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L'Osservatore europeo

 

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IL RILANCIO EUROPEO DI MESSINA
IL MERCATO COMUNE

di PUBLIUS*


Indice:
La caduta della CED
Gli anni fra la caduta della CED e la nascita della CEE
La gestazione della CEE
La CEE è un passo avanti verso la Federazione?

Quadro storico

Gaetano Martino (1900-1967) Messina, 1-2 giugno 1955

Su iniziativa del ministro degli esteri italiano Gaetano Martino si tiene la Conferenza di Messina, in cui i ministri degli Esteri dei sei Paesi della Comunità Europea del Carbone e dell'Acciaio (CECA) decidono di avviare negoziati sull'integrazione in altri settori. Viene creato allo scopo un Comitato intergovernativo presieduto dal belga Paul Henri Spaak

Venezia, 29-30 maggio 1956

I capi di governo della CECA discutono il rapporto Spaak.

Henri Spaak (1899 - 1972)

Roma, 25 marzo 1957
I capi di governo dei Sei paesi della CECA firmano i due
Trattati di Roma:
- Comunità Economica Europea (CEE)
- Comunità Europea dell’Energia Atoomica (CEEA), detto anche Euratom.



La caduta della CED.

Perché si parla di "rilancio europeo" a proposito della fondazione della CEE nel 1957?

Questa espressione nasce dalla relazione che è stata istituita tra le decisioni prese a Messina e la grave sconfitta subita dai fautori dell’unità europea il 30 agosto 1954.

Quel giorno di fine estate l’Assemblea nazionale francese, aggiornando sine die (=senza fissare il giorno) la ratifica del Trattato istitutivo della Comunità europea di difesa (CED), chiudeva un periodo che è stato definito "il primo tentativo di fondare lo Stato europeo" .

Gli anni fra la caduta della CED e la nascita della CEE.

Le situazioni e gli avvenimenti che caratterizzarono il periodo intercorrente tra questa grave sconfitta dell’iniziativa federalista e le decisioni di Messina sono divisibili in quattro capitoli.

Il primo riguarda quelle che Renouvin chiamava "le forze profonde".
Queste "forze profonde" possono identificarsi in primo luogo nello sviluppo delle forze produttive che rendevano sempre più anacronistica la dimensione nazionale del mercato e in secondo luogo nel passaggio dal sistema europeo al sistema mondiale degli Stati che causò l’eclisse della sovranità nazionale in Europa e la generale subordinazione di Stati, situazioni politiche, relazioni economiche e rapporti sociali all’equilibrio bipolare .

In altri termini, il congiunto operare di queste forze profonde provocò una dislocazione dei problemi della sicurezza e della crescita economica dall’ambito nazionale alla dimensione europea.

E’ opportuno ricordare questi elementi di carattere strutturale per sottolineare l’attualità del Manifesto di Ventotene (1943) secondo cui il problema europeo non era ormai più un problema, ma era divenuto il problema che si poneva perentoriamente agli Stati europei e che, a dispetto di ogni possibile fallimento di questa o quella iniziativa, era destinato a riproporsi.

Normale dunque che, fallito il tentativo di fondare lo Stato europeo nel cuore della guerra fredda e sull’urgenza del problema tedesco, emergessero spinte robuste intese a promuovere il "rilancio" dell’operazione europea.

Può dirsi forse che gli uomini, nella prospettiva qui considerata, apparivano quasi strumenti di una necessità storica.

Il secondo capitolo riguarda il contesto internazionale.
Il periodo fra il 30 agosto 1954 e il 25 marzo 1957 ha disegnato un quadro della politica mondiale profondamente diverso da quello dell’età dello stalinismo.

In quel periodo di tempo accaddero fatti di grande rilievo:
1) l’uscita di scena di Malenkov e la presa del potere da parte di Kruscev,
2) il trattato di Stato austriaco,
3) il riavvicinamento di Tito all’Unione sovietica,
4) l’ingresso della RFdG nella Nato,
5) la firma del Patto di Varsavia,
6) la conferenza di Bandung,
7) il XX Congresso del Pcus,
8) l’indipendenza di Marocco e Tunisia,
9) la crisi di Suez,
10) i Fatti di Polonia e Ungheria,
11) l’indipendenza dell’ultima colonia del SudEst asiatico – la Malesia – e della prima colonia dell’Africa – il Ghana .

