Italo Svevo

Su Georges Ripka Betrand Russell Italo Svevo

 

Italo SvevoItalo Svevo (Trieste, 1861 – Treviso, 1928) non sentì mai parlare di bomba atomica. Ma la sua acuta sensibilità lo fece diventare inconsapevole profeta di quella che sarà la paura nei confronti del nucleare. Già ai suoi tempi l’uomo aveva perso la fiducia nella tecnologia e, in un certo senso, si aspettava che, prima o poi, proprio tramite essa, si sarebbe autodistrutto a compimento della decadenza ormai inoltrata, come acme della “malattia” diffusa che non risparmiava nessuno. Nelle ultime pagine de “La coscienza di Zeno”, sotto riportate, Svevo annuncia l’apocalisse del mondo: un uomo “…un po’ più ammalato…” degli altri, pone il più forte esplosivo mai costruito, al centro della terra  “…ove il suo effetto potrà essere il massimo…”: una “…forte esplosione…” cancella in un batter d’occhio tutto il pianeta e, con esso, scompaiono tutte le sue “…malattie…”:

“…24 Marzo 1916

 

Dal Maggio dell'anno scorso non avevo più toccato questo libercolo. Ecco che dalla Svizzera il dr. S. mi scrive pregandomi di mandargli quanto avessi ancora annotato.

 

È una domanda curiosa, ma non ho nulla in contrario di mandargli anche questo libercolo dal quale chiaramente vedrà come io la pensi di lui e della sua cura. Giacché possiede tutte le mie confessioni, si tenga anche queste poche pagine e ancora qualcuna che volentieri aggiungo a sua edificazione. Ma al signor dottor S. voglio pur dire il fatto suo. Ci pensai tanto che oramai ho le idee ben chiare.

Intanto egli crede di ricevere altre confessioni di malattia e debolezza e invece riceverà la descrizione di una salute solida, perfetta quanto la mia età abbastanza inoltrata può permettere. Io sono guarito! Non solo non voglio fare la psico-analisi, ma non ne ho neppur di bisogno. E la mia salute non proviene solo dal fatto che mi sento un privilegiato in mezzo a tanti martiri.

Non è per il confronto ch'io mi senta sano. Io sono sano, assolutamente. Da lungo tempo io sapevo che la mia salute non poteva essere altro che la mia convinzione e ch'era una sciocchezza degna di un sognatore ipnagogico di volerla curare anziché persuadere. Io soffro bensì di certi dolori, ma mancano d'importanza nella mia grande salute. Posso mettere un impiastro qui o là, ma il resto ha da moversi e battersi e mai indugiarsi nell'immobilità come gl'incancreniti. Dolore e amore, poi, la vita insomma, non può essere considerata quale una malattia perché duole.

Ammetto che per avere la persuasione della salute il mio destino dovette mutare e scaldare il mio organismo con la lotta e sopratutto col trionfo. Fu il mio commercio che mi guarì e voglio che il dottor S. lo sappia.

Attonito e inerte, stetti a guardare il mondo sconvolto, fino al principio dell'Agosto dell'anno scorso. Allora io cominciai a comperare. Sottolineo questo verbo perché ha un significato più alto di prima della guerra. In bocca di un commerciante, allora, significava ch'egli era disposto a comperare un dato articolo. Ma quando io lo dissi, volli significare ch'io ero compratore di qualunque merce che mi sarebbe stata offerta. Come tutte le persone forti, io ebbi nella mia testa una sola idea e di quella vissi e fu la mia fortuna. L'Olivi non era a Trieste, ma è certo ch'egli non avrebbe permesso un rischio simile e lo avrebbe riservato agli altri. Invece per me non era un rischio. Io ne sapevo il risultato felice con piena certezza. Dapprima m'ero messo, secondo l'antico costume in epoca di guerra, a convertire tutto il patrimonio in oro, ma v'era una certa difficoltà di comperare e vendere dell'oro. L'oro per così dire liquido, perché più mobile, era la merce e ne feci incetta. Io effettuo di tempo in tempo anche delle vendite ma sempre in misura inferiore agli acquisti. Perché cominciai nel giusto momento i miei acquisti e le mie vendite furono tanto felici che queste mi davano i grandi mezzi di cui abbisognavo per quelli.

