TEMI DELLA POESIA ARABA

Traduzioni di Pino Blasone



Fra Éros e Thánatos
Angosce dell’esistenza
Proiezioni dell’amata
L’amore e l’amicizia
Abbandono e disamore
Emigrazione ed esilio
Allegorie della vita nomade
Miti mediterranei rivisitati
Poesia d’impegno e di protesta
Identità culturale e personale

NOTE SUI POETI

FRA EROS E THANATOS

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Dalla “Mu‘allaqa” di Labid


Dimore desolate, accampamenti e luoghi di sosta
abbandonati così a Miná come a Ghawl o a Rijám;
i fossi asciutti di Rayyán ne mostrano tracce
levigate e lisce come parole incise su pietra
tanto tempo fa. Quasi rovine ormai cancellate:
troppi anni e mesi, benedetti o interdetti,
sono passati dal soggiorno dei loro ospiti.

La pioggia stellante di primavera le ha lavate.
Nembi tuonanti hanno rovesciato su loro scrosci
e nubi passeggere notturne le hanno consumate
con gocce lievi ma insistenti, mentre ancora
si scambiavano un brontolio in livide mattine
o si annunciavano nella vigilia delle sere.

Allora cresce l’erba, sui pendii delle valli
gli struzzi e le gazzelle vengono generati
e l’antilope coi suoi grandi occhi quieti
bada ai nuovi nati quando già gli altri
si avventurano tutt’intorno nel deserto.

Allora i torrenti lambiscono ruderi sabbiosi
e li ripuliscono, quasi frasi scritte a penna
che lo scrivano ricalchi, o come qualche bella
che ravvivi i tatuaggi spargendo sulla pelle
polvere di indaco lungo i loro curvi ricami.

Allora io li interrogo, ma cosa mai possono
cambiare le mute parole di pietre e rovine...?
Davvero giova il ricordo di Nawár? Ormai lei
è lontana, è reciso tutto ciò che ci univa.


Labid ibn Rabi‘a (?-661 circa)



Solo il pudore trattenne...


Finora il pudore trattenne le mie lacrime,
ora non possono più essere tenute a freno.
Così ogni osso nascosto sotto la pelle
sembra sussultare in un singhiozzo
ed ogni vena sembra gonfiarsi
in una triste cascata di pianto.

Ella era scoperta, non c’era velo.
Solo il pallore la velava all’addio
ed esso modellava nell’ombra le guance
mentre su queste rotolavano le lacrime,
così da apparire di oro intarsiato
con un duplice filare di perle.

Lei perse tre nere ciocche di capelli
e di una notte fece quattro a un tempo,
ma quando levò il suo viso verso la luna
ecco due lune io scorsi a fronte nel cielo.


Abu al-Tayyib al-Mutanabbi (905-965)



Figli allevati per la morte...


Figli allevati per la Morte,
case edificate per la decadenza:
tutto ciò a cui vi dedicate
è destinato all’annientamento.
Per chi mai abbiamo costruito, che
ci renda al nativo elemento d’argilla?

Né di violenza né di lusinga fai uso;
pure, quando vieni, nessuno può fuggirti.
Eccoti pronta a sorprendere l’età matura
così come questa ha già sorpreso
e fatto preda della mia giovinezza.
Cosa mai mi tormenta, o Mondo,
che in ogni luogo che abito in te
inevitabilmente non soffro di restarvi?

Ma come potrei star fermo a guardarti,
o Tempo, mentre ti affretti a depredarmi?
Tieni pure i tuoi doni lontani da me!
Tu sei incostante e mutevole, o Tempo,
e un regno di rovine è il tuo dominio.


Abu al-‘Atahiya (748 circa-828)

ANGOSCE DELL’ESISTENZA

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Dal poemetto "Il colera"


Nell’orrida cripta putridi resti:
nel silenzio perenne e spietato,
dove la morte è un balsamo,
si è risvegliato il colera.
Astioso si aggira con rabbia,
cerca la lieta valle luminosa,
urla come un pazzo convulso
senza riguardo per chi piange.
Ovunque il segno dei suoi artigli:
nella capanna o la casa contadina
soltanto si odono grida di morte,
di morte di morte di morte.

Ecco che la morte infierisce
per mezzo del colera spietato
e nel silenzio amaro si ode
solo un sottofondo di preghiera.
Anche il becchino si arresta
senza più nemmeno un aiuto;
è morto anche il muezzìn:
chi pregherà per i morti?
Inesausto resta un sospiro
e il pianto infante dell’orfano,
ma domani anche lui - è sicuro -
ghermirà il morbo ferino.
O spettro perenne del colera,
triste desolazione di morte,
di morte di morte di morte.


Nazik al-Mala’ika (irachena)



I confini della disperazione


Al limite della disperazione
è eretta questa mia casa,
pareti cave e sbilenche
ingiallite come burro,
vacillanti come nuvole,
e per vetro alle finestre
un impasto di farina.

La mia casa lesionata
la scuote la tempesta
e il vento la squassa
finché non è esausto;
abbandonata dal sole,
gli uccelli la evitano.

Assenza dopo assenza,
eccola andare in rovina.
Ma ora che io ci dormo,
nella mia casa desolata,
intorno a me è sopita
anche la luce del giorno;
spenta ogni voce, soffocata.


