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NEL SOLCO DEL LITTORIO
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L'ORDINAMENTO CORPORATIVO

II 27 ottobre 1924 il Duce disse agli operai del grande stabilimento di Dalmine: " Compite il vostro dovere e voi avrete diritto di rivendicare la tutela dei vostri interessi dalla Nazione Fascista ".

In queste semplici parole è tutto l'insegnamento fascista, che considera il lavoro come base della vita e sorgente d'ogni dignità del cittadino.

Tutto proviene dal lavoro e in uno Stato bene ordinato le leggi regolano e tutelano il lavoro, perché produca la forza e il benessere del popolo intero.

La carta del Lavoro.

Infatti la Carta del Lavoro dice che " II lavoro, sotto tutte le sue forme organizzative ed esecutive, intellettuali, tecniche, manuali, è un dovere sociale ". Chi non compie questo dovere, non può rivendicare alcun diritto.

Prima del Fascismo, pareva che le varie classi sociali dovessero essere fatalmente in lotta fra loro e che tutta la vita — non solo la vita economica, ma il complesso dell'esistenza umana — si riducesse a un contrasto di interessi materiali, particolarmente fra datori di lavoro (capitalisti) e lavoratori (proletari).

Invece il Fascismo ha insegnato e dimostrato che le classi debbono collaborare per il bene comune e che al disopra di quegli interessi sono e saranno sempre le grandi mete dello spirito umano.

Questa giusta concezione della società informa tutta la dottrina e ispira tutta l'azione fascista. Essa trovò il suo documento storico nella Carta del Lavoro, emanata, per voto del Gran Consiglio del Fascismo, il 21 aprile 1927. La Carta ricorda solennemente che la Nazione è al disopra degli individui e delle classi sociali in cui si raggruppano. Siccome la Nazione, così concepita, diventa realtà nello Stato Fascista, è certo che allo Stato medesimo spetta di disciplinare le forze del lavoro nazionale.

L'ordinamento corporativo nasce da questa funzione dello Stato, e, a sua volta, esprime e consegue — dello Stato — la volontà e le finalità. Perciò possiamo parlare indifferentemente di Stato Fascista o di Stato Corporativo: in sostanza è la stessa cosa.

Prima di osservare, nei suoi elementi essenziali, il congegno corporativo, soffermiamoci un istante sulla Carta del Lavoro, parte oramai — e parte preziosa — del patrimonio spirituale degli Italiani e monumento indistruttibile della nostra civiltà rinnovatrice.

Nelle sue norme (o dichiarazioni) è tutta la saggezza di una stirpe operosa e coraggiosa che vuol vivere della propria fatica e questa fatica rivolgere non solo e non tanto all'acquisto di beni materiali, ma alla propria continua elevazione.

In questa " Carta ", sono tutti i princìpi animatori e tutti i fondamenti dello Stato corporativo, nei suoi ordini e gradi, nelle sue funzioni e attribuzioni, nei suoi tipici istituti e nelle sue finalità: l'organizzazione sindacale e i contratti collettivi di lavoro, il regolamento delle controversie che possono sorgere sul lavoro, la natura e i compiti delle Corporazioni, l'intervento dello Stato nell'economia nazionale, la tutela della giusta mercede, del riposo, di ogni altro diritto economico e sociale dei lavoratori; la previdenza e l'assistenza sociale, l'istruzione professionale.

La Carta del Lavoro è uno di quegli atti di consapevolezza e di volontà che rimangono nella storia dei popoli, di cui rinnovellano le sorti. Ancora una volta, con questo mirabile documento, l'Italia, secondo la sua missione e tradizione, è maestra al genere umano.

Grande è il significato del fatto che la " Carta " fu emanata il 21 aprile, Natale di Roma, giorno riservato dal Fascismo alla Festa del lavoro. Festeggiare la fatica produttiva nella data in cui, col sorgere dell'Urbe, cominciò il destino imperiale italiano, significa ammonire che il nostro lavoro è rivolto alla nostra potenza, perché col lavoro prepariamo la forza necessaria a ogni conquista. E non poteva esservi, per una proclamazione di verità e di giustizia come quella contenuta nella Carta del Lavoro, data più fausta. La Carta è stata offerta dal genio del Duce alla Nazione italiana nella luce di Roma. In questa luce essa svilupperà i suoi princìpi e mostrerà al mondo i suoi frutti.

Sindacati, Federazioni e Confederazioni.

Il punto di partenza, o, se preferite, il primo grado del corporativismo fascista è il sindacato, ossia la riunione dei datori di lavoro o dei lavoratori di una sola categoria (p. es. muratori, impresari edili, naviganti, armatori, proprietari agricoli, lavoratori dell'agricoltura, ecc.). Il sindacato fascista tutela gli interessi e i diritti dei suoi iscritti, ma non si limita a questo, perché ha una funzione educativa, assistenziale, sociale, mirando a formare la coscienza .del lavoratore, di cui vuoi fare un uomo consapevole dei suoi doveri e delle sue finalità.

Il sindacato legalmente costituito rappresenta tutta una categoria e perciò non possono esservi due sindacati per una medesima categoria di datori di lavoro o di lavoratori. (Per esempio, il sindacato dei calzolai, rappresenta tutti i calzolai, anche quelli non iscritti). Obbligo essenziale dei sindacati è regolare, con i contratti collettivi, i rapporti fra datori di lavoro e lavoratori di una stessa categoria. (Per esempio: il sindacato degli esercenti e quello dei commessi di negozio stabiliranno, con un contratto valevole per tutti, la durata del lavoro, le mercedi, i turni di riposo del personale). In questo modo, invece della lotta di classe, comincia la collaborazione fra le classi; collaborazione che il Fascismo considera come un dovere e che costituisce un obbligo generale. Ne viene di conseguenza che i mezzi coi quali in passato datori di lavoro e lavoratori cercavano reciprocamente di sopraffarsi, sono oggi aboliti. I proprietari e dirigenti di aziende di qualsiasi specie non possono chiudere gli stabilimenti, i negozi, gli uffici (serrata) per opporsi alle richieste dei lavoratori; e questi non possono abbandonare il lavoro (sciopero) per costringere i proprietari e dirigenti di aziende a determinate concessioni. Nell'Italia Fascista lo sciopero e la serrata sono reati puniti dalla legge. Qualsiasi controversia deve essere risolta mediante trattative fra i sindacati, in forma amichevole; se però non è possibile raggiungere l'accordo, allora la vertenza viene portata davanti alla Magistratura del Lavoro, che è una sezione speciale della Corte d'Appello composta da giudici e da cittadini esperti nella materia su cui è da decidere. (Per esempio: in una causa riguardante gli interessi di un ingegnere o di un musicista, saranno chiamati come esperti altri ingegneri, o altri artisti di riconosciuta competenza).

