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Tokyo e Giappone: Parte Prima. Volo, Ginza, Roppongi e Conferenza.
Scritto in gennaio 2001, ultimo aggiornamento in data 1 settembre 2001. Copyright 2001 D. Brigo.

Damiano al tempio Zen Hokoku-ji di Kamakura, 18 dicembre 2000.


Giovedì 14 dicembre 2000: Il lungo volo.

Il viaggio inizia all'Aeroporto Malpensa di Milano, Giovedì 14 dicembre 2000, quando io e il mio collega Fabio partiamo infine per il nostro viaggio lavorativo a Tokyo, con l'intenzione di approfittare della conferenza per una breve vacanza in Giappone.
Cominciamo con un volo Alitalia che in realtà è un volo Japan Airlines, a seguito di una convenzione tra le due compagnie. Il viaggio è molto lungo, e i posti molto spaziosi aiutano a rendere il volo meno traumatico. Le hostess sono gentili e piacevoli come e più che nelle altre compagnie in cui abbiamo volato (Alitalia, SAS, KLM, Canadian Airlines, Air France…). Molte indossano grembiulini decorati a fiori e altro, e l'hostess "capo" ci dà personalmente il benvenuto a bordo con inchino. Siamo gli unici occidentali in quella parte dell'aeromobile, gli altri passeggeri essendo tutti giapponesi con una preponderanza di donne. Un rapido esame delle viaggiatrici contrasta con alcune immagini stereotipate della donna orientale che noi occidentali abbiamo. Chi sono queste donne che viaggiano in business class con oggetti d'arte e altra mercanzia apparentemente pregiata come bagaglio a mano? Donne manager? Rampolle di famiglie miliardarie? Semplici lavoratrici che rientrano da una vacanza?
Il viaggio procede bene con due pasti. Dura circa 14 ore. Partiamo da Milano alle 19.30 e atterriamo a Tokyo (ora locale) alle 17.00 circa del 15 dicembre. Siamo un po' storditi dal lungo volo e dal cambio di fuso orario.
All'aeroporto iniziamo le procedure di sbarco con una coda di venti minuti circa per il controllo passaporti, un po' stupiti dalla ridotta efficienza nella procedura di smistamento.  Poi alla dogana bagagli un poliziotto apre un fascicolo e ce lo sottopone. Il quaderno ci mostra immagini di droghe varie, donne seminude in pose inequivocabili e altro…

"Ma che diavolo…?!?!?"

Il poliziotto ci chiede se siamo in Giappone per quei motivi, e quando gli diciamo che no, certo, siamo in Giappone solo come speaker e ascoltatori di un convegno, e al più come turisti, annuisce e ci perquisisce per vedere se portiamo armi. Peccato che non controlli lo zainetto: avrei potuto nasconderci un arsenale e non se ne sarebbe accorto, data anche l'assenza del metal detector in uscita. All'ufficio di informazione turistica (TIC) dell'aeroporto raccogliamo documentazione su possibili escursioni turistiche, e poi procediamo al treno "Narita express" che ci porterà alla stazione ferroviaria di Tokyo. I punti di accesso al treno sono tutti marcati a bordo binario e i giapponesi si mettono ordinatamente e automaticamente in file indiane nei corrispondenti tratti, in attesa dell'arrivo del treno. Quasi non mi accorgo delle file, abituato ai tipici assalti al treno italiani di stampo western, ma poi ci accodiamo evitando la relativa figuraccia.
Arriviamo alla Tokyo Eki, la stazione centrale che una volta usciti scopriremo essere costruita sul modello di quella di Amsterdam che ancora ricordo bene, e prendiamo l'uscita Marunouchi nord, come da istruzioni.
 

Venerdì 15 dicembre: Il primo impatto... Marunouchi hotel e in giro per Roppongi.

