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IL
PUNTO SULL'EUROPA
Lettera di Romano Prodi indirizzata al Corriere della Sera e pubblicata su questo quotidiano il 27 ottobre 2001
Caro direttore, in un articolo scritto per il
Corriere della Sera (18 ottobre 2001) con il dichiarato intento
di animare nella società italiana un dibattito
sul futuro dell'Europa, il ministro degli Esteri Renato Ruggiero
ricordava un lontano episodio legato alla sua esperienza quale
portavoce del presidente della Commissione europea
Roy Jenkins.
Era la metà degli anni Settanta e si stavano gettando le basi di
quello che sarebbe, col tempo, diventato il sistema monetario
europeo.
Ebbene, ricordava Ruggiero, terminata una conferenza stampa, Roy
Jenkins lo chiamò e lo mise in guardia: «Attenzione, Renato,
mai dire che quello che abbiamo fatto porterà alla moneta unica,
perché altrimenti non ci seguirà nessuno».
Quanto tempo è passato da quegli anni!
Quante cose sono cambiate!
E non solo perché quella moneta unica che allora poteva sembrare
poco più che il sogno di un gruppo di audaci visionari è oggi
una realtà compiuta: tanto compiuta che tra
poco più di due mesi la nuova moneta europea, l'euro, sarà
materialmente nelle nostre mani.
Ancor più che per il riferimento ai primi, timidi tentativi di unione monetaria, il ricordo di Renato Ruggiero mi appare, infatti, collocato in un tempo lontano proprio dalle parole di Roy Jenkins, da quell'invito a nascondere le ragioni e le ambizioni più profonde della costruzione europea.
Parole siffatte sarebbero oggi semplicemente
impensabili.
Perché l'Unione Europea ha raggiunto dimensioni, rilievo e
maturità tali da non potere più essere in alcun modo occultata
o dissimulata.
E perché, se trent'anni fa si poteva ancora legittimamente
pensare che la costruzione di un'Europa unita potesse essere
condotta al successo solo al riparo dalle opinioni pubbliche,
oggi sappiamo che un dibattito aperto sulla sua natura e sulle
sue finalità è una condizione assolutamente indispensabile per
la piena affermazione dell'Unione Europea.
Gli attacchi terroristici
contro gli Stati Uniti dell'11 settembre hanno proiettato il
mondo in una dimensione nuova, per tanti versi sconosciuta,
sicuramente più carica di rischi.
Tutti, in quei momenti, ci siamo sentiti americani.
Quando, su invito della presidenza dell'Unione Europea e della
Commissione europea, i governi dei quindici
Paesi oggi membri dell'Unione e dei tredici
Paesi candidati all'adesione hanno invitato i loro cittadini a
rispettare tre minuti di silenzio in memoria
delle vittime degli attentati, l'Europa intera, da Helsinki a
Roma, da Parigi a Varsavia, da Lisbona ad Istanbul, si è fermata.
Due volte salvato nel secolo scorso dal Nuovo Continente, il Vecchio Continente ha detto a voce alta col silenzio dei suoi cittadini che oggi è il suo turno di essere al fianco dell'amico di oltre Atlantico.
Dopo l'11 di settembre il governo del mondo è più difficile. Garantire la pace, la sicurezza, il benessere è un'impresa che nessuna istituzione da sola, che nessuno Stato da solo, per quanto potenti e rispettati essi siano, può essere in grado di realizzare.
L'Europa unita ha le risorse necessarie per raccogliere questa sfida, per essere un protagonista di questa nuova e decisiva partita. Si tratta, in primissimo luogo, di risorse legate alla geografia.
L'Unione Europea allargata ad includere, così come ci siamo impegnati a fare, sino a dieci nuovi Paesi membri entro la metà del 2004, ha le dimensioni per contribuire in modo decisivo alla stabilità geografica e politica del mondo.
Si tratta, poi, di risorse economiche.