‘Ali Ahmad Sa‘id "Adonis" (siriano)



Quando il sole è sommerso


Quando il sole è sommerso
da una marea di nubi
e un’onda di tenebra
è levitata sul mondo,
quando lo sguardo è spento
negli occhi e nei cuori
e il cammino si è perso
come dentro un labirinto,
o tu che brancoli e ti aggiri
e cerchi di capire, allora
non c’è per te altra guida
che gli occhi delle parole.


Ahmad Fu’ad Nejm (egiziano)

PROIEZIONI DELL’AMATA

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Da "Sequenze poetiche"


Uno spettro scivola sotto la luna
fra i vigneti, bianca smorfia da tragedia.
Rami con foglie, le braccia ascendono i muri,
si protendono verso la strada e crescono
fino alla casa buia vuota ammutolita.

Né il tempo né la morte, niente ci dispensa
dall’amore per colei che si scarmiglia
al chiaro di luna e la cui bocca canta
la canzone del vento fra i singulti.

Non sono io che piango, ma la terra.
Come il vento nella sua violenza
sibila tra alberi rovine e rocce,
case con finestre come occhi in sequenza
che guardano al di là di vie deserte,
così io nella contesa del mio amore.

Qual vento in una notte di pioggia,
dopo terre riarse e sere sterili,
ulula e con lance di pioggia
va devastando alberi rovine e vie,
tale il mio io nella stretta d’amore.


Jabra Ibrahim Jabra (palestinese)



Gli occhi del mio amore


I tuoi occhi, amor mio,
sono graziose farfalle
in un perenne verde.
Essi sono due perle
su un fondo di madreperla
avide senza posa
del blu del mare.
Sono due colombe
in cerca d’un nido caldo
e tranquillo di tenerezza.
Essi sono due scrigni
di gioie d’oro e d’argento.

E sono due battelli
carichi di fiori,
che incedono sognando
una purezza adamantina
sulla distesa verde-azzurra
presso una spiaggia
dagli scogli di marmo
e dalla sabbia d’ambra.
Due isole all’orizzonte,
cui nessun naviglio accosta
neppure nel sogno.

Solo Sindbad il marinaio
incrocia non lontano,
e in un tempo rimosso
dalla memoria dei tempi
gustando la delizia
del loro soave nettare
per poco non obliò la patria
Ulisse prigioniero di Calipso.

I tuoi occhi, amor mio,
sono due cittadelle
il cui mistero mai
fu violato da uno sguardo.
Pure, io vi guardo
e vi scorgo la quiete:
alla sera, è Pechino
foresta di perle;
al mattino, ecco Isfahan
con le sue vie d’incanto.

I tuoi occhi sono
due laghi di tenerezza.
Io vi guardo e vedo
le ombre e le luci
e vi scorgo l’impossibile.
Quante volte, attraverso essi,
ho viaggiato in un mondo
da far perdere la testa
quasi io mi aggirassi
in un museo di meraviglie.
Io vi guardo e vedo
l’accesso al mondo dei profumi.
L’immaginazione è sul punto
di penetrare i segreti divini.

I tuoi occhi, amor mio,
sono due ruscelli di vino
dall’eterna ebbrezza
che scorrono fino in fondo
al mio cuore rapito.
Essi sono due notti,
in cui dolce è vegliare
al chiarore della luna.

I tuoi occhi sono al di là
di quanto possono le mie parole,
di ciò che esprime il mio liuto,
un meraviglioso universo
ove s’inabissa il mio sguardo
senza mai poterne attingere
le arcane profondità.


Nur al-Din Sammud (tunisino)

L’AMORE E L’AMICIZIA

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Arrivederci


Sapeste quanto io rifuggo
la fine della via, amici miei,
l’augurio della buonanotte,
il dirsi addio o arrivederci
fosse pure per il giorno dopo.
Le parole del distacco sono amare
quasi come è amara la morte
e quanto sottrae l’uomo all’uomo.

Le strade della grande città
sono simili a solchi roventi,
esse ruminano a mezzogiorno
il calore assorbito al mattino.
Guai a chi conosce solo il loro sole,
solo i loro edifici e le inferriate,
le piazze e gli incroci e le vetrate.
Misero te, la cui serata è vuota,
i giorni liberi privi di incontri.
Guai a chi mai ha amato, per lui
è sempre inverno nel suo cuore.

Sapeste quanto io rifuggo
la fine della via, amici miei,
voi che nel mezzo della notte
vi rigirate su carboni ardenti,
insonni sotto un sordo soffitto.
Come vorrei che questa strada
non finisse né si restringesse,
ma si aprisse ai nostri sguardi
in felici e verdeggianti visioni.

Così l’orizzonte ampio e sgombro,
tenero e indulgente e rosato,
abbraccia le piccole case
di un villaggio al tramonto,
dove gli alberi si cullano
con il ritmo dei palanchini.
Lì vorrei che noi fossimo ora
non più stanchi di camminare
in quella mezza luce discreta,
a passeggio nell’assorta quiete,
isola di vita dove un tepore
vegetale fluttua sull’acqua.

Le sere in città sono brevi feste,
luci, un po’ di musica e bevande,
il tutto incalzato da pazza fretta.
A poco a poco langue la melodia,
i piedi si stancano di ballare
e il vento spazza i tavolini.
I fiori cadono sul pavimento,
i dispiaceri rialzano le teste
dal fondo delle nostre anime.
E noi torniamo giù sulla via,
i nostri passi sono ingannati
dalla conversazione così che
non accusiamo la stanchezza.