Con grande orgoglio ricordo che il mio primo acquisto fu addirittura apparentemente una sciocchezza e inteso unicamente a realizzare subito la mia nuova idea: una partita non grande d'incenso. Il venditore mi vantava la possibilità d'impiegare l'incenso quale un surrogato della resina che già cominciava a mancare, ma io quale chimico sapevo con piena certezza che l'incenso mai più avrebbe potuto sostituire la resina di cui era differente toto genere. Secondo la mia idea il mondo sarebbe arrivato ad una miseria tale da dover accettare l'incenso quale un surrogato della resina. E comperai! Pochi giorni or sono ne vendetti una piccola parte e ne ricavai l'importo che m'era occorso per appropriarmi della partita intera. Nel momento in cui incassai quei denari mi si allargò il petto al sentimento della mia forza e della mia salute.

Il dottore, quando avrà ricevuta quest'ultima parte del mio manoscritto, dovrebbe restituirmelo tutto. Lo rifarei con chiarezza vera perché come potevo intendere la mia vita quando non ne conoscevo quest'ultimo periodo? Forse io vissi tanti anni solo per prepararmi ad esso!

Naturalmente io non sono un ingenuo e scuso il dottore di vedere nella vita stessa una manifestazione di malattia. La vita somiglia un poco alla malattia come procede per crisi e lisi ed ha i giornalieri miglioramenti e peggioramenti. A differenza delle altre malattie la vita è sempre mortale. Non sopporta cure. Sarebbe come voler turare i buchi che abbiamo nel corpo credendoli delle ferite. Morremmo strangolati non appena curati.

La vita attuale è inquinata alle radici. L'uomo s'è messo al posto degli alberi e delle bestie ed ha inquinata l'aria, ha impedito il libero spazio. Può avvenire di peggio. Il triste e attivo animale potrebbe scoprire e mettere al proprio servizio delle altre forze. V'è una minaccia di questo genere in aria. Ne seguirà una grande ricchezza... nel numero degli uomini. Ogni metro quadrato sarà occupato da un uomo. Chi ci guarirà dalla mancanza di aria e di spazio? Solamente al pensarci soffoco!

Ma non è questo, non è questo soltanto.

Qualunque sforzo di darci la salute è vano. Questa non può appartenere che alla bestia che conosce un solo progresso, quello del proprio organismo. Allorché la rondinella comprese che per essa non c'era altra possibile vita fuori dell'emigrazione, essa ingrossò il muscolo che muove le sue ali e che divenne la parte più considerevole del suo organismo. La talpa s'interrò e tutto il suo corpo si conformò al suo bisogno. Il cavallo s'ingrandì e trasformò il suo piede. Di alcuni animali non sappiamo il progresso, ma ci sarà stato e non avrà mai leso la loro salute.

Ma l'occhialuto uomo, invece, inventa gli ordigni fuori del suo corpo e se c'è stata salute e nobiltà in chi li inventò, quasi sempre manca in chi li usa. Gli ordigni si comperano, si vendono e si rubano e l'uomo diventa sempre più furbo e più debole. Anzi si capisce che la sua furbizia cresce in proporzione della sua debolezza. I primi suoi ordigni parevano prolungazioni del suo braccio e non potevano essere efficaci che per la forza dello stesso, ma, oramai, l'ordigno non ha più alcuna relazione con l'arto. Ed è l'ordigno che crea la malattia con l'abbandono della legge che fu su tutta la terra la creatrice. La legge del più forte sparì e perdemmo la selezione salutare. Altro che psico-analisi ci vorrebbe: sotto la legge del possessore del maggior numero di ordigni prospereranno malattie e ammalati.

Forse traverso una catastrofe inaudita prodotta dagli ordigni ritorneremo alla salute. Quando i gas velenosi non basteranno più, un uomo fatto come tutti gli altri, nel segreto di una stanza di questo mondo, inventerà un esplosivo incomparabile, in confronto al quale gli esplosivi attualmente esistenti saranno considerati quali innocui giocattoli. Ed un altro uomo fatto anche lui come tutti gli altri, ma degli altri un po' più ammalato, ruberà tale esplosivo e s'arrampicherà al centro della terra per porlo nel punto ove il suo effetto potrà essere il massimo. Ci sarà un'esplosione enorme che nessuno udrà e la terra ritornata alla forma di nebulosa errerà nei cieli priva di parassiti e di malattie.”