Raggiungiamo l'hotel Marunouchi senza problemi. I ragazzi in divisa che fanno da portieri si lanciano ad aiutarci con i bagagli, mostrando la foga tipicamente "manguesque" di questo popolo con un senso di responsabilità che noi giudichiamo spesso eccessivo. Un facchino ci strappa i bagagli, intanto noi ci registriamo e un cartello informa di non dare mance perché tanto verrà aggiunto il dieci per cento al conto finale a titolo di mancia globale sintetica. Raggiungiamo le stanze appena assegnateci, dove il ragazzo in divisa mi elenca i servizi fondamentali e gli orari, prima di andarsene con un inchino. Le sistemazioni si rivelano più che adeguate ma abbastanza canoniche, con l'eccezione forse della vestaglia da camera e delle pantofole nuove che in genere non fanno parte del servizio standard internazionale. Sorrido ripensando a qualche anno prima, quando facevo parte dell'ambiente accademico e dormivo in pensioncine o piccoli hotel durante le conferenze... la vita tutto sommato non era molto diversa eccetto che per piccoli particolari come questi, ai quali, ora come allora, attribuisco scarsa importanza. Appena riposti i bagagli, mi stendo sul letto per un breve riposo.
Quindi mi rinfresco un po', faccio una doccia e ci incontriamo nell'atrio all'ora stabilita scendendo nella stazione metro più vicina con l'idea di andare a Roppongi, il quartiere dove i Gaijin (stranieri) sono maggiormente presenti. Non vediamo nessun altro occidentale in giro, solo giapponesi. Strano, paragonato al numero di orientali che si vedono nelle nostre città e nella metropolitana milanese in particolare. Alle macchinette automatiche per i biglietti ci confondiamo e mettiamo dentro banconote per un valore di 80.000 lire senza riuscire ad avere alcun biglietto. Arriva un signore sui quarantacinque e gli chiediamo se parla inglese ma lui nega molto veementemente e poi aggiunge "sorry". Evidentemente è di fretta e non può aiutarci. Poi arrivano due ragazze, e chiediamo loro se parlano inglese. Fanno cenno con la testa per dire "molto poco", poi vedono l'importo che abbiamo messo dentro e scoppiamo tutti a ridere. Diciamo "Roppongi" e loro, dopo averci corretto la pronuncia sostituendo la "g" molla con quella dura, ci indicano il bottone da 160 yen (cira 3200 lire) Per fortuna la macchina ci dà i biglietti ma anche il resto delle 80.000, fino all'ultimo yen. Queste macchine automatiche per i biglietti mi ricordano, come aspetto, i classici calcolatori "main frame" degli anni settanta, con finiture massicce e spartane, colori metallici e poca grazia. Tuttavia, sono efficientissime e a quanto pare, pur essendo in funzione da molti anni, si guastano raramente. Ci produciamo in "Arigato" a profusione e cenni di inchino verso le due ragazze e ci avviamo finalmente a prendere la metropolitana. Vediamo la manutenzione fare pulizie con dedizione, come se fosse la cosa più importante del mondo. Un passeggero per sbaglio rompe una bottiglia sulla pensilina e in pochi secondi una squadra di pulizia arriva scendendo le scale e rimuove i frammenti di vetro, pulendo il pavimento.
Arrivati, cominciamo a girare per Roppongi.
 


Roppongi, 15 dicembre 2000. La pasticceria "Almond" in rosa shocking e' visibile sulla destra

