Monte Marrone 1944 Arriva la guerra Quelli che sfuggirono Quelli che rimasero

NOTIZIE STORICHE 

Monte Marrone 1944

Gli avvenimenti succedutisi intorno a Monte Marrone e gli eventi bellici, che precedettero e seguirono la sua conquista (31/3/1944), hanno segnato profondamente più di una generazione. La loro riproposizione, qui ed ora, assume tanto più valore e significato quanto più vengono riguardati non come puri accadimenti ma come vicende umane e perciò ricche di significati e valori positivi.

E' con questo spirito che l'Associazione ha raccolto le testimonianza di chi quelle vicende visse in prima persona; consapevoli che quello che si sentiva, grande agli occhi di chi le aveva vissuto e raccontava, era normale se rapportato alla tragedia nazionale vissuta allora dal popolo italiano o se raffrontato, oggi, alle analoghe vicende che accadono nel mondo, che la televisione, quotidianamente, ci fa inesorabilmente conoscere.

Consapevoli, altresì, che la storia, grande o piccola che sia, va comunque raccontata perché non è solo passato; perché ognuno deve avere il dovere, la dignità, il coraggio di raccontarla e viverla liberamente. E' facile, in certe occasioni, cadere nella retorica dei "sacri valori" del coraggio, del sacrificio, della resistenza, della patria, dell'altruismo, del dolore, ecc...

E sia, corriamo questo rischio di raccontare la "nostra" storia: per coloro che la vissero, per noi che la ricordiamo e per quelli che, comunque, dovranno farla.

 

 

 

 

 

 

Alpino Sergio Pivetta

Da

"UNA GUERRA DA SIGNORI"

Diario di

SERGIO PIVETTA

  

 

 

 

 

 

 

 

Da uno dei protagonisti, la rievocazione della conquista di Monte Marrone e delle prime azioni del Corpo Italiano di Liberazione (C.I.L.)

Pasqua 1944 di Sergio Pivetta (alpino):

 

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Occupammo Monte Marrone all'alba del 31 marzo 1944.

Per noi che dovevamo attaccarlo uno strapiombo di 800 metri, una serie di ripide pareti rocciose, di scoscesi canaloni ghiacciati, di pericolosi nevai e sopra la testa, a quota 1800, il nemico.Per i tedeschi che l'occupavano, un pianoro ondulato, a tratti concavo, a tratti convesso, che, scendendo da Monte Mare, risaliva dolcemente verso la cresta di Monte Marrone per arrestarsi d'improvviso, a picco, su Colle Rotondo. Una specie di balconata che si affacciava su tutta una serie di dirupi, quasi a perpendicolo sulla sottostante vallata del Sangro, che i Gebirgsjäger dominavano come da un osservatorio.

I Tedeschi lo ritenevano inattaccabile. E, sistemati a difesa lungo il massiccio di Monte Mare, lo presidiavano con pattuglie di sciatori.

Gli americani lo consideravano inespugnabile. E lo guardavano quasi con soggezione. Avevano mandato avanti, prima di noi, per saggiare il nemico, i marocchini francesi. Che, negli scontri di pattuglia sulle pendici erbose alla base del massiccio (più in là non erano riusciti ad andare) ci avevano solo lasciato dei morti. Che si erano fermati a fondo valle. Gli avevano dato il cambio, ereditandone anche la sporcizia, i pidocchi, e la puzza, i nostri del 68 fanteria, 1° Raggruppamento motorizzato. il 68 era trincerato alla sinistra di Monte Castelnuovo, nella vallata prospiciente il massiccio del Marrone. Noi arrivammo, da Cisternino, la sera del 19 marzo. Qualche giorno per studiare il terreno... Qualche puntata da parte dei nostri esploratori. E tocca a noi. Scavalchiamo la linea nel 68° e ci portiamo sotto le falde del monte del monte accampandoci nel bosco.

Ci risvegliamo, l'indomani, coperti da un mantello di neve. E poi, la mattina seguente, il 31, l'attacco. Sono passati ormai più di 40 anni (l'autore scrive nel 1994), ma lo ricordo come fosse ieri.

Monte Marrone 1944

Arrivammo in vetta di sorpresa, senza colpo ferire. La prima compagnia, con gli alpieri, per la via più diretta, arrampicando in verticale. La seconda a sinistra, spesso allo scoperto, sui nevai. La terza sulla destra, nel costone boscoso. Ci organizzammo subito a difesa. Davanti alla seconda un pianoro scoperto, innevato, in sensibile discesa, una posizione eccellente, difficile da attaccare.

