MOVIMENTO FASCISMO E LIBERTA'
COORDINAMENTO REGIONALE
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TESTI PER I CORSI I PREPARAZIONE POLITICA
LA POLITICA SOCIALE DEL FASCISMO

IV.

DIFESA, IGIENE E SICUREZZA DEL LAVORO




DURATA ED ORARI DI LAVORO

LA LIMITAZIONE della durata del lavoro risponde ad un duplice ordine di necessità: l'una inerente alla salute fisica del lavoratore e tendente a garantire che il lavoro sia adeguato alla resistenza individuale e che ad ogni periodo di lavoro corrisponda un adeguato periodo di riposo, l'altra conseguente alla progressiva meccanicizzazione della produzione, la quale importa, come diretta conseguenza, una diminuzione del periodo di lavoro necessario ad attuare una determinata quantità di produzione.

La prima necessità di natura sociale ha influito fino ad oggi sulla progressiva diminuzione dell'orario di lavoro che da una media, comune a quasi tutti i paesi d'Europa, di dodici ore giornaliere, verso la metà del secolo scorso, è disceso ad una media di dieci ore verso la fine del secolo stesso, ed è stata stabilita, con la Convenzione di Washington del 1919, conseguente al Trattato di Versailles, ratificata da quasi tutti gli Stati, in otto ore giornaliere.

Uno dei primi atti coi quali il Governo fascista, prima ancora della nuova disciplina giuridica dei rapporti tra capitale e lavoro, dimostrò la propria sollecitudine per le classi lavoratrici, fu il R. decreto-legge 15 marzo 1923, n. 692, col quale venne stabilito che la durata massima normale della giornata di lavoro per gli operai e gli impiegati delle aziende industriali o commerciali di qualunque natura, come pure negli uffici, lavori pubblici ed ospedali non possa eccedere le 8 ore al giorno o le 48 ore settimanali di lavoro effettivo. Il decreto non è applicabile al personale addetto ai lavori domestici, al personale direttivo delle aziende e ai commessi viaggiatori. Per le aziende agricole applica le disposizioni del decreto sull'avventiziato escludendone i contratti di lavoro a compartecipazione; nei lavori agricoli e negli altri lavori per cui ricorrono necessità imposte da esigenze tecniche o stagionali consente che possano superarsi le 8 ore giornaliere o le 48 settimanali, autorizza quando siavi accordo tra le parti l'aggiunta alla giornata normale di lavoro di un periodo di lavoro straordinario da computarsi a parte e remunerarsi con aumento di paga, autorizza il prolungamento del lavoro al di là dei limiti suaccennati nei casi di forza maggiore o di imminente pericolo.

Al decreto sopra menzionato fece seguito il R. decreto 10 settembre 1923, n. 1956, che applicava ai lavoratori agricoli la limitazione dell'orario di lavoro.

Nel 1926 col decreto-legge 30 giugno, n. 1096, tutte le aziende industriali, commerciali e agricole furono autorizzate ad aumentare di un'ora la giornata lavorativa in deroga al su riferito decreto e ai relativi contratti di lavoro.

Successivamente nel 1931 il Consiglio Nazionale delle Corporazioni, in sede di revisione della legislazione del lavoro, propose un nuovo testo per dare veste organica al materiale legislativo allora in vigore.

In relazione ai voti espressi dal Consiglio Nazionale delle Corporazioni ed in armonia con i principi dell'ordinamento corporativo, la materia della durata del lavoro è stata disciplinata con la legge 16 marzo 1933, n. 527. Il campo di applicazione di questo disegno di legge è limitato alle aziende industriali, alle quali ha solo riguardo la Convenzione Washington e si estende, come prevede la stessa Convenzione, anche alle aziende pubbliche. Nei riguardi di queste ultime, il disegno di legge autorizza anzi espressamente il Governo ad adottare, per le ferrovie e le altre aziende industriali esercitate dallo Stato e per i servizi pubblici di trasporto in concessione, speciali disposizioni in relazione alla legislazione vigente per metterla, ove occorre, in armonia con le clausole della Convenzione. Sempre per quanto riguarda il campo di applicazione, è anche da rilevare che la esclusione dalla sfera del provvedimento sia dei servizi ordinari postali, telegrafici e telefonici, sia delle aziende industriali nelle quali sono soltanto occupati membri di una stessa famiglia, nonché della navigazione interna, marittima ed aerea e della pesca, sia delle persone che occupano posti direttivi e di sorveglianza ovvero posti di fiducia, sia dei lavoratori a domicilio, corrisponde ad eccezioni ammesse dalla Convenzione di Washington e già espressamente o implicitamente contemplate dalla nostra legge.

Il lavoro, cui ha riguardo il provvedimento per il computo degli orari, è quello effettivo e i limiti fissati per l'orario massimo normale sono la giornata di 8 ore e la settimana di 48, in conformità di quanto dispone la Convenzione che considera congiuntivamente tali limiti.

Tali limiti per la durata massima normale del lavoro trovano però un correttivo sia nella possibilità di poter distribuire convenientemente l'orario di 48 ore nei vari giorni della settimana in correlazione ad una clausola speciale della Convenzione, sia in alcune speciali deroghe stabilite in corrispondenza pure alle disposizioni della Convenzione, e che offrono il mezzo per le diverse industrie e aziende di praticare degli orari rispondenti alle necessità loro proprie, senza pregiudizio delle giuste difese che devono essere garantite ai prestatori d'opera.

Del pari le difficoltà inerenti alla osservanza dell'obbligo previsto dalla Convenzione di retribuire il lavoro straordinario con un aumento del 25 per cento sulla paga ordinaria, sono state superate, opportunamente rinviandosi la determinazione di tale percentuale ai contratti collettivi. Tale rinvio è giustificato — come osserva la relazione ministeriale al disegno di legge — dagli innegabili vantaggi di snellezza e di adattamento a tutte le esigenze che presenta la norma del contratto collettivo, e dalla convenienza di affermare anche nella materia degli orari tutta la sua utilità e il suo valore.

