Parte seconda:

IL PROBLEMA ITALIANO

di Eros Capostagno

Abbiamo visto come l'Olanda, puntando sull'efficienza, sia riuscita nel volgere di un decennio a dotarsi di un sistema economico-produttivo altamente performante, non ostante il peso di una fiscalità e di oneri sociali piuttosto elevati, e con un'evasione dell'IVA sul lavoro artigianale molto spinta.

Pur essendo già in (positiva) controtendenza rispetto ai maggiori partners europei, gli olandesi si interrogano su come migliorare ancora le proprie prestazioni, con l'eliminazione di quelle barriere che attualmente costituiscono un ostacolo.

Parlando di "barriere", e dovendo introdurre un confronto con l'Italia, è bene chiarire che l'altezza di queste è spesso relativa, come nel caso del lavoro temporaneo (o "in affitto"). Se in Italia parlare di "lavoro temporaneo" suona ancora come una bestemmia per chi si è formato nell'ideologia dell'assistenzialismo statale o dell'inefficienza dei sistemi marxisti, occorre ricordare che esso esiste in Olanda da lunga data: l'obiettivo non è quindi quello di introdurlo, visto che c'è e funziona, ma di renderlo ancora più efficace. E' un po' come nel ciclismo: quando si parla di "salite" in Olanda ci si riferisce al massimo ad un cavalcavia un po' più alto degli altri, in Italia ci si riferisce allo Stelvio o al Mottarone...

Ecco, forse questa similitudine rende bene la differenza tra il sistema produttivo olandese e quello italiano. In effetti, le sei barriere individuate come i principali ostacoli allo sviluppo economico, sono esattamente le stesse che ostacolano lo sviluppo italiano, con la differenza che in Olanda ostacolano il raggiungimento dell'eccellenza, quale ulteriore traguardo di un circuito virtuoso, in Italia impediscono di uscire da un ciclo sostanzialmente regressivo e di iniziare una fase di sviluppo!

Senza contare che a queste barriere occorre da noi aggiungerne altre, in particolare quella costituita dalla criminalità organizzata che limita, di fatto impedisce o comunque soffoca, qualsiasi iniziativa economico-produttiva in quasi la metà del territorio nazionale.

Vediamo dunque come e perché un ciclo virtuoso viene inibito nel sistema Italia.

Flessibilità del lavoro

Crea un certo disagio confrontare l'Italia con altri paesi occidentali su questo tema. Il lavoro temporaneo esiste in Europa fin dagli anni 70, e non riguarda solo il lavoro manuale ma anche quello intellettuale (ingegneri,...). Da un lato esso consente ai giovani di entrare subito nel mondo del lavoro saltando la fase di ricerca "di prima occupazione", ed evita nei periodi di crisi una disoccupazione totale, dall'altro consente alle aziende di sopperire ai fabbisogni creati da momentanei picchi di lavoro e assenze temporanee dei propri dipendenti, senza grossi contraccolpi.

Possiamo testimoniare come a meno di un'ora dall'avviso di indisponibilità di una segretaria, una "intérimaire" sieda al suo posto e mandi avanti il lavoro. e come molte persone che per un motivo o per un altro non desiderano un lavoro fisso a tempo pieno, preferiscano la saltuarietà di questo tipo di impiego.

Ma a governanti e sindacalisti italiani, tutto ciò fa orrore: si tratterebbe di uno "sfruttamento" del lavoratore non più protetto dalle garanzie sindacali. Il gioco è scoperto: per costoro è meglio avere dei disoccupati, in qualche modo controllabili ed utilizzabili nelle piazze, che dei lavoratori sfuggenti al controllo di Cofferati & Co. Con la solita ipocrisia, gli interessi veri dei lavoratori e del sistema produttivo vengono sacrificati agli interessi politici della nomenklatura.

