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PENSARE IL CIBO
I PROCESSI DI APPROVVIGIONAMENTO
 NEL REGNO DI GRANADA NEL BASSO MEDIOEVO
©


SHORT VERSION OF - VERSIONE MODIFICATA DA: Teresa de Castro, «Il cibo nel pensiero: rifornimento alimentare nel basso Medioevo nel regno di Granada» Quaderni Medievali (Florence-Italy), 49, 2000, pp. 6‑42 (Thinking about Food: Food supply in Early Modern Kingdom of Granada)
Teresa de Castro © 2005-2008, dei testi e dello sviluppo graffico. Questo articolo e soggetto alle legge di Copyight


INDICE
INTRODUZIONE
I PRIMI ANNI
LA POLITICA ALIMENTARE
    1. Controllo della campagna e delle risorse economiche    2. Garantire l'alimentazione    3. La scelta del sistema di approvvigionamento    4.  Disposizioni sulla Vendita:  Controllo di pesi e misure * Caratteristiche del prodotto * Politica di Prezzi * Altri elementi
LO SPAZIO
IL TEMPO
I VENDITORI
IL CONSUMATORE
GLI ALIMENTI:Olio d'oliva * Carne * Caccia * Uova * Latte e Latticini * Miele * «Pane» o cereali da pane * Pane Cotto * Pesce * Sale * Vino * «Erbe»
CONCLUSIONI: Realtà Virtuali * Realtà semplici * Realtà soggettive * Regole generali


INTRODUZIONE

             In questo saggio vogliamo offrire una sintesi generale dello svolgimento dei processi di approvvigionamento nel regno di Granada fra gli anni 1482 e 1510. Tali date, situate in una fase di transizione tra Medioevo ed Età Moderna, possono essere ascritte a pieno titolo al periodo medievale nel regno granatino, in particolare con riferimento al nostro settore di indagine: dal termine a quo (data della conquista d'Alhama e dell'inizio «ufficiale» della Guerra di Granada), al termine ad quem (sotto la reggenza di Ferdinando il Cattolico), intercorsero 28 anni densi di trasformazioni politiche, sociali e culturali nelle terre del Sud peninsolare. In questi territori una società islamica, dotata di propri caratteri di sviluppo storico e sociale, fu sostituita da un tipo di organizzazione totalmente diverso, che impose i vecchi principi medievali, garanzia di uniformità e appartenenza alla società castigliana. Malgrado le intenzioni dei conquistatori castigliani, nei territori granatini questa forma di organizzazione risultava estranea; per di più in un periodo in cui nel resto dei regni peninsulari era ormai in atto un processo di allontanamento dal Medioevo. Ci siamo serviti principalmente delle informazioni fornite dalle fonti comunali: statuti, verbali, resoconti, ed altra documentazione municipale di difficile classificazione; ma anche dei documenti conservati nell' Archivio Generale del Regno a Simancas.
             Naturalmente, bisogna riconoscere che queste tematiche non possono essere affrontate isolatamente; farlo, equivarrebbe a studiare il funzionamento di un organo prescindendo dalle sue interazioni con gli altri. In questa sede daremo uno sguardo di insieme ai processi di approvvigionamento: un'analisi più articolata richiederebbe di studiare le connessioni fra questi e la politica economica del regno, l'organizzazione del Comune di Granada, le reti commerciali nazionali e internazionali, lo sfruttamento alimentare del bestiame e dell'agricoltura, e tanti altri aspetti che qui analizzeremo solo brevemente.
 


LA POLITICA ALIMENTARE

I PRIMI ANNI

        I fondamentali obiettivi della politica alimentare sviluppata nel regno di Granada durante i primi anni della guerra e della conquista furono cinque. Anzitutto intervenire direttamente attraverso i rifornitori reali nell'approvvigionamento delle fortezze e delle località appena conquistate, che si trovavano necessariamente svincolate dai rapporti con i tradizionali centri di rifornimento, ancora non sottommessi. In secondo luogo, offrire incentivi fiscali per attrarre il maggior numero possibile di coloni nelle terre che erano state totalmente abbandonate dai musulmani. Terzo, fornire l'inquadramento giuridico dal quale reimpostare la vita municipale; quarto, predisporre o riorganizzare le infrastrutture di distribuzione e produzione (magazzino comunale, botteghe, frantoi, mulini, forni, osterie, alberghi, taverne, trattorie, ecc.); infine separare fisicamente e culturalmente le comunità musulmana e cristiana. Questi saranno i pilastri che sosterranno e condizioneranno l'insieme delle norme successive.

POLITICA ALIMENTARE COMUNALE

        Accanto ai provvedimenti reali, dobbiamo considerare le misure adottate dai nuovi comuni granatini; questi si muovevano lungo alcune principali direttrici di intervento, allo scopo di realizzare alcuni obiettivi prioritari: primo, controllare lo sfruttamento della campagna e delle risorse economiche locali -secondo modalità di sfruttamento diffferenziate per i singoli prodotti-; secondo, garantire l’approvvigionamento dei generi di prima necessità; terzo, scegliere il sistema di rifornimento più adatto alle necessità del comune; infine, fissare le regole generali di vendita dei prodotti.

1. Controllo della campagna e delle risorse economiche
         Le fonti offrono spunti relativi agli aspetti dello sfruttamento ambientale a fini alimentari e alle ripercussioni sul sistema economico, che in futuro meriteranno uno studio specifico (2).
        1.1. Osserviamo, prima di tutto, una serie di mutamenti agrari, avvenuti allo scopo di soddisfare le necessità alimentari della popolazione secondo la percezione dei conquistatori. Lo sviluppo della viticoltura ne fu la conseguenza più visibile. Non accadde lo stesso per la cerealicoltura e l'allevamento del bestiame, perchè, sebbene la Corona cercasse di sviluppare la coltura estensiva dei cereali con o senza irrigazione e l'allevamento -di scarsa importanza nel periodo nazzarita-, il processo venne condizionato dagli obblighi acquistati dai monarchi durante la guerra di conquista e dalle esigenze poste dalla politica peninsulare e mediterranea.
         1.2. Quando si trattava di regolare lo sfruttamento delle risorse economiche (boschive, ittiche, venatorie, ecc.), le preoccupazioni «ecologiche» avevano un certo rilievo; la volontà di trarre profitto economico dalle ricchezze locali era infatti unita a quella di non danneggiare troppo l'ambiente. Così, era necessaria una licenza per cacciare, pescare, raccogliere frutti, ecc., e comunque ciò era sottoposto a una serie di vincoli; venivano infatti posti limiti riguardanti gli spazi entro cui esercitare tali attività, i periodi in cui farlo e i mezzi da impiegare.
        1.3. Il fenomeno più interessante, però, fu l'apparente sopravvivvenza di alcune pratiche agrarie nei territori a maggioranza musulmana. Ad esempio: il consumo più elevato di olio è documentato nel Levante della provincia d'Almeria; la maggior parte dei venditori di uova erano moriscos; le località apicole erano le stesse del periodo anteriore, ecc. Nonostante la persistenza di pratiche e colture, non si può comunque parlare di continuità dei sistemi agrari: non possiamo infatti dimenticare che dopo la conquista si produsse un trasferimento dei mezzi di produzione (della proprietà e delle infrastrutture) in mani castigliane e che, nell'insieme,  gli orientamenti nello sfruttamento delle campagne mutarono in modo sostanziale. Tutto risponde, pensiamo, alla maggior lentezza delle trasformazioni agrarie nei territori rurali, dove non si assisté -se non lentamente- ai processi di colonizzazione, ripopolamento e redistribuzione delle terre, e dove non esistevano i privilegi goduti dai vicini cristiani. Non possiamo tralasciare il fatt che stiamo studiando i primi anni della dominazione castigliana e che nella documentazione posteriore viene confermato il cambiamento di indirizzo prodotto in ambito agricolo e mercantile, dovuto soprattutto all'intervento dei rivenditori al minuto, cioè degli intermediari. Per rintracciare un altro elemento utile a spiegare certi caratteri di permanenza, si consideri che i prodotti interessati da questo processo furono quelli che non subirono mai una forte pressione fiscale: ad esempio, uova e latte.
        1.4. Per finire, siamo di fronte al coinvolgimento diretto dei monarchi nello sfruttamento di alcune risorse molto redditizie, specialmente le saline e il mercato di frutti secchi: questo avveniva sia attraverso la proprietà diretta o l'imposizione di un monopolio reale (nel caso delle saline), oppure tramite un rapporto preferenziale con i mercanti, italiani in primo luogo (incaricati del commercio dei frutti secchi), e attraverso la forte pressione fiscale su queste attività (in entrambi i casi). I re non si compromisero così strettamente quando si trattava di tassare le attività redditizie per l'intera comunità, lasciando che di questo si incaricassero i comuni mediante il sistema di scambio, la riscossione dei diritti sull'esportazione e lo sfruttamento economico dei territori dipendenti dalla loro giurisdizione.

2. Garantire l'alimentazione
        La politica anticrisi approntata dai comuni granatini era fondata sul duplice divieto di esportazione della produzione comunale e di importazione dei prodotti forestieri, e sul controllo degli intermediari e dei prezzi. Si trattava dunque di una politica chiaramento ultraprotezionista. Tuttavia, la maggior parte delle norme municipali sul rifornimento colpiva una realtà che veniva quasi sempre controllata a posteriori; il controllo non si esercitava a priori, visto che solitamente il comune prendeva provvedimenti solo quando i problemi apparivano manifesti, in epoca di carestia o quando le frodi erano evidenti. Le due grandi eccezioni furono per i cereali e il pane, poichè costituivano la base dell'alimentazione e la loro mancanza avrebbe potuto generare problemi sociali o di ordine pubblico.