Né alcun dubbio può sorgere che con tale soluzione l'obbligo della Convenzione possa essere eluso o violato, date le garanzie di pubblicazione, di controllo e di applicazione che circondano nel nostro ordinamento sindacale e corporativo la norma del contratto collettivo e che ne forma una vera e propria legge professionale. La questione della durata del lavoro va, altresì, messa in relazione col problema della disoccupazione.

Oggi sembra dominare una profonda ed urgente ragione economica a giustificare una ulteriore riduzione dell'orario normale di lavoro; la crisi del sistema produttivo, che si manifesta con particolare gravità nella disoccupazione operaia, assurta ovunque a proporzioni allarmanti, e nella saturazione dei mercati di consumo, non può essere risolta se non attuando, tra gli altri provvedimenti, una radicale diminuzione delle ore di lavoro settimanali, dalla quale dovrà necessariamente derivare un assorbimento della mano d'opera esuberante ai fini produttivi.

Interpreti di queste necessità, le Confederazioni Nazionali Fasciste dei Datori di lavoro e dei Lavoratori dell'industria, sotto gli auspici del Partito, con alto spirito di collaborazione firmarono il 5 novembre 1934 una convenzione che ebbe una chiara impronta fascista.

Il problema della riduzione della durata del lavoro, il cui scopo è di riassorbire nell'attività produttiva i milioni di disoccupati che gravano sulla economia di ogni Paese, è uno dei problemi più assillanti del nostro tempo. Uomini di scienza e uomini politici ne hanno, da tempo, cercata la pratica soluzione attraverso studi e discussioni; ma si deve all'Italia se il problema fu con prontezza e chiarezza posto all'ordine del giorno della Organizzazione Internazionale del Lavoro.

Le tendenze autarchiche, che più o meno largamente dominano la politica economica dei Paesi del mondo, e in particolare di quelle Nazioni che maggiormente sentono la necessità e la convenienza di conservare una posizione di privilegio, acquisita attraverso eventi fortunati della storia lontana e recente, hanno impedito di raggiungere, in seno alla Organizzazione Internazionale del Lavoro, quell'accordo, che pur era da tutti auspicato, per adeguare l'offerta di mano d'opera alle possibilità di assorbimento del mercato — che la razionalizzazione intensiva degli impianti ha oggi grandemente diminuito — lasciando inalterata o aumentando la capacità produttiva dell'industria.

Il Fascismo tempista e realizzatore, pur perseguendo una direttiva ideale che ebbe precisa affermazione nelle dichiarazioni del duce agli operai di Milano, ha portato il problema sul terreno nazionale, considerando che, mentre sul terreno internazionale le affermazioni di principi di giustizia sociale non trovavano sollecita corrispondenza nei fatti, era sommamente utile e significativo dare in Italia l'esempio della nostra decisa volontà di raggiungere, nei limiti del possibile, quegli obiettivi ai quali tendeva l'iniziativa italiana per la riduzione della durata del lavoro.

La convenzione stipulata fra le organizzazioni sindacali dell'industria stabilisce appunto di adottare provvedimenti eccezionali per ripartire entro un numero di operai maggiore di quello ora occupato, le attuali possibilità di lavoro. L'intento viene conseguito:

a) riducendo di massima l'orario di lavoro entro il limite di quaranta ore settimanali;

b) abolendo pure di massima e con rigorosa applicazione il lavoro straordinario;

c) sostituendo là dove appaia necessario e possibile, la mano d'opera femminile con quella maschile, quella minorile con l'adulta;

d) limitando nel campo impiegatizio il lavoro delle donne e dei fanciulli alle prestazioni più ad essi adeguate e ponendolo in armonia con le esigenze delle aziende;

e) sostituendo il personale pensionato o che comunque fruisca di trattamento di quiescenza con disoccupati;

f) integrando il salario dei prestatori d'opera che lavorino ad orario ridotto e che abbiano una famiglia a carico con la costituzione di una Cassa Nazionale d'integrazione per assegni familiari.

Non è chi non veda l'importanza eccezionale dei provvedimenti concordati, con i quali l'Italia, per virtù del Fascismo, ha affrontato per la prima il duplice aspetto sociale ed economico del problema della disoccupazione e attuato nel suo territorio quella disciplina della durata del lavoro, che, con sempre maggiore evidenza, appare l'unica base su cui si possa efficacemente impostare la lotta contro il doloroso fenomeno.

La convenzione ha avuto un'alta importanza politica in quanto ha confermato che i lavoratori italiani sono consapevoli della inscindibilità dei loro particolari interessi da quelli nazionali e sanno che ogni rivendicazione operaia è giusta solo e in quanto si inquadri nell'interesse generale della produzione. I datori di lavoro fascisti hanno, per conto loro, pienamente compreso che ogni previdenza sociale al di là delle valutazioni strettamente individuali, e quindi egoistiche, ha ripercussioni di tale valore ed entità da compensare anche sul terreno economico i sacrifici che si siano sopportati in vista di una maggiore giustizia sociale.

 

RIPOSO DOMENICALE E SETTIMANALE

Mentre la limitazione della durata giornaliera del lavoro fu attuata, nella nostra legislazione, in epoca posteriore alla Convenzione internazionale relativa, l'obbligo del riposo settimanale nelle aziende industriali e commerciali era stato già da tempo imposto allorché intervenne la Convenzione di Ginevra del 1921, resa esecutiva con il R. decreto-legge 20 marzo 1924, n. 580. Infatti la disciplina giuridica del riposo settimanale risale in Italia alla legge 7 giugno 1907, n. 489, completata dai regolamenti approvati con R. decreto 7 novembre 1907, n. 807, e 8 agosto 1908, n. 509, e recentemente sostituita dalla legge 22 febbraio 1934.