Gabbie salariali. A differenza di un piccolo paese come l'Olanda, dove pure esistono differenze tra una regione e l'altra, le differenze in termini socio-culturali, di costi e di infrastrutture, in Italia sono enormi. Insistere su contratti nazionali di lavoro, con uguali condizioni su tutto il territorio, è puramente demenziale. La chiave per capire certe leggi é la consapevolezza dei vertici sindacali del rischio di perdere potere contrattuale a mano a mano che le contrattazioni avvengano a livello locale o della singola azienda, non più quindi a Roma tra Governo e "Parti Sociali". Oltre naturalmente all'incartapecorimento ideologico dei nipotini di Lenin e Stalin. Tutto ciò si rifà alle stesse ipocrite motivazioni di cui sopra. Motivazioni ideologiche che, maturate negli anni 70 da quegli ideologi che si ispiravano a Marx, Lenin, Stalin, Mao, Castro, Ho Chi Min e Compagnia, impediscono ancora oggi una differenziazione meritocratica del salario o un salario agganciato alla produttività.

Le 35 ore per le aziende con più di 15 dipendenti. Fermo restando che se invece delle 40 ore attuali, potessimo lavorarne solo 20, personalmente saremmo ancora più contenti, non si capisce in base a quale dogma un'azienda non possa accordarsi con i propri dipendenti sui ritmi di lavoro più appropriati se non, appunto, per le motivazioni appena accennate. Oltre, ahimé, alla volontà "punitiva" degli attuali governanti verso certe categorie.
Così, per non indebolire le posizioni personali di Cofferati & Co., i piccoli imprenditori con 15 dipendenti saranno costretti a non espandere le proprie attività, rinunciare magari a delle commesse impegnative per non incorrere nella burocratizzazione governativo/sindacale del lavoro, il giorno che volessero assumere anche un solo dipendente in più.

Ostacoli alla creazione di nuove imprese

Costo del lavoro. L'alto costo del lavoro, conseguente anche alla rigidità di cui sopra, non può costituire un incentivo alla nascita di nuove imprese.

Fisco. Al costo del lavoro si deve aggiungere la voracità dell'apparato statale, che si spinge sino a prelevare col fisco più del 60% degli (eventuali) utili senza dare in cambio alcun servizio, anzi, creando ostacoli con disservizi vari, tipo le Poste (vedasi la denuncia presentata in questi giorni da 1600 aziende torinesi contro l'amministrazione postale).

Infrastrutture. Difficile creare impresa in un sistema non integrato. Per intenderci, è impensabile avviare un'azienda meccanica di un certo livello in una data zona, se poi non esistono in loco piccole aziende in grado di effettuare delle semplici operazioni di subfornitura a basso costo in supporto all'azienda principale, come ad esempio piegare delle lamiere (anni fa si dovettero mandare dalla Calabria fino a Padova in camion delle grosse lamiere solo per la piegatura, in quanto nella zona di Vibo Valenzia non esistevano ditte in grado di farlo!).

Crediti. Altra piaga dolente. Il sistema bancario italiano difficilmente incentiva con crediti la creazione di nuove imprese o sostiene aziende in temporanea difficoltà. La scandalosa proliferazione del fenomeno dell'usura in Italia, in particolare ai danni di commercianti e piccoli imprenditori, ne è un'altra tragica conseguenza.

Criminalità. E' superfluo parlarne. Anzi, diventa ipocrita parlare di investimenti o incentivi all'imprenditoria meridionale se non si risolve il problema della criminalità organizzata. Non solo non si può pretendere che qualcuno sia tanto sconsiderato da andare ad aprire un'attività in certe zone del Paese, fosse anche con incentivi (che comunque non ci sono), ma è anche impossibile per chi vive in quelle zone avviare un'attività senza entrare in collusione forzata con la criminalità.

