Capitalismo cognitivo e finanza
by Christian Marazzi
La conoscenza innovativa è qualcosa che si produce e che, per questo preciso motivo, deve essere remunerata
Donald
J. Johnston, segretario generale dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo
Sviluppo Economico (OCSE), in un recente articolo [1] in cui anticipa i risultati dell’inchiesta
PISA 2003 (Program for International Student Assessment) che saranno
pubblicati entro la fine del 2004, sostiene che sistemi educativi e formativi
sempre più confrontati con la competizione internazionale per la creazione di
posti di lavoro, la domanda di nuove tecnologie e più ampi bisogni
dell’economia della conoscenza, sono destinati ad evolvere a mezzo di shock
terapeutici. “I sistemi educativi sono molto complessi. Per essere effettivi,
devono rispondere rapidamente e in modo appropriato ai cambiamenti
dell’ambiente economico e sociale. Paradossalmente, l’informazione sui nuovi metodi
e approcci che possono aiutare gli erogatori di educazione ad adeguare i
programmi e a migliorare i risultati dell’apprendimento, sono difficili da
reperire e ancor più da implementare. Qualcosa di simile
all’elettroshockterapia è spesso necessario prima ancora che le riforme siano
prese in considerazione”. Al di là dei problemi ricorrenti delle istanze
formative degli ultimi anni, come la garanzia di una equa formazione di
qualità, la carenza di docenti, il rafforzamento della formazione continua per gli
adulti, la diversificazione etnica e culturale della popolazione studentesca,
l’ostacolo maggiore riguarda l’adeguatezza delle forme di finanziamento. I
paesi dell’OCSE, secondo Donald Johnston, “devono sviluppare meccanismi di
co-finanziamento attraverso i quali contribuiscano governi, imprese e
individui”.
Tra
tutti i buoni propositi pedagogico-riformatori, l’anello più debole per i paesi
membri dell’OCSE riguarda dunque il rapporto tra formazione, ricerca e
finanziamento. Se si guarda a quella “rivoluzione dall’alto” rappresentata dal
modello di Bologna, ci si rende subito conto che l’orientamento generale è
verso l’abbassamento della qualità della formazione universitaria di base (con
la sostituzione della vecchia laurea con il Bachelor, o laurea breve) e la
promozione di una formazione specializzata di tipo élitario (con i Master a
pagamento). “Per la maggioranza - in Inghilterra, l’80% degli studenti smette
l’università dopo il Bachelor, questo significa un brutale livellamento verso
il basso del loro grado di formazione” [2]. Nei programmi di riforma dell’assetto
universitario sono presi ad esempio i programmi pubblici dei prestiti agli
studi in vigore negli Stati Uniti, “ma si possono sollevare dei dubbi in merito
alla sua efficacia reale, quando solo pensiamo, ad esempio, che numerosi
giovani si sono ingaggiati nell’esercito americano per la guerra in Iraq al
solo scopo di poter pagare i loro studi” [3].
Da
questo punto di vista la Dichiarazione di Bologna rappresenta uno di quegli
shock di cui parla il segretario generale dell’OCSE. Si tratta né più né meno
dell’applicazione ai processi formativi dei principi che regolano la produzione
flessibile post-fordista, con la privatizzazione dei costi della formazione
(aumento delle tasse universitarie e costi aggiuntivi per la specializzazione)
e la sua deregolamentazione legata alle esigenze dei settori industriali
privati (concorrenza tra poli di formazione-ricerca universitari). D’ora in poi
formazione non può far rima che con precarizzazione. La colonizzazione
economica dello spazio educativo ha innescato un ciclo internazionale di lotte
per il diritto allo studio, lotte in cui la flessibilità/precarietà dei
percorsi educativi si intreccia con quella dei ricercatori confrontati con i
tagli ai finanziamenti pubblici e con l’aziendalizzazione della produzione di
conoscenza e dell’innovazione. Oltre duemila direttori di laboratorio e
responsabili di équipe di ricerca francesi si sono dimessi dalle funzioni
amministrative per protestare contro la mancanza di fondi, opponendosi al
taglio di 550 posti e rivendicando un nuovo impulso al settore della ricerca.
Si tratta di capire in che misura l’intreccio tra formazione, ricerca e
finanziarizzazione post-fordista è in grado di definire un terreno di scontro
all’altezza delle trasformazioni dell’assetto produttivo in atto su scala
globale.
Capitalismo cognitivo e finanza
La
conoscenza che permette di innovare i processi produttivi, il “progresso
tecnico” che contribuisce ad aumentare la produttività del lavoro e a
massificare il consumo di beni e servizi, non cade dal cielo, non è esterna al contesto
in cui si dà crescita economica. La conoscenza innovativa è qualcosa che si
produce e che, per questo preciso motivo, deve essere remunerata. In
altre parole, si tratta di considerare il progresso tecnico generato dalla
produzione di conoscenza come un costo. È quanto risulta dagli
sviluppi teorici nel campo dell’analisi micro-economica dei fattori di
crescita. Le teorie della crescita endogena hanno infatti permesso di
liberarsi dall’idea neo-classica di una conoscenza innovativa libera e esterna allo
spazio dell’agire umano, quasi fosse suggerita a Robinson dal suo pappagallo,
oltretutto gratuitamente [4].
Il
problema che si pone riguarda quindi il rapporto tra innovazione dei processi
di produzione e trasformazione dei sistemi finanziari. Il legame tra crescita
economica e sistema finanziario passa dal finanziamento della produzione delle
innovazioni tecniche. “La crescita dipende dunque dalle condizioni di formazione
dell’equilibrio risparmio-investimento, nella misura in cui queste influenzano
l’accumulazione dei fattori che determinano la traiettoria del progresso
tecnico” [5].
Se
l’innovazione è prodotta endogenamente, chi e come la si paga ? Dato che
la produzione d’innovazione è per sua natura incerta [6], nel senso che è difficile anticiparne i
rendimenti economici, come attirare l’interesse dei potenziali
investitori ? E poi, dato che la conoscenza innovativa è un bene
pubblico, soprattutto in un’economia fortemente
congitivo-comunicativa [7] in cui la diffusione informale delle
innovazioni si contrappone alla possibilità di esercitare su di esse una
proprietà mercantile completa [8], quali sono i meccanismi che ne permettono
l’appropriazione o la sottrazione [9] privata e/o pubblica ?