Grazie al peso complessivo delle economie degli Stati membri e grazie all'euro, una moneta che già oggi, ancor prima di essere entrata fisicamente in circolazione, si è imposta nei mercati finanziari e rappresenta una quota del commercio mondiale superiore a quella degli Stati Uniti, l'Unione Europea costituisce una componente fondamentale dell'equilibrio economico e finanziario globale.
Si tratta, ancora, di risorse politiche.
Per la sua stessa storia, una storia di integrazione nel segno della democrazia, di unione nel segno del rispetto delle diversità, l'Europa può essere un modello per lo sviluppo politico, sociale ed economico di altre aree del mondo ancora in cerca di assetti più stabili e favorevoli allo sviluppo ed è, per gli stessi motivi, direi «costituzionalmente» attrezzata per il dialogo con i Paesi di quelle aree.
Infine, si tratta, per l'Europa, di risorse culturali, di tradizioni.
Pur nella diversità delle singole ricette
nazionali, le diverse società europee sono accomunate da una
visione dei rapporti umani, mi verrebbe da dire dei diritti e dei
doveri dei cittadini e delle istituzioni, improntata ad un senso
di solidarietà.
Anche se non sempre, e particolarmente negli ultimi anni, essa ha
saputo agire con efficacia per evitarli, la storia ha insegnato
all'Europa a guardare con preoccupazione alle
ineguaglianze e agli squilibri eccessivi, agli strappi nel
tessuto delle proprie società.
La comprensione di quanto il formarsi e, peggio ancora, l'allargarsi di un fossato tra le condizioni di vita dei Paesi più ricchi e quelle dei Paesi più poveri introduca elementi di tensione, di fragilità, infine di potenziale rottura degli equilibri mondiali è una comprensione che viene naturale all'Europa e agli europei.
E altrettanto naturalmente si è sviluppata e si è ormai consolidata per l'Europa e gli europei, da sempre costretti a fare i conti con risorse naturali scarse, la sensibilità al deterioramento dell'ambiente e l'attenzione per quello che abbiamo imparato a chiamare uno sviluppo sostenibile.
L'Europa, insomma, ha le risorse per essere
un protagonista della nuova fase del governo mondiale che si è
aperta dopo l'11 settembre.
Ha le risorse per contribuire alla stabilità,
alla sicurezza, alla pace, al benessere, allo sviluppo
sostenibile sul piano internazionale.
E ha le risorse per promuovere, migliorare e
consolidare quella stessa stabilità, quella stessa sicurezza,
quella stessa pace, quello stesso benessere, quello stesso
sviluppo sostenibile al proprio interno.
L'euro e l'allargamento sono, sul piano interno, le colonne portanti della nuova fase della storia europea, sono i pilastri sui quali l'Europa può basare il salto in avanti necessario per fare fronte alle nuove sfide che le si presentano nel mondo della globalizzazione e del "dopo 11 settembre".
L'euro sta già dando i suoi frutti
straordinari. Per rendercene pienamente conto, pensiamo solo per
un istante a che cosa sarebbe successo se non fossimo riusciti ad
entrare nell'Unione Economica e Monetaria, a quali sarebbero
state in un momento di crisi come questo le conseguenze per le
famiglie e per le imprese italiane se non ci fosse stato l'euro a
proteggerle, se ci fosse ancora stata una lira libera di muoversi
contro le altre monete più forti.
Ma altrettanto preziosi sono i frutti che l'euro ci potrà
continuare a dare in futuro, come moneta di una
area economica grande, ricca e integrata.
Anche l'allargamento ha già iniziato a dare i
suoi frutti.
Pensiamo all'area di stabilità che la sola
prospettiva dell'adesione ha creato dai Paesi
baltici sino alla Slovenia.
Ma infinitamente più consistenti saranno questi frutti quando
tutti i Paesi candidati all'adesione saranno entrati nell'Unione
e si saranno mossi, con ancora maggior decisione, su quella
strada di sviluppo che hanno prima di loro percorso tutti gli
Stati che sono nel tempo entrati a far parte dell'Unione (e penso
a Paesi come la Spagna, il Portogallo, l'Irlanda).