Le norme di legge sul riposo settimanale e festivo rispondono ad un triplice ordine di ragioni: fisiologiche, sociali e religiose. Il riposo settimanale è reso necessario onde garantire che l'organismo del lavoratore possa ritemprarsi e rigenerarsi ed acquistare nuove forze, astenendosi per un certo tempo dalla prestazione di opera, cioè da un dispendio di energie; per soddisfare a tale bisogno fisiologico è necessario che l'astensione duri per uno spazio di tempo abbastanza lungo, che la legge ha ritenuto opportuno fissare in 24 ore consecutive. D'altro canto il riposo settimanale deve essere concesso, se particolari accertate esigenze non lo vietano, la domenica, sia perché tale giorno è tradizionalmente destinato al riposo, allo svago, alle cure della famiglia, sia perché dalla religione ufficiale dello Stato è fatto obbligo ai fedeli di astenersi in tale giorno dalle opere servili e di dedicarsi alle pratiche religiose.

Dopo accurato studio ed ampio dibattito al Consiglio Nazionale delle Corporazioni in sede di revisione della legislazione del lavoro, fu predisposto il provvedimento relativo al riposo domenicale e settimanale, con alcune modificazioni proposte dai Ministeri interessati e con lievi emendamenti della Camera dei Deputati. Tale provvedimento è divenuto la legge 22 febbraio 1934, n. 370.

Nel suo complesso il nuovo testo presenta le seguenti innovazioni e caratteristiche:

1. - Caratteri formali e disposizioni generali. Elimina la necessità di emanare un regolamento raggruppando le norme contenute nelle leggi sopra menzionate.

Tra i due opposti concetti, quello tradizionale della legislazione sinora in vigore — essenzialmente analitico ed inteso a regolare specificatamente ogni singolo caso — e quello innovatore — inteso a stabilire i principi fondamentali, delegando la determinazione di norme particolari ai contratti collettivi di lavoro — il nuovo testo segue un criterio intermedio, "fissando cioè insieme ad alcuni principi generali, norme particolari per categorie di attività, desunte da un logico coordinamento delle elencazioni stabilite dalla legge vigente, e determinando altresì norme specifiche per singole attività, nei casi in cui queste richiedano regimi giuridici particolari, e non siano raggruppabili in categorie".

In uniformità alla dichiarazione XV della Carta del Lavoro, riserva un vasto campo normativo al contratto collettivo di lavoro, salvo nei casi di urgenza, di esigenze trascendenti quelle di categoria o di particolari necessità tecniche, ovvero quando i contratti collettivi non regolino la materia.

Sostituisce due sole autorità — quelle del prefetto e dell'ispettorato corporativo — alle numerose competenze amministrative determinate dalle disposizioni sinora vigenti.

2. - Campo di applicazione della legge. Di fronte al criterio sinora prevalente, il quale presupponeva come requisito essenziale l'esistenza dell'azienda industriale e commerciale, concepita però in senso assai ampio attraverso la condizione dei vari articoli, il nuovo testo non sposta sensibilmente la sfera di applicazione delle varie norme, perché pur basandosi sull'estremo del lavoro prestato alle dipendenze altrui, si fonda altresì, in alcuni casi, sull'elemento di azienda.

Ciò premesso, vanno tuttavia segnalate le seguenti caratteristiche in vario grado innovatrici.

In primo luogo, l'estensione della legge ai lavori agricoli, salvo determinate cautele e con l'esclusione di alcune categorie di lavoratori, in ragione della natura particolare del lavoro (pastorizia, biada), del rapporto economico e giuridico (lavori a compartecipazione) e del fatto che intervengono leggi speciali (risicoltura).

In secondo luogo, l'applicazione del regime di riposo al personale addetto ai servizi di trasporto su ferrovie e tranvie e soprattutto a quello addetto ai servizi complementari, definita nel senso che l'esonero dall'applicazione della legge, per quanto riguarda le ferrovie e le tranvie pubbliche, è subordinato a due ordini di limitazioni: il carattere pubblico (secondo la terminologia dell'art. 1 del testo unico 9 maggio 1912, n. 1447) della ferrovia e tranvia, e il rapporto diretto di dipendenza tra il personale e l'azienda esercente. In altre parole, l'eccezione riguarda esclusivamente quei lavoratori a cui provvede, in materia di riposo, la legge speciale (art. 16 del R. decreto-legge 19 ottobre 1923, n. 2328), mentre tutti i lavoratori dipendenti dalle altre aziende, addetti ai lavori di trasporto od a servizi ausiliari, rientrano nell'ambito della legge generale e ad essi può applicarsi, ove parrà necessario, la norma che prevede il riposo settimanale per turno. In tal modo sarà pienamente garantito il regolare funzionamento e la continuità dei servizi. In terzo luogo, la non applicabilità della legge al lavoro negli istituti di prevenzione e di pena, derivante dal fatto che il testo in esame si riferisce esclusivamente al lavoro libero e liberamente assunto, mentre, a disciplinare tale materia particolare, provvede il regolamento 18 giugno 1931, n. 787, art. 123).

In quarto luogo, l'applicabilità della legge ai soci di cooperative, questione risolta affermativamente, ma non in base alla presunzione normalmente stabilita dalla legislazione previdenziale, che considera sempre la cooperativa come datrice di lavoro nei riguardi dei soci da essa impiegati (per esempio nell'assicurazione invalidità e vecchiaia), bensì in base ad un altro ordine di presunzioni fondato su alcuni elementi particolari, atti a far ritenere l'esistenza di un rapporto di dipendenza, e cioè la retribuzione fissa o periodica e la prestazione del lavoro insieme agli operai.

