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L'Osservatore europeo

 

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LA COMUNITA' EUROPEA DI DIFESA (CED)
L'Assemblea ad hoc. Apice e decadenza del federalismo

di PUBLIUS*


Narrare le vicende che agli inizi degli anni Cinquanta portarono all’ideazione e al fallimento della Comunità Europea di Difesa appare compito quanto mai arduo a chi scrive, e non solo per l’inadeguatezza dei propri mezzi.

Va fatta in primo luogo una constatazione di carattere oggettivo: la sproporzione tra la complessità del periodo storico da analizzare e la necessaria concisione dell’esposizione.

In secondo luogo non va sottovalutato il peso dei limiti per così dire soggettivi.
Da una parte v’è la carica emotiva e ideale di chi affronta da federalista (e con il rammarico dell’occasione persa) una delle tappe più importanti sulla via dell’unità europea.
Dall’altra ad essere chiamata in causa è la coscienza stessa, critica e morale, di chi scrive e, in seconda battuta, di chi legge: come ciascuno potrà constatare vi sono infatti alcune significative somiglianze, se non perfino analogie, tra il drammatico scenario dell’epoca e i tragici avvenimenti presenti, pur nella radicale diversità dei rispettivi contesti (oggi, dunque, uguale a ieri?).

L’arco temporale in cui l’Europa giocò, e perse impietosamente, la sua prima vera partita unitaria e federalista fu tanto breve quanto denso di eventi.
I quattro anni che vanno dal 1950 al 1954 coincisero, in effetti, con un momento cruciale nella storia del continente e del mondo: quello che segnò il trapasso graduale dalla fase più acuta della guerra fredda all’epoca cosiddetta della distensione.

L’ordine mondiale (o, forse, sarebbe appropriato dire: disordine mondiale!) conobbe allora nel suo insieme un assestamento se non proprio definitivo, comunque destinato a perdurare.
Anche singolarmente, i grandi protagonisti di questa stagione furono impegnati in processi interni di considerevole trasformazione.

Sullo sfondo della guerra di Corea, gli USA vissero una delle più significative stagioni politiche della propria storia: quella del cosiddetto "grande dibattito", destinato a preparare il terreno alle elezioni presidenziali del 1952.
Dopo il trauma della debacle asiatica dell’inverno 1950-1951, dovuta all’urto in guerra dei "volontari" cinesi, l’invincibile superpotenza precipitò in un’atmosfera per certi versi surreale, un clima a tal punto emotivo da rendere possibile una inedita "caccia alle streghe" anticomunista.

La conseguente ondata conservatrice portò alla vittoria i repubblicani di Eisenhower.
Essi imposero una decisa revisione della politica estera: da una parte la nuova strategia della massive retaliation volle operare un’aspra accentuazione dei termini dello scontro con il nemico sovietico (cosa che paradossalmente avveniva proprio quando l’avversario cominciava a mostrare timidi segnali d’apertura); dall’altra l’atteggiamento distaccato degli alleati d’oltre Atlantico verso la stessa guerra di Corea motivò una profonda revisione dell’impegno militare e finanziario statunitense in Europa.
Quasi parallelamente, con alcune significative avvisaglie fin dagli ultimi anni del regime staliniano, anche l’URSS cominciò a rivedere obiettivi e strategie di politica interna e internazionale.
Con la morte del dittatore, avvenuta il 5 marzo 1953, il processo di parziale e graduale liberalizzazione del Paese, anche noto come "disgelo", divenne irreversibile.
Sul piano della politica estera, l’abbandono del principio della inevitabilità del conflitto tra comunismo e capitalismo, favorì l’affermazione della dottrina della coesistenza pacifica, di cui Crušcëv sarebbe divenuto il massimo assertore.

Quanto all’Europa, essa pure mostrò in quegli anni una qualche aspirazione ad una maggiore indipendenza dal meccanismo della politica dei blocchi.
Se il nuovo clima della distensione fu in questo senso determinante, anche il miglioramento delle condizioni economiche giocò una parte non poco considerevole: di lì a poco, il vecchio Continente, devastato dalla guerra, avrebbe conosciuto, per lo meno nella sua parte occidentale, una fase di sviluppo dalle proporzioni eccezionali.