Queste norme valgono per la totalità dei lavoratori italiani, intellettuali e manuali. Non possono però costituire sindacati, o entrare nei sindacati, i dipendenti dello Stato.

Per essere iscritto a un sindacato legalmente costituito, occorre essere cittadini italiani — o risiedere in Italia da almeno dieci anni — avere compiuto il 18° anno di età ed essere di buona condotta morale e politica.

I sindacati sono comunali, provinciali, nazionali. Vengono poi le Federazioni, ciascuna per i datori di lavoro o per i lavoratori di un ramo di produzione o di attività professionale. (Es. editori, librai, gente di mare, ecc.). A loro volta, le Federazioni compongono le Confederazioni nazionali.

Queste sono nove, e cioè: Confederazione fascista degli agricoltori, Confederazione fascista dei lavoratori dell'agricoltura, Confederazione fascista degli industriali, Confederazione fascista dei lavoratori dell'industria, Confederazione fascista dei commercianti, Confederazione fascista dei lavoratori del commercio, Confederazione fascista delle aziende del credito e delle assicurazioni, Confederazione fascista dei lavoratori delle aziende del credito e delle assicurazioni, Confederazione fascista dei professionisti e artisti.

Le Corporazioni.

Ecco, nell'insieme, l'ordinamento sindacale fascista, che, giova ripeterlo, ha le sue basi nella Carta del Lavoro, la quale vuole che ogni italiano lavori, produca, progredisca, riceva la dovuta mercede, la dovuta assistenza, e stabilisce la vita sociale sulla collaborazione delle classi, considerando la Nazione una famiglia i cui membri devono lavorare insieme, aiutarsi scambievolmente e concorrere così al sempre maggiore benessere di tutti.

Ora, però, questa collaborazione diventa una grande armonia di sforzi e di opere, di volontà e di scopi soltanto nella Corporazione.

Che cosa è una Corporazione? È un organo dello Stato che riunisce le rappresentanze sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori di uno o più rami produttivi, associando i tre elementi della produzione, e cioè il capitale, il lavoro, la tecnica, perché tutti insieme diano il maggiore e miglior rendimento e perché non vi siano contrasti, le energie non si disperdano, non avvengano concorrenze dannose e, insomma, il lavoro porti il massimo vantaggio a chi lo compie e alla Nazione.

Tenere presente questa definizione, che è del Duce: " Le Corporazioni sono lo strumento che, sotto l'egida dello Stato, attua la disciplina integrale, organica e unitaria delle forze produttive, in vista dello sviluppo della ricchezza, della potenza politica e del benessere del popolo italiano ". Basta ripetere queste parole per comprendere che il corporativismo è, come il Fascismo che lo ha creato, un ordinamento di carattere popolare.

Ciascuna Corporazione è composta di un Consiglio, di cui fanno parte, come membri effettivi, alcuni rappresentanti del P. N. F. e delle organizzazioni sindacali, e alcuni consiglieri aggregati. Il numero dei' consiglieri effettivi e aggregati è stabilito dalla legge per ciascuna Corporazione.

Le Corporazioni costituite sono 22: cereali, orto-floro-frutticoltura, viti-vinicola, olearia, bietole e zucchero, zootecnia e pesca, legno, prodotti tessili, metallurgia e meccanica, chimica, abbigliamento, carta e stampa, costruzioni edili, acqua-gas-elettricità, industrie estrattive, vetro e ceramica, previdenza e credito, professioni e arti, mare e aria, comunicazioni interne, spettacolo, ospitalità.

Vedete bene che ogni Corporazione abbraccia un solo campo produttivo (p. es.: il legno, i prodotti tessili) o una stessa categoria di servizi (p. es.: le comunicazioni interne), oppure riunisce campi, servizi fra loro affini e collegati (p. es. è naturale che la coltivazione della bietola e l'industria dello zucchero siano inquadrate in una stessa Corporazione, perché la bieticoltura fornisce la materia prima allo zuccherificio; e così, l'industria della carta e quella della stampa sono fra loro collegate, dipendendo l'una dall'altra, in tutto o in parte).