Infine fissa il giorno (domenica) e la decorrenza (da una mezzanotte all'altra) del riposo, la cui durata permane di 24 ore ogni settimana, elevando a principio di carattere generale le norme particolari desunte dalla legge sinora vigente e dai relativi regolamenti (art. 3). A principio di carattere generale viene elevata altresì la tesi, seguita sinora dall'Amministrazione, della impossibilità di derogare in peius alla legge sul lavoro delle donne e dei fanciulli, di modo che, in caso di eccezione all'obbligo del riposo, alle donne di qualsiasi età e ai minori di anni 14 dev'essere tuttavia dato, ogni settimana, un compensativo ininterrotto di 24 ore, salvo casi previsti dagli articoli 6 (personale specializzato e insostituibile), 8 (lavori agricoli), 12 (personale degli alberghi) e 15 (personale addetto ai vagoni letto, commessi viaggiatori e personale equiparabile, personale addetto ai pubblici spettacoli).

3. - Regimi particolari di riposo. Tali regimi particolari riguardano le attività a regime continuo, stagionali o di pubblica utilità, la vendita al minuto ed attività affini, i lavori agricoli, le industrie all'aperto, gli opifici mossi direttamente dal vento o dall'acqua, gli alberghi, le aziende giornalistiche e di diffusione di notizie, il personale addetto ai vagoni letto, i commessi viaggiatori e personale equiparabile, il personale addetto ai pubblici spettacoli, i lavori occasionali e di vigilanza. Vengono anche disciplinati i casi di forza maggiore e la possibilità di spostare il giorno di riposo. Particolarmente innovatrice è la norma per cui nella vendita al minuto e nelle attività rivolte a soddisfare direttamente i bisogni del pubblico, il prefetto, sentiti il podestà e le organizzazioni sindacali, può sostituire al riposo settimanale per turno il riposo di un determinato giorno della settimana di tutto il personale, ovvero il riposo nel pomeriggio della domenica, più il riposo compensativo. Tale norma importa altresì una molteplicità di regime, opportunamente determinati, nelle forme di riposo applicabili ai negozi di generi alimentari e combustibili, ai laboratori di parrucchiere, agli istituti di previdenza e simili, aziende che in linea di principio saranno soggette all'obbligo del riposo domenicale, ovvero all'obbligo del riposo settimanale per turno nel caso che siano considerate come attività il cui funzionamento continuo risponda a ragioni di utilità pubblica.

In tal modo la nuova legge, come giustamente afferma la relazione ministeriale, non rappresenta soltanto un coordinamento ed un perfezionamento delle disposizioni di legge prima in vigore, ma apporta profonde innovazioni e modificazioni di carattere sostanziale, e ispirandosi al concetto di rendere sempre più ampia ed efficiente la tutela del lavoro, estende a nuove categorie la protezione della legge, attuando con precetti giuridici di alto valore etico e religioso uno dei postulati fondamentali sanciti dalla Carta del Lavoro nell'interesse della massa lavoratrice.

 

LAVORO DELLE DONNE E DEI FANCIULLI

La prima legge in materia risale all'11 febbraio 1886; in essa veniva fissata a soli 9 anni l'età minima per l'assunzione al lavoro. E parve allora un audace e generoso passo verso la difesa del lavoro dei fanciulli. A questa legge altre ne seguirono in relazione allo sviluppo economico della Nazione e tutte vennero raggruppate nel testo unico del 10 novembre 1907, al quale furono apportate successivamente alcune modifiche.

Ma tale legislazione per essere stata emanata in tempi diversi e precedenti all'attuale organizzazione dello Stato fascista presentava deficienze sostanziali, interferenze tra le varie norme, e contemplando condizioni di fatto sorpassate non era più rispondente alle necessità del momento politico ed economico.

Consapevole delle necessità di adeguare la tutela del lavoro delle donne e dei fanciulli allo sviluppo della produzione ed ai principi etici ed economici dello Stato corporativo, il Consiglio Nazionale delle Corporazioni, in sede di revisione delle leggi protettive del lavoro, presentò uno schema di disegno di legge che, salvo alcune modifiche proposte dai vari Ministeri e dal Parlamento, fu approvato, divenendo così la legge 26 aprile 1934, n. 653.

Questa legge è una delle più importanti leggi sociali applicata nel nostro Paese, tocca il complesso del nostro regime produttivo, attua uno dei postulati più delicati dibattuti nelle assise internazionali e nazionali delle classi lavoratrici, e stabilendo l'età minima dei 14 anni per l'ammissione al lavoro dei fanciulli, si inquadra infine in una serie di altri numerosi provvedimenti emanati in tempi e in campi diversi, che tendono tutti, direttamente e indirettamente, allo scopo di creare al fanciullo ed alla donna le migliori condizioni igieniche, culturali, morali.

Dal punto di vista formale rende inutile l'emanazione di un regolamento, riunendo le norme contenute nella legge io novembre 1907, esclude le disposizioni relative al lavoro in risaia e riduce al minimo le norme sulle formalità di ordine generale.

La legge si riconnette fondamentalmente al testo unico; ma dà alle disposizioni di tutela una portata più ampia ed efficiente. E mentre la vecchia legge si applicava soltanto alle aziende industriali, la nuova estende la sua sfera di applicazione alle aziende, commerciali di credito, di previdenza ed in genere ad ogni forma di attività, comprese quelle che si svolgono in campo non economico o che non siano gestite da imprenditori privati.

La nuova legge ha così una portata totalitaria.

La nuova legge, superando tradizionali schemi legislativi, si incardina, pertanto, su di una base nuova ed assume una portata logica e praticamente di grande rilievo. Ed in realtà le ragioni di tutela del lavoro femminile e minorile si fondano, non già sul fatto che il lavoratore sia vincolato da un contratto di determinata natura piuttosto da un contratto di altra specie, ma sul fatto che la sua opera si svolge alla dipendenza altrui. È questa dipendenza che può creare l'antitesi tra l'interesse del datore di lavoro e quello della Nazione, diretto, quest'ultimo, alla integrità della stirpe: si giustifica perciò anche la tutela coattiva del lavoratore recalcitrante od inadatto a tutelare se stesso.

