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Da
"UNA
GUERRA DA SIGNORI"
Diario di
SERGIO PIVETTA |
Da
uno dei protagonisti, la rievocazione della conquista di Monte Marrone e
delle prime azioni del Corpo Italiano di
Liberazione (C.I.L.)
Pasqua
1944 di Sergio Pivetta (alpino):
Occupammo
Monte Marrone all'alba del 31 marzo 1944.
Per
noi che dovevamo attaccarlo uno strapiombo di 800 metri, una serie di
ripide pareti rocciose, di scoscesi canaloni ghiacciati, di pericolosi
nevai e sopra la testa, a quota 1800, il nemico.Per i tedeschi che
l'occupavano, un pianoro ondulato, a tratti concavo, a tratti convesso,
che, scendendo da Monte Mare, risaliva
dolcemente verso la cresta di Monte Marrone per arrestarsi d'improvviso, a
picco, su Colle Rotondo. Una specie di
balconata che si affacciava su tutta una serie di dirupi, quasi a
perpendicolo sulla sottostante vallata del Sangro,
che i Gebirgsjäger dominavano come da un osservatorio.
I
Tedeschi lo ritenevano inattaccabile. E, sistemati a difesa lungo il
massiccio di Monte Mare, lo presidiavano con pattuglie di sciatori.
Gli
americani lo consideravano inespugnabile. E lo guardavano quasi con
soggezione. Avevano mandato avanti, prima di noi, per saggiare il nemico,
i marocchini francesi. Che, negli scontri di pattuglia sulle pendici
erbose alla base del massiccio (più in là non erano riusciti ad andare)
ci avevano solo lasciato dei morti. Che si erano fermati a fondo valle.
Gli avevano dato il cambio, ereditandone anche la sporcizia, i pidocchi, e
la puzza, i nostri del 68 fanteria, 1° Raggruppamento motorizzato. il 68
era trincerato alla sinistra di Monte Castelnuovo,
nella vallata prospiciente il massiccio del Marrone. Noi arrivammo, da
Cisternino,
la sera del 19 marzo. Qualche giorno per studiare il terreno... Qualche
puntata da parte dei nostri esploratori. E tocca a noi. Scavalchiamo la
linea nel 68° e ci portiamo sotto le falde del monte del monte
accampandoci nel bosco.
Ci
risvegliamo, l'indomani, coperti da un mantello di neve. E poi, la mattina
seguente, il 31, l'attacco. Sono passati ormai più di 40 anni (l'autore
scrive nel 1994), ma lo ricordo come fosse ieri.
Arrivammo
in vetta di sorpresa, senza colpo ferire. La prima compagnia, con gli
alpieri, per la via più diretta, arrampicando in verticale. La seconda a
sinistra, spesso allo scoperto, sui nevai. La terza sulla destra, nel
costone boscoso. Ci organizzammo subito a difesa. Davanti alla seconda un
pianoro scoperto, innevato, in sensibile discesa, una posizione
eccellente, difficile da attaccare.
Davanti
alla prima ed alla terza un fitto bosco, l'ideale per consentire al nemico
di farsi sotto fino a pochi metri dai nostri reticolati. Come infatti
sarebbe poi accaduto. Più lontano, un secondo bianco pianoro che risaliva
dolcemente verso Monte Mare a Colle Altare. I
tedeschi, l'avremmo scoperto solo due mesi più tardi, quando toccò a noi
di attaccare, disponevano, dietro al massiccio del Mare, di rifugi in
caverna assolutamente sicuri. Noi della 2a sistemammo le
canadesi come meglio si poteva, sulla neve. Quelli della 1a
anche peggio, da loro la pendenza di qualche punto superava il 50%.
La
notte faceva freddino. Si toccavano, spesso, i venti sottozero. Io mi ero
sistemato, con un alpino della mia squadra, su una specie di cengia, sopra
un candido letto di neve. E, per materasso, pochi arbusti. Quando per
riposare, tra un turno e l'altro, di sentinella (quattro ore di guardia,
otto di riposo) si toglievano, dentro la tenda, gli scarponi, li
ritrovavamo tanto ghiacciati che per riscaldarli e non far gelare le dita,
bisognava pestare i piedi, dopo averli calzati, per almeno 3-4 ore.