Strategicamente collocata a ridosso dei Paesi candidati all'adesione, l'Italia è in una posizione di assoluto favore per trarre vantaggio dall'allargamento dell'Unione a Paesi che possono costituire ad un tempo una vitale base di produzione e un promettentissimo mercato per le sue imprese.
Euro, allargamento, Europa come terra di
sviluppo, di benessere, di sicurezza.
Tutto questo è alla nostra portata, come europei
e come italiani.
Ma niente di tutto questo ci
pioverà dall'alto come un regalo dal cielo.
Perché le promesse che il progetto europeo porta in grembo si
possano interamente realizzare si richiedono volontà politica e
decisioni concrete.
L'Europa non saprà e non potrà distribuire, tanto al suo interno quanto all'esterno, tutti i suoi frutti se essa non si doterà degli strumenti per agire in modo unitario là dove soltanto un'azione comune è in grado di essere efficace.
L'Europa non riuscirà a contribuire alla pace mondiale (e il mio primo pensiero corre al Medio Oriente) se non riuscirà a parlare con una sola voce, se non riuscirà ad usare con una sola mano tutti gli strumenti, politici ed economici, a sua disposizione.
L'Europa non riuscirà a sfruttare a pieno i vantaggi dell'euro se non riuscirà ad affiancare al governo della moneta assicurato dalla Banca Centrale Europea un analogo governo dell'economia.
Tanto nel campo della politica estera quanto in
quello dell'economia, una politica comune non vuole dire politica
unica uniformemente adottata da ogni singolo
Stato membro.
Meno ancora vuol dire una politica che pretenda
di portare al livello dell'Unione tutte le decisioni, tutte le
responsabilità, tutte le competenze.
Una politica estera e di sicurezza comune, una
politica economica comune è una politica che moltiplica le forze
dei singoli Paesi attorno ad obiettivi condivisi e con strumenti
condivisi.
Lasciando agli Stati nazionali e all'interno di
questi, sulla base dei loro rispettivi assetti istituzionali,
alle regioni e agli enti locali le responsabilità,
le competenze e le attività che non sarebbe né utile né
giustificato accentrare nell'Unione Europea.
L'Europa, insomma, è ad una svolta.
Una svolta che richiede - l'ho già detto e lo ripeto - decisioni
concrete e volontà politica.
Decisioni concrete per dotare l'Unione di quegli strumenti, da un
sistema di decisioni basato come regola generale sul voto a
maggioranza a una carta dei diritti fondamentali che abbia valore
di legge, che le consentano di agire in modo pienamente efficace
e sulla base di valori condivisi e chiaramente codificati.
Volontà politica per permettere queste decisioni superando gli
ostacoli prodotti da considerazioni di breve periodo o da
interessi ristretti.
L'assemblea, conosciuta come Convenzione , che a partire dai primi mesi del prossimo anno riunirà i rappresentanti dei governi dei Paesi membri, dei parlamenti nazionali ed europeo, della Commissione europea, sarà il luogo e l'occasione per mettere a punto il progetto di riforma istituzionale indispensabile per la nuova fase della storia europea.
Spetterà poi ai governi nazionali la
responsabilità delle decisioni ultime e impegnative.
Sapendo che queste decisioni dovranno essere prese prima dell'ingresso
nell'Unione, previsto per la primavera del 2004,
dei nuovi Paesi membri.
L'Italia, un Paese che sin dall'inizio è stato nel plotone di testa dei Paesi impegnati nella costruzione europea, un Paese che ha sempre compreso quanto le possibilità del proprio sviluppo fossero indissolubilmente legate all'Europa, può e deve giocare un ruolo di primo piano nella prossima e nuova fase «costituente» dell'Unione.
Un aperto e vivo dibattito sul futuro dell'Europa (e non posso non ricordare come la prima voce ad essersi levata è stata quella del presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi) è la condizione prima perché questo avvenga.
Sapendo, come scriveva Renato Ruggiero, che la costruzione europea ha sempre dato ragione agli uomini di grande visione e sconfessato i burocrati, gli scettici, i pessimisti.
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