Due file di pallidi lampioni
avanzano come in templi in rovina
e sotto indugiano vigili ombre,
finché un carro di passaggio
ci investe con il suo profumo.
Lontano l’orologio della piazza
suona a morto per questa notte.
Avanti a noi tre vie s’incrociano
emergendo dalle viscere contorte
dell’oscurità e del silenzio,
mentre tu sussurri “Buonanotte”.

Perfino la notte si può superare
né pesa poi troppo il distacco.
Il giorno ha occhi per infilare
i grani dispersi di ogni collana.
Ma, per lunga che sia questa via
e per quanto tempo noi possiamo
averla percorsa fino in fondo
insieme, verrà un giorno quando
dovremo volgere altrove le vele
e navigare ciascuno per suo conto.
Allora, riscattiamo ogni istante
che precorre quella separazione
con tutta la purezza dell’amore.


‘Abd al-Mu‘ti Hijazi (egiziano)



In noi morte e bellezza


Quando la morte chiamerà
come io dirò al mio cuore "Vieni!",
come lo sedurrò attraverso la tomba
irretendolo con lacci robusti
per distoglierlo dalle vette
del suo sogno impossibile?
Sussurrerò: "Il sole si è dissolto
nel mare. Bisogna partire".

Come io dirò al mio cuore,
che con la morte convive:
"La nostra storia è finita"?
La morte e la bellezza
in noi si sono congiunte,
il desiderio delle fonti
ci attanaglia di nostalgia,
le ombre sopra di noi
stendono il loro dominio.

E’ questa la morte? Tuttavia
il mio cuore serba in sé
la veemenza della vita,
il ricordo nebuloso degli amici.
A loro lascio una preghiera
o il ricordo di una preghiera
fra i doni che trascendono il tempo.

Chi sono quelli che scorrono
sullo schermo della memoria,
avvolti dall’incenso dell’amore
traboccante da questo cuore
che conobbe l’opera della gioia?
I vini li abbiamo gustati
insieme a quelli che entrarono
dentro la nostra vigna,
i quali hanno elevato
i nostri voti fino alle vette.
Essi li abbiamo evocati
ed abbiamo tenuto fede
alle nostre promesse.

Fra i doni del cuore,
noi abbiamo riservato
mille preghiere e suppliche
per ognuno che ci ha visitato
e nutrito le nostre visioni
del mistero della bellezza
e rammentato che il nostro amore
procede sulla via dell’impossibile.

Mai abbiamo eluso il desiderio,
abbagliati alla vista degli idoli,
né una volta - in fede - i maghi
ci hanno indotti a rinnegarlo.
Alla fonte abbiamo bevuto
senza mai dissetarci,
ma dell’istante amoroso
abbiamo sempre vissuto.

Il nostro viaggio non ha fine,
liberi come jinn e in balìa del vento
su un battello di mercurio errante,
dritta la prua del nostro amore
e della nostra disperazione, verso
un punto di coscienza dell’universo.
La morte ci attende al varco
ma ciò che resta è il nostro amore,
degli amici nostalgia e ricordo.


Salma al-Khadra al-Jayyusi (palestinese)

ABBANDONO E DISAMORE

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Ritorno al mare


Isola dove sognano i nostri sogni
lasciaci alfine partire,
liberaci dalla tua seduzione,
assurdo miraggio di luce
ordito da invisibili fili
i quali ci hanno irretito
per proiettarci in un deserto,
isola dove sognano i nostri sogni
causa della nostra perdizione.

Come apparve la tua fresca ombra
abbiamo esclamato: "Terra!
Ecco l’invito al riposo,
la ricompensa ai nostri passi.
Qui è dignità e salvezza,
qui deporremo il fardello
e la pena di tanti anni".
Noi abbiamo detto: "Qui
la nostra anima dimenticherà".

Noi abbiamo detto, ci siamo detti:
verdi prati palpitanti di speranza,
così dolce è la speranza
per chi ha tanto errato
lungo desolate vie notturne.
Noi abbiamo detto, ci siamo detti...
Quale abbaglio, palese illusione!
Quando gettammo l’ancora,
certo noi abbiamo sognato.
Abbiamo rievocato i passi
perduti della nostra vita,
abbiamo arato per seminare
i desideri, le nostalgie,
il seme di un nuovo amore.

Pure, la nostra semenza
l’abbiamo gettata nel sale,
nelle viscere sterili della terra.
Ci siamo ingannati, comprendi?
Isola dove indugiano i nostri sogni,
rinuncia a nutrirti dei nostri
vani desideri e delle nostre vite,
ad altri profondi i tuoi doni.
Rive dai folli colori, addio!
Già noi volgiamo le spalle,
inaridita la speranza nei cuori.

Di nuovo il nostro veliero
si libra in balìa del vento.
Sul mare urlante senza fondo
contrasteremo la violenza delle onde,
offrendo le nostre vite in olocausto.
Là metteranno radici per affrontarsi
il nostro destino e la nostra erranza.
Là in segreto noi verseremo
il nostro orgoglio sulle ferite,
nelle pause dell’estrema contesa.