L’Europa, divisa, assisteva impotente a grandi trasformazioni come il risveglio storico del Terzo mondo, il profilarsi all’orizzonte del fronte dei Paesi non allineati e la distensione USA-URSS che, seppur in prospettiva, abbozzava già i contorni di una ragion di Stato americana non più coincidente con l’unificazione europea.

Così, la speranza di Monnet che l’Europa potesse riconquistare, con l’unità, "le domaine de l’avenir", sembrava inesorabilmente spegnersi.

Anche queste considerazioni imponevano, per così dire, il "rilancio".


Il terzo capitolo comprende la situazione di forte imbarazzo in cui si trovavano le forze europeiste.
Il quadro era quello delineato dal fallimento della CED e dal passaggio dell’iniziativa nelle mani del Regno Unito, che aveva seguito con apprensione la vicenda dell’esercito europeo e accolto con vivo compiacimento il suo fallimento per riproporre un’alleanza tradizionale che distruggesse la piattaforma a Sei e, riaffermando la leadership americana, assegnasse un ruolo privilegiato ai britannici nella conduzione degli affari atlantici sul versante europeo dell’alleanza .

Una situazione del genere lasciava ben poco a sperare su un rilancio dell’unificazione europea da parte dei governi, anche perché in Francia un’azione efficace appariva preclusa dal governo Mendès France di cui era ormai ben noto l’atteggiamento indifferente verso il problema europeo e addirittura ostile nei confronti di Jean Monnet.

Eppure era il Paese a cui si debbono le più incisive iniziative europee nel corso dell’intero processo di unificazione .

Jean Monnet, d’altra parte, aveva deciso di rassegnare le dimissioni dalla presidenza dell’Alta Autorità di cui, tra l’altro, dimenticando la sua valenza politica, si cominciava a denunciare il corto respiro sul terreno economico, proponendosi in alternativa un rilancio dell’OECE che tendesse alla liberalizzazione delle relazioni commerciali in spazi più ampi di quelli della "piccola Europa" dei Sei .

A completare il quadro manca soltanto di ricordare la diffusa ritrosia a imboccare di nuovo la strada dell’unificazione europea per timore che un nuovo e improvviso fallimento potesse pregiudicare definitivamente qualsiasi ulteriore possibilità di avanzare sulla strada dell’unità.

Stando così le cose, il rilancio europeo, se mai fosse avvenuto, non poteva che ispirarsi a criteri di estrema prudenza e in vista di obiettivi non troppo ambiziosi .

Il quarto capitolo riguarda l’iniziativa federalista, in particolare Spinelli e Monnet, coloro che seppero agitare e animare movimenti e governi nel corso del primo tentativo di fondare, a partire dalla Comunità, la federazione europea.

Il discorso è certamente più semplice per quanto riguarda la posizione di Spinelli.

Costui era convinto che la reintegrazione della sovranità militare della Germania avesse concluso definitivamente un periodo in cui l’unità europea era divenuto problema che investiva prepotentemente le cancellerie.

Indotte a occuparsene dai caratteri straordinari della situazione di potere – la guerra fredda, il problema tedesco –, queste avevano cercato inutilmente di risolverlo con i consueti metodi delle intese diplomatiche.
Ma di fronte alla palese inadeguatezza delle soluzioni raggiunte i governi erano inclini a prestare attenzione ai suggerimenti dell’avanguardia federalista e, pur di uscire dall’impasse, ad accettare di battersi per la fondazione dello Stato europeo.

Tra queste cancellerie quelle ragionevolmente più disposte a un tal genere d’azione – l’assunzione di una "leadership europea di natura occasionale" – non potevano essere che quelle di Italia e Repubblica federale di Germania, Stati che ben poco avevano da perdere in termini di sovranità, perché la prima ne possedeva poca e la seconda nessuna.