3. La scelta del sistema di approvvigionamento
        Il comune tentò sempre di ridurre al minimo il suo intervento nelle operazioni concrete di rifornimento, affidando questo compito a singoli o a gruppi (obligados/estanqueros e fiadores), in modo che, scelti questi, doveva soltanto occuparsi di vigilare per mezzo dei propri funzionari. Così, la obligación (obbligo) e l'estanco (monopolio) furono le modalità preferite per rifornirsi di carne, pesce fresco e salato, vino, pane, formaggio, ecc. (3). Entrambi i sistemi venivano sfruttati tramite il metodo dell’appalto ed erano fissati di solito con un anno di anticipo (fra Pasqua d'Uovo e Carnevale successivo): grazie ad essi venivano determinati prezzi, tempi e prodotti. Gli incaricati (obligados o estanqueros) erano di solito una o più persone che nei documenti appaiono ripetutamente come postores (migliori offerenti) o garanti, fatto che dimostra la loro appartenenza alla élite socioeconomica; essi erano dei veri e propri professionisti del rifornimento e non persone dedite saltuariamente a questi affari. Per attirare obligados ed estanqueros i comuni offrivano facilitazioni economiche (concessioni di prestiti incluse), infrastrutture per esercitare il loro mestiere, promesse di un trattamento personale preferenziale, oltre ad altri vantaggi; i rischi da affrontare erano numerosi, perciò occorreva offrire contropartite attraenti come incoraggiamento. Insieme all'affittuario stavano i suoi garanti, i produttori e i mercanti, veri artefici dei processi di approvvigionamento, che delegavano a dipendenti sotto contratto le attività pratiche: uccisione, sfruttamento, preparazione, e vendita diretta.
        Quando non fu possibile contare sul lavoro di questi «delegati», il comune assunse il controllo diretto di tutto il processo e si servì del registro (4), usato almeno per la carne, il vino e il pane, e del lavoro di alcuni delegati municipali (diputados, fieles, ecc.) al quale si aggiungeva sempre l'intervento diretto dei produttori e dei mediatori.

4.  Disposizioni sulla Vendita
        Le disposizioni sulla vendita non apparivano differenziate per i diversi prodotti e possono essere classificate in tre grandi gruppi, presenti ovunque nelle fonti:
4.1. Controllo di pesi e misure. La volontà dei Re Cattolici e dei loro predecessori di uniformare pesi e misure in Castiglia fu un chiaro insuccesso. Si mirava principalmente a favorire le riscossioni che garantivano di arricchire le casse municipali, con chiare finalità fiscali. Anche l'interesse a proteggere il consumatore da inganni, frodi e disordini costituiva un elemento importante. Tutto ciò si rifletteva nell'insistenza sull'obbligo di vendere a peso e non «a occhio», «a piatti», ecc., e di dare pesi giusti, che fossero cioè d'accordo con il peso-tipo comunale e che fossero stati sottoposti all'esame periodico e all'approvazione degli ispettori locali. Troviamo inoltre numerose norme di carattere generale: ogni prodotto doveva essere venduto con la misura corretta, i liquidi secondo il modello del vino di Toledo, e i cereali ed altri aridi secondo quello di Avila; in alcuni casi viene indicato anche il materiale più adatto (pietra o legno per i cereali, rame o argilla per il vino, argilla per il miele, ferro per la libbra da carne), il modo di usarli (appoggiandoli sul pavimento e non sul corpo) oppure la proibizione (o l'obbligo) di utilizzo di diversi strumenti di misurazione (bilance, imbuti, ecc.).
4. 2. Caratteristiche del prodotto. Le disposizioni sulla qualità avevano lo scopo di garantire la «originalità» degli alimenti venduti, in maniera che ci fosse corrispondenza tra aspettative del consumatore e prodotto acquistato. Venivano stabilite regole precise sulla macellazione, sulla cattura di alcune specie animali e sulla conservazione e vendita dei diversi prodotti per adeguarli a parametri di buona qualità o almeno per evitare che fossero posti in commercio prodotti danneggiati, alterati o contaminati.
4.3. Politica di Prezzi. I prezzi, fissati direttamente dal comune per mezzo del calmieramento o del registro, o indirettamente attraverso gli obligados e gli estanqueros, erano comunque sottoposti alle variazioni che il comune reputava necessarie per il bene pubblico. La ricerca del giusto prezzo significava provare a ridurre al minimo le fluttuazioni ed evitare i problemi che potessero generarle; si doveva perciò contemperare esigenze diverse: offrire un margine sufficiente -ma non eccessivo- di profitti per incoraggiare gli approvvigionatori; soddisfare le necessità fiscali del comune (fissazione di imposte sulle derrate come, ad esempio, la sisa (5); tenere sotto controllo la speculazione o qualsiasi gioco di interessi.
        Nei periodi di carestia si ricorreva al calmieramento dei prezzi da parte del comune o dell’autorità reale allo scopo di limitarne la crescita incontrollata. Allo stesso tempo, si toglieva temporaneamente il divieto di entrata dei prodotti forestieri e si domandava soccorso ai più importanti centri produttori regionali. La maggior parte delle crisi documentate provocate dalla mancanza del prodotto nel mercato può quasi sempre essere imputata agli stessi motivi: perché favorendo il produttore rispetto al venditore si stimolavano indirettamente le frodi; per la speculazione e l'accaparramento da parte di intermediari e commercianti; e anche -ma di rado- per lo stesso intervento dei sovrani, come accadde dopo la Prammatica dei cereali del 1502. L'effetto di questa politica interventista nelle crisi di origine non speculativa fu che, pur esistendo un rapporto diretto fra la scarsità del prodotto e il prezzo di mercato, questo risultava non proporzionale.
4.4. Altri elementi. Oltre a questi tre fondamentali elementi troviamo a volte descritti dettagliamente i luoghi di smercio (numero e localizzazione), il calendario e gli orari di vendita.
 

LO SPAZIO

        Il mercato e le botteghe che ne facevano parte costituivano il nucleo commerciale delle città e dei borghi rurali del regno. Il mercato non era soltanto il centro nevralgico per gli scambi commerciali, ma anche un luogo di socializzazione fra uguali; anche i musulmani avevano un luogo deputato al commercio, identico ma rigidamente separato da quello dei cristiani.
        La riorganizzazione dello spazio pubblico e commerciale avvenuta dopo la conquista mantenne la plaza, cioè il mercato situato nella piazza pubblica, come un elemento di significato polivalente per lo sviluppo della città. Essa era prima di tutto elemento di attrazione per i coloni; infatti, accanto ai privilegi generali, ad alcune città (Ronda, Malaga, ecc.) fu anche concesso di fare mercado franco, vale a dire di tenere un mercato settimanale nel quale le compravendite erano esenti da imposte. Questo rappresentava un incentivo per attrarre coloni e per facilitarne l’alimentazione e la sopravvivenza, grazie alla sicurezza di smerciare i loro prodotti e scambiare o comprare i generi alimentari a un prezzo più basso. La plaza era, in secondo luogo, un centro fiscale; l’organizzazione del mercato era legata a una chiara volontà dei comuni di stabilire punti di vendita centralizzata al fine di ottenere una ripartizione omogenea dei generi alimentari di prima necessità fra tutti i negozi, controllare i processi di scambio e il pagamento delle imposte sulla compra-vendita, e di evitare la concorrenza con altri luoghi di vendita. L’accentramento spaziale degli scambi, infatti, favoriva le botteghe pubbliche e attirava i mercanti, che gestivano come affittuari del comune sli smerci pubblici. È possibile che l’organizzazione centralizzata del mercato costituisse dunque un elemento di attrazione per i venditori, disposti a questa condizione a lavorare come incaricati commerciali del comune, rinunciando magari ai maggiori guadagni connessi all’esercizio privato del commercio. Il mercato accentrato favoriva inoltre la riscossione delle tasse da parte degli esattori comunali e reali; ciò spiega l'opposizione dei comuni al trasferimento della popolazione dal centro urbano ai sobborghi. In terzo luogo, la plaza era strumento di segregazione religiosa: nei luoghi dove coabitavano musulmani e cristiani c'erano infatti piazze/mercati separati, rigidamenti chiusi; i mercati dei cristiani inoltre beneficiavano della politica di esenzione fiscale messa in pratica dai Re Cattolici, quelli dei musulmani no. Infine, la centralizzazione del mercato favoriva la difesa militare delle popolazioni appena conquistate (soprattutto di quelle delle località costiere): era infatti più facile difendere la città se gli abitanti organizzavano la loro vita intorno alla piazza centrale, e quindi nel centro urbano, e non abitavano e smerciavano nei sobborghi.
        Il magazzino comunale (chiamato alhóndiga) fu il secondo elemento caratterizzante dei processi di rifornimento dopo la conquista. Il magazzino era il centro distribuitore e fiscale più importante del sistema di rifornimento urbano; in esso transitava un volume di merci considerevole, si effettuava il controllo rigoroso del loro peso, si provvedeva alla custodia e alla distribuzione dentro e fuori la città. Lo scopo era favorire l'arrivo di generi di prima necessità (specialmente cereali) nel corso dell’anno e vigilare sull’attività dei piccoli e grandi commercianti. La alhóndiga era anche il luogo dove arrivavano i prodotti delle città vicine e dei territori da loro dipendenti, quindi il luogo di accumulo e il centro fiscale dell’intero commercio interregionale. Il magazzino era, in secondo luogo, un forte elemento di rappresentazione culturale; possiamo dire che il magazzino rappresentava per l'approvvigionamento quello che la consacrazione di moschee era per la politica religiosa. Sappiamo che a Granada il nuovo magazzino, chiamato alhóndiga Zayda, fu costruito su istanza dei sovrani, all'interno della politica di segregazione culturale e religiosa da loro messa in pratica, come elemento di opposizione alla alhóndiga Yadida degli andalusi; questo carattere viene rafforzato dal fatto che l'arcivescovo di Granada propose che fosse chiamata alhóndiga cattolica.
        Pensiamo che l’individuazione di precisi luoghi di vendita e le proibizioni/autorizzazioni allo smercio dipendessero da circostanze precise: in particolare dalla coincidenza del concetto di «pubblico» con quello di interesse comune e dall’identificazione di entrambi con il fisco; in modo speculare, dall’abbinamento del concetto di «privato» con quello di interesse particolare e con la frode. Questo spiegherebbe perché era considerato legale fare acquisti nella piazza o al mercato centrale ma non nelle case, nelle taverne, nelle trattorie. Una situazione intermedia potrebbe essere quella degli alberghi e delle osterie perché, sebbene fossero locali pubblici, le persone che li frequentavano lo facevano per ricevere servizi tipici di uno spazio privato: avere un letto, un tetto e del cibo. Questo dava loro un carattere di servizio pubblico che, comunque, non impedì che divenissero anche luoghi privati di smercio. Non godevano della stessa considerazione taverne e trattorie, forse per il tipo di avventori (lavoratori, scapoli, ubriachi e a volte prostitute); a queste fu soltanto permesso di offrire piatti cucinati. Gli amministratori sapevano che le loro proibizioni erano molte volte trasgredite (infatti non esisteva un sistema coercitivo che facesse rispettare il divieto). Tuttavia, le autorità comunali ebbero successo nell’intento di offrire un ritmo di vita regolato, vale a dire un ritmo di vita dove non ci fossero troppe oscillazioni economiche e dove fosse ridotto lo scontento sociale.
 