Fadwa Tuqan (palestinese)



Il convitato assente


Già trascorsa la sera
volge la luna al tramonto
ed eccoci a contare
le ore di un’altra notte,
guardando la luna
scivolare nell’abisso
e con lei l’allegria
senza che tu sia venuto
perso con le mie speranze,
fissando la tua sedia vuota
in compagnia della tristezza
dopo aver chiesto invocato
in silenzio la tua venuta.

Mai avrei immaginato
dopo tutti questi anni
la tua ombra ancora
in grado di sovrastare
ogni pensiero ogni parola,
ogni passo ogni sguardo,
né potevo sapere che tu
saresti stato più forte
di ogni altra presenza
e che l’unico assente
fra tutti i convitati
eclissasse ogni altro
in un mare di nostalgia.

Certo se tu fossi venuto
ci saremmo intrattenuti
a conversare con gli amici
finché fossero partiti
e allora anche tu forse
saresti parso come gli altri,
ma la sera è già passata
e il mio sguardo gridando
interrogava ogni sedia vuota
cercando fra gli astanti
sino alla fine della sera
l’unico che non è venuto.

Che tu arrivi un giorno
ormai non lo desidero:
dai miei ricordi all’istante
svanirebbero il profumo
e i colori di quest’assenza,
rotta l’ala alla fantasia
languirebbero le mie canzoni.

Stringendo le dita
intorno ai frantumi
dell’ingenua mia speranza
ho scoperto di amarti
nelle sembianze del sogno,
e se anche tu fossi qui
adesso in carne ed ossa
io seguiterei a sognare
quell’invitato assente.


Nazik al-Mala’ika (irachena)



Canto del disamore


O mio Messia sepolto rialzati,
lacera il velo del tuo sudario.
La vita torni a irrorare il tuo volto.
Abbandona i luoghi coperti di brina.
Tu che resuscitavi questo e quello
e ti sei fatto gioco dell’abisso,
perché stai avvolto nel drappo bianco,
perché hai deposto le armi
ancor prima che ti toccassero?

Ieri io non ho creduto,
non potevo credere ai miei occhi
quando ho visto il tuo sangue colare
e ti ho visto fontana di sangue.
Le lacrime di tua madre scorrevano
rievocando in me la sua pena,
quando tu per due giorni
l’abbandonasti bambino
o quando tramarono alle tue spalle
gli anziani del Sinedrio.

A sera sono tornato a casa
convinto che mi avresti raggiunto,
teso l’orecchio a un fischio leggero
o al tintinnio di sassolini
lanciati contro i vetri alle finestre.
Ieri io non ho pianto,
ma oggi per la pena e la paura
e per rabbia contro di te, mio Messia,
non riesco a frenare le lacrime.

Perché, una volta raggiunti
con passo sicuro i tuoi compagni,
hai proceduto dritto verso la tua fine?
Perché sei corso ad abbracciare la croce
e con più passione di quanto
tu non avessi mai fatto:
forse per la decina di creature
che spasimavano ai tuoi amplessi?

Intorno a te ci hai accolti
per poi lasciarci senza un bacio,
senza un sorriso né arrivederci.
Tu hai reciso i nostri legami,
ci ha strappato alla nostra terra,
ci hai sottratti ai nostri cari...
Hai cacciato da noi i demoni,
ci hai defraudato dei ricordi.
Tu ci hai attratti verso te,
di tutto spogliati tranne che di te.

Noi abbiamo issato la tua insegna.
Tu ci hai passati in rivista
e noi ti abbiamo reso gli onori
legione dopo legione, ma tu
ci hai abbandonati ai nostri nemici.
O mio Messia sepolto, destati.
O mio Messia perduto, torna a noi.
Ricorda: altra volta mi hai chiamato
e io sono accorso senza esitare.

Oggi t’invoco e grido e supplico,
ma tu impassibile non dai un segno.
Dunque non ti risveglierai,
dunque mai più tu tornerai?
Perché allora sei venuto a me,
perché mi hai tolto alle radici
e hai ferito il mio dito
a mo’ di vincolo indissolubile:
per abbandonarmi ai nostri nemici?
Tu anteponi misericordia al sacrificio.
Mi desti la speranza e l’hai sacrificata.
E io mi sono sottomesso, ma che aspetti
a inviarmi la tua misericordia?

Ora un presentimento mi dice:
non giungerà la tua misericordia,
e ieri non ho versato lacrime
ma oggi né domani posso farne a meno.
Ah, se solo io avessi un domani,
se ci fosse anche per te un domani,
allora questo sabato di tenebra
non sarebbe uguale ogni settimana.
O mio Messia, tu riposi in eterno
eppure mi lasci qui senza pace
né riposo, per i secoli dei secoli!


Tawfiq Sayigh (palestinese)

EMIGRAZIONE ED ESILIO

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I miei parenti sono morti


I miei parenti sono morti. Io vivo,
piangendoli in fondo al mio silenzio.
Se avessi patito con loro la fame,
la persecuzione con i fratelli martiri,
i giorni sarebbero meno gravi sul mio petto
e le notti meno tenebrose ai miei occhi.
Ma invece eccomi vivo nell’ombra
al sicuro al di là dei sette mari,
ignavo che ha trovato sistemazione.
Io sono qui lontano dalla sventura
senza niente di cui andare orgoglioso,
fosse pure di queste mie lacrime.