La legge nuova allarga la sua azione di tutela ad un maggior numero di donne, innalza il limite iniziale dell'età lavorativa dai 13 ai 14 anni e precisa meglio le norme igieniche, sanitarie, di istruzione, di durata del lavoro delle donne e dei fanciulli.

Per "fanciulli" intende la legge le persone di ambo i sessi che non hanno compiuto i 15 anni e per "donne minorenni" quelle che hanno compiuto i 15 ma non ancora i 21 anni.

La legge invece di enumerare i tipi di donne lavoratoci e da includere in essa, inverte i termini ed enumera (con maggiore chiarezza quindi) i casi per i quali la legge non ha Valore; essi sono:

a) donne e fanciulli addetti a lavori domestici inerenti al normale svolgimento della vita di famiglia;

b) moglie e parenti, fino al terzo grado compreso, del datore di lavoro quando siano con lui conviventi e a suo carico;

e) donne e fanciulli lavoranti al proprio domicilio;

d) donne occupate negli uffici dello Stato, delle provincie e dei comuni;

e) donne e fanciulli occupati in aziende dello Stato e godenti di vantaggi non inferiori a quelli stabiliti dalla legge;

f) donne e fanciulli adibiti a lavori agricoli;

g) fanciulli occupati a bordo delle navi.

All'infuori di queste categorie di donne e fanciulli, nettamente stabilite, tutte le altre donne (e fanciulli) che prestano la loro opera alla dipendenza altrui, sono tutelate da questa legge.

La necessità della tutela delle deboli forze del minore e della donna non rispetto a particolari attività produttive, ma estesa il più possibile, è una forma — e fra le più importanti — di tutela demografica diretta alla potenza, non soltanto numerica, ma qualitativa della Nazione, e per tale suo carattere rientra nei fini essenziali dello Stato fascista. Non è, infatti, ammissibile che in linea generale possano essere occupati quando non ne abbiano l'idoneità fisica.

È ben vero che in determinate circostanze potrà il Governo autorizzare il lavoro dei fanciulli di età inferiore. Ma questa norma, dovuta ad opportune cautele di applicazione della legge nel primo periodo, dato che si estende a nuovi settori di aziende per i quali finora non esisteva alcun divieto, e che l'età minima dell'ammissione del fanciullo al lavoro deve essere posta in rapporto alle norme ed alla pratica della frequenza delle scuole, del doposcuola e del complesso delle esistenti istituzioni scolastiche e post-scolastiche obbligatorie le quali debbono armonizzarsi alla nuova legge in discorso, questa norma di eccezione non infirma la importanza del principio fondamentale. Ma anzi, superato il primo periodo di adattamento ai divieti di legge, la eccezione prudenziale sarà quella che renderà praticamente più facile la integrale applicazione del divieto di assunzione al lavoro dei fanciulli minori dei 14 anni.

La legge prescrive inoltre: a) che i fanciulli e le donne non possono essere addetti al lavoro ove non risulti, in base a certificato medico, che sono sani ed adatti al lavoro; b) che è vietata l'occupazione dei fanciulli e delle donne minorenni per i lavori pericolosi, faticosi ed insalubri; e) che è vietato — in rapporto all'età — il trasporto e sollevamento di pesi troppo grandi.

Particolari limitazioni sono contenute nella legge al lavoro notturno, intendendo per "notte", secondo la definizione che dà la legge un periodo di 11 ore consecutive, nelle quali sia incluso l'intervallo fra le ore 22 e le ore 5 (salvo che per il lavoro di panificazione).

Nelle aziende industriali e nelle dipendenze loro è vietato il lavoro di notte per tutte le donne e per i minori di anni 18; tale divieto è esteso alla moglie, ai parenti ed agli affini del datore di lavoro se nell'azienda nella quale sono occupati lavorino anche altre persone.

La legge enumera con precisione le eccezioni al divieto del lavoro notturno (industria lavorazione continua, casi di forza maggiore), ma anche allora il permesso è circondato da precauzioni tali che difficilmente si potrebbe eccedere oltre il limite legale.

Per quanto riguarda la durata del lavoro dei fanciulli e delle donne, la legge fissa a sei ore la durata massima senza interruzione. Il lavoro quotidiano può, in via eccezionale, superare le otto ore, ma con precauzioni legali.

Quando l'orario di lavoro supera nella giornata le sei ore esso deve essere interrotto da un riposo intermedio di un'ora almeno; quando supera le otto ore, tale intervallo deve essere almeno di un'ora e mezzo.

I locali di lavoro ed i dormitori eventuali devono essere sistemati secondo le norme di igiene e di sicurezza del lavoro. Così pure i refettori.

Per certe lavorazioni è prescritta la visita medica periodica alle donne e ai fanciulli per accertarne la idoneità fisica a quel lavoro.

La legge italiana, che si uniforma nella sua estensione ed applicazione alla Convenzione internazionale di Ginevra, è in armonia colle leggi di carattere sociale emanate dal Regime e rappresenta uno dei più significativi e realistici contributi per la tutela del lavoro e dell'integrità fisica e morale della stirpe.

 

MATERNITÀ DELLE DONNE LAVORATRICI

La legge 22 marzo 1934 sulla tutela della maternità delle donne lavoratrici completa la serie di provvedimenti che il Regime ha emanato per la sanità della razza e per il potenziamento demografico della Nazione.

In accoglimento dei voti espressi dal Consiglio Nazionale delle Corporazioni si è voluto, con la legge andata in vigore, ordinare e perfezionare le precedenti disposizioni legislative soprattutto per quanto riguarda l'unificazione del regime assicurativo in materia di maternità, l'estensione del medesimo alle donne che lavorano a domicilio e l'istituzione dell'assicurazione facoltativa.

Alla unificazione del regime assicurativo in materia di maternità si è giunti mediante la soppressione del sussidio di disoccupazione, la contemporanea elevazione del sussidio di maternità, il mantenimento del contributo annuale di maternità senza alcun aumento e la devoluzione, a carico della gestione contro la disoccupazione, di un contributo annuale a favore della Cassa Nazionale di Maternità.