Per farla breve, se uno volesse aprire un caseificio in Sicilia, dovrebbe necessariamente far arrivare il latte con camion cisterna dal continente (Nord Italia, Germania,...): ebbene, quel latte non passerà mai lo stretto di Messina e verrà rovesciato in mare, finché non si accetterà che il latte venga fornito dalle, e alle condizioni delle cosche dislocate lungo il tragitto. Questa è la realtà, fuori da ogni ipocrisia.

In queste condizioni, parlare di efficienza o di libera iniziativa è privo di senso, con buona pace di quei magistrati che riportano quotidiane epiche vittorie sulla mafia e sgominano i pericolosi mafiosi berlusconiani.

Quanto queste barriere dissuadano sempre più dal creare nuove imprese in Italia, è dimostrato dal fatto che nel 1997 il surplus di investimenti all'estero di aziende italiane è stato di 12 mila miliardi di lire, tre volte superiore alla media degli anni 1992-96, come ha osservato Fazio nella sua recente relazione annuale.

Bassa competitività

Vale anche per l'Italia l'analisi effettuata sull'Olanda, in particolare per il sistema bancario. Oltre all'annoso e mai risolto problema della trasparenza dei costi (oltretutto elevati) dei servizi bancari, non esiste in Italia una vera concorrenza tra Istituti diversi. E' augurabile che l'apertura di filiali di banche estere porti un vento innovativo nell'offerta di crediti e servizi alternativi: fatto sta che attualmente non si sbaglia di molto nel parlare di "cartello" bancario, controllato da certa nomenklatura di Stato e dalla cerchia dei pochi soliti noti (vedi finte privatizzazioni). I crediti vanno in certe direzioni preferenziali, su spinta politica e clientelare, e non certo per oculata amministrazione, come lo spaventoso ammontare delle sofferenze bancarie dimostra.

Nell'industria, eclatante il caso dell'Alfa Romeo, il cui acquisto da parte della Ford fu in qualche modo impedito e trasferito alla Fiat, privando il paese non solo degli investimenti americani ma anche di una sana concorrenza di mercato. Guarda caso, con rinvii e pretesti vari (l'ultimo, le bombe atomiche pakistane!) i poteri pubblici stanno impedendo la joint venture di un'azienda asfittica come l'Ansaldo con la coreana Daewoo, che ha la "sfortuna" di produrre anche automobili (vedasi l'articolo Ansaldo nel numero 34).

Nel trasporto aereo, solo ora si comincia ad avere un timido accenno di concorrenza, grazie soprattutto alle direttive comunitarie, con benefici effetti sulle tariffe, ma le resistenze sono ancora enormi.

Nel settore dell'informazione e delle telecomunicazioni, ove la liberalizzazione sta portando dei notevoli vantaggi economici agli utenti e dei progressi sensibili nella ricerca tecnologica (per offrire servizi migliori a prezzi inferiori) in tutti i paesi, ebbene in Italia l'arroganza del potere sta frenando in tutti i modi questo progresso, sia nella telefonia, ove il Governo decide di "dare la concessione" solo a enti pubblici da esso controllati, oppure ritarda pretestuosamente l'interconnessione con il resto della rete ai gestori privati "non amici", sia nello sviluppo della televisione digitale. Per non parlare della sempre rinviata, ma mai abbandonata pretesa di spegnere un canale televisivo privato non allineato (ma ci rendiamo conto? Invece di aumentare l'offerta di canali grazie ai progressi tecnologici, la si vuole addirittura ridurre per censure politiche!).

Capacità manageriali

Occorre distinguere. L'Italia è ricca di imprenditori che hanno mostrato e mostrano delle eccellenti capacità di muoversi su scala mondiale e di affermare la propria azienda ed i propri marchi, non ostante i vincoli e gli ostacoli interni cui abbiamo già accennato. Inutile citare i nomi. Rimane la stizza nel pensare a cosa potrebbero fare questi ed altri imprenditori, nell'interesse anche del Paese, se le succitate barriere artificiali venissero almeno in parte rimosse.