Avrei potuto essere spiga di grano
cresciuta al sole del mio paese
così che il bimbo del mio paese
carpisse la mia vita per non morire,
frutto maturo nei giardini del mio paese
che la donna cogliesse per nutrirsi,
uccello sotto il sole del mio paese
cui l’uomo avesse dato la caccia
stornando per mezzo del mio corpo
l’insidia della morte dal suo corpo.

La mia gente è andata incontro alla morte
senza ribellarsi con le armi in pugno,
né un terremoto ha squassato il suo paese.
I miei parenti sono morti rassegnati,
uccisi sulla croce con le mani tese
verso l’oriente e verso l’occidente,
gli occhi fasciati dallo spazio oscuro.
Sono morti muti: di fronte al loro grido
l’universo intero si è tappato le orecchie.
Sono morti giacché non mostrarono amore
per il loro nemico, così come i vili,
ma nemmeno essi hanno preso a odiare
l’amico, come pure fanno gli ingrati!


Jibran Khalil Jibran (libanese)



Nei deserti dell’esilio


Nei deserti dell’esilio
si susseguono le primavere.
Che faremo del nostro amore
allorché la sabbia e la brina
avranno empito i nostri occhi?
Palestina la nostra terra,
i suoi fiori sono tatuaggi
sull’incarnato di giovani donne.

Marzo intarsia i suoi prati
con anemoni e con narcisi
e in aprile essi esplodono
di nenufari e altri fiori.
Il suo maggio è la romanza
che cantavamo a metà giornata
avvolti nell’ombra azzurra
degli olivi della nostra vallata.
In mezzo ai campi maturi
attendevamo il compimento
delle promesse del luglio
e i balli della mietitura.

O terra, tu hai visto scorrere
la nostra infanzia come un sogno
all’ombra degli aranceti
fra i mandorli delle tue valli.
Che avremo fatto, che mai
avremo fatto del nostro amore,
allor quando i nostri occhi
allor quando le nostre bocche
saranno piene di sabbia e di brina?


Jabra Ibrahim Jabra (palestinese)



Dal poemetto “L’odissea”


Con quali storie mai io
comincerò o finirò? Io torno
dagli specchi dell’impostura,
dai quaderni delle passioni,
dalla luna e dal tuono,
dalla visione delle promesse,
da una notizia che la radio
ha diffuso sulla mia morte
nel registro della diaspora.
[...]
Io torno dal mio esilio,
da strade che non sanno ritorno.
Verticale è questo sole;
appesa ad esso la mia ombra
raggela il mio sangue a poco a poco.
Lo spazio si è arrestato,
arrestato sotto i miei piedi
e tra le lancette dell’orologio.
Trascinato dai venti,
io sono emigrato da solo.
Dentro il mio corpo stanno
i villaggi e le città distrutte,
che non hanno seguito i loro profeti.
Lontani gli dei, remota la mia stella.
La nostalgia è un caffè, del vino,
l’odore di una storia, di una geografia.
[...]
Io ritorno dai meridiani,
appoggiandomi sulle mie ossa.
Così, a forza sostenuto,
tu mi vedi in un ritratto alla parete,
su un lembo di terre deserte,
sullo sfondo di un cumulo di pietre.
O, forse, tu mi vedrai
straniero come la mia ombra
nell’apertura di luce della porta,
le spalle rivolte al tempo
che affonda nella sabbia,
il mio petto che è conteso
fra un posto sotto le rovine
e un altro, laggiù, nel deserto...


Khalid Abu Khalid (palestinese)

ALLEGORIE DELLA VITA NOMADE

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Da "Il genio della spiaggia"


Una ragazza dalla pelle scura
negli accampamenti degli zingari:
ecco tutto ciò che sono stata.
Essi non hanno terra né beni
e neppure altri impedimenti,
ma portati dal vento navigano
oltre i giorni di festa comandati
e di festa in festa approdano
su nuove strade imprevedibili,
mentre il vento cancella le tracce
dei fuochi e dei festeggiamenti
tutt’intorno alle loro tende.


Khalil Hawi (libanese)



La luna diciotto anni dopo


Qui si arrestano le tracce dei passi.
Dietro le rocce le tende gli alberi
ecco la luna che giace fra i lupi,
insieme con i cani e con le pietre.
Essa mette in vendita la sua faccia
per un pugnale e una candela,
o per una treccia di pioggia.
Non gettate sassi nei loro fuochi,
non sottraete gli anelli di vetro
sfilandoli dalle dita degli zingari.
Essi se ne stanno addormentati
come i pesci le pietre gli alberi,
dove si arrestano le orme dei passi
mentre la luna geme per le doglie.
Ma voi, dico a voi o zingari,
date a lei i vostri anelli di vetro,
donatele i vostri braccialetti blu!


Mu‘in Bsisu (palestinese)

MITI MEDITERRANEI RIVISITATI

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Il marinaio e il derviscio


Con Ulisse vagò nell’inconscio,
con Faust immolò la sua anima
a causa della conoscenza.
Infine, nella nostra epoca,
egli disperò della scienza.
Estraniatosi come Huxley,
fece vela per le rive del Gange,
sorgente madre del sufismo.
Là egli non vide altro
che creta senza vita,
qui solo caldo fango:
pur sempre e solo fango.