IL TEMPO

        Gli orari di apertura degli esercizi dipendevano, qui come altrove, dai due assi della misurazione del tempo del Medioevo: il sole e il suono delle campane. Pescherie, macelli, panetterie, pese pubbliche e altri luoghi di vendita aprivano solitamente un'ora prima dello spuntare del giorno e chiudevano al tramonto. Con l'Avemaria aveva inizio una pausa per permettere all'incaricato del negozio di andare a mangiare, per poi ritornare all'ora del Vespro. Per i restanti negozi non abbiamo trovato indicazioni chiare, sebbene non ci sia dubbio che gli orari di vendita erano analogamente regolati secondo i criteri appena descritti. Il calendario liturgico scandiva, ovviamente, l'insieme del ritmo commerciale, e le principali festività religiose condizionavano l'inizio e la fine dei periodi d'appalto degli rifornitori, e logicamente dei tempi del consumo di carne o pesce.
 

I VENDITORI

        I venditori formavano un gruppo eterogeneo di persone dedite a vendere per sé o per conto di altri: accanto agli incaricati comunali all'approvvigionamento, figuravano anche i venditori che lavoravano come delegati dei proprietari delle infrastrutture commerciali, fossero queste del comune o meno. Tutti apparivano come professionisti dai metodi molto efficaci, che cercavano di soddisfare le necessità dei compratori ma anche di ottenere benefici attraverso la frode. Erano persone dotate di un particolare temperamento, segnato a volte dalla scortesia, dalla facilità a mentire e accampare scuse di fronte alle autorità e a ingannare i clienti, dalla versatilità e dall'abilità nel trattare con altri addetti del settore alimentare. Attira l'attenzione, anzitutto, la divisione sessuale dei compiti nello smercio o vendita a grido dei prodotti (troviamo pescivendole, venditrici di strada, verduraie, fruttivendole, fornaie ed altre), che riproduceva su scala commerciale le attività tradizionali del lavoro femminile: impastare e cuocere pane, ad esempio. Rimanevano in mani maschili, invece, le attività che avevano a che fare con la macellazione, con mansioni organizzative, con l'attività di mediazione, il trasporto o il controllo delle macchine: macellai, pescatori e pescivendoli obligados, scorticatori, carrettieri, ecc.
 Ristoratori, albergatori e osti, anche se non autorizzati, rientravano de facto nel circuito di vendita degli alimenti; appaiono sempre spinti dalla volontà di soddisfare le richieste della loro clientela, alla quale offrivano piatti cucinati con prodotti di prima qualità (anche se molte volte l'uso di questi prodotti era illegale). I rivenditori al minuto, la cui presenza era considerevole nelle località granatine già in quegli anni -a partire gli anni Venti-Trenta del Seicento diverranno poi figure determinanti-, non erano semplici venditori, ma si occupavano soprattutto di acquistare alimenti nei centri di produzione per rivenderli o accaparrarli in attesa di congiunture favorevoli; nei documenti il rivenditore è sempre descritto come un lavoratore antipatico e a volte addirittura odiato, ma allo stessso tempo come figura imprescindibile o almeno inevitabile per il commercio locale.
 

IL CONSUMATORE

        Il regolamento comunale, direttamente o indirettamente, ebbe sempre lo scopo di difendere il consumatore dalle frodi e di garantire un approvvigionamento regolare. Certamente le rivolte sociali più importanti appartenevano ai secoli precedenti, ma non erano così estranee al regno di Granada. I rapporti con la comunità musulmana (che minacciava ribellione) erano delicati e tesi, ed avrebbero potuto degenerare a causa della mancanza di cibo e dei generi di prima necessità; l'episodio che condusse nel Natale del 1499 alla conversione generale ebbe fra le motivazioni proprio la mancanza di cereali. Inoltre, i nuovi coloni si trovavano di fronte a una situazione delicata, poichè quelle franchigie e mercedi concesse dai monarchi nei primi anni in molti casi non erano state rispettate; i coloni furono così tenuti al pagamento di tributi, benché inizialmente fosse stata loro concessa l’esenzione fiscale. La delusione dei coloni poté essere tenuta sotto controllo solo garantendo loro la sicurezza sul piano alimentare. In questo modo, la sicurezza alimentare diventava un elemento di garanzia della pace pace sociale e religiosa. Tutto ciò spiega una serie di misure generali che limitavano l'uscita dei generi alimentari dalle diverse località, la loro vendita a forestieri, la rivendita dei prodotti indirizzati al consumo urbano o la limitazione della vendita ai professionisti del cibo con lo scopo di riservare ai singoli territori lo sfruttamento delle proprie risorse economiche.
        L'analisi dei codici mentali alimentari e della loro plasmazione è uno degli argomenti più interessanti per mettere in evidenza la stratificazione sociale esistente. L'oligarchia urbana si serviva dell’organizzazione comunale anche per favorire i propri interessi alimentari; in questo modo l'élite cittadina riusciva ad assicurarsi quello che ad altri era precluso: che il cibo non mancasse mai dalla propria tavola nelle quantità e qualità desiderate, anche nei periodi di carestia. Le preferenze alimentari dei ceti dominanti condizionavano le norme in materia di approvvigionamento; venivano emanati statuti ad hoc, talvolta in contrasto con la normativa di carattere generale, per garantirsi le migliori carni, cacciagione e pesci. Fu con riferimento a questi tre alimenti che i ceti dominanti mostrarono i loro desideri di differenziazione e non, ad esempio, per il tipo di pane (che pure da altre fonti sappiamo ricco di varianti).
        Diversa fu la situazione affrontata da mudéjares e moriscos dopo la conquista. Il regolamento applicato dalla Corona ebbe conseguenze sulle abitudini e sui comportamenti di entrambe le categorie. Possono essere sottolineati tre fatti. Innanzitutto l'inclusione dei musulmani nelle reti commerciali e di approvvigionamento generali delle località di appartenenza, con l'obbligo di sottostare alle stesse regole in vigore per il resto della popolazione. In secondo luogo, la continuazione delle misure di segregazione sociale e spaziale anche dopo la conversione generale; ciò evidenzia come l'integrazione totale divenisse effettiva soltanto quando le nuove abitudini fossero pienamente assimilate, fatto che non si produsse ovviamente in maniera massiccia. Infine, la resistenza attiva e passiva dei musulmani granatini a macellare le carni secondo un rituale che era loro estraneo e a sottoporsi sempre alla volontà dei vecchi cristiani, che rendevano il rispetto della legge una vera e propria tortura (6).
 

GLI ALIMENTI

        Una approccio letterale alle fonti ci permette di dire che gli uomini di quegli anni mangiavano pane, carne o pesce e vino, e di rado verdure, legumi, frutta uova, latticini, e che tutto era condito o conservato con olio e/o sale. Evidentemente la varietà di alimenti era molto più ampia di quella qui descritta. La mancanza di notizie su gran parte dei singoli prodotti -che non sono menzionati o appaiono compresi in termini generici-, si può attribuire al fatto che il regolamento municipale non si soffermava ad esaminare i mezzi abituali di rifornimento, ma prendeva in considerazione solo le fonti di approvvigionamento che più interessavano o preoccupavano le autorità municipali. Di seguito illustriamo le informazioni sui diversi prodotti contenute nella documentazione analizzata.


Olio d'oliva.-

 L'olio è stato la sostanza grassa vegetale più usata nella cucina andalusa e una delle più importanti nella granatina. Nel primo caso era il risultato di una tradizione agricola ed economica che risaliva all'epoca romana più che un segno di identità religiosa (7). Questo nonostante i castigliani associassero il suo consumo alla tradizione culinaria musulmana, fatto che paradossalmente non impedì che l'olio fosse abitualmente utilizzato nel regno di Granada, dove si alternava senza problemi con il burro, il lardo o lo strutto; per i cibi conservati e i cibi quaresimali si preferiva sempre l'olio, ma anche per impastare il pane, «lubrificare» arrosti, ingrassare pasticci e friggere le frutas de sartén (8) descritti dai ricettari nobili.
        Sulla base delle informazioni fornite dalle fonti non è stato possibile stabilire il grado di continuità nel sistema di sfruttamento degli oliveti o meno. Viene riportato che le principali zone produttrici erano quelle orientali, territori a maggioranza musulmana. Non si può dimenticare, però, che accanto al processo di rottura prima accennato sembra essersi prodotto un cambiamento nella varietà di oliva colta (e quindi nella qualità e nelle caratteristiche dell'olio); questo spiegherebbe perché l'olio proveniente dall'Aljarafe, il più pregiato in al-Andalus, fosse proprio il meno valorizzato nel regno di Granada.