Davanti alla prima ed alla terza un fitto bosco, l'ideale per consentire al nemico di farsi sotto fino a pochi metri dai nostri reticolati. Come infatti sarebbe poi accaduto. Più lontano, un secondo bianco pianoro che risaliva dolcemente verso Monte Mare a Colle Altare. I tedeschi, l'avremmo scoperto solo due mesi più tardi, quando toccò a noi di attaccare, disponevano, dietro al massiccio del Mare, di rifugi in caverna assolutamente sicuri. Noi della 2a sistemammo le canadesi come meglio si poteva, sulla neve. Quelli della 1a anche peggio, da loro la pendenza di qualche punto superava il 50%.

La notte faceva freddino. Si toccavano, spesso, i venti sottozero. Io mi ero sistemato, con un alpino della mia squadra, su una specie di cengia, sopra un candido letto di neve. E, per materasso, pochi arbusti. Quando per riposare, tra un turno e l'altro, di sentinella (quattro ore di guardia, otto di riposo) si toglievano, dentro la tenda, gli scarponi, li ritrovavamo tanto ghiacciati che per riscaldarli e non far gelare le dita, bisognava pestare i piedi, dopo averli calzati, per almeno 3-4 ore.

Due alpini della mia squadra ci sfottevano perché avevano scoperto, a loro dire, un angolino bene riparato dal vento ed al sicuro dalle cannonate, tra due pareti rocciose. Ma qualche vecchia guida alpina li aveva avvertiti di stare in guardia, anche se la neve sembrava solida. E difatti dopo due tre giorni, si mise a scricchiolare. Fuga precipitosa, appena il tempo di scappar via la tendina ed il ponte di neve, sul quale i due furbi erano andati a sistemarsi, cedette.La cima di Monte Meta

I primi giorni trascorsero tranquilli. Ci scaldavamo, con le pastiglie di meta (non si potevano accendere fuochi) qualche gavetta di neve, dati per brodo, corned-beef e biscotti, il paston del can. Ma era egualmente squisito. Sulla cresta, avevamo costruito una serie di postazioni ben trincerate, e si aspettava. I tedeschi non si fecero attendere.

Qualche battuta di assaggio con le pattuglie. E poi, la notte di Pasqua, (09-04-44) "sti fiori de cani", l'attacco in forze, con tre compagnie, alle trincee della prima. Si fecero sotto, nel bosco innevato, in tuta bianca (a noi le tute bianche e gli sci arrivarono quando oramai di neve non ce n'era più: anche la naja americana, fu il commento degli alpini, è sempre naja).

La prima compagnia, Capitano Saccà, il precipizio alle spalle, non avevano scampo: respingerli o buscarle.

Furono momenti difficili. Caduto il Serg. Magg. Falubba, che era nella postazione più avanzata, alcuni Gebirgsjäger della prima ondata erano riusciti a superare i reticolati e ad entrare nei camminamenti. I nostri sparavano razzi rossi chiedendo fuoco di apertura, i tedeschi rispondevano lanciando i razzi verdi del cessate il fuoco. Poi, con l'arrivo degli esploratori della terza e di rinforzi dell'ala sinistra della stessa compagnia, un furibondo contrassalto a bombe a mano, mentre Soligo andava a riprendergli la Breda 37 di cui si erano già impadroniti, li costrinse a ripiegare, lasciando morti e prigionieri. Nel frattempo, il fuoco di copertura, da fondo valle, era diventato impressionante. Catena delle Mainarde

Monte Marrone era illuminato a giorno. Centinaia di proiettili ci fischiavano sopra la testa. Il cannoneggiamento era talmente intenso da far sembrare che gli artiglieri, a valle, sparassero con le mitragliatrici. E i colpi che non screstavano ci piombavano addosso. Uno, due, dieci. Fummo costretti a rifugiarci al di là delle postazioni. in contropendenza, dalla parte da cui aspettavamo l'attacco. Che da noi non venne. Quando il finimondo cessò, trovammo le nostre tende ridotte a gruviera. E andò già bene che non ci fu nemmeno un ferito.

