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L'Osservatore europeo

 

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http://www.repubblica.it/quotidiano/repubblica/20010920/cultura/44unapanca.html

LE DECISIONI EUROPEE DERIVANO DA BARATTI FRA GOVERNI

In questo articolo Dahrendorf descrive bene l'attuale situazione europea: non una vera Unione, ma un'agenzia sovranazionale guidata dai governi europei. Egli nega che esista un popolo europeo, e nemmeno prende in considerazione che sia nell'interesse dell'intero continente scrivere una Costituzione che dia vita a un vero legame statuale fra le Nazioni europee. Date queste premesse, non possono che seguire le sue conclusioni cinicamente pessimistiche.

 

Noi europei abbiamo sotto gli occhi quasi quotidianamente l'estrema difficoltà di applicare la democrazia a una organizzazione sovranazionale: l'Unione europea. Nessuno dei meccanismi tradizionali della forma di governo democratica sembra esportabile a quel livello. È difficile persino accordarsi su una formulazione condivisa del principio di maggioranza, come si è visto a Nizza. Perché è così arduo far funzionare la democrazia nell'Unione europea?

"Per molti aspetti questa è la più affascinante questione cui ci troviamo di fronte. Perché parlare della democrazia in Europa equivale a parlare dell'Europa, di quel che veramente è e di ciò che non è. Tra gli idealisti e gli euro-fanatici, qualcuno pensa ancora che l'Unione europea possa trasformarsi in una specie di Stato-Nazione solo più grande: gli Stati Uniti d'Europa. Ma un numero sempre maggiore di europei, tra i quali mi annovero, ritiene che questa non è la corretta descrizione di ciò che l'Europa è o può diventare.

Gli Stati che compongono l'Europa hanno poco a che fare con le tredici ex colonie che si riunirono a Filadelfia e si dissero: "È vero, ci sono molte differenze tra di noi, ma abbiamo ancora più cose in comune e dunque abbiamo bisogno di un governo federale per esprimerle". Non è così. Perché l'Europa è composta da un alto numero di paesi - non sappiamo ancora quanti, ma spero che ben presto siano venticinque - con una lunga storia alle spalle, che certamente hanno qualcosa in comune, ma molto meno di quanto univa i tredici Stati che diedero vita agli Stati Uniti d'America alla fine del Settecento. Qualsiasi cosa diventi l'Europa, certo non diventerà gli Stati Uniti d'Europa. Di sicuro conosce quella battuta di spirito, ormai non più tanto nuova, secondo la quale, dopo le condizioni poste ai paesi candidati per l'allargamento, non si può che concludere: se l'Unione europea chiedesse di diventare essa stessa membro della Ue, non potrebbe essere ammessa. Perché la sua struttura non corrisponde ai criteri basilari di democrazia politica che l'Unione impone per l'adesione della Polonia o dell'Ungheria o della Slovenia. Ci troviamo di fronte all'assurdo storico di aver creato qualcosa anche al fine di rafforzare la democrazia, e di averla creata in un modo che è intrinsecamente non democratico. E perché non è democratico? In parte la risposta è nelle origini stesse del progetto. Ci sono pochi dubbi che, quando la Comunità economica europea - e ancora prima la Ceca, la Comunità del carbone e dell'acciaio - fu costruita, la democrazia non costtituì la prima preoccupazione di coloro che progettarono ed edificarono il nuovo edificio. Centrale fu, piuttosto, la necessità di costruire un efficiente meccanismo per prendere decisioni". (...)

Eppure molto è cambiato nell'edificio istituzionale dell'Europa.