Appena usciti dalla metropolitana ci affacciamo su Roppongi crossing, con la pasticceria in rosa shocking "Almond", classico punto d'incontro per la gente. Grossa calca, traffico stradale all'ennesima potenza, luci dappertutto, insegne che scorrono, schermi giganti che trasmettono gli ultimi video musicali... si direbbe di essere a Manhattan o in qualche mega metropoli americana. La gente è dappertutto, e cominciamo infine a vedere qualche faccia straniera. Notiamo subito l'abbigliamento dominante nelle ragazze giapponesi che girano per la zona: capelli tinti, spesso castano chiaro, stivali con tacchi e zeppe altissime, i cosiddetti "zatteroni", che in Italia mettono solo le ragazze più "esagerate", borsetta di marca, telefonino di dimensioni più grandi dei nostri ma sempre con dei ninnoli personalizzanti agganciati all'antennina o altrove... Sono discrete nell'uso del telefono però, dato che non si sente mai la suoneria e parlano quasi sottovoce.  Ho letto sulla stampa del problema che i giapponesi sentono di avere con l'attuale generazione delle giovani donne nel loro paese. Sembra esserci il fenomeno che i giapponesi stessi hanno denominato "fenomeno delle parassite", ragazze che finita la scuola si sistemano con i genitori e pensano solo allo shopping con le amiche per le strade del centro, non cercano un lavoro serio, lavorando solo saltuariamente, e alla famiglia non pensano neanche lontanamente. Il fenomeno è in crescita preoccupante, dicono i giornali. Cerco di bilanciare questo con la condizione femminile tradizionale in giappone, ma fatico a mettere tutto in prospettiva.
A Roppongi ceniamo in bistro relativamente tranquillo con cucina pseudo-indiana. Siamo seduti vicino a una signora che indossa un impermeabile viola e un cappello sgargiante che scende ai lati del viso coprendole parte della faccia. La televisione è posta in alto sopra i tavolini e trasmette video musicali. Finito di mangiare facciamo una passeggiata per la zona. Lungo una delle strade principali vediamo la Torre di Tokyo sullo sfondo, illuminata nella notte, ma decidiamo di lasciarla per più avanti.
 
 

Statua di Batman con stelle di natale al Warner Shop di Ginza, e Damiano con la Torre di Tokyo sullo sfondo a Roppongi.

Notiamo gran presenza di automobili Mercedes e BMW ultimo modello, macchinoni di ogni genere, locali con ingressi strani, uno dei quali con un ragazzo in costume da bagno (in dicembre!) che finge di nuotare davanti alla porta (uno strano modo per attirare i clienti!), vari topless bar e le solite cose tipiche della vita notturna. Ora che è tardi, notiamo a Roppongi crossing la presenza di ragazze vestite in modo sofisticato e anche appariscente per certi aspetti, con buon sospetto che alcune possano essere "di servizio" o che almeno fungano da specchietto per le allodole per i numerosi locali della zona. Rientriamo in albergo subito dopo questo giro, anche perché l'indomani ci aspetta la conferenza.

Sabato 16 dicembre. Il Life Insurance Building: Conference, day one.