Ma intanto, il secondo e terzo scaglione tedesco, tempestati da una pioggia di granate, furono costretti a desistere e si ritirarono portandosi via morti e feriti. Qualche giorno più tardi, la 1a compagnia, quella che aveva sostenuto l'urto di Pasqua, venne mandata a valle a tirare il fiato e noi della 2a ne prendemmo il posto. Stavamo sempre molto all'erta. Mentre dalla quota che avevamo occupato il 31 marzo dominavamo un largo pendio, tutto allo scoperto, dal quale un attacco di sorpresa era impossibile, le trincee della prima erano in pieno bosco, quello stesso fitto bosco dal quale era stata attaccata.

Ma i nostri avversari, austriaci e bavaresi, non si fecero vivi. Da parte nostra, puntateSoldati i  marcia d'assaggio, brevi scontri di pattuglie. In una di queste azioni cade il Ten. Guerriera, medaglia d'oro alla memoria. Intanto, i giorni passavano abbastanza tranquilli. Ogni tanto, qualche proiettile d'artiglieria si abbatteva sulle nostre postazioni. Il 23 aprile un colpo di mortaio centra in pieno una tenda, ferendo 7 Ufficiali e 5 alpini. Io dopo alcuni giorni, ero stato mandato a presidiare, assieme al Serg. Magg. Citteri, una postazione avanzata che si raggiungeva arrampicando una "ferrata" a perpendicolo sullo strapiombo. Magnifico posto d'osservazione, un po' isolato, dove riuscivamo persino a prendere il sole in santa pace.

Perché, in genere, le giornate si succedevano tranquille. Erano molti di più i colpi in partenza che quelli in arrivo. Si passava il tempo, tra un turno di sentinella e l'altro, chi giocando a carte in tenda con gli amici, chi spidocchiando. Spidocchiarsi, anzi, era una delle operazioni più frequenti, aggrediti come eravamo da decine di pidocchietti bianchi annidati nelle pieghe della giubba o tra le cuciture dei calzoni. Ne facevamo fuori a dozzine, ma ce n'erano sempre. Un tormento, a ricordarlo, ancora oggi. Di quando in quando, ad interrompere le routine delle giornate, sentinella, riposo in tenda, rancio, pidocchi arrivava il "permesso insalata".

Si chiamava così perché ci veniva concesso, a rotazione, per scendere a Colli al Volturno a divorare una enorme terrina d'insalata fresca. Un'ora e mezzo di mulattiera, autostop e due ore di risalita. Il tutto per lubrificare un pochino lo stomaco ostruito da galletta e corned-beef. Intanto, trascorrevano i giorni. Passato il mese di aprile, era già iniziato maggio. Quand'ecco che, dapprima quasi inavvertitamente, poi in modo Trasporto con i mulisempre più manifesto, qualcosa si muove. Gli alpini rizzano il naso e radio naja trasmette comunicati su comunicati. Il Capitano Barbieri con un reparto della 1a e del Capitano Campanella con gli esploratori ed una squadra fucilieri della 3a effettuano attività di pattuglie. Ci siamo: è questione di giorni, ma già si sente nell'aria che la data dell'attacco, atteso e temuto, si avvicina. A fondo valle, colonne e colonne di automezzi carichi di rifornimenti. E, lungo la mulattiera che oramai aggiustata ed allargata è diventata quasi carrabile, colonne su colonne di muli. Poi, quando anche lassù è tutto fortificato e viverci è diventato quasi "comodo", arriva l'ordine di avvicendamento: il btg. scende dal Marrone. Ci danno il cambio i bersaglieri.

Noi altri a riposo? C'è sotto qualcosa. Difatti, domenica 28 maggio, all'alba, il gran giorno arriva.

Cannone pronto al fuocoAttacchiamo. Le artiglierie fanno un fuoco d'inferno. Avanziamo prima nel bosco poi, qualche ora più tardi, allo scoperto. A balzi, per non farci "fregare". tentano infatti di fermarci con un fuoco concentrato di mortai e precise raffiche di mitragliatrice, una delle quali mi fischia tutto intorno alla testa. Per fare l'ultimo chilometro ci vuole l'intera giornata. Ma, un po' strisciandoci, un po' di corsa (e che corse) facciamo sotto egualmente. Gli americani, nei films, sono molto più bravi. Ma a Monte Mare non c'erano cineoperatori. C'erano mitragliatrici che sparavano sul serio. Tanto sul serio che quando, trent'anni dopo, ritornai sul posto, e mi ricordavo una corsa in discesa, trovai invece una salita. La spuntiamo verso sera. Quando arriva l'ordine di Silvestrini "Baionetta in canna!", un brivido ci percorre la schiena. Ma poi finisce bene. Il grosso dei tedeschi si è ritirato precipitosamente. Le retroguardie, dopo aver tentato di ritardare l'assalto con le ultime raffiche, quando noi siamo a più di 80-100 metri dalle loro postazioni - e nel tramonto che rifrange sinistramente il luccichio delle lame pronte a ferire, gli stiamo arrivando addosso - smettono di sparare e si arrendono. Avanti allora, all'inseguimento, in Val di Canneto. Li raggiungiamo il giorno seguente, nei pressi del Santuario della Madonna nera. Al primo scambio di raffiche il Ten. Remo Vieceli, di Feltre, viene gravemente ferito. "Stavolta i m'ha ciavà - brontola rassegnato, passandoci vicino in barella - diseghe a me mare che me son comportà da bravo toso". Morirà diversi anni anni dopo, a casa, a seguito di quella ferita.