La
risposta che normalmente si dà a questi interrogativi si basa sui modelli di
allocazione del risparmio come fonte principale del finanziamento della
crescita economica. Nel corso degli anni ‘80 i mercati finanziari liberalizzati
hanno favorito il dirottamento della massa dei risparmi su titoli di proprietà
che assicuravano rendimenti elevati in virtù del loro essere forme di ricchezza
rigide. Il mercato immobiliare è l’esempio più noto di come la
realizzazione di guadagni facili sia stata fluidificata dalle trasformazioni
dei prodotti finanziari sulla falsariga delle modificazioni della struttura
interna e della composizione sociale del risparmio [10]. I mercati finanziari liberalizzati hanno
poi contribuito ad accelerare le ristrutturazioni aziendali secondo i princìpi
della produzione snella, riducendo i costi di produzione a causa del costo
eccessivo del denaro. Più i mercati finanziari hanno permesso facili guadagni,
più i risparmi hanno lasciato il sistema bancario (disintermediazione) per
dirigersi verso titoli di proprietà mobili (quotati in Borsa), e più
le banche sono state costrette a mantenere elevati i tassi di interesse per
trattenere il risparmio.
Da
una parte, le ristrutturazioni, diminuendo i costi in un contesto globale sempre
più competitivo, hanno favorito l’abbattimento dei prezzi, innescando la disinflazione ;
dall’altra, gli aumenti dei tassi di interesse reali, dovuti alla concorrenza
tra mercati finanziari e settore bancario, hanno eliminato uno dopo l’altro le
rendite di posizione o i facili guadagni (come nel settore immobiliare [11]), costringendo i risparmi a dirigersi sui
titoli azionari. ). In questi anni il rallentamento congiunturale, le
ristrutturazioni delle imprese, le costrizioni sui budget pubblici e le
difficoltà delle banche hanno inferto seri colpi di freno alle spese di Ricerca
& Sviluppo delle imprese. L’uscita dal fordismo significa in questo senso
la fine della centralità della produzione e del finanziamento della R&S
basata sui finanziamenti all’industria degli armamenti, dell’aeronautica,
dell’elettronica e della chimica [12].
La
disinflazione ha così contribuito a ridurre fortemente gli investimenti in
vecchi titoli non direttamente legati alla crescita economica, a tutto
vantaggio dei titoli dei settori economici emergenti, in particolare il settore
delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (TIC). La nascita
della new economy nel corso degli anni ‘90 si spiega appunto a partire
dall’incontro tra finanza e imprese tecnologiche emergenti, le famose imprese
internettiane “dotcom”.
Negli
anni ‘90, la rivoluzione informatica nei servizi, le opportunità di Internet e
la bolla speculativa stravolgono completamente la logica dell’innovazione negli
Stati Uniti. “È una nuova versione del sogno americano, una nuova frontiera
dove l’innovazione scaturisce dalla creazione di grappoli di imprese. Due
persone, un’idea e un garage possono fare una nuova impresa mondiale sotto la
bacchetta magica del capitale-rischio. Microsoft, Amazon o Cisco nutrono questa
saga. La credenza degli investitori istituzionali americani li conduce ad
apportare sempre più denaro nei fondi di innovazione [13]”.
Le
trasformazioni delle modalità di finanziamento dell’innovazione di questi anni,
il boom del “venture capitalism” negli Stati Uniti e i suoi effetti
contagiosi nel resto del mondo, si spiegano a partire dall’importanza crescente
del lavoro vivo cognitivo rispetto alla scienza incorporata nelle macchine
fordiste. La rivoluzione informatica permette effettivamente di liberare quantità
enormi di capitali un tempo investiti a lungo termine in sistemi produttivi
rigidi. D’altra parte, la riorganizzazione delle imprese sul modello toyotista
e dei distretti industriali italiani, pone la produzione dell’innovazione al
centro stesso dell’agire comunicativo e relazionale della forza-lavoro. La
scienza, per così dire, esce dai laboratori per incorporarsi direttamente nelle
attività del vivente, da scienza incorporata nel capitale macchinico fisso si
trasforma in scienza interna al corpo della forza-lavoro. È questa
“trasposizione” che permette di utilizzare la categoria marxiana del general
intellect, oggi non più riferita al sapere accumulato nelle forze
produttive del capitale, come Marx aveva previsto per lo sviluppo storico del
capitalismo industriale, bensì nei corpi viventi della forza-lavoro.
Nell’imprenditorializzazione
dell’innovazione, all’origine della proliferazione delle start upnella
seconda metà degli anni ‘90 e culminata nella crisi dei mercati borsistici del
2000, le start up rappresentano la vera innovazione del rapporto tra
ricerca e finanza, ma anche la contraddizione tra economia della conoscenza e
economia dell’informazione. Il general intellect, per così dire, si
quota in Borsa, ciò che presuppone il passaggio dal terreno fertile delle idee
a quello finanziarizzato della produzione di merci e servizi.
Negli
Stati Uniti la trasformazione delle idee in imprese attraversa i campus
universitari, è attivata da gruppi di capitalisti (Business Angels [14]) che tra loro coltivano relazioni di
partenariato e apportano i capitali di avvio (seed money) ai candidati
imprenditori, vede in seguito l’entrata dei fondi di investimento collettivi
che garantiscono un sostegno azionariale prima ancora di entrare in Borsa. Il
lancio in Borsa (NASDAQ) di valori a rischio attira i fondi pensione e i fondi
comuni di investimento, permettendo ai venture capitalist di uscire
dalle imprese da loro avviate realizzando plusvalori elevati. Queste “rendite
di innovazione”, da una parte compensano le perdite subite nelle imprese che
falliscono, dall’altra vengono utilizzate per il lancio di nuove imprese.
Il
passaggio dalla logica dei Business Angels, in cui contano le
relazioni personali con “tempi di semina” di 12 o 18 mesi, alla logica delle
imprese finanziarie (spesso filiali delle banche di investimento, dette
“incubatori di imprese”), che funzionano sulla base di criteri contabili,
giuridici e di marketing e su tempi brevi, è nel medesimo tempo leva
del successo delle start up e causa della loro crisi. La
finanziarizzazione permette la messa in forma aziendale del lavoro immateriale
vivo, ma questa metamorfosi presuppone la produzione di plusvalenze
(premio del rischio) senza le quali l’intero processo non potrebbe neppure
incominciare. Il premio del rischio che contrassegna il passaggio in Borsa
delle start up, così come lo “scarto d’acquisizione”, o plusvalore (goodwill,
in inglese [15]), risultante dalla differenza tra il valore
di mercato e il valore contabile delle società assorbite nei processi di
fusione, sono il prezzo della sottrazione del sapere o,
simmetricamente, della eccedenza del general intellect, che
rappresenta la contraddizione specifica del nuovo capitalismo cognitivo. In
entrambi i casi si tratta della messa a bilancio di un attivo intangibile che rappresenta
la trasformazione in merce del sapere e della conoscenza, un valore che è necessario
per attirare capitali in una fase in cui la stessa organizzazione locale e
globale dei mercati finanziari orienta le scelte degli investitori sulla base
di logiche di rendimento competitive.