Se si esclude l’epilogo, cioè la sconfitta al termine della battaglia ma non della guerra, un’evenienza che è del resto normale nelle avventure rivoluzionarie, le cose erano andate proprio come aveva sperato Spinelli.

Potevano andare così anche caduta la CED, restituita la sovranità alla Germania federale, uscito di scena De Gasperi e, soprattutto, nella nuova fase della politica internazionale?

Spinelli, dopo un lungo travaglio interiore, era giunto alla conclusione che i federalisti dovessero abbandonare il ruolo del "consigliere del principe" e passare senza incertezze alla opposizione, un’opposizione radicale che non si limitasse a contestare la legittimità del governo e del regime, ma giungesse persino a denunciare quella della comunità politica.

Albertini la definirà, appunto, "un’opposizione di comunità" .

In effetti, il "nuovo corso della politica federalista" era fondato proprio sulla denunzia dell’illegittimità degli Stati nazionali, ormai incapaci di garantire sicurezza e sviluppo ai propri cittadini e sulla mobilitazione del popolo europeo nella rivendicazione del riconoscimento del suo potere costituente .

Va ancora detto come Spinelli, nei Diari, ricordi i suoi molteplici tentativi di attirare Monnet sulle sue posizioni intransigenti , così come ricordi di aver costantemente informato delle proprie iniziative Spaak, con il quale aveva a lungo collaborato durante la vicenda dell’Assemblea ad hoc.

Entrambi i passi non sembrano aver avuto successo, se è vero che Monnet, che neppure menziona una sola volta Spinelli nelle sue Memoires, prenderà autonomamente la strada del Comité d’Action e, pur dichiarando simpatia per l’iniziativa di Spinelli, la considererà un’azione prepolitica, mirando egli a raccogliere qualche risultato significativo nel breve periodo ; mentre Spaak faceva notare a Spinelli come la sua iniziativa di carattere rivoluzionario fosse destinata a incontrare, tra i federalisti, le stesse difficoltà che egli incontrava tra i governi .

Più complesso è il discorso circa l’orientamento di Monnet.

Per un verso, egli pareva condividere con Spinelli il convincimento che si fosse inesorabilmente chiuso un ciclo politico e che occorresse quindi riprendere libertà d’azione al di fuori delle istituzioni.

Da ciò la sua ferma intenzione di lasciare la presidenza dell’Alta Autorità per riassumere il ruolo dell’iniziativa.

Ma a questo orientamento s’accompagnava la convinzione che era indispensabile rilanciare subito l’integrazione europea, una convinzione che lo portava a considerare come possibile una lotta per l’estensione – a cominciare dai trasporti e dall’energia – delle competenze della Ceca . Questo secondo e opposto orientamento lo portava a mettere in discussione la prima scelta operata sino al punto, caduto il governo Mendes France e apertisi nuovi spiragli nella politica francese, di riproporre la propria candidatura alla carica per la quale aveva rassegnato, con carattere d’irrevocabilità, le dimissioni .

Da questo dilemma Monnet uscì muovendo da quello stesso principio di metodo che lo aveva condotto a proporre la Ceca.
Si trattava d’identificare ancora una volta il "punto limitato ma preciso" a partire dal quale fosse possibile modificare tutti i dati della situazione.

Nella circostanza, a Monnet quel punto parve consistere nell’energia atomica, l’energia del domani, destinata a soppiantare in breve volger di tempo quella termoelettrica e a garantire fonti autonome per lo sviluppo economico europeo in un periodo di crescente instabilità internazionale specie sul fronte dei Paesi del Terzo mondo. La crisi di Suez lo rafforzò ulteriormente in questo convincimento.