Se volete rendervi ragione del beneficio che l'armonia corporativa porta al Paese, mettetevi davanti a un caso pratico: quello, p. es., della Corporazione dell'abbigliamento, alla quale fanno capo tutte le forze produttive che assicurano il vestiario e la calzatura a tutti gli Italiani. Sapete che cosa significhi vestire e calzare qua-rantacinque milioni di individui d'ogni età, diversi di gusto, di condizione sociale ed economica? Sapete quali e quanti organismi intervengono in questa produzione e quali e quante energie essa richiede? Basta domandarselo perché la nostra mente si popoli di una ridda di persone e di cose: il modesto sarto con le gambe accavallate sul suo banco e la grande sartoria che produce gli abiti in serie a centinaia, il ciabattino che tira lo spago davanti al suo bischetto e le macchine che tagliano e cuciono le scarpe, gettandone ogni giorno migliaia di paia sul mercato; il negozio elegantissimo della modista in voga e il magazzino-emporio in cui si vende ogni cosa; la botteguccia del villaggio e il merciaio ambulante; l'operaia che s'affatica, in casa, sulla macchina da calze e i calzifici famosi da cui escono quotidianamente i tipi più svariati; la lavorante assidua, nella sua casa, alla macchina da cucire, e la vetrina che attira gli sguardi e suscita i desideri con mostre di biancherie finissime o economiche.... Ebbene, ognuno di questi individui, ognuna di queste industrie, di queste aziende minime o enormi rappresenta interessi, volontà, attitudini, possibilità diversissime. Stabilire una disciplina per tutti, incoraggiare lo spirito di iniziativa ma impedire lo spreco, consentire i leciti guadagni ma assicurare al popolo intero la possibilità di coprirsi a buon mercato — anche se la signora e il signore ricchi ed eleganti possono, con la borsa bene aperta, soddisfare i loro gusti costosi — questo è compito della Corporazione dell'abbigliamento. E, similmente, qualsiasi altra Corporazione deve disciplinare, armonizzare gli interessi, gli elementi, i fattori di produzione che in essa sono rappresentati.

Insomma è finalità delle Corporazioni assicurare a tutti il lavoro e la giusta mercede, assicurare una produzione sufficiente al consumo, aprire o sostenere ogni possibilità di esportazione all'estero, vigilare sul tipo dei prodotti perché rispondano alle più sostanziali esigenze e rivolgere la totalità degli sforzi produttivi al vantaggio dell'economia nazionale, cui vengono subordinati i vantaggi individuali.

* * *

L'ordinamento corporativo si riassume gerarchicamente nel Consiglio nazionale delle Corporazioni, che rappresenta la totalità degli interessi economici del Paese, e nel Comitato corporativo centrale, che coordina le funzioni e le attività delle 22 Corporazioni. Questi due organismi sono presieduti dal Duce, il quale, per impartire le direttive d'insieme, convoca periodicamente l'As semblea generale delle Corporazioni, composta da tutti i membri delle Corporazioni stesse. E il Ministero delle Corporazioni fa funzionare tutti

i servizi relativi all'inquadramento sindacale e all'ordinamento corporativo, all'assistenza e alla previdenza sociale.

Fascismo e Corporativismo.

Lo Stato Corporativo è l'organizzazione tipica e l'orgoglio legittimo della Rivoluzione Fascista.

Lo Stato Fascista è corporativo o non è Fascista.

Mussolini

L'autarchia.

Abbiamo parlato di economia nazionale, cioè di una economia che tende al benessere e alla potenza della Nazione. Ma non è concepibile una simile economia, che non sia indipendente; e questa considerazione ci porta a fare un breve cenno all'autarchia; parola che significa reggersi, o governarsi, da sé.

L'Italia fascista vuole essere e sarà autarchica per bastare a se stessa, producendo nel territorio metropolitano e coloniale, quanto è necessario all'esistenza del suo numeroso popolo e quanto può essere vantaggiosamente esportato, cioè scambiato con prodotti, a noi utili o necessari, di altri Paesi.

Ma l'autarchia non si propone scopi puramente mercantili o finanziari. L'autarchia è la base della sicurezza del Paese. Senza l'indipendenza economica non vi può essere sicurezza. Gli Italiani non dimenticheranno mai che, al tempo delle sanzioni, gli stranieri pensarono di vincerci senza combattere col negarci i rifornimenti. Quegli stranieri pensavano che l'Italia, Paese non ricco di materie prime, dovesse cedere alla loro volontà, non potendo provvedere ai propri consumi, far funzionare le proprie industrie, produrre armi e munizioni se essi non le mandavano molte merci. Il Fascismo, per tutta risposta, impegnò con estrema decisione la battaglia autarchica, e gli stranieri furono delusi.

Non vogliamo influenze d'altri in casa nostra; vogliamo essere arbitri delle nostre decisioni e padroni dei nostri destini. In un qualsiasi tempo, prossimo o remoto, troveremo sempre qualcuno che cercherebbe di toglierci la possibilità di vivere e di combattere, se non avessimo il pane, le armi, ciò che è essenziale per la vita e per la lotta, in pace come in guerra.

Facendo risorgere l'agricoltura, mettendo in valore le risorse minerarie della metropoli e dell'Impero, il Fascismo, ha portato avanti vittoriosamente la battaglia autarchica. La scienza italiana, il lavoro italiano provvedono a sostituire materie prime di cui siamo scarsi. Con la bonifica integrale e con la battaglia del grano, moltiplichiamo le risorse del nostro suolo. Col rimboschimento ci assicuriamo sempre maggiori quantità di legname, da costruzione, da ardere, da cellulosa e per applicazioni varie. Le coltivazioni di piante industriali (canapa, lino, cotone, ginestra) e la gelsicoltura, base dell'industria della seta naturale, aumentano di continuo la nostra produzione di fibre tessili; siamo ai primi posti nel mondo nella produzione di fibre artificiali (rayon), di lana artificiale (lanital). Siamo riusciti a estrarre da molte piante erbacee la cellulosa occorrente per usi industriali e bellici; la produzione italiana di alluminio e di altri metalli leggeri è in rapido aumento. La nostra industria chimica ci ha affrancati da molte importazioni, producendo una grande quantità di prodotti richiesti dalla difesa nazionale, dall'agricoltura (concimi) da tante altre industrie, dai mestieri e dalle arti, (vernici, colori, ecc.), dalla medicina e dall'igiene (prodotti farmaceutici), dall'alimentazione, dall'edilizia. Le nostre fabbriche, i nostri laboratori sono attivissimi; il rendimento delle miniere si moltiplica: oggi abbiamo in forti quantità il carbone italiano, con i suoi grandi centri di estrazione attorno alle città minerarie fasciste di Arsa nell'Istria, e di Carbonia in Sardegna; i giacimenti lignitiferi sono intensamente sfruttati, le ligniti stesse vengono, in parte, sottoposte a procedimenti chimici che le arricchiscono di potere calorifico o ne estraggono prezioso carburante. Da parte sua, l'industria elettrica italiana, sfruttando la forza delle acque, riduce sempre più il consumo di carbone straniero, sostituendolo in molteplici applicazioni: nei pubblici servizi, negli impianti industriali, negli usi domestici. Le ricerche del petrolio sono condotte sistematicamente, e nell'Albania a noi unita i pozzi danno già un forte gettito. Non c'è risorsa del suolo o del sottosuolo, dell'acqua e dell'aria stessa (da cui viene estratto

l'azoto) che la volontà fascista non metta in valore nella grande battaglia autarchica; e ciò che avviene in Patria avviene anche nella Libia e nell'Impero, dove si lavora eroicamente.