I
mercati finanziari sono certamente autoreferenziali, nel senso che i valori
borsistici tendono a “scollarsi” dai valori economici delle imprese quotate in
virtù del comportamento imitativo“ [16] (implicito nel funzionamento delle
convenzioni keynesiane) tipico della comunità degli investitori. Ma è un errore
non vedere in questa dinamica autoreferenziale, che ciclicamente sfocia nelle
esplosioni delle bolle speculative, la contraddizione insita nella
trasformazione in merce del lavoro immateriale.
Il
lavoro cognitivo innovativo è per definizione “open source” [17], cooperativo, relazionale, comunicativo e
sempre più globale. Per essere comandato e mercificato, cioè organizzato in
attività imprenditoriale, deve essere prima di tutto gerarchizzato e
finanziarizzato, ciò che comporta l’appiattimento e la sottrazione del sapere
diffuso, e la sua regolazione secondo i principi del business plan. Ma
questa operazione non è indolore, ha un suo premio/prezzo, che nel lancio delle
strart up ingenera sopravvalutazioni “folli” che destabilizzano
l’andamento normale dei mercati ampliandone la volatilità e l’instabilità,
mentre nel caso delle acquisizioni e fusioni di imprese (con le Offerte
Pubbliche d’Acquisto, le OPA) comporta la razionalizzazione e la
flessibilizazzione del lavoro come controparte della “messa a bilancio” degli
attivi intangibili acquisiti.
Ciò
che unisce la lotta dei ricercatori e quella dei lavoratori flessibili e
intermittenti è precisamente la contraddizione dei processi di
immaterializzazione del lavoro : l’anima e il corpo del lavoro immateriale
trova la sua concreta espressione sul terreno della finanziarizzazione del
capitalismo cognitivo. Le lotte dei precari e quelle dei ricercatori riflettono
la medesima contraddizione di un capitalismo che per funzionare sottrae sapere
producendo eccedenze cognitive e soggettive, le “libera” escludendole dai
processi redistributivi della ricchezza sociale.
Capitalizzazione e socializzazione [18].
Prima
di guardare alla fase che segue la crisi-trasformazione della new economy,
iniziata nel marzo del 2000 e tuttora in corso, prima cioè di analizzare la
riconfigurazione del rapporto tra finanza e produzione di
conoscenza-innovazione, è opportuno fare alcune osservazioni a proposito del
capitale finanziario come espressione del capitalismo cognitivo
post-fordista.
In
primo luogo, la finanziarizzazione dei processi economici sopra descritto non
deve essere vista con lo sguardo (fordista) di una perversione, di un semplice
fenomeno speculativo, moralmente condannabile, o di un semplice prolungamento
delle forme classiche del capitale finanziario (à la Hilferding), ma
come una vera e propria innovazione interna al funzionamento del
capitalismo che, a modo suo, esprime le caratteristiche del nuovo periodo
post-fordista : fluidità e incertezza. I mercati
finanziari sono contemporaneamente l’opposto e l’equivalente delle nuove
condizioni della produttività del lavoro e della produzione di innovazione.
In
secondo luogo, ciò che caratterizza il nuovo capitale finanziario èlafusione
dell’insieme delle funzioni della moneta [19]. Questa fusione muta il ruolo e
l’importanza del sistema bancario, ma soprattutto autorizza la messa in
relazione diretta di tutte le forme e gli utilizzi del denaro. Ogni somma di
denaro può metamorfosarsi in investimento su titoli azionari e obbligazionari.
Questa situazione modifica le frontiere tra salario e profitto, e dunque la
delimitazione semplice e meccanica tra classi sociali direttamente opposte
nella ripartizione della ricchezza creata. La partecipazione diretta dei
salariati all’investimento sui mercati di azioni e obbligazioni non è più un
fenomeno marginale : è invece costitutivo della nuova condizione
salariale. La distinzione tradizionale tra salario diretto e salario
socializzatoèinviad’estinzione.Neè un indicatore la diffusione in tutti i paesi
dei sistemi pensionistici a capitalizzazione (II pilastro, o pensione
integrativa). Il salario socializzato (o differito) circola ormai mondialmente
attraverso l’intermediario dei fondi di investimento e dei fondi pensione. Il
concetto stesso di “salario socializzato” diviene inadeguato. Il nocciolo del dibattito
sul destino dei sistemi previdenziali non riguarda l’opposizione tra un sistema
solidale di ripartizione e uno individuale di capitalizzazione. L’opposizione
è, invece, tra un salario socializzato gestito nazionalmente e una frazione del
movimento del capitale investito mondialmente.
“Quando
si esamina - scrive Zarifian - il comportamento reale e non moralizzato dei
fondi pensione o d’investimento, si vede che sono messi in gioco dei calcoli
d’anticipazione, nei quali la valutazione della strategia ²produttiva² e
competitiva delle grandi imprese e della qualità decisionale dei vertici
manageriali è assolutamente presente. Non c’è dissociazione, ma piuttosto
espressione, traduzione e riduzione in investimenti finanziari delle
prospettive di redditività della strategia d’impresa. E’ questa
traduzione/riduzione che spiega le pressioni temporali sul breve termine e i
livelli elevati di rendimento atteso, e che si gioca nel dialogo serrato che i
dirigenti dei fondi intrattengono con i vertici manageriali delle imprese
globalizzate. Si manifesta una distinzione, ma non una dissociazione. Il
capitale di investimento introduce, nelle strategie produttive, un ideale di
fluidità e di anticipazioni rischiose che fanno pressione sull’investimento
produttivo, ma non se ne separa [20]”.
È
proprio perché esiste nel medesimo tempo differenza e associazione tra i
gestionari dei fondi pensione e di investimento e i dirigenti delle grandi
imprese produttive, con un chiaro dominio dei primi sui secondi, che si può
parlare della formazione di una nuova categoria di capitalisti,costituita
da questa associazione. Dunque, di una nuova definizione del capitale
finanziario, notevolmente differente da quella data da Hilferding e ripresa da
Lenin. Il capitalismo cognitivo e finanziario va capito nella sua globalità,
e non isolando questa o quest’altra sua forma.