Cliccare per ingrandireIntanto la prima compagnia che è in testa, continua ad inseguire nel bosco i tedeschi che sembra si stiano ritirando. Finché, verso sera, restiamo imbottigliati a fondo valle. Davanti, dal fitto bosco, raffiche di mitragliatrici, addosso e dietro incessanti colpi di mortaio. Una brutta notte!

Ma poi, finisce anche stavolta tutto bene. I tedeschi si sganciano, noi vorremmo inseguirli verso Atina puntando su Roma, ma arriva l'ordine di ripiegare. A Roma, con le divise pulite, ci vanno gli americani in Jeep. Noi, con le divise sporche e sdrucite, marcia indietro con l'autoscarpa. Si cambia fronte. Ci mandano verso l'Adriatico. A valle, ai lati della camionale, carcasse di carri armati. Tedeschi, alcuni, Ma per lo più alleati. Qualche giorno di respiro. Poi, preceduti dagli arditi che dopo una breve sparatoria mettono in fuga il nemico, torniamo in linea, a Guardiagrele. Passiamo in testa. E' il nostro turno. Avanziamo senza incontarre resistenza: Rapino, Fara Filiorum Petri, S. Eufemia, Roccamontepiano, Casalincontrada. La popolazione ci accoglie benedicendo e piangendo. Qualcuno si inginocchia a baciarci gli scarponi. Ci abbracciano, ringraziano, offrono vino, uova, quel poco che è loro rimasto. L'avversario è in ritirata. Tanto in fretta, che non ha avuto nemmeno il tempo di togliere i cartelli che segnalano i campi minati "ACHTUNG, MINEN!".

 

OTTOBRE 1943

Arriva la guerra

L'Ottobre del 1943 era passato come sempre: la vendemmia, le arature, la raccolta della legna, le bestie a sfruttare gli ultimi pascoli, i colori dell'autunno. Non fosse stato per quel tarlo che cresceva col passare dei giorni, poteva dirsi un Ottobre qualunque; ma così non era. La guerra si avvicinava. Tutti lo avvertivano ma non sapevano né come né quando sarebbe arrivata. A Castelnuovo, circa 700 persone, c'erano non più di tre radio e, di nascosto, si ascoltava Radio-Londra. Le notizie passavano di bocca in bocca e ad ogni passaggio qualcosa cambiava; in quella specie di "radiogiornale collettivo" una sola parola certa rimaneva alla fine: la guerra.

Castelnuovo prima della guerra

Ma che era la guerra? e perché? I più giovani lo chiedevano agli anziani e questi, con l'aria, la cadenza e lo spirito di chi la guerra l' ha vissuta, parlavano del Carso e del Piave, di Diaz e di Cadorna e tutti i racconti terminavano con la stessa domanda: chi può dire come sarà?. Gli ultimi giorni di ottobre si era intensificata la presenza di pattuglie tedesche che prendevano possesso del territorio; da queste si era saputo che il paese doveva essere evacuato ma nessuno ci credeva anzi, nessuno voleva crederci. E invece!

La notte tra il trentuno di ottobre ed il primo di novembre i tedeschi bloccarono tutte le vie di accesso del paese. Alle prime luci dell'alba gruppi di due-tre soldati picchiavano con calci e spallate ad ogni porta, entravano nelle case, le perquisivano; "uomini via, uomini via" gridavano, minacciando con le armi.