Sabato 16 dicembre è il primo giorno della conferenza. Ci alziamo, procediamo a una colazione esagerata e poi ci incamminiamo verso il grattacielo della conferenza. Le istruzioni dicono otto minuti a piedi, ma noi quasi di corsa ce ne mettiamo quindici. Arriviamo giusti alle 8.55, e fuori dall'edificio ci aspetta un ragazzo che ci indirizza subito al piano giusto. L'organizzazione appare molto coordinata ed efficiente. Saliamo e la segretaria Keiko ci dà il benvenuto e l'attrezzatura: Un cartellino di riconoscimento con nome e affiliazione che funge anche da pass, da non perdersi assolutamente, un volume di proceedings, una scatoletta radio con una cuffia per la traduzione simultanea di quei pochi interventi che verranno fatti in giapponese, e biglietti vari per pranzi e party. A un certo punto dobbiamo gettare via una carta e non vediamo un cestino. Chiediamo lumi a Keiko, la quale si inchina con mani a coppa e ci prega di darla a lei, che se ne occuperà immediatamente. Un po’ stupiti da questa cortesia forse eccessiva per i nostri standard, la ringraziamo scherzando. Durante la conferenza gli assistenti alla regia, i curatori dei microfoni e il resto del personale di supporto sono attentissimi e quasi esagerati. A dieci minuti dalla fine del tempo di ciascun intervento lo speaker viene avvisato da un campanello, che poi suona due volte a meno cinque minuti e più volte a tempo scaduto. Non si guarda in faccia a nessuno, anche gli speaker più celebri e lo stesso organizzatore vengono trattati così. Quando qualcuno chiede il microfono per fare domande a intervento concluso, i ragazzi a bordo sala si lanciano in una corsa pazza per porgere il microfono a chi ha chiesto di intervenire nel minor tempo possibile. Uno di questi ragazzi è vestito con completo a doppiopetto e cravatta, ma in scarpe da tennis bianche sfavillanti, il classico "pugno su un occhio".  Le mosse esagerate e le corse da forsennati di questi ragazzi sono degne di una staffetta 4x400 e ricordano un Samurai nella sua ultima battaglia, mostrando quanto tutto sia serio per loro.
A pranzo un ingegnere finanziario giapponese ci raggiunge dicendo che vorrebbe approfondire un nostro modello matematico apparso in passato, e poi ci raggiunge anche il professor Daiba di Tokyo (si chiama come il pupillo di Capitan Harlock, che però risulta essere un nome comune in Giappone), che è stato sposato per anni con una Francese ma che ora vive in Giappone e si è risposato con una Giapponese. Daiba ci sembra un Giapponese particolare, scherzando dice che all'università giapponese si lavora a ritmi più che accettabili e si è pagati bene, e parlando di cose varie ci dice anche che le ragazze italiane e francesi parlano troppo e sono molto problematiche (ci vengono subito in mente certe amiche che avrebbero reagito a questa affermazione con una scarica di mitra). Alcuni suoi studenti stanno lavorando sulle implicazioni di un nostro lavoro passato e avrebbe piacere se in futuro potessimo chiarire i loro dubbi in un seminario da tenersi a Tokyo. Precisiamo che per noi il viaggio è abbastanza pesante, essendo in effetti ancora intontiti dal cambio di fuso orario, ma che l'idea è buona.
Nel pomeriggio il nostro primo intervento scorre liscio, e la sera ci aspetta un party. Accompagnati da un collega giapponese che si perde (a seguito della mancanza di nomi e numeri nelle vie, una caratteristica che continua a stupirmi in un popolo per altri versi così pragmatico) trovo la strada con la mia mappa e arriviamo. Parliamo con un sacco di gente, compreso uno dei referee anonimi del nostro libro per la Springer che getta la maschera, e ci facciamo una prima idea un po' più approfondita dei giapponesi. Parlo un po' anche con Keiko, e poi con una moltitudine di studenti che mi chiedono di tutto. Purtroppo in generale l'Inglese è capito poco, e fanno fatica a capirmi, però è sempre un piacere aiutarli. Scambiamo freneticamente biglietti da visita, un rituale che la mia guida giudicava importante in Giappone. Ricevuto ciascun biglietto, lo leggo un attimo mostrando interesse, e a mia volta ne porgo uno mio alla persona di turno. Nella confusione porgo un biglietto anche a una persona che poi mi accorgo immediatamente essere una sorta di super-cameriere addetto all'organizzazione del party, al quale chiaramente non potrebbe interessare di meno il mio biglietto, ma quando faccio per scusarmi lui sorride e si inchina, mettendo via il biglietto invece di restituirmelo, che immagino costituirebbe una scorrettezza. Guardando gli studenti e i giovani professionisti giapponesi, che conversano con noi intrattenendoci, viene anche da pensare che è sabato sera e che probabilmente avrebbero di meglio da fare che stare lì a chiacchierare. Per noi è il nostro lavoro, ma per loro…. Poi però penso a tutti gli interventi e conferenze che mi sono sorbito in vita mia e dei quali mi interessava poco e concludo che queste cose rischino di essere inevitabili.
Finito il party andiamo a bere qualcosa a Ginza con dei colleghi americani e australiani. A un'occhiata superficiale Ginza sembra molto Manhattan.