Carne.-

 Lo sviluppo dell'allevamento osservato dopo la conquista può essere considerato uno degli elementi fondamentali dei fenomeni di trasformazione agraria castigliana; esso fu legato alla ristrutturazione delle campagne come conseguenza della redistribuzione delle terre e della riorganizzazione dello spazio rurale intorno al comune, e all'espansione del processo di ripopolamento. Fino a non molto tempo fa esisteva un'opinione generalizzata secondo la quale questo progresso era il risultato di una volontà reale consapevole di potenziare l'allevamento rispetto all'agricoltura. Un'analisi di insieme indica piuttosto il contrario; ovviamente ci furono zone dove trionfarono gli interessi degli allevatori, ma in queste terre non si può parlare dell'aumento della transumanza e neppure di una maggior presenza della Mesta (9). Si potrebbe affermare che i beneficiari delle misure comunali e reali furono i grandi proprietari, dediti sia all'allevamento che all'agricoltura. Questa politica non fu estranea al sistema di approvvigionamento: anzi, l'esistenza di pascoli per il bestiame da macellazione può essere considerata uno dei suoi pilastri; così i fornitori di carne potevano incaricarsi direttamente del mantenimento del bestiame in attesa di macellazione, senza entrare in concorrenza con gli allevatori per lo sfruttamento delle aree da pascolo.
         Le carni commercializzate appartenevano a tre grandi gruppi: carni ovine, suine e bovine, con netto dominio delle prime. Tutte le carni erano soggette a una divisione e categorizzazione commerciale secondo la specie, l'età, il sesso, la varietà e il tipo di allevamento. La vendita si distribuiva nell'arco dell'anno tenendo conto di diversi fatti: durante la Quaresima si permetteva soltanto il rifornimento di montone e/o agnello per soddisfare le necessità dei malati; nelle festività patronali o laiche si organizzavano corride con uno o più tori, la cui carne era poi destinata al macello; la carne che avanzava il giovedì era salata per la consumazione a partire dal Sabato. L’esistenza di un giorno preciso per l'uccisione del bestiame proveniente dal contado, la presenza occasionale di animali lesionati o ammalati e lo svolgimento del rastro (una specie di mercato contadino del bestiame e della carne) completavano le possibili occasioni di compravendita. L'insieme di questi elementi dava luogo a combinazioni molteplici e creava una gamma estremamente varia di possibilità di acquisto.
        Tra le regole di vendita risaltano quelle riguardanti la vendita a peso delle varie parti dell’animale. Una norma di carattere generale vietava la vendita a peso delle viscere; potevano essere ammesse però delle eccezioni a questa regola, sulla base di considerazioni economiche (ad es. evitare di danneggiare le pelli), dietetiche (ad es. separare i pezzi poco digeribili, come i nervi), igieniche o mentali (ad es. l’attribuzione di un particolare valore a un tipo di carne pregiata si estendeva anche alle viscere). Le misure per favorire la disponibilità di carne sul mercato ed evitarne la scomparsa furono: l'emanazione di norme che permettevano ai lavoratori del mattatoio e del macello di prendere la quantità necessaria all'alimentazione loro o della loro famiglia, scongiurando così i furti; la limitazione della vendita dei migliori pezzi fuori dalla macelleria; l'adozione di norme per impedire l'accaparramento da parte dei venditori di piatti cucinati, interessati all’utilizzo di generi di prima qualità.
        Gli elenchi di prezzi disponibili evidenziano che il montone era anche la carne più costosa; seguono il capro castrato, il maiale e la mucca; in terzo luogo la capra, la pecora e il capro non castrato, e, infine le viscere; anche queste avevano una loro gerarchia, che dipendeva dalla valutazione della carne di origine, dal fatto che fossero pulite o meno, crude o cotte, ecc. Il montone, il capretto e il vitello erano, comunque, i più quotati. Il consiglio comunale stabiliva il prezzo delle viscere, delle carni mortecinas (cioè degli animali morti naturalmente) e di qualsiasi prodotto non soggetto alle regole di funzionamento del macello pubblico, quindi di tutti i prodotti venduti in negozi pubblici non direttamente gestiti dal comune o da suoi obligados.
 In quegli anni il consumo di carne si era andato diffondendo fra tutti i ceti sociali. Mettendo però in rapporto i salari di alcuni lavoratori con i prezzi delle carni che abbiamo a disposizione si può dimostrare come il consumo di carne non vada soppravvalutato: infatti, benché generalizzato, il consumo non si distribuiva uniformemente tra tutti i gruppi sociali.
        L'organizzazione dell'approvvigionamento considerava gli agricoltori non tanto come consumatori quanto come soggetti partecipanti al sistema dei rifornimenti. Il regolamento comunale sulla carne doveva specificare l’impiego e la destinazione degli animali da lavoro vecchi o di quelli feriti o ammalati. Dobbiamo ricordare a questo punto che l'immagine bucolica del contadino povero con un bue è in realtà un luogo comune, dato che l'acquisto di un animale esigeva esborsi monetari consistenti (10). In realtà, la necessità dell'agricoltore di ottenere denaro per il pagamento delle tasse e per perpetuare il suo modo di vita senza perdite prevaleva su altre considerazioni; andare al macello fu, anche per i contadini, la maniera abituale di acquistare la carne per l'alimentazione. L'insieme dei lavoratori urbani o semirurali si caratterizzava per il consumo di viscere e delle carni più economiche: capra, pecora e capro non castrato, carne mortecina e carni illegali, sebbene fossero riservati per loro alcuni tipi di cacciagione e maiali allevati da una o più persone.
        La carne era ritenuta portatrice di forza, quindi fu considerata insostituibile per fortificare gli ammalati. Attira l'attenzione, però, il fatto che durante la Quaresima fosse autorizzato il consumo delle carni di montone e non di quelle di galline o capponi, con cui si preparavano i tradizionali brodi: è possibile che si attribuisse alla più pregiata delle carni un valore fortificante superiore, ma si può anche pensare che ci troviamo di fronte a un pretesto dell'oligarchia cittadina per garantirsi l'approvvigionamento in questi periodi.
        Infine, troviamo i musulmani, il gruppo sociale che più soffrì per il regolamento sulla vendita e sul consumo di carne; prima della conversione generale i musulmani avevano i loro mattatoi e i loro macellai; successivamente furono costretti a sottomettersi a un insieme di complicate regole sull'uccisione degli animali emanate dalla Corona e dalla Chiesa che penalizzarono e, in ogni caso, condizionarono il loro consumo.
        Nella documentazione, accanto agli aspetti culinari trattati, si parla di salsicce, morcilla (salsicca nera preparata con sangue, grasso, cipolla e origano), brodi o stufati cucinati con pezzi di carne di media qualità, cavoli, melanzane e napi; e, per finire, pasticci fatti con pasta sfogliata farcita con carne tritata condita con zafferano, pepe e agrumi.


Caccia.-

 Negli ultimi anni del Medioevo la caccia fu un'attività molto regolamentata, soprattutto per quella parte che serviva ad aumentare le risorse alimentari della comunità. La nobiltà, da parte sua, elesse la caccia a divertimento e a simbolo della propria condizione, scegliendo pratiche venatorie particolari, come quella svolta tramite gli uccelli da preda.
 Il regolamento municipale era incentrato su tre tipi di misure: quelle che restringevano il luogo di caccia; quelle che stabilivano un periodo di divieto, coincidente in genere con il periodo di riproduzione (Carnevale-giugno/settembre); e soprattutto quelle che limitavano l'uso di alcuni strumenti da caccia in modo permanente (fili, reti, veleni, furetti) o temporaneo (fischi, urli, richiami, lumi, uccelli da caccia, buoi, balestre). Questi provvedimenti, almeno a un primo livello, avevano una serie di obiettivi: preservare luoghi di valore ecologico e/o economico ed eliminare pratiche che avrebbero potuto deteriorare l'ambiente naturale; non ridurre eccessivamente il numero di individui delle specie più pregiate; evitare l'uso di attrezzi che danneggiassero la cacciagione; e soprattutto controllare la caccia per garantire la presenza di selvaggina nel mercato centrale e quindi il controllo fiscale di questa. Come vediamo, gli aspetti alimentari erano quasi dimenticati, sebbene rappresentassero lo scopo ultimo di tutte le norme adottate.
        La caccia veniva esercitata legalmente soltanto dai cacciatori professionisti, specializzati nell'uso di uno o più strumenti. Il controllo esercitato dalle autorità su questa attività e sui canali di smercio della cacciagione non erano tuttavia sufficienti a evitare la caccia di frodo (soprattutto ad opera dei contadini) anche se esisteva un sistema di vigilanza svolto dai cavalieri del monte o da guardie campestri (11).
         Per quanto riguarda il consumo, sappiamo che di solito tra i mesi autunnali e invernali erano disponibili nei mercati o nelle macellerie conigli, pernici, cervi, cinghiali e altri piccoli uccelli, senza contare la possibilità di avere piatti di selvaggina in trattorie, taverne, alberghi e osterie del luogo.


Uova.-

 Parlare del consumo di uova nel regno di Granada è difficile, e lo stesso può dirsi in genere per ogni tentativo di studio basato sull'analisi delle fonti disponibili. Questo si può spiegare solo parzialmente con le caratteristiche proprie del prodotto, tipico di un'economia di autosufficienza; tale difficoltà potrebbe anche essere attribuita al fatto che il consumo di uova era poco importante, e quindi non occorreva regolarlo. Comunque, non è possibile parlare di un consumo massiccio, ma soltanto di un uso generalizzato fra tutti i ceti sociali.
        Negli anni considerati, i principali fornitori di uova erano i contadini residenti nei piccoli borghi suburbani, dipendenti dai centri urbani. Erano proprio questi i luoghi dove si concentrava la popolazione musulmana e nei quali, perciò, i ritmi del ripopolamento e della redistribuzione delle terre erano più lenti. Di solito erano direttamente i moriscos che, con cesti o canestri, andavano a vendere le uova in città, sia nella piazza che per le strade; la situazione mutò drasticamente nella seconda metà del Cinquecento, quando i rivenditori iniziarono il loro intervento massiccio nel sistema di rifornimento cittadino e diventarono intermediari fra i produttori contadini e i negozianti.
        Come prima in al-Andalus, le uova continuavano ad essere mangiate cotte o fritte, ed erano soprattutto di gallina. Nella cucina dei ceti nobili erano inoltre usate per amalgamare, ispessire, impanare, dare un colore dorato e per creare una crosta. Essendo di origine animale, il loro consumo era vietato e sostituito nei giorni di astinenza.