Accanto ad essi circolano i presunti "managers" di stato, che in generale altro non sono che "boiardi di Stato", piazzati ai vertici delle industrie pubbliche o finto-privatizzate, per eseguire gli ordini dei propri referenti politici o difendere gli interessi di partiti e lobbies. Certo, pretendere che costoro, abituati essenzialmente alle frequentazioni salottiere o alla lucidatura delle maniglie di qualche nobile casato, diano slancio e competitività alle aziende, è quantomeno ingenuo. Figuriamoci quindi se l'azienda si chiama "Italia"!

Terza categoria, quella dei presunti grandi industriali e/o velleitari finanzieri, che utilizzano la propria intelligenza ed influenza per arricchirsi sulle spalle dei piccoli azionisti e provocando con cinica determinazione chiusura o vendita di aziende, bancarotte e via dicendo. Eliminare queste barriere? Il discorso si fa pesante...

Incentivi alla ricerca di un lavoro

Sembra paradossale parlare di incentivi alla ricerca di un lavoro, in un paese ove la disoccupazione media sfiora il 13%, con picchi del 30% e del 50%, eppure è un dato di fatto che le offerte di lavoro di aziende del Nord rimangono a volte inevase, rivelandosi più conveniente per un disoccupato meridionale restare al paesello e "arrangiarsi", piuttosto che vivere con un salario al limite della sopravvivenza in una città del Nord. E' chiaro che l'incentivo non può venire che da un abbassamento del costo del lavoro che trasformi certi oneri sociali in un incremento netto di retribuzione del lavoratore. Né d'altra parte si stimola l'intraprendenza del giovane disoccupato prospettandogli una indennità di disoccupazione mascherata da lavoro "socialmente (in)utile", con la pratica cioé dell'assistenzialismo, che non fa che congelare un potenziale economico notevole (oltre a creare problemi sociali), come visto nel caso dell'Olanda.

E' raccapricciante pensare che gli attuali governanti, mentre distruggono lavoro e ricchezza con una politica di asfissia dei ceti produttivi, degna di quella praticata dai bolscevichi per eliminare i "koulaki" dopo la rivoluzione comunista del 1917 (v. Il libro nero del Comunismo, Mondadori, 1998), si sbiancano l'anima con spots pubblicitari destinati forse ai disoccupati, del tipo "non restare seduto, fai qualcosa, qualsiasi cosa, purché ti muovi...!" (v. la vignetta in questo numero: Disoccupati)

Edilizia e lavori pubblici

Il problema dell'edilizia italiana non è certo dovuto a restrizioni poste a salvaguardia del territorio. Purtroppo la devastazione edilizia è un fatto acquisito, ed i disastri continui che si verificano appena cadono due gocce di pioggia in più, nemmeno fossimo nel Bangladesh all'epoca dei monsoni, ne sono una prova tangibile. La crisi dell'edilizia è dovuta principalmente alla fiscalità che ha raggiunto livelli parossistici fin sulla prima casa, e che ha fatto crollare il mercato delle seconde case, divenute insostenibili per la gente comune.

Si assiste così ad un settore con un peso specifico notevole sull'economia del Paese, anche in termini di occupazione di medio e basso livello, ridotto alla paralisi, con tutte le negative ripercussioni sui settori ad esso collegati. E pensare che nella vicina Francia, per incentivare la costruzione di nuovi alloggi, si dà al proprietario la possibilità di detrarre l'80% (dicesi ottanta per cento!) del costo della costruzione dalla dichiarazione dei redditi, col solo impegno di affittare l'alloggio per almeno nove anni (Legge Perissol)! Così, mentre in Italia ci si trastulla ancora con l'equo canone più o meno mascherato, ci chiediamo per quale stupida ragione un risparmiatore italiano dovrebbe investire nel settore immobiliare italiano piuttosto che in quello francese!