Il rastrellamento durò l'intera mattinata. Nel pomeriggio una folla attonita di donne, vecchi e bambini assistette alla loro partenza. Incolonnati, sorvegliati dai soldati, scesero lungo la via "Majura", attraversarono il torrente, risalirono verso "Collalto", sulla strada provinciale n. 14 su cui transitavano, già da diversi giorni, colonne di mezzi e soldati tedeschi che si ritiravano lungo la "Linea Gustav".

Proprio a Collalto, sulla strada il gruppo incominciava a sfrangiarsi; infatti una decina di uomini furono costretti a fermarsi per alcuni giorni ed a lavorare per realizzare trincee e minare edifici. A mano a mano che procedeva la marcia altri gruppi di uomini venivano distaccati per gli stessi motivi; terminati i lavori, poi, si continuava la marcia passando per Atina, Sora, Ferentino, Fiuggi; da qui, caricati su carri bestiame, la partenza per il Nord.

Quelli che sfuggirono

Un gruppetto di sei uomini riuscì a sfuggire al controllo tedesco e decise di tornare a Castelnuovo, da Sora. A piedi, senza cibo, attraverso campagne e boschi; guardinghi, impauriti si diressero nella valle di Canneto perché da qui (meta dell'antico pellegrinaggio annuale alla Madonna di Canneto) avrebbero percorso il sentiero conosciuto. Dopo circa sei-sette ore di marcia, stanchi ed affamati, avvistarono un casolare isolato. Si avvicinarono e con la voce dei più giovani (Sante Tomassone e Coia Fiorentino) chiamarono nel tipico modo usato dagli zampognari: "Bella padrona, bella padrona". Si affacciò una contadina di 50-60 anni che, dopo averli sentiti, li fece entrare e rifocillare; prese poi un sacchetto e vi mise dentro una pagnotta di pane ed un po' di patate. Alla partenza li salutò abbracciandoli ad uno ad uno e mentre piangeva mormorava "oggi a voi, domani toccherà a noi".

Poco prima della Valle di Canneto incontrarono tre cittadini di Rocchetta (fra cui Salvatore), si abbracciarono e proseguirono insieme. Dopo tre giorni di marcia, zigzagando e tornando a volte indietro per evitare postazioni e soldati tedeschi, arrivarono su Colle Rotondo dove avvistarono il paese, finalmente. Trascorsa la notte in un pagliaio in località Salere, all'alba si accorsero che tutto il territorio era controllato dai tedeschi da posizioni strategiche. I tre di Rocchetta decisero di partire immediatamente, facendosi indicare la strada più breve per scendere a valle; si salutarono ripromettendosi di fare una grande festa al prossimo incontro. Dopo circa mezz'ora si sentirono colpi di mitragliatrice verso "Campo Longo". Salvatore con gli amici erano stati sorpresi e falciati da una pattuglia tedesca. Il gruppetto dei castelnovesiCastelnuovo ricorda Giame Pintor decise allora di scendere da un'altra parte: passando per il Poliglio, la Novera, Fonte Gocciolone. In località "Colle" si resero conto che non si poteva passare, infatti a sinistra del torrente ("Le Parratine") c'era un nido di mitragliatrici, a destra ("Le Cannavine", dove dopo qualche giorno sarebbe morto Giaime Pintor) era tutto minato. Aspettarono il buio in una specie di grotta naturale sotto un enorme masso e verso le undici di sera decisero di passare per l'unica via possibile. Scesero in acqua - era il 28 novembre - e seguirono il torrente per circa un Km. Dopo "Santa Lucia" risalirono sulla sponda sinistra e marciarono per altri 3-4 chilometri, tenendosi al largo dall'abitato. Raggiunsero un pagliaio in località "Colle Vigne" dove crollarono sfiniti, affamati ed intirizziti. Il giorno dopo si resero conto che il paese, vuoto, era stato evacuato.

Quelli che rimasero

Lo stesso giorno del rastrellamento degli uomini, i tedeschi avevano affisso dei manifesti in cui si faceva ordine a tutti, pena la fucilazione per gli inosservanti, di presentarsi in piazza il 3 novembre per l'evacuazione totale del paese. Il giorno seguente, tra incredulità e speranza passò nell'agitazione più frenetica: si nascondevano o sotterravano le cose di maggiore valore o utilità; si cercavano i nascondigli più impensati per salvare il salvabile. Qualcuno aspettò la notte per non farsi vedere. A sera ci fu il problema degli animali: pecore, capre, maiali, asini, mucche, galline; che fare? Ognuno decise per i suoi ma la decisione fu identica per tutti: cibo in abbondanza e stalle aperte. La mattina seguente però fu ancora più triste nel vedere che le bestie non si erano mosse, quasi che non gli importasse una libertà concessa in quelle circostanze. Ed i belati, grugniti, ragli, muggiti, quella mattina, strapparono il cuore; sembravano lamenti, ma, forse, non erano gli animali che piangevano.