Latte e Latticini.-

 La preoccupazione dei comuni granatini di organizzare il rifornimento di latte non ha lasciato tracce nella documentazione. Ciò può essere spiegato semplicemente con il fatto che questo prodotto non fu mai sottomesso a una forte pressione fiscale; inoltre, come avevamo già notato nel caso delle uova, il latte rappresentava una voce di consumo significativa ma non troppo importante. Come nel caso precedente, la maggior parte del latte e i latticini arrivava dai borghi o dalle piccole latterie familiari extra muros.
        Fra i latticini troviamo la ricotta, la cuajada (latte cagliato non fermentato), il burro e soprattutto il formaggio di capra, pecora o mucca, fresco o stagionato. Il formaggio era cibo di magro e appare come un prodotto eminentemente di allevamento venduto normalmente nei negozi pubblici.


Miele.-

 Era il dolcificante più diffuso del Medioevo, sebbene negli anni considerati fosse affiancato dallo zucchero (12), la cui produzione era già molto sviluppata. Tuttavia, le fonti non ci parlano affatto di quest'ultimo e quando si occupano del miele è solitamente con riferimento alle arnie.
        Le cassette per le api si trovavano dappertutto, sebbene le regioni di maggior concentrazione apicola fossero quelle del Levante della provincia d'Almeria, l'Axarquía, i Monti di Granada e le Alpujarras. Il forte sviluppo dell'apicoltura in questi territori non si può comunque associare direttamente alla presenza dominante dei musulmani; infatti, anche se i territori citati erano stati importanti centri di produzione nel periodo nazzarita, dopo la conquista si era prodotto un trasferimento della proprietà delle arnie sia nelle località totalmente ripopolate che in quelle a maggioranza andalusa. Si era prodotta dunque una separazione tra gli apicoltori, che erano i meri titolari della proprietà -in genere costoro erano occupati in affari e uffici che nulla avevano a che fare con l'apicoltura- e gli sfruttatori delle arnie.
        Per quanto riguarda l'attività apicola, l'amministrazione municipale si era concentrata sulla regolamentazione tre aspetti: concedere o meno licenza di istallazione delle arnie; deciderne l'ubicazione; stabilire il periodo per iniziarne lo sfruttamento. Le arnie venivano situate prevalentemente in spazi boschivi o semiboschivi, scarsamente popolati, vicino a corsi d'acqua o a luoghi di coltivazione (data la maggior qualità e sapore del miele così ottenuto); i comuni fecero in modo che restassero lontane di almeno mezza lega dei campi, tentando così di proteggere colture redditizie come viti, alberi da frutto e ortaggi (i preferiti per avvicinare le cassette) fra l'inizio della maturazione e la loro raccolta.
        Il fatto che il miele sia menzionato in tutti i dazi del peso e dell'alhóndiga (magazzino comunale) ci offre elementi per ipotizzare quale fosse il volume reale della commercializzazione e del consumo del prodotto. Quello che invece non sappiamo è come veniva distribuito: se c'erano negozi specializzati, se si vendeva per la strada, ecc. Il miele si alternava e si abbinava con lo zucchero per la preparazione di confetti come il torrone, il dolce di cotogna, l'alfeñique (13), ed altre conserve di frutti e fiori. Inoltre si usava nella cucina raffinata come elemento correttivo di piatti acidi, salati o amari, come ingrediente di alcune salse, brodi, piatti speziati, bibite ed elettuari, ma anche per condire o cuocere alcune frutas de sartén.


«Pane» o cereali da pane.- 

La conquista del regno di Granada comportò la colonizzazione e lo sfruttamento cerealicolo dei territori di frontiera; in questi territori si produsse un chiaro aumento della cerealicoltura, ma nella maggior parte di essi le condizioni della conquista e del ripopolamento ne condizionarono lo sviluppo. Non c'è dubbio, tuttavia, che esistesse una volontà chiara di sfruttare il territorio in modo diverso e di potenziare la coltura dei cereali allo scopo di rispondere alle nuove necessità alimentari della popolazione: il caso più noto è quello del contado granatino delle Siete Villas, territorio ripopolato e riorganizzato per essere riconvertito in granaio della capitale del regno.
        Il ruolo della Corona nello sviluppo della cerealicoltura non sembra essere stato così decisivo né diretto come nel caso, ad esempio, della viticoltura; questa circostanza può essere spiegata dal fatto che la preoccupazione dei sovrani era determinata soprattutto da motivazioni politiche: fra queste il commercio del cereale era più importante che la produzione stricto sensu. Di fatto, l'interesse fondamentale dei Re Cattolici fu creare una struttura permanente di produzione e commercializzazione dei cereali destinata soprattutto a "rifornire" e sostenere i loro progetti politico-militari. L'affermazione, che potrebbe sembrare eccessivamente drastica, viene confermata dalla documentazione: questa mostra che la maggior parte delle licenze di esportazione erano concesse dai sovrani e non dai comuni, e che le licenze reali erano indirizzate soprattutto alle fortezze della costa granatina, interessate dalle campagne militari portate avanti nel Rosellón e nel Nord dell'Africa (Cázara, Orán e Mazalquivir), e al rifornimento delle città dei Paesi Baschi e della Corona d'Aragona (Maiorca, regno di Valencia, Napoli), nelle quali c'era carestia. Come spiegare allora l'aiuto a queste località e non a Malaga, che in questi anni aveva grossi problemi di approvvigionamento di cereale? Ciò dipende dal fatto che Malaga fu sacrificata per alimentare le città che avevano un interesse strategico per la politica militare dei monarchi. Inoltre, si mostrò decisivo l'intervento dei mercanti; non fu un caso, dal momento che i Re Cattolici avevano bisogno di loro per reperire cereali quando questi mancavano e per trasportarli; i sovrani, del resto, non potevano ignorare le richieste dei commercianti che facevano solitamente prestiti alla Corona.
        Possiamo affermare che la politica cerealicola attuata dalla Corona fu un chiaro insuccesso per due motivi: perchè, al di là dei disastri climatici, questa politica stimolava l'accaparramento e la speculazione, generando episodi di carestia, e inoltre perchè l'obiettivo principale di alimentare l'insieme della comunità non fu mai raggiunto.
        Per i comuni granatini, invece, l'approvvigionamento dei cereali costituì la principale preoccupazione; il sistema di rifornimento municipale aveva come perni l'organizzazione della produzione cerealicola, la vigilanza sui mezzi di produzione e l'amministrazione del commercio dei cereali e del pane.
        Le specifiche disposizioni agrarie trovate nella documentazione riflettono la situazione di alcune località, dove mancavano spazio o suoli adatti per la coltura dei cereali; in questi territori si facevano sforzi per coltivare anche i terreni precedentemente incolti e per provvedere all'irrigazione, oppure si lottava contro la sostituzione dei cereali con colture più redditizie (la vite, soprattutto). In effetti queste rappresentavano delle situazioni eccezionali: infatti la conquista castigliana aveva trasformato radicalmente l'organizzazione della campagna rispetto al periodo precedente, ponendo tra i principali scopi l'imposizione di una monocoltura cerealicola e dunque lo sviluppo della produzione del genere alimentare di prima necessità indispensabile per l'intero regno di Castiglia.
        Il controllo dei mulini e dei forni fu il secondo elemento-cardine della gestione comunale. Dopo la conquista, la concessione generalizzata di mercedi da parte dei Re Cattolici fece sì che la maggior parte di questi impianti venisse accaparrata dalla nobiltà. Tuttavia, il consiglio comunale aveva l'incarico non solo di affittare e gestire mulini e forni di proprietà del Comune, ma anche di controllare lo sfruttamento di quelli privati. Le disposizioni in materia miravano, fra le altre cose, a regolamentare il lavoro dei mugnai, dei fornai e degli incaricati del trasporto (acarreadores (14)); a evitare le perdite di farina o di impasto di pane; a ottenere una manipolazione corretta e igienica delle materie prime; e, infine, a regolare la vendita. Il mantenimento dei mulini, dei forni e di coloro che vi lavoravano era in parte finanziato con il pagamento della maquila (nel caso dei mulini) e della poya (nel caso dei forni): si trattava in entrambi casi di consegne di una determinata quantità di cereali o di pasta di pane offerta come pagamento per la macinazione o per la cottura. All'inizio venivano effettuate solo riscossioni in natura, in seguito si impose un sistema misto di pagamento in denaro e in natura a scelta del proprietario del grano o della pasta. Sulla determinazione delle rispettive quote (ammontare del pagamento in natura o del pagamento in denaro) influivano diverse variabili: la quantità di cereale o di pasta di pane consegnata (a una maggiore quantità corrispondeva una somma più bassa); distanza tra la casa del proprietario e il forno/mulino; modalità di trasporto (effettuato da un acarreador o meno, ecc.) Inoltre, ai mugnai di alcune località spettava in aggiunta il despolvoreo: cioè veniva loro consegnata parte della polvere di farina che si perdeva durante la macinazione e che non cadeva nel contenitore di raccolta.
        Il comune era incaricato inoltre della creazione e controllo del peso della farina e del suo ottenimento; ciò avveniva attraverso la cosiddetta Casa del Peso, nata allo scopo di vigilare sul peso e sulla qualità del grano e della farina, prima e dopo il processo di macinazione. Siccome il trasporto dalla casa o magazzino del proprietario al mulino e alla Casa del Peso era effettuato di solito dagli acarreadores, il regolamento cercò di garantire l'integrità dei sacchi, evitare il deterioramento del loro contenuto o l'adulterazione della farina con prodotti simili, e logicamente evitare o punire i furti di grano o farina.
        L'organizzazione del rifornimento cerealicolo, diversamente da quanto accadeva per altri prodotti, era incentrata essenzialmente sulla predisposizione di una politica di prevenzione delle crisi. Tale politica si serviva di un triplo sistema basato su: creazione del Pósito (magazzino comunale dei cereali) (15); obbligo di scambiare i prodotti che abbondavano in una data località (ferro, pesce, riso, ecc.) con cereali; pagamento di tasse di uscita il cui ammontare ingrossava le casse del magazzino. La scelta di queste misure comportò anche la creazione di un sistema complementare di vigilanza centralizzato nelle diverse porte di entrata e di uscita, affidato ai custodi delle porte. Queste misure furono applicate soprattutto nelle città costiere; nelle altre località furono adottate solo parzialmente, e talvolta ad esse si preferirono altri strumenti: l'importazione di cereali dalle principali regioni produttrici dell'Andalusia; lo sfruttamento delle terre poste sotto la giuridizione delle varie città il cui indirizzo agrario era stato previamente determinato.
        Nonostante questa politica preventiva, le carestie si manifestarono. Ai motivi strutturali (deficienze agricole, scarsità di terre, cattiva qualità del suolo) se ne aggiunsero altri congiunturali più decisivi: guerra, pirateria, disastri climatici, cattivi raccolti, accaparramento di cereali, esportazione eccessiva di cereali, e soprattutto la Prammatica reale del 1502, che in questo caso servì soltanto per accelerare gli effetti negativi della crisi. Le misure adottate per far fronte alla mancanza di grano erano di diverso tipo, ed erano destinate a inasprirsi con l'aggravarsi della situazione: divieto di esportazione; proibizione di rivendere o di uscire in strada a comprare; controlli informativi e registrazione delle riserve comunali di cereale; sospensione delle licenze di esportazione; controlli forzosi dei magazzini non comunali (signorili o ecclesiastici); sequestro di «pane» non comunale pagato ai proprietari secondo i prezzi vigenti; richieste di soccorso; concertazione con i commercianti, ecc. Quando non si raggiungevano risultati positivi, le logiche conseguenze della crisi erano il consumo di pani sostitutivi o addirittura la mancanza di pane.


