dalla caduta del comunismo, in una pubblica autocritica per aver un tempo disatteso i consigli di Spinelli, riconosceva che Spinelli aveva ragione invocando per l´Europa un patto federale quanto prima possibile.

Per i federalisti fu subito “la beffa dell´Atto Unico”.
E tuttavia produsse presto utili effetti inattesi.
Come dopo i Trattati di Roma si attivò quel meccanismo delle aspettative.
Allora si trattò della ristrutturazione industriale. [I cosiddetti “miracoli economici” francese, italiano, tedesco, etc., furono invero un unico “miracolo economico europeo”].

Ora si trattava dell´euforia di una ristrutturazione ancor più radicale che veniva a chiudere un periodo di forte stagnazione a dispetto della relativa stabilità monetaria conseguita con lo SME.

Ma al di là di questi effetti, spiegabili se posti in relazione con gli “atti costruttivi” del voto europeo, dello SME e soprattutto dell´iniziativa di Spinelli nel Parlamento europeo, altri effetti possono spiegarsi solo col concetto di “eterogenesi dei fini”.

E´, comunque, un fatto che Delors si rese rapidamente conto, in primo luogo, che non era possibile approvare le oltre trecento direttive indispensabili a realizzare il mercato interno senza modificare il meccanismo decisionale della Comunità in senso democratico (in pratica, superando l´anomalia del Consiglio dei Ministri, la commistione dei suoi poteri e, soprattutto, il principio dell´unanimità); e, in secondo luogo, che non vi è mercato senza moneta.

Per stare ai fatti, il Consiglio europeo di Hannover (27–28 giugno 1988) conferì a un comitato composto dai governatori delle dodici Banche centrali e da tre esperti - il Comitato Delors - il mandato di elaborare un rapporto sull´Unione economico-monetaria.

Questo comitato concluse i suoi lavori nell´aprile del 1989 adottando all´unanimità un rapporto che prevedeva la costruzione della moneta unica in tre tappe, e il Consiglio europeo di Madrid (26-27 giugno 1989) e quello di Roma (27-28 ottobre 1990) lo approvarono stabilendo, il primo, l´avvio immediato della prima tappa e, il secondo, insieme ad altre misure relative alla convergenza delle politiche monetarie, l´avvio della seconda tappa al 1º gennaio 1994.

Queste decisioni costituiranno la base del primo tavolo dei negoziati della Conferenza intergovernativa che si aprirà il 15 dicembre 1990, il secondo essendo destinato a discutere la trasformazione della Comunità in Unione, i suoi poteri, le sue competenze.

L´apertura di questo secondo tavolo venne decisa al Consiglio europeo di Dublino (27–28 aprile 1990) dopo la caduta del Muro di Berlino.
A suggello di questo lavorio, il Consiglio europeo di Maastricht (11 dicembre 1991) ha formalmente approvato il Trattato sull´Unione europea, solennemente firmato dai rappresentanti degli Stati membri il 7 febbraio 1992.

La cronologia, che con la geografia viene a giusto titolo considerata come uno dei “due occhi della storia”, in pochi casi è risultata eloquente quanto in quello qui considerato.

Basta scorrerla per notare non solo che il Trattato di Maastricht ha le sue radici nella lotta costituente di Spinelli nel Parlamento europeo e nell´Atto unico, ma anche che le sue decisioni erano già maturate prima della caduta del Muro di Berlino e, più in generale, dei grandi rivolgimenti dell´Est europeo.

La sottolineatura di questi elementi di discontinuità nella sequenza delle decisioni positive risulterebbe semplicemente obbligata sol che si andasse a studiare i contenuti del Trattato sotto il profilo economico-monetario e si confrontasse la precisa tabella di scadenze che scandisce il percorso verso la moneta unica con la situazione di oggi.

Il Trattato prevedeva che la seconda fase della costruzione della moneta unica, all´inizio del 1994, comportasse l´istituzione dell´Istituto Monetario Europeo con il compito di vigilare sull´armonizzazione e convergenza delle politiche monetarie e di bilancio degli Stati membri.

La terza fase, che avrebbe comportato tassi di cambio fissi e la creazione della Banca centrale, sarebbe iniziata nel 1997 o, al più tardi nel 1999 tra quegli Stati che avessero soddisfatto a queste condizioni:
a) un tasso annuo d´inflazione non superiore del 1,5% rispetto la media comunitaria;
b) un deficit di bilancio inferiore al 3% del PIL e un debito pubblico non superiore al 60% del PIL;
c) rispetto della banda di fluttuazione stabilita dallo SME nel corso degli ultimi due anni;
d) tasso medio d´interesse a lungo termine che non abbia superato negli ultimi due anni di oltre il 2% il tasso corrispondente nei tre Stati membri più virtuosi nel settore della stabilità dei prezzi.

Per una illustrazione attenta e una valutazione seria delle disposizioni di carattere economico-monetario del trattato, cfr. FRANCESCO PAPADIA, L´Unione economica e monetaria dopo Maastricht, in “Il Mulino”, anno XLI 1992, n. 1, pp. 5158.

*Relatori:
Saverio Cacopardi, Pierangelo Fiora, Simona Giustibelli, Luigi V. Majocchi, Marco Spazzini, Arnaldo Vicentini

Hosted by www.Geocities.ws

1