Dopo la crisi dellanew economy
L’esplosione
della bolla speculativa del marzo 2000 è la prima crisi finanziaria del
capitalismo cognitivo. È, in primo luogo, una crisi finanziaria che
mira a scardinare le traiettorie “dal basso verso l’alto” della
imprenditorializzazione del general intellect, la sua “entrata in
Borsa” con le start up. Da questo punto di vista è la dimensione
locale del capitalismo cognitivo che viene attaccata dalla crisi
borsistica, in particolare la concentrazione nella Silicon Valley del maggior
numero di nuove imprese high tech, la cui proliferazione ha contribuito alla
crisi da “sovrapproduzione digitale” e alla successiva scomparsa di molte delle
imprese internettiane.
Ma
la crisi del 2000 è anche la crisi della particolare spazializzazione mondiale
della new economy. La “convenzione Internet”, che “tira” i mercati tra
il 1998 e l’inizio del 2000, non è che l’espressione del più vasto e
strutturale processo di “cognitarizzazione” del lavoro, dello spostamento delle
leve dell’innovazione dai “corpi separati” della Ricerca&Sviluppo di
fordiana memoria, ai corpi vivi della forza-lavoro. I capitali, che dal resto
del mondo confluiscono sui titoli azionari e obbligazionari di imprese quotate
sui mercati borsistici statunitensi, inseguono letteralmente i flussi
di ricercatori statunitensi, europei e asiatici che negli anni ‘90 vanno alla
Silicon Valley, come un tempo i giovani attori andavano a Hollywood.
L’afflusso
di capitali e di forza-lavoro cognitiva all’interno e verso gli Stati Uniti, in
un certo senso l’americanizzazione del general intellect, è
all’origine della crescita spettacolare del settore delle tecnologie
dell’informazione e della comunicazione e degli “effetti ricchezza” generati
dalle rendite finanziarie. La crescita del PIL è dovuta in particolare alla crescita
del settore delle nuove tecnologie, mentre la domanda di beni e servizi è
determinata dall’aumento dell’offerta. Gli anni clintoniani della new
economy sono contrassegnati da un’espansione keynesiana di tipo nuovo, nel
senso che, mentre diminuiscono i redditi sociali erogati dal Welfare State,
aumentano le entrate fiscali dovute alle tasse sui capital gains,
permettendo così al budget federale di realizzare addirittura degli avanzi. Si
può parlare di “keynesismo finanziario”, di regolazione macroeconomica basata
sul deficit spending privato delle imprese e delle famiglie.
Negli
Stati Uniti la crisi segna il passaggio dalla crescita sul lato dell’offerta
alla crescita sul lato della domanda. Tra la fine del 2000 e il 2003 la
politica monetaria della Federal Reserve è tutta finalizzata a sostenere la
domanda delle economie domestiche facilitando l’indebitamento. Con tassi di
interesse praticati dalla Fed attorno all’1%, quindi negativi in termini reali,
si assicura il mantenimento del consumo a livelli elevati grazie
all’eliminazione del risparmio e all’indebitamento ipotecario (remortgaging)
delle famiglie favorito all’inflazione dei valori immobiliari. Diversamente
dalla grande depressione degli anni seguenti la crisi del ‘29, contrassegnata
dalla deflazione della domanda di consumo di beni e servizi, gli anni che
seguono la crisi della new economy sono caratterizzati dalla
deflazione della domanda di beni strumentali, in particolare delle TIC [21].
L’uscita
dalla crisi della new economy ridisegna spazialmente la ripresa del
capitalismo cognitivo su scala mondiale. Di nuovo, i capitali inseguono i
movimenti del cognitariato, ma questa volta dagli Stati Uniti verso i paesi
asiatici, con i processi di outsourcing e di offshoring in
paesi in cui il costo del lavoro vivo è dieci volte inferiore a quello dei
paesi sviluppati. La crisi della finanziarizzazione del lavoro cognitivo e
innovativo degli anni ‘90, l’impossibilità di riprodurre il circolo virtuoso
delle start up e delle Merge&Acquisitions sulla base
dell’afflusso continuo di capitali negli Stati Uniti, ma ciononostante la
necessità di rilanciare l’accumulazione capitalistica sulla base del lavoro
immateriale innovativo, costringe il capitale a compensare la perdita delle
plusvalenze (dei premi del rischio e dei goodwill) con la riduzione
drastica del salario dei lavoratori cognitivi [22].
La
crisi del 2000 è, da questo punto di vista, un vero e proprio attacco alla
potenza materiale del general intellect, alla sua forza
contrattuale [23] che, negli anni del boom della new
economy, sposta ricchezza dagli azionisti ai knowledge workers [24]. Cina e India rappresentano
straordinari bacini di forza-lavoro a basso costo pronta ad entrare nei
circuiti globali della produzione di TIC e di beni e servizi immateriali.
Rappresentano, anche, l’occasione per deterritorializzare il general
intellect, precarizzandolo all’interno delle economie sviluppate e
riterritorializzandolo nei paesi di nuova industrializzazione [25].
La
ricomposizione globale del cognitariato.
La
riconfigurazione mondiale del capitalismo cognitivo, l’inversione dei flussi di
investimenti diretti all’estero, la precarizzazione dei lavoratori cognitivi
nei paesi sviluppati e la moltiplicazione di nuove Silicon Valley in paesi
economicamente emergenti, costringono a ridefinire lo spazio di ricomposizione politica
del cognitariato. Si tratta sin da subito di abbandonare l’idea di una guerra
commerciale tra paesi del centro e paesi emergenti, con il suo correlato
protezionistico nazionale.
L’inversione
del flusso di investimenti all’estero che si è imposta sui mercati finanziari
negli ultimi tre anni riflette la crescita formidabile dei deficit (federale e
commerciale) degli Stati Uniti e i surplus dei paesi asiatici, di cui quello
cinese, se si tiene conto del flusso di investimenti diretti stranieri, supererà
quest’anno il 5 percento del PIL. Riflette, anche, l’accumulazione di riserve
monetarie da parte dei paesi asiatici, riserve che le banche centrali
utilizzano per frenare la svalutazione del dollaro acquistando Buoni del Tesoro
americani (ciò che, tenendo bassi i rendimenti sui BOT, permette ai mercati
finanziari US di proteggersi dall’indebolimento del dollaro). Fino ad oggi
questa inversione di flussi di capitali non ha provocato scossoni particolari,
e questo perché la svalutazione del dollaro ha fatto aumentare (benché in modo
insufficiente) le esportazioni dei beni americani e, soprattutto, ha avuto
quale effetto monetario quello di aumentare i profitti rimpatriati delle
filiali estere delle multinazionali statunitensi.