Il sussidio di maternità è stato portato da lire 150 a lire 300 e perciò raddoppiato.

Il contributo annuo per l'assicurazione obbligatoria di maternità è di lire 7 (di cui 4 a carico del datore di lavoro e 3 a carico dell'operaia).

Premessi questi cenni di carattere generale è opportuno dare una breve illustrazione delle più importanti norme.

In primo luogo la legge stabilisce in quali condizioni sia obbligata la cessazione del lavoro alle donne:

a) durante l'ultimo mese che precede la data presunta della nascita del figlio;

b) durante sei settimane dopo la nascita del figlio;

c) per tutto il tempo che, dopo il mese di cui al comma a), precede la nascita quando questa ritarda.

Aggiungasi che l'operaia che attende il figlio ha diritto nel complesso a tre mesi complessivi di sospensione dal lavoro a partire dalla sesta settimana prima dalla data presunta della nascita del figlio.

Per tutto il periodo nel quale la donna operaia sta assente dal lavoro per causa della nascita del figlio, essa ha diritto che le sia conservato il posto di lavoro.

Durante i tre ultimi mesi che precedono la data presunta della nascita del figlio, la donna è esentata dal lavoro di trasporto e di sollevamento di pesi.

Come seguito della difesa del piccolo figlio della madre operaia, il datore di lavoro ha l'obbligo, per tutto il primo anno di vita del figlio, di concedere due periodi al giorno (durante l'orario di lavoro) alla donna per allattare.

Per questo scopo nei luoghi di lavoro dove siano occupate almeno 50 donne fra i 15 e i 50 anni di età, deve esistere una camera di allattamento, illuminata, ventilata e riscaldata nella stagione fredda.

È infine obbligatoria l'assicurazione per la maternità delle donne fra i 15 e 50 anni di età contemplate dalle leggi in questione, come pure di quelle che lavorano nel proprio domicilio, escluse le donne aventi una retribuzione mensile di lire 800.

È tutto un complesso organico di provvidenze per la tutela della vita e della salute del piccolo figlio nascituro o nato di madre operaia od impiegata.

Ma la tutela del figlio di donna operaia deve incominciare assai prima, quando cioè l'organismo della donna è ancora in via di accrescimento, nell'adolescenza: cioè nell'età nella quale l'organismo femminile, se non tutelato, ma abbandonato ai danni professionali del lavoro sregolato, potrebbe crescere debole, patito, inadatto alla funzione fondamentale della donna: la maternità.

Ed ecco la legge di cui abbiamo già detto occuparsi anche della fanciulla, della futura madre, per impedire i danni del lavoro disadatto (orari troppo lunghi, fatica muscolare eccessiva, avvelenamenti professionali, pericoli per istruzione insufficiente, sia generica, sia tecnica, ecc.).

L'età iniziale del lavoro è fissata a 14 anni e non mai prima; età che implica già una certa resistenza alle fatiche ed uno sviluppo organico e mentale sufficiente.

Le donne di qualsiasi età non possono essere impiegate nei lavori sotterranei di cave, miniere, gallerie; se minori di 16 anni non vanno adibite nel sollevamento di pesi, nel trasporto di pesi su carriole, ecc., se il lavoro si compie in condizioni disagevoli.

Le donne minorenni non possono essere addette alla pulizia e al servizio di motori, macchine, organi di trasmissione in moto.

Proibizioni per i minori di 16 anni sono contemplate, nella legge, per i lavori cinematografici (esclusi quelli educativi); nella vendita di bevande alcooliche (meno dei 18 anni); nei mestieri girovaghi.

Tutte restrizioni che tendono alla tutela sanitaria dell'organismo femminile in via di accrescimento e alla preparazione dell'organismo per la sua funzione naturale ventura.

Il Regime fascista, in questa, come in ogni altra forma di assistenza sociale, ha attuato un criterio di provvida tutela, che s'inquadra nella vasta opera di difesa e di rigenerazione fisica e morale della razza.

 

LIBRETTO DEL LAVORO

Le norme contenute nella legge 30 dicembre 1934 furono, a loro tempo, oggetto di ampia disamina e di esaurienti discussioni da parte della Commissione permanente per la revisione delle leggi sul lavoro, istituita presso il Ministero delle Corporazioni, che affermò la necessità della sollecita introduzione di un libretto professionale di lavoro, esprimendo altresì specificatamente il proprio avviso sui requisiti sostanziali e formali del libretto stesso, sulla sua estensione alla generalità dei lavoratori e sulle modalità del rilascio e delle registrazioni.

Successivamente i voti espressi dal predetto organo consultivo vennero elaborati e ridotti in norme del Ministero, che predispose lo schema di disegno di legge approvato dal Parlamento.

L'istituzione del libretto del lavoro s'inquadra nel sistema legislativo vigente per la disciplina della domanda e per l'offerta di lavoro, appare quindi evidente la pratica utilità del libretto per ottenere quella identificazione della vita professionale del lavoratore che contribuisce a dargli, nel campo del lavoro, il posto corrispondente alle sue dimostrate capacità, spronandone il progressivo perfezionamento, e che ad un tempo costituisce un presupposto essenziale per l'integrale applicazione della legge sul collocamento, in quanto evita le elusioni che attualmente si verificano a danno dei lavoratori disoccupati e che perturbano l'equilibrio nelle capacità di assorbimento del mercato del lavoro.

Esigenza questa che, nelle presenti particolari condizioni, assurge a valore, oltreché sociale, anche politico.

Con la adozione del libretto di lavoro si viene poi a realizzare il voto da tempo e costantemente espresso dagli uffici di collocamento e dalle associazioni professionali, le quali hanno sentito la necessità di prescrivere in vari casi, attraverso i contratti collettivi di lavoro, l'obbligo di documenti professionali idonei ad individuare le capacità e le qualità dei lavoratori. Ma perché detto documento risponda allo scopo è necessario che esso sia generale ed obbligatorio e che se ne renda difficile la sottrazione o l'alterazione.