Pane Cotto.-

 Il grano fu il cereale da pane per eccellenza; il pane fatto con il grano era considerato il più pregiato, anche se per la panificazione si utilizzavano molti altri cereali (orzo,  segale, (setaria italica) miglio, farro). Questi ultimi, al di là delle loro reali proprietà nutritive, erano considerati di scarso valore, poichè il loro consumo veniva associato ai periodi di crisi e all'alimentazione degli animali, o semplicemente per il fatto che di questi si esaltavano le virtù medicinali e non il gusto. Questi cereali (almeno l'orzo, il (setaria italica) e il farro), oltre che nei periodi di carestia, venivano consumati solitamente nelle terre più arabizzate, come Vera, Baza e Granada; come abbiamo altre volte accennato, non si può parlare di continuità con il periodo precedente ma soltanto di permanenza di pratiche di consumo poi destinate a scomparire o a trasformarsi profondamente negli anni successivi.
        Il pane presenta particolarità rispetto ad altri prodotti per quanto riguarda il prezzo. Esisteva un rapporto fra il prezzo del cereale e quello del pane, ma questo non era proporzionale, dato che i pani si vendevano per unità di prezzo fisso; così, quando il cereale diventava più costoso non aumentava il prezzo del pane, ma diminuiva il suo peso unitario. Possiamo affermare che siamo di fronte a un meccanismo psicologico che contribuiva a creare l'illusione di una scarsa mobilità dei prezzi del pane e dava la sicurezza illusoria di poterlo acquistare senza problemi. Questo fenomeno, totalmente originale all'interno del sistema di rifornimento comunale, si spiega con il fatto che il pane era il prodotto alimentare per eccellenza. Rapportando il prezzo del pane al salario giornaliero di un operaio possiamo dimostrare quanto elevato ne fosse il consumo, considerando che esso incideva sull'economia familiare per una quota del 32-38% del salario. Per quanto riguarda la qualità del pane, questa dipendeva da elementi oggettivi, come lo stato del cereale usato, il grado di cottura del pane e i giorni trascorsi tra la cottura e la vendita; in genere, i consumatori attribuivano importanza soprattutto alla qualità del cereale usato e ritenevano che il pane migliore fosse quello fatto con il grano. Non abbiamo trovato statuti che riflettano usi classisti o che parlino dei diversi tipi di pane, anche se sappiamo da altre fonti che esistevano parecchie qualità di pane (secondo il grado di finezza della farina, la mescolanza o meno di cereali, ecc).
        Di solito si portava a cuocere il proprio impasto ai forni, ma si poteva anche andare ai forni per comprare i pezzi fatti con la pasta della poya. È inoltre possibile che esistesse un mercato alternativo del pane, dove comprare pani stracotti, pani duri, pani fatti con grano o farina di cattiva qualità, pani preparati con cereali secondari, ecc. È ugualmente possibile, ma non ancora documentato, che i contadini più isolati avessero i propri mulini e forni nelle loro case.


Pesce.-

 Sappiamo che dopo la conquista la pesca continuò ad essere un'attività svolta dai musulmani -data la scarsità di manodopera nella maggior parte delle località costiere (16)- anche se in condizioni molto diverse rispetto al periodo precedente. Le norme emanate dalla Corona e dai comuni si occupavano essenzialmente di rendere illegali alcune pratiche (sbarrare i fiumi con reti o con graticci di canna o legno, intorbidire le acque, usare veleni) e strumenti di pesca dannosi (reti a strascico soprattutto), di vietare la cattura delle specie più pregiate durante i mesi della deposizione delle uova e l'allevamento, e infine di regolare le modalità per l'ammollo del pesce salato e il suo smercio.
        I comuni del litorale o quelli che avevano nel proprio territorio dei corsi d'acqua sottoposero a gravami fiscali il commercio del pesce e presero delle misure specifiche per trarne benefici e renderlo più redditizio. Nel caso dei fiumi, si stabilì un forte controllo municipale sulle acque della foce e sulle pescherie là costruite, il cui sfruttamento fu dato in affitto. Le città costiere, da parte loro, imitarono il sistema già scelto a Siviglia; questo era fondato su: la riscossione di diritti sul pesce che usciva dalla città (impiegati poi per l'acquisto di grano per il magazzino comunale); l'istituzione di un meccanismo di «semiscambio», secondo il quale ogni carga (115 kg. ca.) di pesce uscita comportava l'introduzione della stessa quantità di cereali o altri alimenti di prima necessità; e, infine, alcune disposizioni sporadiche ed eccezionali che servivano per finanziare progetti concreti, ad esempio la ricostruzione della piazza pubblica. L'instaurazione di questo sistema negava le franchigie concesse ai marinai e i privilegi delle città vicine dell'entroterra, e urtava gli interessi degli esattori reali; questi, ritenendosi gli unici autorizzati a riscuotere tributi, cercarono di scavalcare le autorità municipali, pretendo parte delle somme riscosse dai comuni o esigendo tributi addizionali.
        Nelle località litoranee il pesce proveniva ovviamente dalle catture locali, mentre nell'entroterra si consumava quello fornito dai corsi d'acqua vicini o quello proveniente dal commercio del pesce salato o affumicato. Malgrado la varietà di specie ittiche disponibili fosse ampia, non tutte le specie venivano usate, dato che le preferenze culturali e sociali ne privilegiavano soltanto alcune; fra i pesci più pregiati troviamo le trote, i salmoni, i gronghi, le sardine, i merluzzi, le ostriche e i polpi.
        Le varietà ittiche menzionate dalle fonti sono sempre più costose dei diversi tipi di carne. Ciò dipende dal fatto che le specie di cui veniva stabilito il prezzo erano solitamente le più pregiate e/o quelle di migliore qualità; le specie che invece arrivavano quotidianamente al mercato non erano sottoposte a una rigida determinazione del prezzo, e risultavano più economiche e più usate. Il consumo di pesce doveva essere molto più importante di quanto lasci pensare la sua caratteristica di cibo di magro; si pensi che i giorni di astinenza rappresentevano all'incirca un terzo dell'intero anno. È inoltre difficile credere che nelle località costiere il pesce fosse più costoso e meno consumato di un qualsiasi tipo di carni. Certamente il suo carattere sostitutivo lo rendeva in genere meno pregiato, ma è altrettanto vero che le specie menzionate erano consumate e apprezzate dalla nobiltà. Di fatto, tutti mangiavano pesce: nobili e religiosi, pescatori e operai, militari e contadini.


Sale.-

 Quando i castigliani occuparono il regno di Granada trovarono un organizzato sistema di saline costiere (Torrenueva, Guardias Viejas, Punta Entinas, Roquetas, Cabo de Gata e Almeria) e di entroterra (Fuente de Piedra, Arriate, Fuente Camacho, La Malahà, Montejícar, Barcheles), che riforniva senza problemi l'insieme del territorio andaluso. In questo caso più che negli altri, la conquista dette luogo a una importante e veloce trasformazione dello sfruttamento economico (ma non delle tecniche di sfruttamento) delle saline, su cui si concentrava un forte interesse personale dei Re Cattolici. Negli anni anteriori alla conversione generale dei musulmani i sovrani avevano dovuto rispettare le capitulaciones (17) firmate con i musulmani, la cui nobiltà era proprietaria delle principali saline del Regno (quelle di La Malahà e Dalías). Nonostante le concessioni di cui godevano Boabdil e i nobili del suo seguito, la Corona riuscì a ottenere il 50% della proprietà delle saline, come contropartita per il riconoscimento delle licenze alla commercializzazione del sale prodotto. Con la partenza dell’ultimo re nazzarita, la Corona acquistò la proprietà diretta di queste saline -le più importanti del regno di Granada- e arrivò a controllare la totalità del commercio del sale; inoltre, sottomise le saline delle città costiere dipendenti dal signore di Motril. Questa politica dei re non si può scindere da quella relativa alla produzione della seta e dello zucchero e al commercio dei frutti secchi: si trattava infatti di attività che fornivano abbondanti incassi a una monarchia bisognosa di denaro per finanziare l'annessione del regno di Granada e soprattutto le nuove campagne militari.
        Il monopolio spettante ai re comportava l'obbligo di consumare il sale delle saline reali, il divieto di entrata del prodotto forestiero e l’obbligo di comprare ai prezzi da loro fissati. Comunque, i re si trovarono di fronte all'impossibilità di generalizzare questo sistema, per una duplice ragione: perchè queste pratiche contraddicevano privilegi e franchigie concessi dagli stessi sovrani ai comuni granatini, e per l'opposizione di alcune città, che basavano la propria economia proprio sulla produzione di pesce salato (in particolar modo Malaga e le città della costa di Granada). Il risultato doveva essere per forza la flessibilizzazione del mercato del sale, affiancata però a un rigido sistema fiscale gestito da funzionari reali: l'esattore maggiore delle saline del regno di Granada e i suoi dipendenti (i fieles o obligados del sale).
        Secondo la documentazione il sale poteva essere acquistato nelle saline o nei centri urbani, anche se a prezzi diversi (nelle saline i prezzi erano inferiori). Nelle fonti erano stabilite le regole sulla vendita del sale, indirizzate non all'intera comunità, bensì ai professionisti dell'attività di salatura e ai centri di produzione di pesce salato (in particolare di acciughe e sardine). La comunità musulmana era completamente estromessa da questa redditizia attività; ai musulmani era permesso andare alle saline a comprare sale ma a un prezzo superiore a quello chiesto ai vecchi cristiani. Le saline dell'entroterra, pur essendo soggette allo stesso regolamento, contavano su un margine di manovra maggiore; la loro importanza economica era infatti debole, essendo centri scarsamente produttivi generatori di bassi profitti. Non si hanno notizie sulla regolazione della vendita al minuto, sui consumatori o sulle loro preferenze. In ogni caso, l'uso del sale in cucina era indispensabile, anche nella conservazione della carne -specialmente di quella che avanzava alla vigilia dei giorni di astinenza-, e del pesce.