Due
alpini della mia squadra ci sfottevano perché avevano scoperto, a loro
dire, un angolino bene riparato dal vento ed al sicuro dalle cannonate,
tra due pareti rocciose. Ma qualche vecchia guida alpina li aveva
avvertiti di stare in guardia, anche se la neve sembrava solida. E difatti
dopo due tre giorni, si mise a scricchiolare. Fuga precipitosa, appena il
tempo di scappar via la tendina ed il ponte di neve, sul quale i due furbi
erano andati a sistemarsi, cedette.
I
primi giorni trascorsero tranquilli. Ci scaldavamo, con le pastiglie di
meta (non si potevano accendere fuochi) qualche gavetta di neve, dati per
brodo, corned-beef e biscotti, il paston
del can.
Ma era egualmente squisito. Sulla cresta, avevamo costruito una serie di
postazioni ben trincerate, e si aspettava. I tedeschi non si fecero
attendere.
Qualche
battuta di assaggio con le pattuglie. E poi, la notte di Pasqua,
(09-04-44) "sti fiori de cani", l'attacco in forze, con tre
compagnie, alle trincee della prima. Si fecero sotto, nel bosco innevato,
in tuta bianca (a noi le tute bianche e gli sci arrivarono quando oramai
di neve non ce n'era più: anche la naja americana, fu il commento degli
alpini, è sempre naja).
La
prima compagnia, Capitano Saccà, il
precipizio alle spalle, non avevano scampo: respingerli o buscarle.
Furono
momenti difficili. Caduto il Serg. Magg. Falubba,
che era nella postazione più avanzata, alcuni Gebirgsjäger della prima
ondata erano riusciti a superare i reticolati e ad entrare nei
camminamenti. I nostri sparavano razzi rossi chiedendo fuoco di apertura,
i tedeschi rispondevano lanciando i razzi verdi del cessate il fuoco. Poi,
con l'arrivo degli esploratori della terza e di rinforzi dell'ala sinistra
della stessa compagnia, un furibondo contrassalto a bombe a mano, mentre
Soligo
andava a riprendergli la Breda 37 di cui si erano già impadroniti, li
costrinse a ripiegare, lasciando morti e prigionieri. Nel frattempo, il
fuoco di copertura, da fondo valle, era diventato impressionante.
Monte
Marrone era illuminato a giorno. Centinaia di proiettili ci fischiavano
sopra la testa. Il cannoneggiamento era talmente intenso da far sembrare
che gli artiglieri, a valle, sparassero con le mitragliatrici. E i colpi
che non screstavano ci piombavano addosso. Uno, due, dieci. Fummo
costretti a rifugiarci al di là delle postazioni. in contropendenza,
dalla parte da cui aspettavamo l'attacco. Che da noi non venne. Quando il
finimondo cessò, trovammo le nostre tende ridotte a gruviera. E andò
già bene che non ci fu nemmeno un ferito.
Ma
intanto, il secondo e terzo scaglione tedesco, tempestati da una pioggia
di granate, furono costretti a desistere e si ritirarono portandosi via
morti e feriti. Qualche giorno più tardi, la 1a compagnia,
quella che aveva sostenuto l'urto di Pasqua, venne mandata a valle a
tirare il fiato e noi della 2a ne prendemmo il posto. Stavamo
sempre molto all'erta. Mentre dalla quota che avevamo occupato il 31 marzo
dominavamo un largo pendio, tutto allo scoperto, dal quale un attacco di
sorpresa era impossibile, le trincee della prima erano in pieno bosco,
quello stesso fitto bosco dal quale era stata attaccata.
Ma
i nostri avversari, austriaci e bavaresi, non si fecero vivi. Da parte
nostra, puntate
d'assaggio, brevi scontri di pattuglie. In una di queste azioni cade il
Ten.