Al tempo stesso il prodotto italiano viene difeso contro il prodotto straniero; gli sprechi, sempre colpevoli, vengono eliminati, si ricuperano ricchezze disperse — estraendole perfino dalle profondità del mare — è organizzata la raccolta dei rottami utilizzabili e anche dalle sostanze, dalle cose che parevano senza valore l'Italia autarchica trae possibilità di vita, forza di progresso.

L'indipendenza economica italiana — già raggiunta in alcuni settori essenziali — sarà una mirabile conquista del Regime, che ha creato gli organi direttivi della battaglia autarchica, agli ordini del Duce, con la Commissione suprema per l'autarchia e con il Comitato interministeriale per l'autarchia.

È dovere di ogni Italiano concorrere alla vittoria autarchica: non sprecare nulla, preferire sempre il prodotto nazionale, non pensare mai che l'importanza o la dignità di una qualsiasi persona possano consistere nel consumare o possedere molte cose. Si è quello che si vale, non quello che si pare, e la vera dignità consiste nel vivere da Fascisti, fedeli a tutte le consegne del Duce, partecipi a tutte le lotte della Patria.

Dal Discorso del 23 marzo 1936-XIV.

Nessuna Nazione al mondo può realizzare sul proprio territorio l'ideale dell'autonomia economica, in senso assoluto, cioè al cento per cento; e, se anche lo potesse, non sarebbe probabilmente utile. Ma ogni Nazione cerca di liberarsi nella misura più larga possibile dalle servitù straniere.

Vi è un settore nel quale soprattutto si deve tendere a realizzare questa autonomia: il settore della difesa nazionale. Quando questa autonomia manchi, ogni possibilità di difesa è compromessa. La politica sarà alla mercé delle prepotenze straniere, anche soltanto economiche; la guerra economica, la guerra invisibile — inaugurata da Ginevra contro l'Italia — finirebbe per aver ragione di un popolo anche se composto di eroi.

Mussolini

DIFESA DELLA RAZZA

La Rivoluzione Fascista conquista il potere e assume la responsabilità del Governo, dà un'anima al popolo e fa sua l'anima del popolo; abbatte quanto, nella vecchia Italia, era superato, imputridito e spinge la Nazione sulle vie della grandezza e della gloria.

Sorge — edificato dal genio italianissimo e universale di Benito Mussolini — lo Stato Fascista. Noi lo abbiamo seguito nelle opere. Lo Stato Fascista è un grande risanatore e un grande costruttore, che unifica la coscienza nazionale, abbraccia la totalità del popolo, stabilisce le gerarchie, rigenera la vita sociale, politica, economica del Paese, dà all'Italia le leggi necessarie al progresso dell'esistenza, assegna al lavoro una capitale funzione e lo addita supremo dovere, suprema dignità al cittadino, offre al mondo un esempio di saggezza e di forza destinato a influenzare le dottrine, gli ordinamenti, le istituzioni, ispirando altri movimenti rivoluzionari, determinando grandi correnti di pensiero. Abbiamo davanti a noi, attorno a noi e nel nostro spirito medesimo il Fascismo che risana le città e feconda le campagne, tutela la salute morale e fisica del popolo, lo educa, lo innalza, lo sottrae alla dura necessità dell'emigrazione; costruisce la potenza militare italiana e fonda l'Impero.

Facile è comprendere che la ragione e la finalità di questa gigantesca fatica è l'elevazione della nostra razza.

Il Fascismo nacque, nello spirito del Duce — e diventò per sua volontà e suo merito una Rivoluzione, un Regime — proprio a difesa della razza italiana, minacciata di decadenza. Certo il Duce, in tutte le ansie, in tutti i dolori, in tutte le durezze e i sacrifici provati fin dalla fanciullezza e nella gioventù, e con maggior passione in terra d'esilio, dovè sentire in sé il destino di prendere nel pugno le sorti di questa razza, della quale egli, come nessun altro, sapeva la perennità e la grandezza.

Incessantemente Benito Mussolini esaltò in sé e agli altri — ai consapevoli che erano pochi, agli ignari che erano folla — le virtù della razza italiana, proclamando il dovere di tutelarle e svilupparle. Il suo culto della romanità è culto della razza, nella missione d'imperio che, fin dai tempi del mito romuleo, ad essa fu assegnata.

Le principali istituzioni fasciste sono rivolte al rafforzamento spirituale e fisico della razza: l'Opera Nazionale per la maternità e l'infanzia, la G. I. L., la scuola, il dopolavoro, curano che la razza si mantenga sana e forte — che diventi sempre più sana e più forte — nella mente e nel corpo.

Si bonifica la terra per preparare il cibo alle generazioni nuove, in cui la razza si perpetua ed evolve; vengono moltiplicate le possibilità di lavoro, perché questa razza produca e prosperi; viene tutelata la famiglia, sorgente della razza, della quale trasfonde i caratteri e moltiplica il sangue; la Religione, fede tradizionale della razza e suo soprannaturale cemento, è onorata, si addestrano i cittadini alle armi e l'organismo guerriero nazionale è reso formidabile perché la razza sia sempre pronta a combattere, a vincere, spiritualmente e fisicamente compatta, espandendosi a misura della sua forza.