Quanto ai lavori pubblici, Dio solo sa quanto ce ne sarebbe bisogno, non fosse altro che per porre rimedio agli scempi del territorio, di cui inondazioni, frane, incendi, mareggiate sono la tragica conseguenza. Così come i lavori relativi alle infrastrutture. Chi vive all'estero percepisce in Italia la realtà di un paese invecchiato dove, in assenza di qualunque segno di rinnovamento e progresso, si sopravvive cercando di rattoppare alla meglio i guasti che l'invecchiamento inevitabilmente provoca.

Incuria degli amministratori nazionali e locali, paura di finire nel mirino di qualche PM in libera uscita, ottusità di molte associazioni ambientaliste, volontà accentratrice dei poteri statali, che deresponsabilizzano quelli locali anche per gli interventi minori..., tutto ciò contribuisce a penalizzare un settore vitale per l'economia di qualsiasi paese.

Senza contare la scelleratezza di una classe politica che nega ai privati l'autorizzazione a realizzare in proprio (e quindi gestire) una linea ferroviaria veloce (Ventimiglia-) Genova-Milano, e preferisce lanciarsi sul progetto "Alta Velocità" onde poter controllare studi, consulenze, appalti e relativi mastruzzi. Col bel risultato di far correre macchine veloci e non ancora completamente messe a punto, su linee vecchie e malandate, con le note conseguenze di questi ultimi tempi.

In questo panorama, con un disperato bisogno di reperire fondi per poter procedere al riassesto del territorio, alla manutenzione degli impianti, alla modernizzazione delle infrastrutture, all'approvvigionamento energetico, il governo ha pensato bene di accettare il "protocollo Weigel" che impone all'Italia di utilizzare ogni centesimo disponibile per il risanamento del debito, invece che per investimenti e spese pubbliche!

Conclusione

Gli ostacoli che si frappongono ad una ripresa economica dell'Italia non sono di poco conto, ed è chiaro che chiunque si accingesse ad affrontarli, si troverebbe di fronte ad enormi difficoltà, qualunque fosse la sua personale capacità e tenacia. Quello che sconforta non è però la complessità dell'opera, quanto la constatazione che gli attuali governanti non hanno né la competenza, né la formazione ideologica per poter o voler abbattere queste barriere. Al contrario, proprio il connubio tra la formazione ideologica comunista degli uni e l'assuefazione alla gestione democristiana della cosa pubblica degli altri, fanno sì che ulteriori artificiose barriere vengano create sulla strada della ripresa economica, con l'aggravante di una demolizione progressiva delle basi stesse della fisionomia industriale del Paese, proprio mentre altre economie "mettono il turbo". Non ostante siano passati dieci anni dal crollo del muro di Berlino, i paesi dell'Est non riescono ancora a ricreare nemmeno un briciolo di quel tessuto socio-economico distrutto dal comunismo: è dunque imperativo fermare quest'opera di demolizione che Prodi, Bertinotti & Co. stanno compiendo, prima che i guasti diventino irreparabili.

Per riuscirci, è indispensabile che l'opposizione si mantenga compatta ed elabori chiare strategie su questi argomenti. Ci rendiamo perfettamente conto che il rinnovamento del Paese passa anche per il rinnovo di una Costituzione non più adeguata, comprendiamo dunque le perplessità e le divergenze che possono manifestarsi su punti importanti come le funzioni del Capo dello Stato e del Premier. Comprendiamo anche gli screzi e i malumori tra alleati allorquando si parla di collocazioni e amicizie politiche, centro, destra, destra sociale, centro liberale, cattolici ecc., ma non vorremmo che questo monopolizzasse l'attenzione dei leaders del Polo, facendo passare in secondo piano la drammatica realtà del Paese reale.

Sarebbe anche opportuno che l'opposizione preparasse una classe dirigente in grado di affrontare risolutamente le barriere summenzionate, il giorno in cui riprendesse in mano le sorti dell'Italia, senza farsi trovare impreparata come accadde incolpevolmente nel 1994.

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