Dopo aver avuto a che fare
col mal di mare, con lumi
devianti dalla rotta oscurata,
con ignote distese dilaganti
ad accerchiarlo da ogni lato
fuori dall’inconscio, dalla morte,
la quale sciorina sudari
azzurri per l’annegato,
spalanca fauci cavernose
in vacui orizzonti, rivestiti
di un bagliore d’incendio,
eccolo infine proiettato
dall’ingannevole gioco dei venti
sui lidi dell’antico Oriente.

Così approdò in una terra
di cui narrano in oziose taverne
i cantastorie, miti, preghiere,
il mormorio svagato delle palme
dalle fievoli ombre.
Ivi uno sciabordio acquoso
intorpidisce ogni sensazione
lungo i nervi infiammati,
e attutisce ogni ricordo
a un’eco ripetuta e distante
come il richiamo di porti remoti.
Potessero almeno aiutarlo
i nudi, ascetici dervisci!
Rutilanti nei vortici
dei loro circoli di rimembranza,
essi ormai oltrepassarono
i confini dell’esistenza.

Circoli e ancora circoli
intorno a un vecchio derviscio:
le gambe radicate nella melma,
assorbe linfa dalla grama terra.
Se ne sta immoto insensibile,
e nelle pieghe della sua pelle
germogliano piante parassite:
muschio stagionato dal tempo,
edera che infittisce crescendo.
Egli mai più si sveglierà,
ma quel po’ di fertile stagione
che gli scorre ancora nelle vene
riveste di bellezza e eleganza
la sua vecchia pelle screpolata.

"Suvvia, svelami i tesori
che attrassero il tuo sguardo
nel profondo dell’inconscio".
"Da mille anni accovacciato
in questo ricorrente sciabordio
sulla riva primordiale del Gange,
le vie del mondo, benché distante,
tutte si arrestano alla mia porta,
e nella mia capanna dimorano
divinità ed eternità gemelle.
Tu vuoi sapere che cosa vedo?
Morte, cenere e fiamme,
abbattersi sui lidi d’Occidente.

Osserva tu stesso e vedrai:
o non puoi tollerare la vista
di quel mostro in fermento?
Anche il fango ribolle di febbre,
i porti sono battuti dalla febbre,
ma ecco: la terra è gravida,
soffre il travaglio e le doglie.
E’ così che erompe alla luce
ogni tanto un’Atene o una Roma,
fra scorie combuste del tempo.
Così in un petto devastato
a una febbre che divampa
subentrano strani tumori.

Io in quel demone sofferente
non vedo altro che un figlio
generato dall’attimo fuggente,
e una mano dai peli grigi
già ordisce coi suoi nervi
un sudario per la sua morte.
Ma tu vedi me accovacciato
in questo perenne sciabordio
da mille anni per mille volte
sulla riva primordiale del Gange.
E nella mia capanna dimorano
divinità e eternità gemelle".

"Non ti senti dunque oberato
da una visione insostenibile?".
"Lasciami, che io prosegua
il cammino nell’inconscio.
La luce dei fari è spenta
sulla mia rotta ai miei occhi.
Non mi attira più ormai
la lusinga di porti lontani,
scavati nel fango febbrile,
di altri nel fango senza vita.
Quante volte io bruciai
nella febbre di quel fango,
quante volte sono morto
in quel fango inanimato!

Ormai quei porti remoti
non mi traggono in inganno.
Lasciami al mare, al vento,
e alla morte, che sciorina
sudari azzurri per l’annegato:
un marinaio, ai cui occhi
è spenta la luce dei fari.
Spenta la luce sulla sua rotta,
gesti eroici non lo salveranno,
né l’umiltà della preghiera".


Khalil Hawi (libanese)



In cerca di Ulisse
e Terra senza ritorno


Errando nelle grotte sulfuree
io vado afferrando scintille
e vado indagando i misteri
dentro nuvole d’incenso,
sotto le unghie degli spiriti.
Io vado in cerca di Ulisse:
forse egli drizzerà per me
i suoi giorni come una scala,
forse mi parlerà e mi dirà
ciò che le onde ignorano.

Ma anche se tu ritornassi
e le distanze si accorciassero,
e se la guida fiammeggiasse
nel tuo sembiante tragico
o nel tuo terrore intimo,
sempre per me tu saresti
la storia della partenza.
Sì, per sempre tu saresti
in una terra senza promessa,
in una terra senza ritorno.
Anche se tu tornassi, Ulisse.


‘Ali Ahmad Sa‘id “Adonis” (siriano)



Dal poemetto “Il ritorno di Lilith”


Io sono Lilith, reduce dall’esilio
e dalla vacua prigione dell’oblìo,
leonessa maestosa e dea di due lune.
Io raccolgo dentro una coppa quanto
non può essere raccolto e ne bevo
in veste di sacerdotessa del tempio,
né ne lascio goccia ad alcuno, benché
protesti che io ne ho avuto abbastanza.
Vado copulando e mi moltiplico da sola
per riprodurre una gente da me stessa,
poi uccido i miei amanti e faccio largo
a quelli che non mi hanno conosciuta.

Io sono Lilith, signora della foresta.
Non ho conosciuto speranza dell’attesa,
ma ho intimità con leoni e vere belve
e vado fecondando ogni parte di me.
Da maestra tessitrice di finzioni,
accolgo le calunnie nel mio ventre
per accrescere il numero degli schiavi.