Per
quanto instabile, l’equilibrio che si è stabilito sui circuiti monetari e
finanziari mondiali non dovrebbe degenerare in una guerra commerciale tra Stati
Uniti, Cina e gli altri paesi asiatici, come il Giappone, che hanno surplus
commerciali importanti. Gli americani hanno bisogno di vendere BOT agli
asiatici, e gli asiatici, pur esportando sempre di più, hanno bisogno di
importare materie prime e beni strumentali dagli Stati Uniti e da altri paesi
occidentali per mantenere tassi di crescita sostenuti. Senza contare che un
numero crescente di beni prodotti in Asia e esportati verso gli Stati Uniti
sono, di fatto, il risultato di processi di offshoring da parte di
multinazionali statunitensi in paesi come la Cina e, sempre di più, l’India. In
questo senso gli Stati Uniti commerciano prevalentemente con se stessi. “Quando
Wal-Mart Stores Inc. importa la maggior parte dei suoi prodotti o Intel Corp.
produce gran parte dei suoi microprocessori offshore, questo è
fantastico per la cifra d’affari della compagnia. Ma contribuisce a determinare
uno squilibrio commerciale che è diventato strutturale. Gli Stati Uniti, come
sponsor della liberalizzazione del commercio, promuovono anche accordi come il
NAFTA, che favoriscono le esportazioni dei partner commerciali più di quelle
americane” [26].
E’
precisamente la strutturalità del deficit commerciale americano che,
se da una parte riflette la globalizzazione dei processi produttivi, dall’altra
riduce notevolmente l’effetto della svalutazione del dollaro sugli squilibri
fondamentali. Non si può sostenere, come fa l’economia standard, che il deficit
commerciale rispecchia principalmente le fluttuazioni del deficit pubblico e
dei tassi di cambio. L’idea secondo cui “più il governo si indebita e più
capitali devono essere importati”, è contraddetta dai fatti : durante gli
anni 90, il deficit commerciale statunitense non ha smesso di crescere malgrado
la progressiva eliminazione del disavanzo federale e malgrado la
recessione del ‘91. L’accordo raggiunto a Boca Raton il 7 febbraio 2004,
secondo cui i paesi del G7 si impegnano a ridurre la pressione sull’euro e a
favorire una maggiore flessibilità dei tassi di cambio delle monete asiatiche,
non solo avrà scarsi effetti reali sui rapporti di cambio, ma non inciderà
minimamente sugli squilibri fondamentali che sono maturati negli anni del
dopo-crisi [27].
Con
la ripresa dei mercati borsistici a partire dal 2003 quale effetto del
risanamento finanziario delle imprese, nei primi mesi del 2004 si è avviata una
nuova ondata di OPA e di Mergers&Acquisition, non solo in Asia,
dove il numero di OPA e di start up è in forte aumento [28], ma anche in Europa e negli Stati Uniti,
seppure con minore intensità [29]. Rispetto agli anni ‘90 e al 2000, in cui
gli investimenti erano principalmente orientati verso la rapida
capitalizzazione delle innovazioni prodotte da imprese emergenti, nella fase
attuale è la razionalizzazione delle imprese, la flessibilizzazione e l’esternalizzazione
della forza-lavoro, la riduzione dei salari e l’aumento della produttività, che
definiscono i criteri in base ai quali rilanciare gli investimenti. In altre
parole, oggi la filosofia manageriale è “impatient for profit but patient
for growth” [30].
Siamo
entrati in una fase in cui la dimensione globale del capitalismo cognitivo, con
l’inclusione di aree di sviluppo quali l’Asia e l’America latina, è contrassegnata
da politiche di regolazione “verso il basso” del valore della forza-lavoro.
Soprattutto nei paesi del Centro, la produzione di conoscenza e di innovazione
a mezzo di precarizzazione è il segno distintivo di questa nuova fase. Le
scuole, i centri di ricerca, le imprese flessibili, il mercato del lavoro, sono
tutti “luoghi” in cui l’attacco al valore della forza-lavoro ha quale obiettivo
prioritario quello di eliminare i margini di ricomposizione politica del
proletariato cognitivo, del cognitariato.
Nel
corso della crescita del capitalismo industriale, la lotta di classe nei paesi
del Centro, la lotta politica sul salario e la negoziazione collettiva tra
salariati e capitale, hanno sovvertito le regole di calcolo del saggio di
profitto [31]. In epoca fordista si diceva che “un operaio
del Michigan può comprare con un’ora del suo lavoro il prodotto di una giornata
intera del suo collega vivente al Sud”. I capitali si dirigevano dal Sud al
Nord perché i salari nei paesi del Centro erano superiori a quelli dei paesi
della periferia. Le lotte dell’operaio multinazionale hanno comunque screditato
l’idea secondo cui “è la classe operaia dei paesi ricchi che sfrutta la classe operaia
dei paesi poveri”. Certo, il divario tra Nord e Sud non è diminuito, si è anzi
ampliato, ma il ciclo di lotte dell’operaio fordista ha fatto saltare il
modello fordista, costringendo il capitale a svilupparsi su scala globale
mettendo al lavoro le qualità più generali della forza-lavoro, le sue facoltà
cognitiva, relazionale e comunicativa.
L’inversione
dei flussi di capitali dal Centro verso i paesi di nuova industrializzazione
non permetterà sicuramente a un’ora di lavoro di un operaio indiano o cinese di
comperare il prodotto di una giornata del suo collega americano o europeo. Ma
le lavoratrici dei supermercati della Wal-Mart o i produttori di software del
Nord lavorano effettivamente di più per un salario inferiore. Il che significa
che la lotta contro la precarietà e per l’aumento del reddito ha ormai una
dimensione globale che unisce i destini della moltitudine.
[1] Education needs to adapt to a chianging
world, in “International Herald Tribune”,19 marzo, 2004.
[2] Il diritto allo studio minacciato. Verso
un aumento delle tasse universitarie, in “Solidarietà”, 18 marzo, 2004,
Ticino/Svizzera. Il testo citato è stato distribuito sottoforma di volantino da
un gruppo di studenti del Movimento per il socialismo dell’Università di
Ginevra.
[3] “La riconfigurazione del sistema di
formazione superiore attualmente in corso non significa unicamente meno mezzi
per studiare nei prossimi anni per la grande maggioranza degli studenti.
Significa anche una pressione sempre maggiore sui salari dei futuri diplomati
di queste università. In effetti, i nostri futuri datori di lavoro non
esiteranno a pagare meno per un Bachelor ottenuto in soli tre anni rispetto a
una licenza ottenuta in quattro anni” (ibidem).
[4] “Le teorie della crescita endogena si
accordano con la maggior parte delle teorie anteriori nell’attribuire al
progresso tecnico un ruolo motore nella crescita. Esse vanno tuttavia più
lontane delle teorie precedenti su due punti : integrano il progresso
tecnico come risultante di un’attività economica remunerata, e il cui livello
sia dunque endogeno ; e modellizzano in modo più ricco le forme della
tecnica e la loro evoluzione...È la natura di bene in parte pubblico del sapere
che ne fa un motore della crescita...” (D. Guellec e P. Ralle, Les
nouvelles théories de la croissance, Parigi, 1995).