"Finora null'altro è accaduto se non modificazioni e adattamenti della costruzione originale. Ma l'atto di nascita, il patrimonio genetico, il Dna dell'Europa è ancora lì. Che cosa ci hanno portato questi aggiustamenti? Un indebolimento della Commissione, con un annebbiarsi conseguente del concetto stesso di "interesse europeo". Un rafforzamento del Consiglio, che sempre più spesso assume l'iniziativa legislativa oltre che il potere di decisione. E un indiscutibile progresso del ruolo dell'Assemblea, che, con il cosiddetto sistema della "co-decisione", si è trasformata in Parlamento ma continua comunque a godere di poteri infinitamente inferiori a quello di un vero Parlamento. Niente di tutto ciò ha creato strutture democratiche. Vorrei dirlo con chiarezza: un'entità politica in cui le leggi sono fatte in segreto, in sessioni chiuse del Consiglio dei ministri, è un insulto alla democrazia. Ci troviamo di fronte a un'entità che assume decisioni interamente al di fuori delle tradizionali istituzioni democratiche.

Quanto importanti sono queste decisioni prese in maniera non democratica?
Qui bisogna evitare di compiere errori di sopravvalutazione. Uno dei grandi problemi dell'Europa è il divario esistente tra il linguaggio altisonante spesso usato nei preamboli, a partire dal solenne impegno per "un'Unione sempre più stretta" assunto nei Trattati, o nei grandi discorsi di Chirac, Fischer, Rau o Ciampi, e la realtà, ben diversa. Solo l'1,2 per cento del prodotto interno lordo dell'Europa è amministrato dall'Unione europea, mentre la maggioranza degli Stati che ne fanno parte amministrano più del 40 per cento del prodotto lordo dei loro paesi. (...) Se fosse una vera democrazia, l'Unione dovrebbe poter soddisfare le tre domande poste all'inizio della nostra conversazione. Ebbene, se consideriamo la terza, come cioè il popolo può esprimere la sua volontà, ci accorgiamo subito che essa è perfino improponibile nel caso della Ue, perché non esiste nemmeno un "popolo europeo", un demos europeo per una democrazia europea. E questa è una condizione culturale elementare, oserei dire una conditio sine qua non, se intendiamo costruire istituzioni analoghe a quelle delle democrazie nazionali.

Per esempio: l'Italia è forse l'unico paese in cui i partiti hanno sporadicamente tentato di far eleggere al Parlamento europeo candidati non italiani. Duverger fu eletto, David Steel no. Ma proprio la timidezza e l'insuccesso di questi tentativi ci dimostrano che non esiste una cosa chiamata "popolo europeo". Questo è un problema estremamente grave, che spinge molti a chiedere un coinvolgimento dei Parlamenti nazionali, più rappresentativi, nel processo di decisione in Europa. Il primo dei miei test sulla democrazia, invece, si chiedeva come assicurare la possibilità del cambiamento. E come si fa nell'Unione europea? Ha visto quanto è stato difficile perfino applicare il semplice testo del Trattato per rimuovere la Commissione Santer? È stato un momento di grottesca confusione: fu "licenziata" nel marzo 1999, ma era presente al vertice di Colonia in luglio e ancora in funzione a settembre. Alcuni dei suoi membri vennero riconfermati nella Commissione successiva. Insomma, non fu un fulgido esempio. Il problema è che nell'Unione le funzioni governative sono diffuse e disperse. Dunque, quando si vuole cambiare non si sa chi cambiare. E nel Consiglio i veri cambiamenti sono prodotti piuttosto dalle elezioni nazionali, che almeno portano gente nuova al tavolo dei primi ministri. Resta poi la questione dei controlli, del sistema di check and balance, a proposito della quale io penso che sia possibile migliorare le cose e sulla quale ritornerò. Ma la mia convinzione fondamentale è che in Europa si prendono decisioni, qualche volta importanti, in un modo incompatibile con i principi della democrazia. E, ciò che è peggio, le risposte istituzionali che noi solitamente diamo a questi problemi a livello di democrazie nazionali non sono applicabili all'Europa neanche in futuro".

Eppure ci dev'essere un modo per trovare nuove soluzioni istituzionali, per dividere il potere all'interno di una federazione europea e per darle legittimità democratica. Per esempio: che ne pensa dell'idea di chiamare gli europei a eleggere direttamente il presidente della Commissione, o il governo dell'Unione?