Mangio la mia carne per non aver fame
e bevo la mia acqua per non aver sete.
Le mie trecce sono lunghe per l’inverno
e le mie bisacce sono senza fondo.
Nulla mi estingue, nulla mi riempie,
ma io torno ad essere una leonessa
per chi è perduto su questa terra.

Le mie trecce sono così lunghe
in modo da arrivare ben lontano,
come un ghigno che vada a svanire
tra la pioggia o come cala il sonno
dopo che il piacere è stato raggiunto.
Miei segnali sono cicatrici di ombre,
a volte, e luccichii di lame, sempre.

Io sono la guardiana del pozzo
e la somma di tutti i contrasti.
I baci sul mio corpo lasciano lividi
ma solo su quelli che li hanno dati.
Dal flauto che sta fra le mie cosce
sorge la mia canzone, e da questa
scorre la maledizione sulla terra.

Io sono Lilith delle due lune, lunga
mano di ogni vergine alla finestra,
angelo caduto e letargo della luce,
figlia di Dalila e della Maddalena
e discendente pure dalle sette fate.
Così, dalle vette della mia lussuria
irrompono aurore, precipitano fiumi.
E io torno a contaminare la vanità
della virtù con la mia stessa acqua,
vado sfregando l’unguento del peccato
sulle ferite inferte dalla privazione.


Jumana Haddad (libanese)

POESIA D’IMPEGNO E DI PROTESTA

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Pane, hashish e luna


Quando la luna sorge in Oriente
le bianche terrazze dei tetti
si assopiscono sotto fastelli di fiori.
Allora gli abitanti del mio paese
abbandonano le loro botteghe
e si incamminano in gruppi
verso le cime delle colline
per incontrare la luna,
forniti di pani, di grammofoni,
dell'occorrente per l’uso di narcotici.
Così essi comprano e vendono
allucinazioni e chimere,
così muoiono quando la luna vive.

Qual è mai l’effetto
del suo disco luminoso,
sulla gente del mio paese?
Il paese dei profeti...
paese della gente semplice:
masticatori di tabacco
e mercanti di stordimento.
Che ci fa mai la luna
da rinunciare all’amor proprio,
per importunare i cieli
con le nostre richieste?
Che cosa può riservare il cielo
a dei deboli, a degli indolenti
che muoiono quando la luna vive?
Essi scuotono le tombe dei santi
perché dispensino riso e figli
e srotolano tappeti ricamati:
farsi una fumatina di oppio,
è questo ciò che chiamiamo
fatalità e decreto divino?

Nel mio paese...
paese della gente semplice,
quanta debolezza e indolenza
si impossessano di noi,
quando si diffonde quella luce!
Allora mille tappeti e cestini,
tazze da tè e bambini
affollano le colline.
Nel mio paese...
dove gli innocenti piangono
e vivono in una luce
che vieta loro di vedere.
Nel mio paese...
gente che vive senza occhi,
mentre gli innocenti piangono,
pregano e fornicano
e vivono nel fatalismo.

E’ da quando vennero al mondo
che essi vivono nel fatalismo,
appellandosi alla luna:
"O mezzaluna, o sorgente
che fai piovere diamanti,
hashish e torpore!
O sospeso idolo di marmo,
surreale grappolo di diamanti,
possa tu vivere per l’Oriente:
per i milioni di persone
dai sensi obnubilati...!"

Nelle notti di luna piena
l’Oriente perde ogni dignità
e volontà di lottare...
I milioni di persone
che camminano scalze
e credono in quattro mogli
e nel giorno della resurrezione,
i milioni che non trovano pane
salvo che nella fantasia,
che abitano di notte
in case fatte di tosse
senza conoscere medicina.

Quanti corpi morenti
sotto il chiaro di luna
nel mio paese...!
Intanto gli sciocchi piangono
fino a morire di lacrime
ogni volta che il disco lunare
si affaccia su di loro
e piangono ancor più
se li eccita a volte
un molle suono di liuto,
e allora cantano "O mia notte",
così chiamano la morte in Oriente,
"O mia notte..." e giù canzoni.

Nel mio paese...
paese della gente semplice,
snoccioliamo lunghe cantilene:
quale malattia letale in Oriente
le interminabili cantilene!
Così il nostro Oriente
rimugina la sua storia,
i suoi languidi sogni
e i miti del passato
Il nostro Oriente...
che ha riposto ogni eroismo
negli eroi della leggenda.


Nizar Qabbani (siriano)



Il viaggio delle lettere dorate


Ragazzi del mio triste villaggio,
per più di un migliaio di anni
noi siamo stati le lettere dorate
della Torá della Bibbia del Corano.
Noi eravamo il mordace
e l’acuminato cesello
che intagliava nei vostri occhi
le nostre ombre inquietanti.
E quelle ombre solite
a essere venerate nei vostri cuori
divennero una storia senza uomini.

Le lettere a volte crescevano
così alte come un minareto,
oggetto di reverenza,
e altre volte una chiesa
su un monte inaccessibile,
o altre volte ancora
foschi patiboli e capestri,
consapevoli delle vostre faccende,
informati dei vostri peccati
nel nostro triste villaggio.
Per più di un migliaio di anni
noi siamo state le lettere dorate
della Bibbia della Torá del Corano.