Vino.-

  La politica agricola e mercantile messa in pratica dai Re Cattolici nei nuovi territori -e nell'insieme del regno di Castiglia- incooraggiò e protesse la viticoltura, provocandone lo sviluppo spesso a danno della cerealicoltura. Possiamo affermare che il regolamento viticolo studiato fu il risultato di un complicato processo di combinazione della volontà reale e dei gruppi di potere del comune granatino. I comuni, basandosi sulle norme emanate dai re dopo la conquista (in particolare quelle di Cordoba e Siviglia), redassero de motu proprio e/o sotto la pressione dei produttori, gli statuti poi approvati dalla Corona. I motivi espressi per sollecitarne la ratifica furono sempre il bene della comunità e dell'agricoltura, il danno che avrebbero ricevuto i proprietari dei vigneti nel caso di una mancata approvazione delle norme, e l'esistenza di disposizioni simili nelle città vicine.
        L'elemento cardine della politica vinicola fu l'applicazione del sistema di divieto di entrata del vino forestiero per un numero determinato di mesi, via via sempre più elevato in coincidenza con il rafforzamento della produzione locale (fino ad arrivare a un periodo di sei/otto mesi in un anno). Tuttavia, c'erano delle eccezioni: il vino destinato ad altri luoghi poteva entrare nella città ma doveva rimanere fuori dalle mura; era prevista la possibilità di rilasciare licenze per permettere l'ingresso di vino destinato al consumo familiare o da inviare al magazzino comunale in periodi di carestia. Questa politica, socialmente differenziata, ebbe un successo limitato poichè fu generalmente trasgredita. Tuttavia, non possiamo dimenticare che il comune era un fedele custode delle norme municipali, fino a opporsi alle mercedi reali che risultassero in contrasto con esse. Ma è anche vero che il rispetto della legge in questo caso favoriva soprattutto i grandi proprietari di vigneti (fra questi, alcuni membri del comune); fatto che spiega le costanti pressioni dei proprietari dei vigneti sui comuni e su quelle persone o gruppi che potevano disturbare i loro interessi. Il sistema adottato doveva portare alla stabilità economica, ma servì anzitutto per accelerare e acuire la differenziazione fra produttori (economicamente avvantaggiati dalle misure adottate) e venditori (che ne risultarono penalizzati).
        La figura del consumatore appare in questo caso relativamente diversificata. I mudéjares e i moriscos erano grandi consumatori in questi anni: per questo il comune tentò di controllarli limitando prima e proibendo poi il consumo di vino, allo scopo di mantenere l'ordine pubblico ed evitare liti fra ubriachi. Siccome il vino era considerato un prodotto fortificante, era consumato abitualmente da chi faceva lavori che richiedevano un duro sforzo fisico (mietitori, muratori, operai e militari in genere), o da persone deboli e ammalate, specialmente con problemi digestivi. Gli uomini erano avventori abituali di taverne e osterie, cioè di quei luoghi di socializzazione in cui il consumo di vino costituiva un elemento centrale. Gli statuti per la maggior parte miravano a restringere l'accesso a questi luoghi -frequentati da prostitute, vagabondi, delinquenti, schiavi (18) e persone poco raccomandabili, dove si giocava e si beveva molto- e ad allontanare le persone «rispettabili» (uomini sposati o scapoli). I ricchi appaiono in una posizione privilegiata, che consentiva loro di dettare norme per favorire l'arrivo dei vini di qualità alle proprie tavole. Le donne non appaiono di solito come consumatrici (ad eccezione delle prostitute); sembra che esse rappresentino le persone danneggiate dagli eccessi alcoolici dei loro familiari maschi.

«Erbe».-

 Le fonti chiamano yerbas (erbe) un gruppo variato di prodotti vegetali, formato da ortaggi, legumi, frutta, spezie e condimenti. Il regolamento comunale si occupava di questi prodotti fissando norme a carattere punitivo, concentrandosi sulla prevenzione e sulla punizione delle infrazioni osservate nel mercato ortofrutticolo.
        Il modo in cui l'insieme della popolazione acquistava queste «erbe» non era unico, né sempre legale. La coltivazione diretta o l'acquisto presso gli ortolani o i venditori ambulanti o pubblici erano i metodi abituali per procurarsi questi prodotti; era permessa anche la raccolta di prodotti selvatici o di altri prodotti semicoltivati nei campi incolti o in quelli a riposo; era inoltre ammessa in alcuni luoghi la ricerca fra i residui della raccolta. Nessuna norma autorizzava ad assalire gli orti dei vicini per sottrarre frutta, legumi e ortaggi, sebbene questa fosse una pratica abituale. Bisogna attirare l'attenzione sul fatto che i prodotti rubati non sempre finivano nelle tavole dei ladri: infatti alcuni frutti potevano essere lasciati seccare per ottenerne maggiori benefici e le «erbe» potevano comunque essere vendute fresche clandestinamente ai negozianti pubblici. Altra pratica abituale consisteva nel derubare i cesti altrui, approfittando della distrazione dei venditori o dei trasportatori.
        La politica agricola del comune in questo ambito era retta da diverse esigenze. Da una parte vi fu la «continuazione della tradizione», la quale ovviamente risaliva non alle pratiche agricole andaluse ma a quelle castigliane applicate dopo la conquista; in particolare, lo sfruttamento delle vegas (pianure fertili), che era stato trasformato per potenziare la coltura della vite e la coltura intensiva dei cereali, irrigati o meno, al fine di soddisfare una domanda urbana in crescita. Così, molti dei prodotti ortofrutticoli venivano coltivati in orti chiusi; più frequentemente, alcuni ortaggi e tuberi erano usati per rigenerare la terra nei periodi di maggese o impiegati come piante intercalari. Altre spinte furono offrire il necessario alla città e soddisfare le esigenze della popolazione, ad esempio dedicando più o meno spazio a colture con utilità precise (colture dietetiche ad esempio). Si noti che il comune, a differenza di quanto accadeva con prodotti come pane, carne o pesce, era meno coinvolto nei processi di rifornimento; le scarse norme contenute nelle fonti sottolineano che l’obbligo di fornire frutta fresca e verdure al mercato urbano ricadeva in larga parte direttamente sui coltivatori, responsabili dell’approvvigionamento cittadino. Infine, il comune ebbe cura di proteggere la proprietà privata per evitare i furti (soprattutto nei campi di fichi, con alberi di frutti secchi e nelle vigne); non vi è dubbio che questo interesse di protezione mirava ad assicurare una produzione regolare di frutta e frutti secchi, dal cui commercio gli esattori reali traevano cospicui incassi.
 Per quanto riguarda il consumo delle «erbe», possiamo soltanto dire che questo aveva carattere stagionale. Sappiamo che la frutta era ritenuta una «golosità» molto pregiata presso tutti i ceti sociali, anche se veniva consumata prevalentemente dai ceti più elevati. Le verdure, al contrario, non erano considerate prodotti pregiati, erano caratterizzate da un consumo assai diffuso e appaiono come ingredienti di alcuni piatti di carne della cucina popolare. Le spezie, il cui rifornimento era legato al commercio internazionale, erano molto utilizzate nella cucina dell'aristocrazia, e venivano vendute in negozi specializzate (le spezierie) a prezzi molto alti.
 


CONCLUSIONI

REALTÀ VIRTUALI

        Due elementi hanno condizionato la nostra visione dei processi di approvvigionamento del regno di Granada. In primo luogo, le fonti trasmettono un'immagine parziale: la realtà studiata ci appare filtrata attraverso gli occhi di una parte della società, quella dei conquistatori castigliani; viene così a mancare la storia raccontata «alla rovescia», quella degli andalusi (19) o quella dei ceti inferiori di quegli anni.
        Inoltre, verbali e statuti comunali, pur contenendo tracce utili per ricostruire la vita dei comuni granatini, ci mostrano una realtà «virtuale», riflessa solo parzialmente. Ciò che affiora dalla lettura delle fonti rappresenta cioè soltanto una parte minoritaria dei fenomeni studiati, mentre restano per così dire sommersi i restanti aspetti. Del resto, la natura stessa delle fonti - emanazione dell’autorità comunale - condiziona le informazioni, riflettendo gli aspetti dell’attività degli organi municipali cui veniva attribuita maggiore importanza. Tutta la documentazione sembra dimostrare come le scelte di approvvigionamento fossero operate nell'interesse generale -quello cioè della maggior parte della popolazione della comunità-; non possiamo però dimenticare che spesso coloro che gestivano la vita comunale confondevano facilmente questo interesse con il proprio.
 