Nel quadro nostrano dell’epoca, uno degli aspetti più interessanti da sottolineare - specialmente nel tentativo di attualizzare le lezioni della storia - è quello relativo all’estrema fioritura del movimento pacifista e antinucleare, per lo più alimentato dall’opposizione antiatlantica dei partiti comunisti.
In realtà sul Continente la capacità di presa di un possibile modello politico alternativo a quello americano, in grado di contrapporre i valori della pace alla logica della pura forza militare, si rivelò forte ai più svariati livelli degli ambienti politici e di potere.

Basti pensare alle parole pronunciate dal presidente italiano Giovanni Gronchi davanti al Congresso, durante una visita ufficiale negli USA, nel febbraio 1956:

Il patto Atlantico non è più adeguato alla situazione di oggi. […] Nessuno può guardare senza angosciosa inquietudine alle prospettive di un mondo nel quale la pace è riposta, quasi esclusivamente, nella forza militare.

Il discorso, dunque, era di qualche anno posteriore al periodo esaminato.
Ma la citazione è sembrata doverosa per l’estrema adattabilità delle frasi riportate alla situazione attuale: nel ricordarle, al di là delle opinioni personali, non c’è altra intenzione che quella di sottolineare, pur nella continuità (una preoccupante continuità!), i paradossi e le contraddizioni di un mondo ancora alle prese con gli stessi dilemmi.

Peraltro, nella prima metà degli anni ‘50 la fronda antiamericana non trovò nel pacifismo la sua sola espressione, e tanto meno quella principale.
Più forte apparve, nell’ambito dei rapporti interalleati, la volontà di una più decisiva partecipazione europea all’elaborazione di una strategia comune di politica internazionale (ed è assurdo che questa esigenza non si faccia avvertire oggi con la stessa intensità d’allora!).

Come fa notare di nuovo Mammarella, spesso avveniva che le sessioni del Consiglio Atlantico si riducessero a "monologhi americani durante i quali le soluzioni indipendentemente elaborate dagli uffici di studi strategici d’oltre Atlantico venivano meramente comunicate agli alleati" .

Fu così che, contrariamente allo scenario presente, l’esigenza europea di emancipazione motivò un nuovo significativo avanzamento del continente sulla strada verso la propria unità.

Stavolta il passo poteva trasformarsi in un approdo finale, il taglio del traguardo, e, invece, si risolse in un nulla di fatto.

Ancora una volta, come nel caso della CECA, la spinta propulsiva venne dall’alleato d’oltre Atlantico.
Pressati dalla guerra di Corea, nella sede del consiglio atlantico di New York del settembre 1950, gli USA posero imperiosamente agli europei il problema del riarmo tedesco.
Fu di nuovo la Francia a rispondere dinamicamente attraverso il lancio del piano Pleven, per la creazione di una Comunità Europea di Difesa.
Il progetto, ideato da Monnet, prevedeva la creazione di un esercito europeo forte di sei divisioni, sotto il controllo di uno stato maggiore internazionale comandato da un ufficiale delle forze atlantiche.
L’obiettivo era quello di evitare che l’integrazione tedesca nella NATO avvenisse senza un adeguato controllo da parte francese.

L’ispirazione antiamericana del progetto era, peraltro, fortissima. Si vedano le parole dello stesso Monnet, in una lettera del 14 ottobre 1950, indirizzata al ministro della difesa René Pleven:

Il nostro atteggiamento deve essere estremamente fermo e la nostra risoluzione deve opporsi in modo frontale alla politica americana. Ma non abbiamo probabilità di riuscire che dando a questa opposizione un contenuto positivo ispirato ad una politica europea complessiva.