"Francamente non riesco a vedere questa probabilità. Se mi interrogo sulle possibili soluzioni, il mio pensiero corre piuttosto a quelle istituzioni nelle quali gli interessi nazionali sono rappresentati, non certo alla Commissione. Non credo infatti che essa abbia un grande futuro in un'Europa più democratica. Non credo nemmeno che torneremo a una situazione in cui il diritto di iniziativa sia saldamente nelle mani della Commissione. Ho ragionato molto su questo punto, essendo stato io stesso un commissario europeo. Bruxelles è apparsa potente solo in periodi in cui c'era un chiaro, preponderante obiettivo". (...)

Eppure la Commissione Prodi ha davanti a sé un grande e storico progetto: l'allargamento. Non potrebbe diventare questa la sua fiaccola?

"E infatti sarà interessante vedere quanto lontano riuscirà a spingersi. Ma non mi faccio molte illusioni. L'allargamento, a differenza del mercato unico che corrispondeva a un interesse europeo, è proprio uno di quei casi in cui gli interessi nazionali diventano più forti e prevalgono. Ricordo quando discutemmo nella Commissione dell'adesione della Gran Bretagna. Io, rappresentante della Germania, sedevo accanto al commissario francese. E lui disse: "Chiaramente, se gli Stati membri vogliono che la trattativa con Londra fallisca, io ho qui pronta una serie di questioni da sollevare che porterebbero inevitabilmente all'insuccesso delle trattative". In queste vicende, la Commissione ha al massimo un potere potenziale di bloccare. Ma quando il governo di Parigi diede il via libera alla Gran Bretagna, improvvisamente il commissario francese e la Commissione tutta dimenticarono ogni obiezione possibile. Allo stesso modo, oggi esistono numerosi problemi sui quali può fallire il negoziato per l'adesione della Polonia. Ma non sarà la Commissione a decidere se farlo fallire o no. Il ruolo della Commissione si ferma dove cominciano le decisioni politiche del Consiglio dei ministri e sempre più verrà confinato al mercato unico. In qualche modo, la Commissione è l'amministratore del mercato unico: tutto il resto ha bisogno di tipi differenti di istituzioni. Anche un commissario veramente potente e autonomo come Mario Monti deriva la sua forza dal fatto di operare come garante della competizione all'interno del mercato unico. Se dovesse occuparsi, per esempio, delle relazioni esterne, sarebbe niente più che un agente dei governi, esattamente l'opposto di quello che è oggi. La Commissione ha raggiunto a mio parere il punto limite delle sue competenze e dunque non penso che giocherà un ruolo importante nel futuro. Le nuove idee che circolano puntano ad assetti istituzionali più modellati sul federalismo tedesco, immaginano il Consiglio dei ministri e il Parlamento come le due Camere dell'Europa, una la Camera degli Stati e l'altra la camera di qualcosa che si spera un giorno diventi il popolo europeo. E' discutibile che anche questo sistema possa essere riconosciuto come più rappresentativo dalle opinioni pubbliche, ma mi pare comunque l'inizio di un tentativo di avvicinare le istituzioni europee a quelle di una vera democrazia parlamentare".

Ciò che lei dice è l'esatto opposto di quello che sostiene Prodi.

"A mio parere Prodi ha impostato la sua azione in modo sostanzialmente sbagliato. E' il secondo presidente della Commissione che fa questo errore: il primo fu Roy Jenkins. Entrambi hanno creduto e credono che fare il presidente della Commissione equivalga in qualche modo a fare il primo ministro. Non è così. Il presidente della Commissione è il capo di un'agenzia che deve realizzare gli obiettivi decisi dai primi ministri. Ecco perché non vedo alcun senso nella proposta dell'elezione diretta del presidente. Neanche dal punto di vista della legittimità democratica. Dovremmo chiamare gli europei a votare per qualcuno che i tre quarti del corpo elettorale non conoscono nemmeno, o che per loro non significa niente. Naturalmente, il fatto che questa proposta non abbia alcun significato non vuol dire che non possa passare. La quasi totalità delle decisioni europee sono il risultato di compromessi e baratti tra i governi. Non si può dunque escludere che un giorno la Francia, in cambio del mantenimento della politica agricola comunitaria, decida di concedere alla Germania qualcosa in termini di soluzioni istituzionali innovative".

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