REALTÀ SEMPLICI

        Il lessico arabo o di origine araba e la vicinanza temporale con al-Andalus potrebbe indurre a pensare che, almeno prima facie, fosse possibile riscontrare elementi di permanenza, certamente non di carattere politico ma relativamente ad alcune pratiche sociali oppure organizzative di approvvigionamento. Di ciò non resta però traccia nei documenti. L'unico elemento di continuità rintracciabile riguarda le pratiche culinarie; e tuttavia neanche queste si mantennero invariate: le informazioni raccolte dai giudici dell'Inquisizione dimostrano anzi come queste avessero subito delle modificazioni, fino a essere addirittura stravolte (20). Dunque, possiamo affermare di trovarci di fronte a una rottura significativa. Il mudéjar (21), ad esempio, poteva macellare il bestiame secondo le proprie abitudini pur sapendo che non gli era permesso farlo, oppure doveva attenersi a precise regole molte volte intollerabili; poteva anche acquistare e bere vino liberamente -almeno nei primi anni del periodo considerato, dato che nel Cinquecento il divieto di vendere o dare vino ai moriscos divenne diffuso-; incontrava invece problemi se desiderava osservare le festività islamiche in un ambiente sociale in cui simili abitudini potevano essere oggetto di delazione.
        Molte delle regole che reggevano il mercato granatino-castigliano erano simili o addirittura uguali a quelle sviluppate dalla hisbat al suq e che appaiono nei trattati di hisba (22), anche se in realtà producevano esiti diversi. L’istituzione della hisbat al-suq andalusa rappresentò un elemento del tutto peculiare, senza paragoni nel regno di Granada, sia nei motivi ispiratori che nelle modalità di attuazione. I funzionari addetti al controllo del mercato esistevano certo anche nella società andalusa, e compaiono ancora nel regno granatino, ma con significative differenze: una certa analogia nelle finalità che si intendevano raggiungere non implica somiglianza oggettiva delle due figure. L’istituzione dell’almotacén (23) discende in entrambi i casi da un’esigenza di controllo dei luoghi e delle attività di mercato; non si deve tuttavia dimenticare che, nella pratica, i due funzionari avevano profili differenti, innanzitutto per numero e tipo di attribuzioni. L’almotacén castigliano aveva poteri estremamente limitati rispetto all’"omologo" andaluso. La gamma molto articolata e vasta delle funzioni svolte dall’almotacén andaluso non trova corrispondenza nel ristretto ambito di operatività riconosciuto al funzionario castigliano-granatino; nel regno di Granada, per ritrovare una simile estensione di funzioni, occorre fare riferimento non a un singolo funzionario, ma all’insieme degli organi comunali. Siamo dunque di fronte a un'omonimia, a un prestito linguistico, che cela realtà molto diverse; non possiamo commettere l’ingenuità di credere che un elemento di identità linguistica designi identici fenomeni.
        Un ulteriore elemento da sottolineare è la omogeneizzazione delle norme alimentari generali della maggior parte delle città e dei paesi studiati: essa è il risultato della subordinazione delle norme grantatine agli stessi referenti giuridici, gli statuti di Siviglia e Cordoba, le due principali città del basso Guadalquivir, conquistate dai cristiani due secoli prima. Questo rapporto è stato determinante nell'organizzazione del commercio nel regno di Granada, così che soltanto alcuni elementi caratteristici di una località, che fosse costiera o d'entroterra, che avesse risorse fluviali o forestali, ecc. determinavano poi variazioni nelle misure adottate. Gli statuti di Siviglia e Cordoba, presi a modello dai comuni granatini, non costituirono soltanto un paradigma teorico-astratto, ma ispirarono una serie di misure concrete, adottate nel corso dell’attività dei governi municipali del Regno di Granada. Su questo terreno si dimostrò l’inadeguatezza di un corpus di norme emanato due secoli prima in contesti diversi. Questo divario spazio-temporale era destinato a segnare l’insuccesso delle soluzioni normative adottate nel regno granatino. La semplice trasposizione degli statuti di Cordoba e Siviglia a realtà diverse può essere spiegata con la volontà di unificare il sistema normativo del territorio del regno a quello castigliano. Trascorsi i primi anni, ultimata la conquista, i Re Cattolici con il Fuero Nuevo dettarono le norme per l’organizzazione dei consigli comunali, che avrebbero retto la vita dei comuni granatini. Le disposizioni contenute nel nuovo codice e le norme attuative emanate dai comuni creavano un duplice meccanismo di controllo: del potere centrale (il sovrano) sugli organi di governo locali; all’interno del Consiglio, delle oligarchie locali garanti degli interessi della Corona (attraverso il sistema dell’imbussolamento). Gli statuti delle diverse località castigliane continuavano comunque a essere presi come riferimento per la redazione di statuti professionali. Si trattava di una strategia precisa, volta all’assimilazione dei territori conquistati, in via diretta (tramite l’estensione di princìpi e norme castigliani) e indiretta (attraverso il controllo sulle oligarchie di governo nelle città granatine). Rientra in questa stessa strategia la concessione -dal 1508- delle cariche consiliari sotto forma di mercedi. Il legame tra privilegi politici ed economici assicurava ai sovrani la "fedeltà" delle élites cittadine.
    Ciò significava, d’altra parte, rendere chiaro alla comunità musulmana il posto che occupava all'interno della nuova società; accanto a questo, si doveva facilitare l’inserimento dei nuovi coloni, convincendoli che le terre di Granada appartenevano loro da sempre ed erano perciò legate alla stessa tradizione degli antenati castigliani. La tradizione andalusa sarà usata unicamente quando gli interessi economici dei sovrani o dei comuni le consideravano conveniente (nel caso delle saline ad esempio), sempre in modo tendenzioso.
 

REALTÀ SOGGETTIVE

        Dobbiamo innanzitutto rilevare che negli anni considerati -vale a dire in un periodo  di transizione politica e sociale-  le misure adottate in materia di approvvigionamento dai sovrani non erano il prodotto di decisioni isolate. Il periodo in oggetto fu molto movimentato politicamente e militarmente. Molte erano le preoccupazioni della Corona al di fuori del regno di Granada; gli interessi politico-militari dei Re Cattolici si indirizzavano su più fronti (Nord Africa, Italia, Francia). Le necessità di approvvigionamento dell’esercito castigliano posero in secondo piano i problemi legati alla nuova provincia. Il territorio granatino fu sacrificato, e si vanificarono così le promesse dei sovrani e le concessioni di mercedi e privilegi ai nuovi comuni e ai coloni. A ciò si aggiunga che la politica di sfruttamento del regno di Granada provocò in quegli anni numerose crisi alimentari.
        Quando nel 1502 venne emessa la Prammatica del prezzo dei cereali le città del Nord furono scartate poichè la maggior parte degli alimenti provenivano da altre zone, cioè non venivano prodotte nelle loro campagne ma importate; non accadde lo stesso ad alcune città granatine, che pure si trovavano nella stessa situazione. L'emissione di numerose licenze eccezionali da parte dei sovrani castigliani contravveniva alle norme generali e provocava la coesistenza di ordini contraddittori, comunque giustificati. Se si voleva difendere il divieto d'esportazione si ricorreva all'argomento del bene comune e della necessità di evitare lo spopolamento; quando, invece, era interesse appoggiare l'esportazione si richiamavano i capitoli delle Cortes (24) emanati durante il regno dello screditato Enrico IV. In altri casi l'applicazione del divieto d'esportazione contrastava con la facoltà del sovrano di concedere licenze. Come vediamo, tutto veniva subordinato agli interessi della Corona.
 

REGOLE GENERALI

        Se dovessimo riassumere schematicamente gli elementi che definirono l'insieme della politica reale e municipale nella pratica d'approvvigionamento negli anni analizzati, evidenzieremmo i seguenti punti:
        1. La società che sopravvive alla conquista non può considerarsi andalusa per due motivi: primo, perchè è stata sottomessa politicamente e il regno nazzarita è stato azzerato, distrutto a livello politico; secondo, perchè nella società andalusa -ora numericamente ridotta per l'emigrazionee volontaria o forzosa- si inserisce un altro gruppo sociale dominante che ne condiziona lo sviluppo successivo.
        2. Le norme alimentari impiantate potrebbero definirsi come «inoculazione» di misure identiche in corpi diversi.
        3. Le modalità di approvvigionamento urbano e i rapporti con i territori vicini dipendevano dalla situazione alimentare della città. In periodi di prosperità, una politica di stretto protezionismo impediva l’uscita di generi alimentari dai confini cittadini; nelle fasi di crisi, la città praticava il libero commercio per assicurarsi il rifornimento.
        4. Quanto veniva deciso in un paese o città era inmediatamente emulato dai vicini.
       5. Tutte le città che beneficiavano di un sistema di aiuti alimentari avevano a loro volta l'obbligo di aiutare le altre città. È una sorta di solidarietà forzosa alla quale tutti erano obbligati e della quale erano state anche beneficiarie.
        6. Tutte le località dipendenti dalla giuridizione di un nucleo urbano organizzavano il loro approvvigionamento in funzione di questo.
       7. I consumatori erano un gruppo di persone differenziate dal punto di vista sociale, religioso e spaziale, la cui condizione sociale e culturale veniva decisa e determinata dall'autorità: contadini vs cittadini, musulmani vs cristiani, conversi vs cristiani vecchi, ricchi vs poveri.
       8. Tutti le comunità tendevano a fornire di sé un'immagine di povertà al fine di poter ottenere benefici; questo significa che quando un comune domandava benefici alla Corona adduceva come principale motivazione la povertà della popolazione.
       9. Il lessico dell'approvvigionamento risentiva dell’influenza di tre elementi: sessuali (che evidenziavano la separazione fra sessi nelle diverse attività commerciali); professionali (che differenziavano chi esercitava un’attività dal proprietario degli strumenti di produzione); religiosi (derivati dall'utilizzo di termini di origine araba applicati a realtà non arabe).


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  Updated: 09/08/2009
 


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