Un gruppo di castelnovesi, nella convinzione che la guerra sarebbe passata in fretta, si tenne lontana dall'abitato e sfuggì al rastrellamento. In diciassette si ritrovarono ai piedi di Monte Marrone, salirono quasi a mezza costa e si rifugiarono in una grotta (la grotta del brigante Centrillo) dove rimasero per circa due mesi. Uomini, donne, vecchi, qualche bambino; in uno spazio di circa 12 mq.; in una promiscuità impensabile, senza cibo né acqua, con qualche straccio per coprirsi e scarse suppellettili. 17 persone, una piccola comunità sospesa quasi nel vuoto, a 1100 metri d'altezza. "Fortunatamente il tempo fu clemente" dice Cristina Coia, 79 anni, superstite di quel gruppo. Le giornate erano interminabili: nella quasi immobilità totale, si parlava sottovoce; nella semioscurità della grotta i silenzi erano interrotti da lunghi sospiri, che erano il commento, sempre uguale e sempre diverso, ai pensieri di ciascuno. A 150 metri in linea d'aria la cima di Monte Marrone su cui transitavano ad intervalli sconosciuti pattuglie di soldati tedeschi in avvistamento; laggiù, lontano, Castelnuovo; altri soldati, la propria casa, le cose care, gli animali abbandonati, i ricordi quotidiani, i particolari insignificanti, rivissuti mille volte sullo schermo della memoria. E poi la grande fame e la sete, "soprattutto la sete".

Di notte gli uomini scendevano fino alle prime masserie a procurarsi qualcosa da mangiare ed a prendere acqua, fichi secchi, noci, mele, patate, ecc.

Tutto ciò che poteva essere mangiato senza cucinare, perché non si poteva accendere il fuoco. Quando gli uomini partivano, il silenzio diventava veramente silenzio. Tutti i sensi protesi a captare qualsiasi segnale; la paura e l'angoscia che crescevano col passare del tempo; "torneranno? Li prenderanno i tedeschi? Salteranno su qualche mina? Che succederà?" Minuti, ore interminabili di attesa, fino ai primi rumori familiari, poi eccoli tornare: "Ah! Meno male, anche stavolta è andata bene". L'ultima parte della notte a parlottare sottovoce, fino al chiarore dell'alba: forza un altro giorno.

Trincea sotto Monte MarroneCosì per due mesi, con le bombe che, a volte, cadevano esplodendo a pochi metri, nel freddo e nel buio, con i crampi allo stomaco per la fame e le labbra secche per la sete. Poi il 28 dicembre 1943 decisero di scendere al paese dove trovarono truppe francesi acquartierate.

Altri tre gruppi di persone, rispettivamente di 10, 9 e 9 unità si rifugiarono uno in una grotta a mezza costa di Monte Castelnuovo, un altro in un pagliaio in località "Soda" e il terzo in località "Colle Vigne", verso Castel S. Vincenzo. La sorte, per questi ultimi, fu più "benevola" sia perché erano più vicini al paese in cui si recavano furtivamente a procurarsi cibo, sia perché verso la fine di novembre 43 arrivarono gli americani con cui collaborarono attivamente, indicando loro l'ubicazione delle postazioni militari tedesche e fornendo preziose informazioni sul territorio. Stavolta con un certo sollievo, soprattutto per le donne, vista l'enorme presenza (circa 8.000) dei soldati marocchini che non facevano certo mistero dei loro desideri, dopo essersi "dedicati" anche alla profanazione delle tombe nel cimitero di Castelnuovo. Ai primi di gennaio 1944 l'intero territorio fu completamente evacuato. Tutti i superstiti furono avviati verso i campi profughi dell'Italia meridionale (Campania e Sicilia), ma la maggior parte, dati gli scarsi controlli, riuscì a rimanere. Chi si fermò a Montaquila, chi a Venafro, chi lungo la strada. La maggior parte, poi, si ritrovò nei dintorni di Colli a Volturno e risalì, dopo qualche settimana, a Rocchetta. Verso la metà del mese di maggio qualcuno incominciò a rientrare a Castelnuovo dove erano ritornate truppe americane.

Giuseppe Tomassone

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