Nelle pagine riportate il protagonista della “Coscienza”, Zeno Cosini, dimostra di aver imboccato una nuova strada: egli ha superato la torpida inettitudine che sinora ha contrassegnato la sua vita, ha scoperto l’azione. Si è cioè immerso nel commercio e, favorito dalla situazione creata dalla I guerra mondiale, realizza lucrosi affari. L’accettazione dell’azione, l’inserimento nella vita significa superamento della malattia, cioè della consapevolezza paralizzante di quanto di precario, di storto e di alienante ci sia nella vita, negli atteggiamenti dei “sani”, di coloro che non sentono questa frattura, questa dimensione esistenziale.

Ma l’illusione di essere guarito, in un certo qual modo, amplia la consapevolezza di Zeno: accettare le regole del giuoco della vita non significa non riconoscerne la disumanità. E Zeno, che pur è ora immerso nell’azione della vita, proclama che la vita attuale è inquinata alle radici e che essa ha già messo in moto una spirale – l’agonismo produttivistico senza esclusione di colpi – che ladistruggerà: l’uomo, che si è messo al posto degli alberi e delle bestie, ora produce ordigni: gli ordigni si comprano e si vendono: da qui all’esplosione enorme, alla catastrofe inaudita che distrugge il pianeta il passo è breve.

Il brano è da vedere, anzitutto, come approdo alla vocazione critica di Svevo nei confronti della società borghese. Molti critici insistono sul pessimismo profetico e anticipatore di queste pagine (e alla luce di quello che successe 22 anni dopo la pubblicazione del romanzo, ovvero l’esplosione della prima bomba atomica su Hiroshima, non ne hanno, certo, tutti i torti) e ne prospettano una lettura in senso modernamente impegnato. Il critico Salvatore Guglielmino ci propone, invece, di leggere il brano “…alla luce di tutto il romanzo, in cui consapevolezza e ironia si fondono” e ci rimanda alle parole del Pampaloni secondo il quale: “…La lettura di questa pagina, per mantenersi coerente col mondo poetico dello scrittore, mi sembra essere un’altra. Soltanto la fine del mondo potrebbe liberarci dalla malattia. L’uomo moderno, represso dalla inconsapevolezza del proprio stato, incapace d’ironia, non può produrre che catastrofi. Artifici, menzogne ed impotenza vanno di pari passo. L’unica età dell’oro possibile sulla terra è quella dell’uomo che accetta la precarietà ed il condizionamento prepotente della vita. Tolleranza, autocoscienza e ironia sono le vie possibili, a portata di mano, della salvezza.”

Personalmente, considero queste ultime riflessioni come la chiave di lettura più profonda ed acuta della moderna diffidenza generalizzata nei confronti dell’energia nucleare. Il sospetto verso questa innovativa e, non mi stancherò mai di dirlo, pulita fonte di energia rinnovabile ha radici assestate quanto antiche che possono risalire, a mio parere, anche alla seconda rivoluzione industriale. L’uomo, in quel periodo, ha iniziato ad associare la tecnologia alla disumanizzazione delle fasi produttive prima e di gran parte dei rapporti sociali poi. La “fredda” tecnologia è stata presente nella guerra sempre in maniera più evidente ed il senso di sfiducia in essa è aumentato senza soste. Nel corso del XX secolo, l’energia nucleare è stata associata (non certo dai fisici nucleari ma dall’opinione pubblica non ben informata) quasi esclusivamente ai fatti di Hiroshima e di Chernobyl. “L’uomo scienziato, che vuole sfidare la natura stessa agendo sulle caratteristiche più intrinseche della materia, non può produrre che catastrofi, distruzione e morte”: questa penso che sia l’inconscia e superficiale analisi dell’opinione pubblica riguardo l’energia nucleare.

Spero che l’informazione come quella che, umilmente, mi son ritrovato a fare con questo lavoro riesca a “convincere” la maggior parte delle persone (soprattutto quelle che qualche decina di anni fa votarono il referendum contro l’uso pacifico dell’energia nucleare in Italia) ad avere più fiducia nell’uomo e nella tecnologia, abbandonando posizioni di rigido distacco nei confronti di quella che, prima o poi, a mio parere, diventerà l’unica fonte di energia dell’umanità.

 In sottofondo: J. S. Bach, Contrappunto n. 14 (opera mai terminata) da L'arte della fuga, BWV 1080
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