Ond'è che deve estendersi a tutti i lavoratori, compresi i lavoratori a domicilio (il cui rapporto è finora sfuggito in gran parte ad ogni regolamentazione giuridica), pur con gli adattamenti necessari alle esigenze insite alla particolare natura del rapporto. Per rispondere poi alla necessità della conservazione del documento e per rendere agevoli le registrazioni da inserirsi in esso, si è prescritto che la custodia del libretto sia affidata al datore di lavoro dal quale il prestatore di opera dipende, pur riconoscendo a questo la facoltà di prenderne visione in qualunque momento. Tale facoltà di esame è stata inoltre riconosciuta, per i casi ove sia sorta controversia, anche alla Associazione dalla quale il lavoratore è rappresentato.

Il complesso delle indicazioni da annotarsi nel libretto si presenta come un tutto armonico e adeguato al raggiungimento delle finalità a cui si ispira il provvedimento, diretto a identificare i lavoratori e la loro vita professionale favorendone la selezione secondo i principi della Carta del Lavoro e facilitando la formazione del rapporto di lavoro.

Data la importanza, anche sotto il riflesso giuridico, di tale documento, la legge, indipendentemente dall'esercizio della azione giudiziaria, prevede una spedita procedura amministrativa per la rettifica o la sospensione delle annotazioni.

Il libretto si palesa altresì utile, agli effetti della tutela patrimoniale dei lavoratori, in quanto da esso si possono desumere elementi di prova su alcuni importanti punti del rapporto di lavoro, quali l'epoca di inizio e di cessazione di esso, l'ammontare e la corresponsione della retribuzione.

 

IGIENE DEL LAVORO

L’igiene del lavoro è stata disciplinata con l'approvazione del regolamento generale, avvenuta col R. decreto 14 aprile 1927.

Disposizioni precedenti riguardano industrie speciali quali ad esempio quelle delle conserve alimentari e quella dei fiammiferi. Il mezzo più efficace dato alla vigilanza del regolamento predetto è quello indicato dall'art. 40 del medesimo. Per esso chiunque intenda "costruire, ampliare od adattare un edificio ad un locale per adibirlo a lavorazioni industriali cui debbono presumibilmente essere addetti più di cinque operai" è tenuto a darne notizia al competente Circolo dello Ispettorato corporativo.

È questo un mezzo di vigilanza inteso ad evitare il sorgere di stabilimenti nei quali possa presentarsi il caso di difficile o impossibile applicazione delle norme igieniche obbligatorie. La norma relativa dovrebbe avere pertanto la più rigida applicazione poiché essa si presenta come il presupposto spesso indispensabile per l'applicazione delle altre disposizioni del genere.

L'Ispettorato ha facoltà di prescrivere modificazioni agli impianti notificati, tenendo presenti oltre che la tutela della salute dei lavoratori, l'incolumità del vicinato, in vista degli interessi del quale agirà d'accordo con il medico provinciale.

Tale disposizione, per l'oggetto che considera, riguarda il lavoratore solamente in via mediata. Altre norme del regolamento l'interessano in modo più diretto. Tali sono, ad esempio, quelle relative ai mezzi di protezione e di difesa personali che il datore di lavoro è obbligato a fornire e il lavoratore ad usare ed a curarne la conservazione.

Per gli accertamenti relativi a tali disposizioni il mezzo fornito all'autorità vigilante è rappresentato dalla facoltà, che la legge le concede, di accedere nei luoghi di lavoro e nelle relative adiacenze, di sottoporre a visita medica il personale occupato e di chiedere qualunque notizia gli occorra, comprese quelle che ritenga necessario di domandare su processi di fabbricazione, relativamente ai quali è tenuta però al mantenimento del segreto. Il regolamento generale per l'igiene del lavoro industriale e agricolo contiene norme relative all'igiene nelle aziende industriali e commerciali: segnalazione e custodia di medicazione, medico di fabbrica, altezza, cubatura, superficie, locali semi-sotterranei, copertura, pavimento, pareti ed aperture, illuminazione, temperatura, sviluppo di vapori, ricambio dell'aria, difesa dell'aria dagli inquinamenti con prodotti nocivi, acqua, pulizia dei locali, sedili, rumori e scuotimenti, sistemazione dei terreni scoperti dipendenti dai locali di lavoro, depositi di immondizie, di rifiuti e di materiali insalubri, latrine e orinatoi, bagni, spogliatoi, refettorio, locali di ricovero e di riposo, camere di allattamento, dormitori stabili, dormitori temporanei, mezzi di protezione e di difesa, disposizioni speciali relative al lavoro dei fanciulli, dei giovani e delle donne, nuove costruzioni.

Disposizioni relative alle aziende agricole: abitazioni e dormitori, stalle e concimaie, acquai e latrine, acqua, preservazione dalle malattie.

Dopo l'approvazione del regolamento generale, avvenuta con R. decreto 14 aprile 1937, n. 530, la disciplina dell'igiene del lavoro, pur non dando luogo ad alcun altro provvedimento legislativo di una certa importanza, è stata però oggetto di ampio ed accurato esame presso il Consiglio Nazionale delle Corporazioni, in sede di discussione sulla revisione della legislazione del lavoro. È stato proposto e discusso un nuovo schema di testo unico, che dovrebbe sostituirsi alle eccessivamente numerose disposizioni tuttora in vigore, ma che non ha ancora provocato l'emanazione di un apposito provvedimento legislativo.

 

PREVENZIONE DEGLI INFORTUNI SUL LAVORO

Alle norme concernenti la sistemazione dell'ambiente dal punto di vista igienico e sanitario, fanno riscontro le norme riguardanti la prevenzione degli infortuni, realizzata questa ultima mediante l'obbligo fatto ai datori di lavoro di attuare nelle aziende determinate misure protettive allo scopo di creare le condizioni più favorevoli per la incolumità dei lavoratori e ridurre al minimo il rischio infortunistico.