Le lettere erano fatte di fango
che assumeva ogni giorno
la forma di un’empia minaccia:
un idolo una frusta un sultano,
un dio oppure un diavolo,
ma mai un essere umano.
Ragazzi del mio triste villaggio,
per più di un migliaio di anni
noi abbiamo vissuto nell’oblìo
adorando nei nostri occhi
le loro ombre inquietanti!


Buland al-Haydari (curdo iracheno)



Lo Shaykh Imám


Girate parole, girate a vostro piacere,
fate che il nostro paese si bagni di luce!
Scaglia la parola nel ventre fecondo:
Salma concepirà e genererà la luce,
che arda e che sveli i nostri difetti.
Di bruciatura in bruciatura
noi sussulteremo e ci rivolteremo.
Girate parole, girate a vostro piacere!

Lo zio Imám ha tante cose da dire.
Egli va per i paesi fra la gente
in versi cantando a offrire il suo dono.
Egli, che canta a testa alta:
o mio paese, sorgente di luce,
fresca acqua cui attingono
il senso le generazioni.
O mio paese, boccone di pane
legittimo a colei che ne mangia
e a colui che ne mangia.

Madre del Nilo che trabocca di canti:
a ogni cantore la sua canzone.
E il mio flauto quando suona
ripete all’inizio e alla fine
lo stesso ritornello che dice:
Egitto, cavalcatura dei vittoriosi,
ti hanno involato gli inquilini del palazzo
e quel servo ciarlatano del sovrintendente.
Girate parole, girate a vostro piacere!


Ahmad Fu’ad Nejm (egiziano)

IDENTITA’ CULTURALE E PERSONALE

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Il mito della Káhina


Cimitero di consonanti
fra i roveti del blasfemo
questo mio cuore affranto
su un fazzoletto a quadretti
su piste dove marcia la mia tribù nomade
sulle dimore vuote sulle dimore deserte
dei miei amici morti allo stremo
dei giorni dal sole perfido
dei miei amici dei miei fratelli
quando la speranza dei miei singulti
brucia foreste di parole: dimore,
tormenti che feriscono la mia anima
ovvero frutti lungamente gestiti
come lacrime sul ciglio degli occhi.

Due donne, la Káhina e Shahrazád,
mediatrici del delirio ultrasensibile
fuoco del mio orizzonte di vita:
la Káhina mia identità primeva
lei mia madre (gene e cordone ombelicale)
lei è stata la mia iniziazione
(separazione - margine - aggregazione)
la forza la bellezza la saggezza
dei nostri riti dei nostri miti
la nostra liberazione e vera armonia
nell’abbozzo dimensionale del poema
la fiducia dell’unità nell’unità
lei è la mia madre di certezza
e il mio cammino verso la luce.

Alla mia nascita è stato il gesto
il quale mi ha tolto a un mondo
fatto di anteriore bellezza
e questo per la mediocre alleanza
che intercorre fra l’udito e la vista:
così almeno é occorso da altri lidi
a sostentamento di un mondo a venire,
poi è stato il gesto qualitativo
a misura del mio arricchimento,
accesso alle conoscenze sottili
e alle mie differenti vie-voci
per una migliore comprensione.

O figlia mia, questo è stato
il nuovo atteggiamento essenziale
che fu formulato da tutti gli inni;
o mia antica litania, e questa
è stata la conoscenza della parola
la quale fu stimolata dallo scambio
di intelligibili sintagmi: il mio gruppo
il gruppo, i miei valori il valore,
coefficienti che il futuro ha tracciato
nello spazio di bellezza dell’uomo.

Ma è stata anche la mia morte simbolica
nella morte della mia Káhina mitica: io
sono rimasto isolato per sette giorni
e per sette notti senza mostrarmi
al fine di conseguire come lei
la pienezza del mio spirito
negazione del mio essere terreno
e avanzare inevitabilmente verso
la realtà tenebrosa dove la notte
e il giorno cessino di opporsi.


Majid el-Houssi (tunisino)



Io


E’ la notte che chiede: chi sono io?
Sono il suo profondo, torbido segreto,
così come il suo refrattario silenzio.
Io ho velato la mia essenza di quiete
e ho avvolto il mio cuore nel dubbio.
Me ne sto qui a guardare, sbalordita.
Nel frattempo, io lascio che i secoli
si interroghino pure su chi mai sarò.

E’ il vento che chiede: chi sono io?
Respinta da ogni tempo, sono un soffio.
Stordita come lui, io non so darmi pace.
Ed entrambi andiamo avanti senza sosta,
né possiamo arrestarci in nessun luogo.
Ma quando il curvo orizzonte è raggiunto,
ecco che anche la nostra sventura sembra
giunta a una fine, di fronte all’immenso.

E’ il tempo che chiede: chi sono io?
Anch’io curiosa di percorrere le ere,
ad esse conferisco un po’ di nuova vita
e sottraggo il passato alla seduzione
di questo nostro presente di comodo,
giusto per tornare poi a seppellirlo.
Così modello per me un nuovo ieri,
il cui domani indugia qui, impedito.

E’ l’essenza che chiede: chi sono io?
Come lei perplessa, scruto l’oscurità
né mi rassegno. Seguito a fare domande,
ma ogni volta la risposta è un miraggio.
Insisto a considerarla vicina, ma appena
sono lì di fronte a lei ecco che essa
impallidisce, sfuma e infine svanisce.


Nazik al-Mala’ika (irachena)

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