[5] M. Aglietta, Macroéconomie
financière. 1. Finance, croissance et cycles, La Découverte, Parigi, 2001,
p. 9.
[6] Cfr. N. Moureau, D. Rivaud-Danset, L’incertitude
dans les théories économiques, Parigi, 2004.
[7] Per la definizione articolata del capitalismo
cognitivo, che qui di seguito fa da sfondo all’analisi del rapporto
ricerca-innovazione-finanza, rimando a C. Vercellone (a cura di),
Sommes-nous sortis du capitalisme industriel ?, La dispute, Parigi,
2003. Vedi anche, sulla stessa linea teorica, Y. Moulier Boutang (a cura di), L’età
del capitalismo cognitivo. Innovazione, proprietà e cooperazione delle
moltitudini, Ombre Corte, Verona, 2002.
[8] Sulla differenza e contraddizione tra
“economia dell’informazione” e “economia della conoscenza”, si veda R. Boyer, La
croissance, début de siècle. De l’octet au gène, Albin Michel, Parigi,
2002, p. 174 e sgg. “La dinamica della prima (economia dell’informazione( è
alimentata da innovazioni tecnologiche tendenti a far abbassare i costi del
trattamento e della trasmissione dell’informazione, attraverso equipaggiamenti
o software. Per contro, la seconda (economia della conoscenza( ha come finalità
l’analisi e la comprensione di fenomeni naturali, fisici, chimici, biologici
et, perché no, sociali e economici : si tratta di innovazioni scientifiche
o più in generale concettuali. In termini di idealtipo, al mondo della scienza
aperta si oppone quello della tecnologia fondata sullo sforzo di
appropriazione, almeno transitoria, di determinati progressi delle conoscenze.
Non c’è miglior esempio degli imperativi contraddittori che reggono queste due
sfere che considerare i dibattiti attuali a proposito della brevettabilità del
vivente e la possibilità per una impresa privata di appropriarsi dei benefici
di una scoperta in biologia”.
[9] Sulla contraddizione politica tra
economia dell’informazione e economia della conoscenza, si veda di L.A.S.E.R., Scienza
Spa. Scienziati, tecnici e conflitti (Derive/Approdi, Roma, 2002) :
“Lo sviluppo tecnologico produce nuovi conflitti nei luoghi di produzione e di
ricerca scientifica. Il fattore che unisce queste contrapposizioni locali è
intimamente legato al tema della sottrazione del sapere. Un primo
esempio di sottrazione del sapere è l’uso delle tecnologie da parte di chi fa
ricerca con finalità diverse da quelle prescritte dal proprio datore di lavoro,
pubblico o privato. In particolare, ci riferiamo all’uso delle reti
informatiche per la connessione tra soggetti impegnati in battaglie politiche o
sociali. La cultura del network, del lavoro in rete, può essere ricostruito in
senso autonomo e antagonista, coinvolgendo nelle lotte la stessa tecnologia che
ne è alla base” (p. 110 e sgg.).
[10] Altri esempi di titoli che hanno “depistato”
i risparmi dal finanziamento dell’innovazione produttiva sono le azioni che, in
seguito ai processi di fusione e concentrazione, sono ridotte di numero ;
oppure le azioni, da tempo sottovalutate, di imprese pubbliche privatizzate.
[11] Il ritorno dell’inflazione del settore
immobiliare che ha fatto seguito alla crisi della new economy a
partire dal 2001 e fino ad oggi, ha permesso agli Stati Uniti di mantenere la
domanda di beni e servizi ad un livello relativamente elevato in una fase in
cui la domanda di beni strumentali (beni d’investimento high tech in
particolare) da parte delle imprese è stata negativa in conseguenza della crisi
da sovrapproduzione digitale e della politica di bassi tassi di interesse da
parte della Federal Reserve.
[12] Per un percorso di lettura delle fasi
storiche salienti del rapporto tra ricerca universitaria, Pentagono e imprese
private sulla scorta dei lavori di Alfred Chandler, Nathan Rosenberg e David
Mowery, si veda B. Vecchi, “I combattenti dell’hich tech americano”, in “il
manifesto”, 11 luglio 2003.
[13] M. Aglietta, Macroéconomie
financière, op. cit., p. 33.
[14] I Business Angels sono piccoli gruppi di
capitalisti dotati di fortune, essi stessi ex imprenditori, organizzati in
partenariato. La caratteristica essenziale del loro modo di operare sta
nell’attivazione di reti di rapporti personali e informali, finalizzati
all’individuazione di idee innovative da valorizzare e promuovere
finanziariamente. Questo anello della catena della
finanziarizzazione/imprenditorializzazione dell’innovazione non esiste in
Europa, dove la logica impersonale contabile e finanziaria prevale sin da
subito, in tal modo restringendo il campo di trasformazione in impresa del
sapere e della conoscenza diffusa.
[15] Il goodwill è, di fatto, il costo
di avviamento di un’impresa, ossia l’insieme degli attivi intangibili
(personale qualificato, qualità del management, ubicazione favorevole,
esperienza organizzativa, rapporto con la clientela, capacità di credito,
ecc.). La valutazione dell’avviamento viene effettuata in occasione di momenti
straordinari della vita di una azienda, in particolare la cessione, il
conferimento e la fusione con altre aziende. Il goodwill corrisponde
alla differenza tra il valore economico attribuito all’azienda, che tiene conto
delle prospettive di redditività, e il patrimonio netto contabile. Questa voce,
iscritta a bilancio come “fondi propri”, può rappresentare tra il 70 e il 100%
dei capitali propri delle grandi aziende quotate in Borsa, ciò che dimostra
l’importanza ormai decisiva del capitale immateriale relativamente al capitale
fisico-tangibile immobilizzato. Più il goodwill è elevato, e maggiore
è la capacità di indebitamento (definita dal rapporto tra debiti e fondi
propri) dell’impresa risultante dall’operazione di fusione. La riduzione di
questo “scarto di avviamento”, che con la crisi della new economy
è stata molto forte, comporta quindi la riduzione della capacità di
indebitamento delle imprese. Per ristabilire la capacità di indebitamento si
avviano processi di razionalizzazione dei costi di gestione e soprattutto di
riduzione o esternalizzazione del lavoro.