È evidente che, prima ancora di riparare i danni economici derivanti dall'infortunio, la legge ha il dovere di prevenirli.

Ogni azione dello Stato, quindi, che tenda ad intensificare l'opera di prevenzione, sia adottando le misure di natura tecnica che man mano la scienza nel suo progressivo svolgersi suggerisce, sia praticando forme di propaganda sempre più efficaci e suggestive tanto nei confronti dei datori di lavoro, quanto e soprattutto in quelli degli operai, deve essere considerata fonte di incalcolabili benefici economici per la riduzione del costo degli infortuni, e sociali per le benefiche ripercussioni sul benessere e sull'integrità fisica della razza.

Il legislatore si è preoccupato, sin dai primordi dello sviluppo economico della Nazione, di disciplinare con norme legislative così importante e delicata materia.

Vanno all'uopo ricordati:

a) La legge 17 marzo 1898, n. 80;

b) Il regolamento generale per la prevenzione degli infortuni nelle imprese e nelle industrie alle quali si applica la legge suddetta; regolamento approvato con R. decreto 18 giugno 1899, n. 230;

c) Regolamento per la prevenzione degli infortuni nelle miniere e nelle cave approvato con R. decreto 18 giugno 1899 n. 231;

d) Regolamento per la prevenzione degli infortuni nelle imprese e nelle industrie che trattano o applicano materie esplodenti, approvato con R. decreto 18 giugno 1899, n. 232;

e) Regolamento per la prevenzione degli infortuni nelle costruzioni approvato con R. decreto 27 maggio 1900, n. 205;

f) Regolamento per la prevenzione degli infortuni nello esercizio delle strade ferrate, approvato con R. decreto 7 maggio 1903, n. 209;

g) Regolamento per l'esecuzione della legge che costituisce l'Associazione Nazionale per il Controllo sulla Combustione, approvato con R. decreto 12 maggio 1927, n. 824;

h) Istituzione dell'Associazione Nazionale per la Prevenzione degli Infortuni sul Lavoro, approvata con R. decreto-legge 24 maggio 1926, n. 898-1206.

Con la costituzione dell'Associazione Nazionale per la Prevenzione degli Infortuni sul Lavoro, il Regime fascista fece un primo passo verso la sistemazione di così importante problema.

La Commissione nominata in seno al Consiglio Nazionale delle Corporazioni per la revisione della legislazione sul lavoro, nella relazione presentata all'Assemblea generale del Consiglio per la riforma della legislazione sugli infortuni del lavoro, faceva osservare che un grande perfezionamento nella materia della prevenzione degli infortuni sarebbe certamente rappresentato dal trasferimento delle funzioni di prevenzione dalla Associazione all'Istituto unitario assicurativo, come con piena soddisfazione hanno operato la Svizzera ed altri Stati, in modo da concentrare in un solo organo il controllo della funzione preventiva e di quella di risarcimento.

A parte infatti la convenienza diremo economica, che deriva agli istituti assicurativi dall'esercizio d'una ben predisposta prevenzione, è evidente che nessuno meglio e più efficacemente di questi istituti può svolgere una attiva opera preventrice, nel settore in cui ciascuno esplica la sua funzione. Essi nell'assistere i loro assicurati possono sempre fornire le circostanze in cui si sono verificati i danni subiti dai loro assistiti e i motivi a cui essi vanno ascritti, e quindi sono in grado, nei limiti del possibile, di predisporre i mezzi idonei per evitare il loro ripetersi. Bene perciò ha avvisato il relatore della riforma la necessità che la prevenzione infortunistica venga attuata direttamente dagli organi dell'assicurazione.

Saggiamente pertanto nella relazione viene affermato che un programma di perfetta tutela infortunistica deve venire impostato tenendo presente i tre comandamenti seguenti e cioè: prevenire, curare, indennizzare. Trinomio questo in cui mirabilmente è riassunto lo spirito veramente illuminato e moderno della riforma infortunistica, nel quale vengono enunciati, in ordine d'importanza, i compiti e le funzioni dell'assicurazione infortuni, quali essi risultarono dalla riforma ch'è stata proposta.

Particolare importanza, ai fini della prevenzione degli infortuni, ha il R. decreto-legge 28 dicembre 1931, il quale, disciplinando l'ordinamento e le funzioni dell'Ispettorato Corporativo, accentra nel medesimo le funzioni di vigilanza sull'applicazione delle norme relative al lavoro, all'assistenza e alla previdenza sociale, già affidate a speciali organi del Ministero delle Corporazioni, e per assicurare l'unità di controllo dispone la soppressione dell'Associazione Nazionale per la Prevenzione degli Infortuni (art. 15).

Le funzioni dell'Ispettorato consistono sia in una vigilanza generica, che può dar luogo ad un richiamo all'osservanza delle leggi con prefissione di un termine per l'osservanza, sia nell'emanazione di norme specifiche, le quali sono sempre esecutive se concernono la prevenzione degli infortuni.

Un importante settore di tale materia è disciplinato altresì dalla Convenzione internazionale del 27 aprile 1932 per la protezione contro gli infortuni degli operai addetti al carico e allo scarico delle navi, approvata con R. decreto 21 settembre 1933. Tale convenzione, dopo aver deliminato il proprio campo di applicazione indicando con la parola "operazioni" tutto il lavoro o parte del lavoro effettuato a terra o a bordo per il carico e lo scarico di ogni bastimento addetto alla navigazione marittima od interna — fatta eccezione per il naviglio da guerra — in ogni porto marittimo od interno, su ogni banchina o scalo o altro luogo analogo, e con la parola "lavoratore" ogni persona impiegata in tali operazioni, disciplina minutamente le necessarie garanzie di sicurezza delle vie e dei mezzi di accesso alle navi.

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