Secondo Monnet, un pool europeo per la produzione pacifica dell’energia atomica, caratterizzato dalla proprietà da parte di un’autorità sovrannazionale del materiale fissile, non solo avrebbe istituito una forte dipendenza dell’intera economia europea da quell’autorità, spingendo verso l’unificazione di crescenti settori sino all’unificazione monetaria, ma avrebbe dispiegato anche straordinarie potenzialità di sviluppo su un terreno squisitamente politico, quello dell’unificazione militare . Può osservarsi, a quarant’anni di distanza, che proprio questa seconda intuizione di Monnet si rivelerà fatalmente corretta se è vero che la Quinta Repubblica, ponendo all’ordine del giorno la costruzione della force de frappe nationale, scoprirà come l’Euratom, nato dal progetto monnetiano, costituisse un ingombrante ostacolo, chiederà la testa del suo presidente, il monnetiano Etienne Hirsch, e relegherà l’istituzione al rango di una curiosità storica, anchilosata e impotente.

In conclusione, può ragionevolmente affermarsi che sul versante dei federalisti, cioè su quello dell’iniziativa, non si profilavano nette prospettive di rilancio: per ciò che concerne Spinelli, perché il suo piano d’azione non prometteva risultati per l’indomani; per ciò che concerne Monnet, perché un’iniziativa settoriale, per quanto mirata come quella dell’atomo, non riscuoteva più il consenso degli europeisti che, dopo l’esperienza dell’Assemblea ad hoc, avevano ritenuto chiuso il periodo dell’integrazione verticale e ritenevano irrinunziabile quell’integrazione orizzontale che, nel corso dell’avventura costituente, era stata apertamente sostenuta con riferimento alla politica e all’economia.
E’ un fatto poco conosciuto, ma proprio durante i lavori di quell’Assemblea, per iniziativa del ministro degli esteri dei Paesi Bassi – Beyen – e in generale dei parlamentari del Benelux, era stato avanzato e infine accettato il principio che non era possibile un esercito europeo senza un’economia europea. Ciò implicava di costruire dapprima un’unione doganale e, quindi, su quelle basi, un’unione economica e monetaria. Va ricordato, infatti, che l’Assemblea ad hoc e le diverse conferenze diplomatiche che ne seguirono avevano ampiamente studiato un progetto che prevedeva la riduzione progressiva dei dazi doganali e dei contingenti all’importazione fino alla loro definitiva abolizione; la fissazione di una tariffa doganale esterna comune a tutti gli Stati membri; l’attuazione della libera circolazione di merci, servizi, capitali e persone; l’armonizzazione delle politiche economiche e sociali, e persino la possibilità d’istituire l’unione monetaria con gli strumenti della legislazione ordinaria .

Il fatto rilevante da registrare ai fini della nostra indagine è che fu questo il frutto dell’esperienza dell’Assemblea ad hoc che gli europeisti più ostinati si ripromisero di non disperdere. Il progetto, formulato dallo stesso Beyen e fatto proprio dai governi del Benelux, raccolse il consenso della Repubblica federale e, insieme al progetto di Monnet, che non dispiaceva a Parigi ma sollevava forti perplessità a Bonn, entrò nel pacchetto che finì per costituire l’oggetto del negoziato di Messina.

La gestazione della CEE.

Sempre attenendosi al criterio della ricognizione dei soli fatti essenziali, sarà opportuno ricordare come a Messina le diverse delegazioni fossero convenute in un clima sufficientemente distratto e poco incline a clamorose decisioni. La sola, in effetti, che a tutti premeva era quella di risolvere il problema della presidenza della Ceca, un nodo che venne sciolto assai speditamente, mentre incerto e ondivago risultò il dibattito sulle iniziative più opportune per il "rilancio", un’operazione che tutti ritenevano auspicabile a patto che ... e, a questo punto, ciascuno sciorinava le proprie riserve o, comunque, i propri motivi d’esitazione. Le testimonianze raccolte nel convegno romano del 1987 confermano come i negoziati si siano trascinati stancamente e senza costrutto sino all’ultima riunione, quella che si tenne presso l’hotel San Domenico a Taormina, quando, inaspettatamente, si risolsero con una proposta di metodo che trovò il consenso generale: conferire a un gruppo di esperti, nominati dai governi e dalle istituzioni europee ma guidati da un "coordinatore politico", il mandato di studiare la fattibilità dei due progetti presentati, cioè "la creazione di un’organizzazione comune per lo sviluppo pacifico dell’energia atomica e (...) l’istituzione di un mercato comune, da realizzare per tappe, mediante la riduzione progressiva delle limitazioni quantitative e l’unificazione dei regimi doganali". La forte guida politica sotto la cui direzione si era deciso di porre i lavori del Comitato che da lui avrebbe preso il nome, venne affidata a Paul Henri Spaak .