[16] Il comportamento imitativo che caratterizza
le scelte e le decisioni degli investitori ha origine nella ricerca della
massima liquidità dei titoli, ossia della loro negoziabilità. “Si
tratta di trasformare - scrive Orléan - ciò che non è altro che una scommessa
personale su dividendi futuri in una ricchezza immediata hic et
nunc. A tal fine, bisogna trasformare le valutazioni individuali e
soggettive in un prezzo accettato da tutti. Detto altrimenti, la liquidità
impone che sia prodotta una valutazione di riferimento che dica a tutti i
finanzieri il prezzo al quale il titolo può essere scambiato. La struttura
sociale che permette l’ottenimento di un tale risultato è il mercato : il
mercato finanziario organizza il confronto tra le opinioni personali degli
investitori in modo da produrre un giudizio collettivo che abbia lo statuto di
una valutazione di riferimento. Il corso che emerge in questa maniera ha
la natura di un consenso che cristallizza l’accordo della comunità finanziaria.
Annunciato pubblicamente, ha valore di norma : è il prezzo al quale il
mercato accetta di vendere e d’acquistare il titolo considerato, in un
determinato momento. E’ così che il titolo è reso liquido. Il mercato
finanziario, per il fatto di istituire l’opinione collettiva come norma di
riferimento, produce una valutazione del titolo riconosciuta unanimamente dalla
comunità finanziaria” (Le pouvoir de la finance, op. cit.).
Le convenzioni permettono appunto di omogenizzare la molteplicità
delle scelte individuali secondo una razionalità sovraindividuale (o
costrizione cognitiva) che orienta “ideologicamente” i mercati. Per la
convenzione Internet della seconda metà degli anni ‘90, si veda di Luca De
Biase,Edeologia. Critica del fondamentalismo digitale,
Laterza, Roma, 2003.
[17] Sulle contraddizioni interne alla stessa
logica capitalistica nei settori dell’informatica, in particolare il problema
dei diritti di proprietà intellettuale in rapporto a sistemi operativi aperti,cfr.
“Business Week”, The Linux Uprising. How a global band of software
geeks is threatening Sun and Microsoft - and turning the computer world upside
down, 3 marzo 2003.
[18] Riprendo qui di seguito alcune
considerazioni di Philippe Zarifian a commento del mio E il denaro va.
Esodo e rivoluzione dei mercati finanziari (Bollati-Boringhieri, Torino,
1998). Il testo di P. Zarifian, Produttività, evento e comunicazione nel
post-fordismo, è stato presentato alla Maison des Sciences Èconomiques
della Sorbona in occasione della discussione del mio libro pubblicato in
Francia (Et vogue l’argent, traduzione di Anne Querrien e François
Rosso, L’Aube, Parigi, 2003).
[19] A questo proposito si veda di A. Orléan, Le
pouvoir de la finance (Ed. Odile Jacob, Parigi, 1999). “Certo, - scrive
Orléan a proposito dell’uso delle azioni nei processi di acquisizione e fusione
tra imprese - le azioni non sono delle monete. La loro liquidità non è che
parziale nel senso in cui non sono accettate come strumento universale di
scambio. Tuttavia, il loro spazio di circolazione è già straordinariamente
vasto, non solo in quanto mezzi di riserva, ma anche come mezzi di scambio per
determinate transazioni. Lo si vede quando un’impresa ne acquista un’altra con
l’aiuto delle sue proprie azioni, o meglio ancora quando un dirigente accetta
d’essere remunerato con stock options.Per questa ragione, si può di
conseguenza analizzare le azioni come costitutive di una forma embrionale di
moneta anche se non permettono di acquistare beni di consumo” (p.242).
[20] D’altra parte, i fondi pensione si sono
dotati d’una infrastruttura d’analisi esperte che valutano continuamente la
validità strategica, in termini di rendimento atteso e d’effetto sul corso dei
titoli, del management delle imprese di cui detengono una parte significativa
del capitale
[21] L’uscita progressiva dalla recessione,
ufficialmente durata solo un trimestre nel 2001, è stata insomma possibile
grazie alla domanda di consumo delle famiglie americane e al progressivo
disindebitamento delle imprese verso il settore bancario, conseguenza diretta
del crollo dei plusvalori finanziari (dei goodwill) ereditati dagli
anni di espansione della new economy. Il risanamento finanziario delle
imprese è stato effettuato con la riduzione delle spese sulla massa dei salari,
degli investimenti e delle scorte accumulate.
[22] Si veda un’importante analisi di “Business
Week” sulla necessità di andar oltre la ricerca “in-house” attingendo a
idee innovative ovunque esse siano prodotte, esternalizzando la proprietà
intellettuale come forma di pagamento a imprese fornitrici di ricerca,
forgiando legami con laboratori universitari, corteggiando venture
capitalist e rispettando le norme disciplinari da loro imposte,
incoraggiando gli spin-offs che puntano su nuove idee e assumono rischi (Reinventing
Corporate R&D, “BW”, 22 settembre, 2003).
[23] Nella knowledge economy, nel
capitalismo cognitivo, il problema centrale per il capitale è quello di
“mettere al lavoro” la conoscenza, il sapere detenuto dalla forza-lavoro. Che
la captazione della conoscenza altrui rappresenti un vero problema lo dimostra
ad esempio l’assegnazione delle stock options ai lavoratori della
conoscenza che si è diffusa negli anni del boom della new economy.
Peter Druker, in Il management della società prossima ventura (Etas,
2002) ha ragione quando dice che “le aziende che si sono spinte maggiormente in
questa direzione hanno avuto il turnover più elevato. E’ incredibile quanto
sono numerosi gli ex dipendenti Microsoft che mi è capitato di incontrare...
Gli ex dipendenti della Microsoft odiano l’azienda, perché si rendono conto che
essa offrì loro solo del denaro... Inoltre si rendono conto che il sistema di
valori aziendale è unicamente finanziario, mentre essi si considerano
professionisti, con un sistema di valori diverso”. Non solo, quindi, nel
capitalismo cognitivo è necessario finanziarizzare l’impresa (con l’aumento del
prezzo delle stock options quotate in borsa) per catturare e
soprattutto trattenere il sapere della forza-lavoro, ma questa stessa
forza-lavoro resiste, è capace di sottrarsi alla sua totale
sussunzione sotto il capitale, quando la produzione di conoscenza si trasforma
brutalmente in pura e semplice gestione finanziaria delle informazioni, cioè
quando gli imperativi finanziari (aumento del corso dei titoli) prendono il
sopravvento sulla qualità di vita (o “sistema di valori”) della forza-lavoro
cognitiva, dei knowledge workers. A questo proposito merita citare per
intero un paragrafo del libro di De Biase (op. cit.) : “E quando,
a sera, (Marc Andreesseen, che con Jim Clark ha fondato Netscape( si accorge di
essere diventato straricco, non si lascia andare a manifestazioni di gioia
eccessiva, commentando con i giornalisti che si tratta di ‘funny money’, denaro
pazzo. Nel frattempo, nemmeno i suoi giovani programmatori si lasciano
incantare dal denaro. Quello che li appassiona è vedere quante copie di
software vengono scaricate dai navigatori. Si divertono a scoprire quale
versione piace di più. E intanto lavorano come ossessi senza orari regolari, in
corsa contro il tempo che la Rete impone velocissimo. Pur ammettendo di essere
contento per avere perso ogni preoccupazione finanziaria, uno di loro, Lou
Montulli, dichiara : (Prendete un lavoratore cinese. Io guadagno
probabilmente un milione di volte più soldi di lui. Ma è difficile
razionalizzare il valore vero. Certo, ho lavorato duramente. Ma ho lavorato
tanto duramente da giustificare una differenza come quella che mi separa da un
lavoratore cinese ?( Di fronte ai misteri della finanza, Montoulli cerca
un parametro che lo aiuti a valutare la situazione. Non lo trova. E questo non
gli piace” (pp. 69-70).