Il trattato CED venne firmato a Parigi dai Paesi della "piccola Europa" nel maggio 1952.
Esso non divenne mai operativo.
Dopo un lungo e difficile iter di ratifica da parte dei parlamenti nazionali, il fallimento del piano fu decretato proprio dal parlamento del Paese che se ne era fatto promotore.
Il 30 agosto 1954 l’Assemblea francese, in risposta alla minacciose pressioni del segretario di Stato americano Foster Dulles, liquidò il trattato con una semplice questione procedurale, evitando il dibattito e la relativa votazione.

Diverse furono le motivazioni che portarono a questo epilogo.
Forte fu, in primo luogo, il peso delle ragioni di politica internazionale, legate al cambiamento dello scenario mondiale intervenuto dopo la morte di Stalin.
In poche parole, tanto più si allontanava l’incombenza della minaccia comunista, tanto più si affievoliva la vocazione europeista dei governi continentali, diminuendo proporzionalmente, anche la loro disponibilità alla cessione di fette consistenti di sovranità nazionale.

Evidente fu, poi, il limite dell’approccio funzionalista applicato al problema della difesa.
A questo proposito si ricordi una famosa affermazione del senatore belga Fernand Dehousse: "
Si sono già visti, ahimè, Stati senza esercito, ma non si sono ancora mai visti eserciti senza Stato!" . (Non è forse possibile oggi dire la stessa cosa dell’euro?).

In sostanza, l’esercito non era, come il carbone e l’acciaio, un settore limitato sottoposto al potere dello Stato, bensì, come si legge sul manuale curato da Levi e Morelli, "l’oggetto di una prerogativa fondamentale della sovranità, il fondamento materiale della sovranità esterna degli Stati, e quindi della politica estera", oltre che "in ultima analisi anche dell’aspetto interno della sovranità, in quanto elemento essenziale, dal quale dipende il monopolio della forza, che consente a ogni Stato di assicurare l’ordine pubblico".

La contraddizione insita nell’idea di Monnet fu colta abilmente dai federalisti che, guidati da Altiero Spinelli e appoggiati dal Alcide De Gasperi, promossero, ed ottennero, l’ideazione, nell’ambito del progetto CED, di un vero e proprio potere politico, da accompagnarsi a quello militare.
Fu, in effetti, grazie all’azione intrapresa dal capo del governo italiano che la Conferenza per la CED risolse di affidare all’Assemblea allargata della CECA il compito di elaborare un progetto di Comunità Politica Europea.
Questa decisione fu anzi tempo accolta dai federalisti come una grandiosa vittoria.

O, comunque, in quanto tale venne presentata dallo stesso Spinelli nella relazione svolta a Torino il 6 dicembre 1952, durante il quinto congresso del Movimento Federalista Europeo:

L’azione iniziata nel novembre 1950 dai federalisti era vinta. I governi avevano compreso che occorreva creare una vera autorità politica soprannazionale e avevano rinunziato a redigere essi stessi, mediante una conferenza diplomatica, il progetto di patto federale, affidando invece questo compito ad un’assemblea europea di tipo parlamentare, i cui membri avrebbero votato per testa e non per nazione.

La vera vittoria, a detta di Spinelli, era però ancora lontana dal venire.
E, purtroppo, non sarebbe mai venuta.
L’idea di un governo europeo sovranazionale, associato a un esercito europeo, finì, infatti, per rafforzare il fronte delle opposizioni alla CED: a coloro che si opponevano al riarmo della Germania, si associavano ora quanti erano contrari alla prospettiva di un governo europeo lesivo delle sovranità nazionali. Inevitabile fu, dunque, il fallimento della CED.
Con essa cadde anche l’associato progetto CPE.

Il nazionalismo prese, dunque, la sua rivincita e l’Europa perse la sua più grande opportunità nella direzione della propria indipendenza.

Da allora il Vecchio Continente sembra come essersi rassegnato ad un ruolo di subordinazione.

E, purtroppo, neanche la caduta del Muro di Berlino, spartiacque decisivo nella storia del Continente e del mondo, in ogni campo della vita umana, sembra aver scalfito il suo immobilismo.

*Relatori:
Saverio Cacopardi, Pierangelo Fiora, Simona Giustibelli, Luigi V. Majocchi, Marco Spazzini, Arnaldo Vicentini

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