* * *

La CEE è un passo avanti verso la Federazione?

Azzardiamo ora un giudizio storico sul "rilancio" europeo avviato a Messina con riferimento a ciò che lo ha preceduto e a ciò che ne è seguito sino a oggi.

Il men che si può dire è che il rilancio coincideva con un forte arretramento dalle posizioni conquistate nel periodo 1950-54, un arretramento che appare quasi una disfatta se si comparano i risultati raggiunti con la posta in gioco nel corso dei lavori dell’Assemblea ad hoc.
Ma è più opportuno muovere dalla registrazione degli aspetti positivi, anche perché essi furono così scarsi che il compito di illustrarli risulta molto più agevole.

E’ un dato di fatto che, grazie soprattutto al meccanismo delle attese, un elemento sempre decisivo sul terreno economico, la Comunità conobbe, negli anni a cavallo del decennio, un boom che impropriamente viene spacciato come "miracolo economico italiano, francese, tedesco etc." e, invece, dovrebbe definirsi semplicemente "europeo".

Una tumultuosa crescita condusse a bruciare le tappe dell’integrazione, ad estendere, con gli accordi dell’11 maggio 1966, il mercato comune al settore agricolo, a istituire la Tec e le prime risorse proprie, alla Convenzione di Lomé, ai diversi allargamenti, alle decisioni dei Vertici dell’Aja e di Parigi relative al progetto di costruire, a partire dall’unione doganale, l’unione economico-monetaria, alle elezioni dirette del Parlamento europeo, allo Sme, all’azione di Spinelli nel Parlamento europeo, all’Atto unico e, infine, a Maastricht .

Non basta; i progetti, sorti su questa e quella sponda dell’Atlantico di una equal partnership fra Europa e Usa, hanno certo la loro radice in questa crescita della Comunità chiamata da più parti ad aperte assunzioni di responsabilità nella politica mondiale .

Né va, infine, dimenticato che l’Ottantanove nell’Est europeo, se trova certamente spiegazione in molti e diversi fenomeni di natura interna e internazionale, ne trova altrettanto certamente anche nel successo della Comunità alla quale i Paesi appena liberati dal giogo imperiale sovietico hanno immediatamente chiesto di aderire .


* * *

Più complesso il discorso sugli aspetti negativi.
Il denominatore comune di tali aspetti è costituito dal carattere dichiaratamente intergovernativo della costruzione avviata a Messina.

La prima osservazione riguarda gli obiettivi.

Questi sono così indicati nei Trattati di Roma: "
La Comunità ha il compito di promuovere, mediante l’instaurazione di un mercato comune ed il graduale ravvicinamento delle politiche economiche degli Stati membri, uno sviluppo armonioso delle attività economiche nell’insieme della Comunità, una espansione continua ed equilibrata, una stabilità accresciuta, un miglioramento sempre più rapido del tenore di vita e più strette relazioni fra gli Stati che ad essa partecipano".

"Più strette relazioni fra gli Stati che ad essa partecipano"!
Affermazione assai grave.

Ricordiamo che Jean Monnet parlava apertamente di Etats Unis d’Europe e fédération européenne!

E va osservato che, in politica, nonostante quanto comunemente si ritiene, le parole contano se è vero che, quando nel corso dei negoziati che condurranno a Maastricht fu proposto d’inserire tra i caratteri dell’Unione la sua "vocazione federale", persino un’espressione vagamente allusiva come questa fu rifiutata.

Il carattere chiaramente intergovernativo delle istituzioni e l’arretramento rispetto alla CECA si colgono ancor di più esaminando le istituzioni della nuova Comunità.