E al giusto momento, in conseguenza della fondazione dell'Impero, il Regime ha anche dettato le leggi che tutelano la purità, il prestigio, l'avvenire della razza.

Diverse sono le razze che compongono il genere umano e fra esse sono palesi grandi differenze, gradi diversissimi di civiltà, una gerarchia, insomma, che, a qualunque causa o complesso di cause dovuta, è reale e innegabile.

Noi siamo di razza, ariana e il nostro sangue è puro. L'unità razziale della Nazione italiana ha una storia di millenni. Per impedire che il nobile sangue italico venga inquinato e che, nell'ordine spirituale, il nostro carattere si alteri, il Gran Consiglio del Fascismo, nella seduta del 6 ottobre 1938-XVI deliberò una serie di provvedimenti, entrati immediatamente a far parte della legislazione fascista.

È vietato il matrimonio degli Italiani e delle Italiane di razza ariana con persone non appartenenti a questa razza. Inoltre, ai dipendenti dallo Stato è vietato il matrimonio con persone straniere, anche di razza ariana. Gli altri cittadini Italiani ariani, per contrarre matrimonio con stranieri, pure ariani, debbono ottenere il consenso del Ministero dell'Interno.

Particolarmente la legge fascista ha dovuto occuparsi degli ebrei, che non sono ariani, che non considerano loro Patria il Paese che li ospita e che rappresentano, in tutto e per tutto, l'opposto delle nostre idealità, dei nostri sentimenti, dei nostri costumi. Gli ebrei, non molti in Italia, erano però riusciti ad accaparrarsi posizioni, in modo assoluto sproporzionate al loro numero e al loro rendimento sociale. D'altra parte, la Rivoluzione Fascista non poteva dimenticare che, nonostante la generosità italiana verso gli ebrei, questi furono fra gli autori del tentativo di bolscevizzare l'Italia nel dopoguerra e che l'ebraismo internazionale è stato sempre a capo di tutte le congiure antitaliane e antifasciste.

Perciò i cittadini italiani di razza ebraica non possono essere iscritti al P. N. F., sono esclusi dal servizio militare, e, sia come insegnanti che come alunni, dalle scuole di qualsiasi ordine e grado, pubbliche e private non ad essi riservate; non possono possedere terreni e fabbricati oltre un determinato limite di valore, non possono tenere domestici italiani ariani; non possono esercitare le pubbliche professioni né entrare nei pubblici impieghi.

La legge fascista — che stabilisce con la necessaria precisione chi è che deve essere considerato ebreo — consente alcune eccezioni a favore di cittadini italiani di razza ebraica che abbiano speciali titoli (famiglie di caduti in guerra o per la Rivoluzione, di mutilati, invalidi, feriti in guerra o per la Rivoluzione, decorati al valore, fascisti di antica data, persone a cui vengano riconosciute altre benemerenze). Anche in questi casi, però, i " discriminati " non possono insegnare nelle scuole pubbliche e private, non possono essere iscritti al Partito, sono esclusi dai pubblici impieghi e, naturalmente, non possono contrarre matrimonio con italiani di razza ariana.

Altre leggi sulla razza riguardano specificamente l'Impero, regolando i rapporti fra Italiani e nativi nei nostri possedimenti. È vietato in modo assoluto il matrimonio misto e vengono severamente puniti quegli Italiani che, in qualunque modo, con le loro azioni, col loro contegno, guastino il sangue, offendano la dignità e menomino il prestigio della razza.

Ogni Italiano che vive in colonia ha il sacro dovere di tener sempre alto il nome della Patria e di mostrare la superiorità della razza dinanzi alle popolazioni soggette. Chi manca a questo dovere, dimostra di essere un cattivo cittadino, e cade meritatamente nei rigori della giustizia fascista.

Il domani del nostro Impero è nelle famiglie italiane che si stabiliscono e si stabiliranno sui territori dominati dalla nostra bandiera, a rappresentarvi e moltiplicarvi la nostra civiltà e la nostra razza. In esse il sangue italiano si manterrà puro; da esse questo sangue traboccherà creando nuova vita, inconfondibilmente italiana.

Noi portiamo alle popolazioni native, l'ordine, la giustizia, il lavoro, l'igiene, il benessere, ma non dobbiamo mai dimenticare che le razze, quando si mischiano decadono. Abbiamo da compiere, in Africa, una splendida missione; se però la nostra prima cura non fosse quella di tutelare la purezza della nostra razza e l'integrità del nostro prestigio, oltre a venir meno alla missione, ci esporremmo a ogni triste rovina.

Dobbiamo sempre — ma specialmente nei rapporti con razze diverse e inferiori — sentire l'onore, la fierezza e la responsabilità di appartenere alla razza che ha dato al mondo l'Impero di Roma, il Rinascimento, il Fascismo, tutte le più alte creazioni dello spirito umano: i santi e gli eroi, i principi del pensiero, dell'arte, della scienza. È la razza di Giulio Cesare e di Virgilio, di Dante e di Colombo, di Leonardo e di Michelangelo, di Galileo, di Volta, di Marconi. È la razza dei nostri padri, di tutti coloro che ci hanno preceduto e che come noi hanno amato questa terra su cui siamo nati, adorando il medesimo Iddio. È la razza di Mussolini: siamone degni, onoriamola col seguitarne il primato; manteniamola intatta, vigorosa, feconda.

Pensieri del Duce sulla razza.

Dobbiamo avere l'orgoglio della nostra razza e della nostra storia.

Celebrare il Natale di Roma significa celebrare il nostro tipo di civiltà, significa esaltare la nostra storia e la nostra razza, significa poggiare fermamente sul passato per meglio slanciarsi verso l'avvenire.

Il problema dell'espansione italiana nel mondo è un problema di vita o di morte per la razza italiana.