[24] L’economista e editorialista del Financial
Times, John Plender, nel suo Going off the Rails. Global Capital and
the Crisis of Legitimacy (Wiley, Londra, 2003) sostiene giustamente che
nel capitalismo cognitivo vi è un’abbondanza di capitali alla ricerca di
rendimenti elevati, che si scontra con la scarsità del sapere strategico per le
imprese. Per “scarsità” si deve intendere il costo dei knowledge
workers cooptati dalle imprese, in particolare quelle produttrici di beni
ad alto contenuto tecnologico, un costo che negli anni ‘90 ha portato questo
settore trainante a destinare mediamente il 73% dei profitti pre-tasse ai
dipendenti (la media delle 325 imprese maggiori quotate in Borsa è del 20%). La
tensione tra abbondanza dei capitali, dovuta al deprezzamento del capitale
fisso e al suo alleggerimento, e costo della conoscenza viva messa al lavoro è,
secondo Plender, la dimostrazione della inadeguatezza storica del sistema
azionariale (dello shareholder’s value) nel finanziamento del
capitalismo cognitivo. Il vantaggio competitivo del capitale umano è a tutto svantaggio
degli azionisti che, trovandosi in una posizione di debolezza nei confronti
delle imprese in cui centrale è il lavoro vivo cognitivo, fanno pressioni
fortissime per aumentare il rendimento dei loro titoli (negli anni ‘90 un
rendimento del 15% era la norma), in tal modo contribuendo ad ampliare la
spirale autoreferenziale de mercati finanziari fino all’esplosione della bolla
speculativa.
[25] Sulla controversia tra effetti positivi e
negativi dell’outsourcing e dell’offshoring di imprese
statunitensi, si veda lo special report di Business Week, “Software.
Will outsourcing hurt America’s supremacy ?”, 1 marzo, 2004. Si veda
anche il survey de “The Economist”, The new jobs
migration, 21-24 febbraio, 2004.
[26] Robert Kuttner, What’s Really Feeling
The Trade Deficit Beast, “Business Week”, 29 dicembre, 03, p. 15.
[27] Il dibattito sui rischi di svalutazione
della moneta americana va quindi capito per quello che realmente è.
L’accelerazione dei processi di globalizzazione del capitale, lo spostamento
verso l’Asia della divisione internazionale del lavoro, ha svelato una
contraddizione fondamentale tra il circuito monetario incentrato sul dollaro e
la natura sempre più policentrica dell’economia mondiale. Una svalutazione, per
quanto graduale, del dollaro non ha alcuna possibilità di ridurre in modo
consistente lo squilibrio strutturale statunitense, ma costringe le banche
centrali dei paesi asiatici ad acquistare BOT americani per proteggere le loro
monete, ciò che è essenziale per mantenere elevati tassi di crescita. In tal
modo gli Stati Uniti possono continuare ad aumentare la spesa militare per
perseguire la ridefinizione geo-politica e militare del comando imperiale. Gli
USA devono comunque evitare che la loro moneta si svaluti troppo rapidamente,
perché ciò provocherebbe una fuoriuscita di capitali dai mercati azionari e,
fatto ancora più grave, dai BOT del Tesoro. Ne andrebbe dell’equilibrio
socio-economico interno agli Stati Uniti, con livelli di indebitamento privato
insostenibili se i tassi di interesse dovessero aumentare. L’attuale situazione
dell’economia statunitense è simile a quella dei paesi emergenti degli anni
‘90, con la differenza che alla loro debolezza strutturale gli americani
rispondono con la guerra infinita.
[28] Cfr. F. Guerra, Asian companies
raise a recod amount of funds, in “Financial Times”, 22 marzo,
2004.
[29] Cfr. lo special report de
“The Economist”, Mergers and Acquisitions, 21-24 febbraio,
2004.
[30] Cfr. C. M. Christensen,
M. E. Raynor, The Innovator’s Solution : Creatiing and Sustaining
Successful Growth, Harvard Business School Press, 2003.
[31] Negli anni ‘70, Arrighi Emmanuel, nel suo
“scandaloso” Lo scambio ineguale, dimostrò che, nella misura in cui i
saggi di profitto nei paesi del Sud non sono superiori (come è effettivamente
stato dimostrato negli anni seguenti da molti altri economisti) ai saggi di
profitto nei paesi del Nord, e nella misura in cui i salari dei poveri sono per
contro molto più bassi dei salari dei ricchi, ne consegue necessariamente
(perlomeno dal punto di vista contabile) che il plusvalore realizzato nei paesi
poveri viene succhiato dai paesi ricchi attraverso la vendita dei prodotti a
basso prezzo da parte dei paesi del Sud. Chi approfitta dello sfruttamento dei
poveri ? La risposta “scandalosa” di Emmanuel fu univoca : gli operai
del Nord. Fu Luciano Ferrari Bravo che riuscì a smontare politicamente
il ragionamento di Emmanuel, pur riconoscendone la sensatezza analitica. Le
lotte degli operai fordisti “in via di globalizzazione”, le lotte di una classe
operaia multinazionale, risultante dai movimenti migratori di quegli anni,
avevano permesso a Ferrari Bravo di anticipare l’esito delle contraddizioni
marxiane svelate da Emmanuel, ossia la fine del fordismo e l’inizio di un epoca
nuova, quella del capitalismo globale. Per una ripresa recente del ragionamento
di Emmanuel , vedi Daniel Cohen, La mondialisation et ses ennemis,
Grasset, Parigi, 2004.
Posted on the
Multitudes Seminar site on 27 May 2005