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L'Osservatore europeo

 

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IL DECLINO DELL'ITALIA

di LUCIO CARACCIOLO


Così abbiamo scoperto di contare poco.
Molto poco.
"Dimenticati" da Bush nei suoi proclami urbi et orbi.
Il capo del nostro governo escluso dalla lista dei leader personalmente avvertiti dal presidente americano alla vigilia dell'attacco.
E oggetto prima di costernazione poi di ironia da parte degli alleati per le iperboli sulla civiltà occidentale e per la goffa reinterpretazione di se stesso.  

Questi e altri sintomi di declassamento dell'Italia hanno suscitato l'ennesimo dibattito nostrano.
Chi si scandalizza, chi deplora, chi minimizza. Curandosi solo dei presunti usi domestici della polemica.
Eppure qualcosa di istruttivo si può trarre anche da simile baruffa.

In guerra non si può barare. Nelle prove estreme ognuno vale per ciò che è. O meglio per ciò che gli altri pensano sia. E' un momento di verità.  

Alla fine, ogni nazione sarà riclassificata in base all'esito dello scontro e al suo comportamento in esso. Per questo è importante fissare le cause del nostro declino.  
Senza abbellimenti né autodenigrazioni, sport in cui da sempre guidiamo il gruppo di testa.
Se non siamo capaci di determinare la nostra posizione nella carta geopolitica del mondo, non possiamo difendere gli interessi nazionali.
In guerra, non possiamo proteggerci dal nemico.  

Dunque: è vero che contiamo poco, meno di quanto voglia la retorica ufficiale, ma questo è scontato meno forse di quanto pensi la media degli italiani.
La perdita di potere nel contesto delle nazioni non nasce però l'11 settembre.
Né può essere principalmente attribuita alle gaffes vere o presunte di Berlusconi.
Così come non può essere negata per l'invito (peraltro ritardato) di Bush al nostro presidente del Consiglio, quasi stessimo discettando di etichetta.
No, al di là di fatti occasionali e dell'inesperienza della classe dirigente nostrana negli affari strategici e nella politica internazionale, il declino geopolitico dell'Italia ha origini strutturali.  

Per contare si deve essere una risorsa o un problema. Ed essere considerato tale dai più forti.
Le nazioni leader sono l'una e l'altro, miscelati all'ennesima potenza.

Ai tempi della guerra fredda, per l'Occidente eravamo una risorsa modesta.
Soprattutto eravamo un grande problema. La cortina di ferro passava simbolicamente per Trieste (non di fatto, perché lo Stato cuscinetto jugoslavo ci separava dai potenziali invasori).
E perciò ci fregiavamo del titolo di Paese di frontiera.
Non solo, la divisione del mondo ci attraversava: il nostro partito comunista, con tutti i distinguo e gli strappi, restava pur sempre il referente italiano della superpotenza nemica.
Fra i cattolici serpeggiava un neutralismo attivo, incarnato da diversi leader democristiani, fedeli alla Chiesa almeno quanto alla patria (termine all'epoca tabù) e all'Alleanza atlantica.
C'era parecchio Est nel nostro Ovest. Ragione per cui gli americani ci tenevano sotto osservazione.
Il loro ambasciatore era un vicerè. Oggi Washington può persino evitare di mandarcelo.  

La vittoria nella guerra fredda ha dunque per noi il retrosapore della sconfitta. Non siamo più un problema. Non siamo diventati una risorsa. Quanto meno, non nella misura sufficiente ad essere trattati come altri paesi demograficamente ed economicamente simili al nostro, quali la Francia o la Gran Bretagna.  

Abbiamo perduto la rendita di posizione geopolitica coltivata dalla Prima Repubblica. In guerra, poi, sono esclusi gli smarcamenti. Le terze forze non hanno spazio quando la sfida è fra terroristi e resto del mondo, o quasi. Cent'anni fa ci si divideva fra germanofili e francofili, fra l'ulano tedesco e lo zuavo francese, glossava Carducci. Cinquant'anni fa tra atlantici e filosovietici. Siamo stati abituati ad appoggiarci a uno schieramento o all'altro, senza mai veramente aderirvi. Oggi più che mai conviene stare bene aggrappati alla nostra ancora di salvataggio, la Nato.  

Impresa difficile. L'Alleanza atlantica sta cambiando pelle. Alcuni scommettono sulla sua trasformazione in strumento di sicurezza del Nord del mondo, da San Francisco a Vladivostok. Altri già ne celebrano il funerale.   Intanto, il ministro della Difesa americano Rumsfeld ha stabilito: "In questa guerra la missione definisce l'alleanza, non il contrario". Il punto è chi definisce la missione. Ma questo lo sappiamo già. Oggi più di ieri, gli Stati Uniti sono i leader.  

Washington decide chi fra gli europei serve (la Gran Bretagna, se si può definirla europea), poi chi serve meno (Francia e Germania) e infine chi deve soprattutto badare a non diventare un problema (noi, in variegata compagnia).  

Certo, sarebbe l'ora di fare l'Europa.

Dal punto di vista italiano, il miglior modo per proteggere i nostri interessi. Per contare di più.

Ma chi, fra i Quindici, quando per la prima volta una guerra mondiale scavalca il Vecchio Continente, avrà il coraggio di alzare quella bandiera?

 

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