Voi siete dei virgulti superbi di questa razza italiana che era grande quando gli altri non erano ancor nati, di questa razza italiana che ha dato tre volte la sua civiltà al mondo attonito o rimbarbarito, di questa razza, italiana che noi vogliamo prendere, sagomare, forgiare per tutte le battaglie necessarie nella disciplina, nel lavoro, nella fede.

Il Fascismo rappresenta il prodigio della razza italiana che si ritrova, si riscatta, che vuole essere grande.

Roma è sempre, e domani e nei millenni, il cuore potente della nostra razza.

Voi rappresentate veramente il prodigio di questa vecchia e meravigliosa razza italica, che conosce le ore tristi, ma non conobbe mai le tenebre dell'oscurità. Se qualche volta apparve oscurata, ad un tratto ricomparve in luce maggiore.

Capace di miracolo è stata in ogni tempo questa nostra razza, italiana, che mi appare ognora, quando io ne faccio oggetto delle mie meditazioni, un prodigio singolare della storia umana.

La terra e la razza sono indiscutibili e attraverso la terra si fa la storia della razza e la razza domina e sviluppa e feconda la terra.

Hanno diritto all'Impero i popoli fecondi, quelli che hanno l'orgoglio e la volontà di propagare la loro razza sulla faccia della terra.

LETTURE

La casa di Predappio.

Arnaldo ed io, dormivamo allora nella stessa stanza, nello stesso grande letto in ferro, costruito da mio padre, senza materasso e col saccone di foglie di granturco. Il nostro appartamento si componeva di due stanze al secondo piano di Palazzo Varano e per entrarvi bisognava passare dalla terza stanza che era la scuola. La nostra stanza serviva anche da cucina. Al lato del nostro letto c'era un armadio di legno rossiccio che conteneva i nostri vestiti; di fronte c'era una scansia ad arco, piena di vecchi libri e di vecchi giornali. Arnaldo ed io li sfogliavamo: fu lì che leggemmo le prime poesie; i primi fogli illustrati come l'" Epoca ", che allora usciva a Genova e fu tra quelle caselle che un giorno io feci una scoperta che mi riempì di curiosità, di stupore e di emozione: trovai le lettere di amore che mio padre aveva scritto a mia madre. Ne lessi qualcuna. Di fronte al letto c'era la finestra. Di lì vedevamo il Rabbi, le colline e la luna che spuntava dietro Fiordinano. All'altro lato del nostro letto c'era la madia per il pane e poco discosto il focolare, quasi sempre spento. Nell'altra stanza dormivano mio padre, mia madre, l'Edvige. Il mobilio consisteva in un cassettone e in un grande armadio di legno bianco, in vetta al quale facevano mostra di sé rotoli di tela per biancheria, dei quali mia madre era particolarmente orgogliosa e gelosa. In mezzo, una tavola sulla quale io studiavo. È a questa tavola che un po' più tardi io ho fatto le mie prime letture generiche che andavano dalla " Morale " dei positivisti, di Roberto Ardigò allora in voga, alla " Storia della filosofia " di Fiorentino, dai " Miserabili " di Victor Hugo alle " Poesie " del Manzoni. Specialmente d'estate, Arnaldo era mio compagno di giuoco e di avventure. D'inverno faceva freddo nella nostra casa affumicata e solo la neve ci dava un po' di gioia. La miseria attorno a noi era grande. Ci si prestava il pane, l'olio, il sale. Quando le " opere " lavoravano, prendevano 28 soldi per una intera giornata. Un avvenimento che rimase scolpito nelle nostre memorie e che più volte — di poi — ho ricordato ad Arnaldo, fu la partenza degli emigranti per il Brasile. Da Varano partì Matteo Pompignoli. Scene di commozione e di lacrime. Ricordo, nella sera, lungo la scala malamente illuminata dai lumi a petrolio, scendere i partenti, con le spalle cariche di grandi sacchi, mentre i parenti dalla ringhiera continuavano a gridare i loro addii. I più non sono tornati. Molti sono morti nelle fazendas di Minas Geraes ".

(Dalla Vita di Arnaldo, scritta dal Duce)

Primo giorno di guerra.

Riprendiamo la nostra marcia. Dobbiamo raggiungere la quota 1270. Siamo sulla mulattiera che va al Monte Nero. Incontriamo dei feriti. Alcuni leggeri che fumano e sorridono. Altri più gravi. Uno di essi ha il volto coperto da un giornale. Sotto si vede la faccia tumefatta e insanguinata. Due feriti austriaci. Uno leggero. Un altro più grave; deve aver le braccia spezzate. Sono diretti all’infermeria — sezione della Sanità — di Magozo.

Colonne lunghissime di salmerie. Senza i muli non sarebbe possibile la guerra in montagna. I più stanchi di noi caricano gli zaini sui muli.

Verso sera giungiamo nella zona battuta dalla artiglieria austriaca. Fischiano nell'aria — col loro sibilo caratteristico — le granate. Sono formidabili. Qualche bersagliere è un po' emozionato. Io che marcio in fondo alla colonna, incoraggio coloro che mi stanno vicini.

Passata la prima e comprensibile emozione, la marcia faticosa con zaino completamente affardellato riprende, sotto il fuoco abbastanza accelerato dell'artiglieria nemica. Una granata scoppia vicino a una colonna di muli, ma non fa vittime. Un'altra cade e scoppia in prossimità di un gruppo di bersaglieri e solleva un turbine di schegge.

Un bersagliere grida che è ferito. Ha avuto la clavicola frantumata. Un'altra granata scoppia accanto a un altro gruppo nel quale mi trovo io. Spezza diversi grossi rami di un albero. Siamo coperti di foglie e terriccio. Nessun ferito. Gli austriaci tirano a caso. Imbruna quando giungiamo al comando. Siamo attesi da un maresciallo. Siamo da dodici ore in marcia. Nessuno è rimasto indietro. E si tratta di soldati dei distretti di Cremona, Rovigo, Ferrara, Mantova, nati e vissuti nelle più basse pianure d'Italia. Vecchia e sempre giovane stirpe italica ! Un bersagliere mantovano mi avvicina e mi dice:

— Signor Mussolini, giacché abbiamo visto che lei ha molto spirito (coraggio) e ci ha guidati nella marcia sotto le granate, noi desideriamo di essere comandati da lei....