Guerriera, medaglia
d'oro alla memoria. Intanto, i giorni passavano abbastanza tranquilli.
Ogni tanto, qualche proiettile d'artiglieria si abbatteva sulle nostre
postazioni. Il 23 aprile un colpo di mortaio centra in pieno una tenda,
ferendo 7 Ufficiali e 5 alpini. Io dopo alcuni giorni, ero stato mandato a
presidiare, assieme al Serg. Magg. Citteri,
una postazione avanzata che si raggiungeva arrampicando una
"ferrata" a perpendicolo sullo strapiombo. Magnifico posto
d'osservazione, un po' isolato, dove riuscivamo persino a prendere il sole
in santa pace.
Perché,
in genere, le giornate si succedevano tranquille. Erano molti di più i
colpi in partenza che quelli in arrivo. Si passava il tempo, tra un turno
di sentinella e l'altro, chi giocando a carte in tenda con gli amici, chi
spidocchiando. Spidocchiarsi, anzi, era una delle operazioni più
frequenti, aggrediti come eravamo da decine di pidocchietti bianchi
annidati nelle pieghe della giubba o tra le cuciture dei calzoni. Ne
facevamo fuori a dozzine, ma ce n'erano sempre. Un tormento, a ricordarlo,
ancora oggi. Di quando in quando, ad interrompere le routine delle
giornate, sentinella, riposo in tenda, rancio, pidocchi arrivava il
"permesso insalata".
Si
chiamava così perché ci veniva concesso, a rotazione, per scendere a
Colli
al Volturno a divorare una enorme terrina d'insalata fresca. Un'ora
e mezzo di mulattiera, autostop e due ore di risalita. Il tutto per
lubrificare un pochino lo stomaco ostruito da galletta e corned-beef.
Intanto, trascorrevano i giorni. Passato il mese di aprile, era già
iniziato maggio. Quand'ecco che, dapprima quasi inavvertitamente, poi in
modo
sempre
più manifesto, qualcosa si muove. Gli alpini rizzano il naso e radio naja
trasmette comunicati su comunicati. Il Capitano
Barbieri con un reparto della 1a e del
Capitano
Campanella con gli esploratori ed una squadra fucilieri della 3a
effettuano attività di pattuglie. Ci siamo: è questione di giorni, ma
già si sente nell'aria che la data dell'attacco, atteso e temuto, si
avvicina. A fondo valle, colonne e colonne di automezzi carichi di
rifornimenti. E, lungo la mulattiera che oramai aggiustata ed allargata è
diventata quasi carrabile, colonne su colonne di muli. Poi, quando anche
lassù è tutto fortificato e viverci è diventato quasi
"comodo", arriva l'ordine di avvicendamento: il btg. scende dal
Marrone. Ci danno il cambio i bersaglieri.
Noi
altri a riposo? C'è sotto qualcosa. Difatti, domenica 28 maggio,
all'alba, il gran giorno arriva.
Attacchiamo.
Le artiglierie fanno un fuoco d'inferno. Avanziamo prima nel bosco poi,
qualche ora più tardi, allo scoperto. A balzi, per non farci
"fregare". tentano infatti di fermarci con un fuoco concentrato
di mortai e precise raffiche di mitragliatrice, una delle quali mi fischia
tutto intorno alla testa. Per fare l'ultimo chilometro ci vuole l'intera
giornata. Ma, un po' strisciandoci, un po' di corsa (e che corse) facciamo
sotto egualmente. Gli americani, nei films, sono molto più bravi. Ma a
Monte Mare non c'erano cineoperatori. C'erano mitragliatrici che sparavano
sul serio. Tanto sul serio che quando, trent'anni dopo, ritornai sul
posto, e mi ricordavo una corsa in discesa, trovai invece una salita. La
spuntiamo verso sera. Quando arriva l'ordine di Silvestrini
"Baionetta in canna!", un brivido ci percorre la schiena. Ma poi
finisce bene. Il grosso dei tedeschi si è ritirato precipitosamente. Le
retroguardie, dopo aver tentato di ritardare l'assalto con le ultime
raffiche, quando noi siamo a più di 80-100 metri dalle loro postazioni -
e nel tramonto che rifrange sinistramente il luccichio delle lame pronte a
ferire, gli stiamo arrivando addosso - smettono di sparare e si arrendono.