Ginza di notte, 16 dicembre 2000,  e Shibuya di giorno, 19 dicembre.


Grattacieli e centri commerciali di lusso, esplosioni di insegne luminose dappertutto, meglio e peggio di Times Square. Qui affittare un negozio costa il triplo che nella Rodeo Drive di Beverly Hill. A Ginza c'è il terreno più caro del mondo. La gente qui si scatena a fare shopping. Noi beviamo e rientriamo in albergo stanchi. Il jet lag fa il resto e andiamo a letto alle 23.00, riuscendo a dormire ininterrottamente fino alle 7.50 della mattina dopo, domenica 17, secondo giorno della conferenza.

Domenica 17 dicembre. Il Life Insurance Building: Conference, day two.

Il secondo giorno procede bene, pranziamo ancora col professor Daiba e altri, e nel pomeriggio presento il nostro secondo intervento. Alla fine della conferenza usciamo dalla stanza dopo la "closing speech". Keiko ci saluta tutti con la consueta cortesia quasi esagerata, stringendo le mani a tutti i partecipanti in uscita. Io ho entrambe le mani occupate nel reggere le trasparenze dell'intervento e altri oggetti, perciò chiude singolarmente ciascuna delle mie mani tra le sue, prima la sinistra e poi la destra, mentre continuo a reggere gli oggetti. Mi sembra un po' triste come "stretta di mano", quindi la saluto all' "occidentale" con un bacio per guancia, sperando di non contravvenire qualche sofisticata etichetta orientale.
Torniamo in albergo e decidiamo, dopo un riposino di un paio d'ore, di passare la serata a Ginza. La raggiungiamo a piedi, guidati da un enorme edificio moderno dall'architettura interessante e grandiosa, il centro di esposizioni internazionali di Tokyo, e cominciamo a passeggiare. Non ci sono nomi e numeri delle vie, quindi siamo costretti a cercare edifici di riferimento sulla mappa. Scambio un edificio cilindrico sulla mappa per una torre di trasmissione e ci perdiamo. Chiediamo spesso ai locali, che a volte ci aiutano e altre volte ridono! Raggiungiamo presto l'edificio del teatro Kabukiza, nei pressi del quale la nostra guida segnala un interessante ristorante indiano. Comunque, il problema è che molti ristoranti sono chiusi e non riusciamo a trovare niente che sia aperto la domenica sera alle 22.00. Strano, paragonato a Milano o a Roma. Andiamo avanti, tornando verso la stazione, e guardiamo i prezzi dei vestiti e delle scarpe italiani nelle vetrine delle boutique presenti a Ginza. I prezzi sono proibitivi, e capiamo perché spesso i giapponesi assalgano i negozi di via Montenapoleone a Milano. Torniamo verso la stazione, mentre il quartiere muore sempre di più… la sera tardi di domenica non è proprio la serata giusta per girare Ginza se non si ha una meta specifica in mente.
Alla fine troviamo un caffè aperto vicino alla stazione, dove ordiniamo una tazza di tè, un cappuccino (!) e due fette di torta. Ci sono molte ragazze sole o in gruppo in questo locale. Parlano spesso fittamente a distanza ravvicinata, come se si stessero scambiando impressioni o confidenze. A prima vista sembra che le ragazze escano più dei ragazzi, ma per il resto l'ambiente non sembra molto diverso da quanto si vede dalle nostre parti. Purtroppo la ragazza che serve ai tavoli parla molto poco inglese e dunque ci porta davanti alle torte per scegliere indicando col dito. Continuo a stupirmi, pensavo l'inglese fosse molto più diffuso, almeno tra i giovani. Torniamo quindi in albergo e andiamo a dormire, preparandoci per la vacanza vera e propria.
 

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