Sancta simplicitas !

Ci contano e ci dividono nei tre battaglioni dell'11° bersaglieri.

È l'ora della separazione. Il tenente Izzo, che torna a Brescia insieme con l'ottimo caporale Biagio Biagi di Cento, ci saluta. Noi, assegnati al 33° battaglione, riprendiamo la marcia in fila indiana. Sono le dieci. Sotto a un costone fumano le marmitte delle cucine. Ci preparano il rancio. Un po' scarso, ma eccellente.

Pasta, brodo, un pezzo di carne. Ma molti assetati chiedono invano dell'acqua. Ci stendiamo fra i macigni, all'aria aperta. Non fa freddo. Notte stellata, plenilunare.

Silenzio. Spettacolo fantastico. Siamo in alto ! Siamo in alto ! Già battezzati dal fuoco dei cannoni.

Così si chiude la prima giornata di guerra!

(Dal Diario di guerra del Duce)

" Sono alla guerra per combattere ".

Giunge un ordine scritto:

— Il bersagliere Mussolini deve presentarsi, armato, al Comando del reggimento !

Zaino in spalla. Un'ora di marcia. La sede del Comando è in una modesta e rozza baracca di legno.

— Prima di tutto — mi dice il colonnello — ho il piacere di stringervi la mano e sono lieto di avervi nel mio reggimento; poi, avrei un incarico da affidarvi. Voi dovreste rimanere con me. Siete sempre in prima linea, esposto, anche, al fuoco dell'artiglieria. Dovreste sollevare il tenente Palazzeschi di una parte del suo lavoro amministrativo e dovreste scrivere, nelle ore di sosta, la storia del reggimento, durante questa guerra. È una proposta quella che vi faccio, beninteso; non un ordine !

Il colonnello Giuseppe Barbieri è un romagnolo, di Ravenna. Ha infatti la " linea " del romagnolo.

Gli rispondo:

— Preferisco rimanere coi miei compagni in trincea....

— E allora non se ne parla più. Accettate un bicchiere di vino.

Non è buono il vino del colonnello, ma in mancanza di meglio....

Ho chiesto e ottenuto di passare alla 7.a compagnia per essere insieme col tenente Giraud.

Alcuni bersaglieri, addetti al Comando, mi manifestano le loro meraviglie per il mio rifiuto.

— Sono alla guerra per combattere, non per scrivere.

Risalendo il monte, passo vicino alle cucine. C'è un enorme 305 non esploso. Poco lungi un cadavere di austriaco, abbandonato. Il morto stringe ancora fra i denti un lembo di bavero della sua tunica che — strano! — è ancora intatta. Ma sotto, attraverso la carne in putrefazione, si vedono le ossa. Gli mancano le scarpe. Si capisce ! Le scarpe degli austriaci sono molto migliori delle nostre. Poco prima di arrivare alla trincea incontro Giraud col mio nuovo capitano, Adolfo Mozzoni. Gli riferisco il mio colloquio col colonnello. Si congratula del mio rifiuto che giudica " nobilissimo ".
Anch'io sono un po' giornalista — mi dice — e faremo insieme un giornale delle trincee....

(Dal Diario di guerra del Duce)

Carattere del Duce.

Mussolini ama la giovinezza e difende la sua, anche se una volta, parlando ai senatori dovette dire: " Mi si imputa di andare a cavallo? Sono giovane ! Giovinezza, divino male di cui si guarisce un po' tutti i giorni ! ". Naturalmente è antisedentario. " Poltrona? poltrona? poltrona a me? — esclamò una volta che al " Popolo d'Italia " gli avevano preparato una poltrona davanti al tavolo; — via di qui, subito, se no la butto giù dalla finestra. La poltrona e le pantofole sono la rovina dell'uomo ".

Di fronte alla insufficienza o agli errori di questo o quel collaboratore, le manifestazioni del suo malcontento sono esplosive, ma non trascendono mai alle ingiustizie. E subito si rasserena. Gli sono estranee le recriminazioni ed il brontolio degli insoddisfatti e degli impotenti; né mai lo investono romantiche malinconie.

Ama la campagna, e quando si raccoglie per brevissimo riposo alla Rocca delle Caminate, si intrattiene volentieri coi lavoratori dei campi, pota gli alberi, si informa dei raccolti, semina il grano ed ara la terra. Poi conduce la sua macchina, velocemente, attraverso la Romagna e provvede agli interessi dei più remoti paesi che gli capita di visitare.

Il suo sonno è immediato, profondo, calmo anche quando conclude giornate tempestose. La sua memoria è formidabile per gli uomini e per le cose. " Mussolini non è un uomo di humour, né uomo di spirito alla francese — ha rilevato un biografo; — di regola, un'occhiata sotto zero gela le parole ilari in bocca a chi, lui presente, si permette uno scherzo; la sua concezione della vita è altamente drammatica e volentieri proclive al tragico, ama i contrasti di luce e le forti emozioni ". " Nato di popolo, ama il poema epico, la tragedia e la farsa, comprende poco il sorriso e la mezzatinta. Ma non può soffrire le mutrie farisaiche e la falsa gravita monumentale ". Ha una prevenzione spiccata contro le barbe. " Il suo segreto di seduzione — scrisse un altro biografo molti anni or sono — sta soprattutto nella certezza di non " prevederlo " mai. La sua forma è di prodigiosa varietà ". " La ricchezza varia dello spirito mussoliniano vi fa accogliere sempre con molto calore ed il suo fisico si plasma mirabilmente sul suo stato d'animo. Ecco, è irritato. Ha la testa china sul tavolo fin quasi a sfiorare le pagine con la punta del naso. Ha le mani sotto al tavolo e traguarda appena piegando la testa da una parte. Vi dice un " si " o un " no " o un " ciao " lento, quasi borbottato. Oppure lo trovate a leggere con le spalle voltate alla porta. Sentendovi entrare, non si muove, ma vi domanda: Chi è?, e, riconoscendovi, senza affatto voltarsi, vi risponde con poche parole perfettamente scandite ".