Avanti allora, all'inseguimento, in Val di Canneto.
Li raggiungiamo il giorno seguente, nei pressi del Santuario della Madonna
nera. Al primo scambio di raffiche il Ten. Remo
Vieceli, di Feltre, viene gravemente ferito. "Stavolta
i m'ha ciavà - brontola
rassegnato, passandoci vicino in barella - diseghe
a me mare che me son comportà da bravo toso".
Morirà diversi anni anni dopo, a casa, a seguito di quella ferita.
Intanto
la prima compagnia che è in testa, continua ad inseguire nel bosco i
tedeschi che sembra si stiano ritirando. Finché, verso sera, restiamo
imbottigliati a fondo valle. Davanti, dal fitto bosco, raffiche di
mitragliatrici, addosso e dietro incessanti colpi di mortaio. Una brutta
notte!
Ma
poi, finisce anche stavolta tutto bene. I tedeschi si sganciano, noi
vorremmo inseguirli verso Atina puntando su
Roma, ma arriva l'ordine di ripiegare. A Roma, con le divise pulite, ci
vanno gli americani in Jeep. Noi, con le divise sporche e sdrucite, marcia
indietro con l'autoscarpa. Si cambia fronte. Ci mandano verso l'Adriatico.
A valle, ai lati della camionale, carcasse di carri armati. Tedeschi,
alcuni, Ma per lo più alleati. Qualche giorno di respiro. Poi, preceduti
dagli arditi che dopo una breve sparatoria mettono in fuga il nemico,
torniamo in linea, a Guardiagrele. Passiamo
in testa. E' il nostro turno. Avanziamo senza incontarre resistenza:
Rapino,
Fara Filiorum Petri, S. Eufemia, Roccamontepiano, Casalincontrada.
La popolazione ci accoglie benedicendo e piangendo. Qualcuno si
inginocchia a baciarci gli scarponi. Ci abbracciano, ringraziano, offrono
vino, uova, quel poco che è loro rimasto. L'avversario è in ritirata.
Tanto in fretta, che non ha avuto nemmeno il tempo di togliere i cartelli
che segnalano i campi minati "ACHTUNG, MINEN!". |
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Lo
stesso giorno del rastrellamento degli uomini, i tedeschi avevano affisso
dei manifesti in cui si faceva ordine a tutti, pena la fucilazione per gli
inosservanti, di presentarsi in piazza il 3 novembre per l'evacuazione
totale del paese. Il giorno seguente, tra incredulità e speranza passò
nell'agitazione più frenetica: si nascondevano o sotterravano le cose di
maggiore valore o utilità; si cercavano i nascondigli più impensati per
salvare il salvabile. Qualcuno aspettò la notte per non farsi vedere. A
sera ci fu il problema degli animali: pecore, capre, maiali, asini,
mucche, galline; che fare? Ognuno decise per i suoi ma la decisione fu
identica per tutti: cibo in abbondanza e stalle aperte. La mattina
seguente però fu ancora più triste nel vedere che le bestie non si erano
mosse, quasi che non gli importasse una libertà concessa in quelle
circostanze. Ed i belati, grugniti, ragli, muggiti, quella mattina,
strapparono il cuore; sembravano lamenti, ma, forse, non erano gli animali
che piangevano.