Osserviamo ancora le parole usate: nella CECA "Alta Autorità", nei Trattati di Roma "Commissione".

Ma, in questo caso, alle carenze della forma si accompagna una carenza della sostanza: la Commissione può solo proporre. Chi decide alla fine è il solo Consiglio europeo, riunione di governi.


Si arriva ad analoghe conclusioni se si prende in esame l’Assemblea parlamentare europea.

Anche in questo caso la scelta del nome dice chiaramente come l’arciere della metafora del del Principe di Machiavelli avesse puntato in basso.

Gli esperti si dissero: ‘
Non parliamo di problemi monetari in questa sede; se le misure dirette alla soppressione delle tariffe doganali saranno realmente rispettate, un certo grado di unificazione monetaria dovrà necessariamente aver luogo’.

Si trattò forse di un atto di fede, ma anche del solo modo concreto con il quale, in quella fase dell’opera, ci si poteva occupare della questione" .

Può notarsi che, attraverso queste affermazioni, prende limpidamente corpo un mito che ha funestato e funesta l’impresa europea.

Si tratta di un mito a due facce.

La prima riguarda una certa concezione meccanicistica dei processi storici e, nel nostro caso, del processo di unificazione europea per cui, raggiunto un obiettivo, la semplice logica delle cose conduce a raggiungerne un altro e così via sino alla fondazione del potere europeo.

La seconda riguarda l’ingenua credenza secondo cui chi vuole la federazione europea deve far ricorso, come diceva Uri, alla
“furbizia: occorre cioè mettere i governi, senza che se ne accorgano, su un piano inclinato che finirà necessariamente per farli cadere nel potere europeo.

A questo riguardo ho sempre ritenuto che avesse ragione La Rochefoucauld quando affermava che "Il est aussi facile de se tromper soi-même sans s’en apercevoir, qu’il est difficile de tromper les autres sans qu’ils s’en aperçoivent" (=E’ tanto facile ingannare se stessi –sia pure senza accorgersene– quanto è difficile ingannare gli altri senza che essi se ne accorgano).

* * *

Restiamo ancora per un momento sulla prima delle due facce del mito testé denunziato, cioè su quella concezione meccanicistica che ha permeato l’atteggiamento degli europeisti da Messina a Maastricht.

I fatti provano che si trattava – come tuttora si tratta – di una pia illusione.

Senza "atti di costruzione" imputabili all’iniziativa federalista saremmo ancora, come in parte siamo, al traguardo di una semplice unione doganale.

Il
Piano Werner fallì perché i governi ponevano al termine del processo quel potere che era indispensabile per consentirne lo svolgimento.
Senza l’iniziativa federalista non si sarebbe pervenuti né al Sistema monetario europeo né all’elezione diretta del Parlamento europeo, un atto di costruzione che permise a Spinelli di battersi perché il Parlamento europeo redigesse il progetto di Trattato istituente l’Unione europea.

Senza l’iniziativa di Spinelli e la lotta che attorno ad essa promossero i federalisti non sarebbe mai scaturito l’Atto unico che consentì a Delors di proporre l’obiettivo dell’unione monetaria.

Si tratta di risultati di grande rilievo che sono il frutto di un nuovo metodo affermatosi nel tempo, quello che Albertini definisce il "gradualismo costituzionale", un metodo che riferisce la logica dei piccoli passi anche alla costruzione costituzionale, sostenendo che ad ogni avanzamento sul terreno delle intese governative deve corrispondere un parallelo rafforzamento delle istituzioni.

Per rilevanti che queste conquiste possano considerarsi, resta il fatto che ci si trova ancora al di qua del guado: la sovranità, che è per sua natura indivisibile quanto meno in riferimento a una determinata competenza, sta ancora e per intero dalla parte dei governi nazionali e non da quella della Comunità, anche se questa ha preso il nome di Unione Europea.
.

*Relatori:
Saverio Cacopardi, Pierangelo Fiora, Simona Giustibelli, Luigi V. Majocchi, Marco Spazzini, Arnaldo Vicentini

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