" Urtato, reagisce immediatamente, spiegazzando con una mano sola delle carte che getta via e intanto lampi terribili passano per le sue pupille. E stanco?

E allora il fuoco della sua faccia è come ricoperto da un impercettibile strato di cenere ". " È allegro. Si alza, gestisce con violenza, vi descrive una scena riproducendola con imitazione. Ride, e le rughe all'angolo dell'occhio sprizzano ironie sottili. È sereno. Fa la gran meraviglia per qualsiasi notizia. Vi incoraggia, vi vuol bene, vi aiuta ". " Egli ama il coraggio sobrio, deciso, rettilineo. Tutte le ridondanze lo urtano. Se si irrita, lo fa con un tono imperioso e a fondo. Non mai con grandi tirate. Capace del dramma, detesta il melodramma. Se ama il colore è per italianità passionale, per spirito artistico, perché sa di quanto entusiasmo e di quanta forza possa essere fonte".

Questo il Mussolini agitatore e capopartito durante la violenta lotta politica del dopoguerra: ma tale è rimasto sostanzialmente il Duce dopo 16 anni di governo. Il maggior patrimonio di esperienza e le gravi responsabilità, elevandolo su tutti, anziché inasprirgli il carattere, l'hanno reso sempre più sereno e pacato. Il suo sorriso è più frequente e costituisce un premio per chi lo raccoglie; quando lo scintillio dello sguardo accompagna il franco, improvviso sorridere della bocca e degli occhi, egli rivela tutta la giovinezza del suo spirito. Nei momenti di commozione e di concentrazione i grandi occhi si socchiudono e luccicano fra le ciglia: ciò accade talvolta quando parla ai singoli come alle masse di popolo in attesa.

(Dal libro di Giorgio Pini: Mussolini)

Il testamento di Arnaldo.

Oggi ventisei ottobre millenovecentoventotto anno sesto

26-10-928-VI

nelle mie piene facoltà di mente e di spirito, per una misura di semplice previdenza, non sotto l'impressione di profezie più o meno sinistre, sento la necessità di fissare le mie precise volontà perché in caso di morte coloro che mi sopravvivono conoscano i miei propositi, la mia fede e la mia devozione per loro.

Rivolgo innanzi tutto un pensiero a Dio supremo regolatore della vita degli uomini e desidero morire — se è possibile — col grande conforto della Religione cattolica alla quale ho creduto sino "dall'infanzia e che nessuna vicissitudine di vita privata o politica ha mai sradicato dal mio spirito tormentato.

Funerali religiosi quindi assai semplici, senza sfarzo di corone, di fiori o di discorsi. Chiedo ai colleghi di essere sobri di commenti nel necrologio. Un corteo di breve durata e di breve percorso. Agli intimi solo esprimo il desiderio di saperli al seguito mio fino al recinto che accoglierà le mie spoglie mortali. Non ho preferenze per il luogo della sepoltura. Se mia moglie ed i miei figli si fermano a Milano desidero rimanere vicino a loro, altrimenti in Romagna nella tomba dei Mussolini, se un giorno si farà, o meglio ancora a Paderno nel poggio appena fuori del Cimitero in un'urna di sasso vivo. Mi sembrerà di rivivere in eterno con la gente della mia terra, dominando la vallata dove un giorno fiorì la mia speranza.

In linea politica riaffermo la mia fede fascista e la certezza nei destini della Patria adorabile, vivamente rammaricato di non aver dato tutta la vita intensa di opere alla Grande Madre l'Italia. A mio fratello Benito la devozione di ogni tempo e l'augurio sentito per la sua nobile fervida e disinteressata fatica. A mia sorella Edvige con maggiore tenerezza, per l'istintiva solidarietà tra gli umili, il mio affetto ed augurio fraterno.

Ma soprattutto e sopra tutti sta nel mio cuore la mia piccola Augusta anima rara di bontà di una virtù senza uguali. Lei mi ha accompagnato attraverso la mia vita turbinosa, con una dedizione senza esempio. Madre e sposa amorosa, invoco dal sommo Iddio benedizioni infinite per Lei e la forza di superare con serenità le vicende tristi della vita, nell'attesa fidente di ritrovarci nel regno infinito dello spirito dopo la parentesi terrena.

Ai miei carissimi figliuoli Sandrino (Italico) Vito e Rosina — tanta dolcezza della mia vita—le benedizioni del babbo — che ha lavorato e sperato e creduto per Loro. Confido che l'esempio della mia attività, del mio disinteresse gioverà come sprone e paragone nelle difficili contingenze della vita. Sono certo che porteranno onoratissimo il mio nome intemerato e che circonderanno la loro Madre degnissima, di ogni vigile cura, attenzione e delicatezza.

I miei beni materiali sotto qualsiasi ragione o titolo, il premio di assicurazione e di liquidazione li eredita nella totalità mia moglie Augusta Bondanini e li amministra nel nome e nell'interesse dei nostri tre figliuoli i quali alla morte della mamma divideranno in parti uguali le poche sostanze mobili ed immobili. L'importo dell'assicurazione dei giornalisti desidero sia devoluto all'Istituto di Previdenza. Altra beneficenza la lascio al criterio dei miei carissimi.

Chiedo umilmente perdono se inconsciamente ho fatto del male a qualcuno, se ho trasgredito le leggi divine ed umane. Affido il mio nome e la mia memoria ai miei famigliari ed affido l'anima alla misericordia di Dio.

Arnaldo Mussolini



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