Un
gruppo di castelnovesi, nella convinzione che la guerra sarebbe passata in
fretta, si tenne lontana dall'abitato e sfuggì al rastrellamento. In
diciassette si ritrovarono ai piedi di Monte Marrone, salirono quasi a
mezza costa e si rifugiarono in una grotta (la
grotta del brigante Centrillo) dove rimasero per circa due
mesi. Uomini, donne, vecchi, qualche bambino; in uno spazio di circa 12
mq.; in una promiscuità impensabile, senza cibo né acqua, con qualche
straccio per coprirsi e scarse suppellettili. 17 persone, una piccola
comunità sospesa quasi nel vuoto, a 1100 metri d'altezza.
"Fortunatamente il tempo fu clemente" dice
Cristina
Coia, 79 anni, superstite di quel gruppo. Le giornate erano
interminabili: nella quasi immobilità totale, si parlava sottovoce; nella
semioscurità della grotta i silenzi erano interrotti da lunghi sospiri,
che erano il commento, sempre uguale e sempre diverso, ai pensieri di
ciascuno. A 150 metri in linea d'aria la cima di Monte Marrone su cui
transitavano ad intervalli sconosciuti pattuglie di soldati tedeschi in
avvistamento; laggiù, lontano, Castelnuovo; altri soldati, la propria
casa, le cose care, gli animali abbandonati, i ricordi quotidiani, i
particolari insignificanti, rivissuti mille volte sullo schermo della
memoria. E poi la grande fame e la sete, "soprattutto la sete".
Di
notte gli uomini scendevano fino alle prime masserie a procurarsi qualcosa
da mangiare ed a prendere acqua, fichi secchi, noci, mele, patate, ecc.
Tutto
ciò che poteva essere mangiato senza cucinare, perché non si poteva
accendere il fuoco. Quando gli uomini partivano, il silenzio diventava
veramente silenzio. Tutti i sensi protesi a captare qualsiasi segnale; la
paura e l'angoscia che crescevano col passare del tempo; "torneranno?
Li prenderanno i tedeschi? Salteranno su qualche mina? Che succederà?"
Minuti, ore interminabili di attesa, fino ai primi rumori familiari, poi
eccoli tornare: "Ah!
Meno male, anche stavolta è andata bene".
L'ultima parte della notte a parlottare sottovoce, fino al chiarore
dell'alba: forza un altro giorno.
Così
per due mesi, con le bombe che, a volte, cadevano esplodendo a pochi
metri, nel freddo e nel buio, con i crampi allo stomaco per la fame e le
labbra secche per la sete. Poi il 28 dicembre 1943 decisero di scendere al
paese dove trovarono truppe francesi acquartierate.
Altri
tre gruppi di persone, rispettivamente di 10, 9 e 9 unità si rifugiarono
uno in una grotta a mezza costa di Monte Castelnuovo, un altro in un
pagliaio in località "Soda" e il
terzo in località "Colle Vigne",
verso Castel S. Vincenzo. La sorte, per
questi ultimi, fu più "benevola" sia perché erano più vicini
al paese in cui si recavano furtivamente a procurarsi cibo, sia perché
verso la fine di novembre 43 arrivarono gli americani con cui
collaborarono attivamente, indicando loro l'ubicazione delle postazioni
militari tedesche e fornendo preziose informazioni sul territorio.
Stavolta con un certo sollievo, soprattutto per le donne, vista l'enorme
presenza (circa 8.000) dei soldati marocchini che non facevano certo
mistero dei loro desideri, dopo essersi "dedicati" anche alla
profanazione delle tombe nel cimitero di Castelnuovo. Ai primi di gennaio
1944 l'intero territorio fu completamente evacuato. Tutti i superstiti
furono avviati verso i campi profughi dell'Italia meridionale (Campania e
Sicilia), ma la maggior parte, dati gli scarsi controlli, riuscì a
rimanere. Chi si fermò a Montaquila, chi a
Venafro,
chi lungo la strada. La maggior parte, poi, si ritrovò nei dintorni di
Colli
a Volturno e risalì, dopo qualche settimana, a Rocchetta. Verso la
metà del mese di maggio qualcuno incominciò a rientrare a Castelnuovo
dove erano ritornate truppe americane.
Giuseppe Tomassone |
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