LA STORIA DI COLLEDIMACINE:
by Ugo Falcone


Poichè i viventi non ci offrono
gran campo di parlare di loro,
parliamo, o lettori, dè morti
che, più operosi di noi lasciarono
larghe, tracce dè loro studi,
e sgombri d'ogni umana passione,
stan quieti, e non si sdegnano
dè nostri giudizi. E faremo opera
di carità per loro, e di utilità
per noi, perocché molti di quei
defunti sono ingiustamente dimenticati,
mentre tanto diritto hanno
all'ammirazione e alla gratitudine
nostra.




Da profili abruzzesi.
         Don Domenico Mascetta (Canonico-Sacerdote-poeta e letterato nonché patriota del Risorgimento ).

COLLEDIMACINE é un piccolo comune della provincia di Chieti nell'alta montagna. Il suo territorio, non molto esteso, non ha né ville né casolari. La popolazione viva raccolta in un unico nucleo di case poste quasi regolarmente su di un'ampia piattaforma di roccia calcarea che guarda ad oriente i monti Pizii e ad occidente la Majella e la Valle dell'Aventino.

Molte sezioni di terreno fatte casualmente nella contrada "Colle" in vicinanza dell'estremità meridionale del paese lasciano intravedere fondi di capanne preistoriche con cocci dell'era neolitica. In un breve saggio di scavo eseguito da Francesco Verlengia nel medesimo posto ha rinvenuto numerose selci e pezzi di vasi rozzamente decorati ed in tutto simili a quelli che si rinvengono nello scavo del villaggio neolitico presso Lama Peligna scoperto nell'ottobre del I909 dal prof. Innocenzo Dall'Osso.

Dunque l'odierno paese deriverebbe da un nucleo di popoli primitivi.

Altri nuclei di popoli primitivi certamente dovettero esistere nel territorio di Colledimacine: cocci preistorici e romani si rinvennero nelle contrade di "Pietre Sant'Angelo," "Santa Maria della Tomba," i "Casaleni."

Ma per una conclusione più sicura occorrerebbe uno studio ed una esplorazione accurata dei vari terreni.

Per l'antichità romana Colledimacine si farebbe rientrare nel territorio di "JUVANUM" e secondo il C.I.L.E. non é improbabile data la sua vicinanza al sito della distrutta Juvanum.

Colledimacine? Che significa? Perché a guisa dei comuni viciniori é solo Colledimacine e non anche l'appellativo di
Peligna?

Ci deve essere stata ragione per cui Colle pure a diretto contatto con le comunità quali Lama dei Peligni, Torricella Peligna, Taranta Peligna si é chiamato solo Colledimacine.

Perché?

La sua origine poi si deve collocare in epoca pre-romana,
romana, medioevale?

Certamente la storia di questo paese segue non nella penombra ma nell'ombra le vicissitudini di paesi più noti limitrofi con i quali ha avuto contatti di:                              lavoro
                                                                                          cultura
                                                                                          folklore
                                                                                          vita artigianale.
Documenti? ce ne sono pochi; la curiosità  comunque di sapere le origini e la storia del proprio piccolo mondo é tanta.

Cosi' per in caso estremamente fortuito mi sono trovato con l'indagare sui miei avi e su tutto ciò che ha accompagnato la loro esistenza terrena: la Majella, i monti brulli pieni di sassi e di rovi che oggi imperano un po' ovunque.

"Per contro la storia la si può descrivere come una copiosa corrente che scorre attraverso il tempo: chi naviga in essa per brevi tratti o chi vive sulle sue sponde, continua a buttarvi degli oggetti: in gran parte questi affondano o si dissolvono immediatamente, ma certi si riprendono in modo da esserne
trasportati per un tratto più o meno breve.

Pochi soltanto riescono ad arrivare alla foce dove questo particolare corrente finisce come tutte le altre nell'oceano dell'oblio che segna la fine d'ogni cosa di questo mondo." (0)

Cosa ci rimane?  Difficile dirlo. Probabilmente sono le tradizioni che verosimilmente tramandate vengono da ogni uno adattate e miste alla leggenda rimesse di nuovo nel corso della
propria storia.

(0) Karl Krauss.



Non parla la pietra
che sta più alta del sole.
Vede tutto spaccato
e non può giudicare;
é l'inafferrabile musica
delle cose che esistono
e che ogniuno si deve spiegare.

                        ( Massimo Rocovic )



M. Rocovic, alias Di Leo Clemente da "frantumi di una reggia azzurra."


Dai riscontri storici tre sono stati gIi elementi costitutivi la popolazione dell'Abruzzo:
                    SABINO
                    OSCO
                    PELASGICO

Questo fu dovuto molto probabilmente al neolitico ( IV o III m millennio a.C. ) ad una forte migrazione di popoli dell'alto piano iraniano verso: la Grecia, la Tracia, la Gallia e la penisola italica, portando con loro il proprio folklore, culto tradizioni e civiltà.
        
Questi popoli furono: i Pelasgi ( Cimbri e Tessali ) ed i Pallini. Qui si apre un nuovo bivio: Pelasgi o Pallini?

Le mie conoscenze storiche non mi danno la possibilità di eliminare la indecisione ed optare per una ben precisa soluzione. Le ricerche fatte a tal proposito comunque attutiscono molti dei dubbi e pacano la curiosità. Infatti, secondo lo storico greco Dionigi di Alicarnasso i Pelasgi sono comparsi in Italia circa diciassette generazioni prima di Troia, corrispondenti a 1500 anni a.C.

Questo movimento che dall'Asia attraversa la Grecia li ha portati in Italia non fu certamente compiuto in una unica soluzione bensì attraverso secoli visto le numerose tracce che attestano il loro passaggio. Le ricerche archeologiche hanno rintracciato i segni dell'opera pelasgica negli avanzi di mura fatte con blocchi irregolari di pietra, enormi macigni non toccati da scalpello, ma avvicinati gli uni agli altri.

Queste poderose muraglie costruite senza aiuti meccanici fanno pensare alla presenza di una popolazione dalla statura e struttura erculea. Queste mura furono dette Ciclopiche o Murate del Diavolo.

"Ciclope" in greco significa " tondo dell'occhio " e veniva dato a questi uomini, rozzi ma di statura gigantesca che vivevano sui monti e tenevano un lume in fronte, col quale si facevano luce nelle caverne e nelle miniere, che la tendenza superstiziosa del popolo scambiava per occhio.

Ce li fa conoscere Omero nell'Odissea.
         " Leggi non han radunanza, de monti eccelsi
           si risulti tra lor, de monti eccelsi
           dimoran le cime, e in antri cavi
           su la moglie ciascun regna e sui figli
           ne l'uomo all'altro tanto guardato guarda. "

Avanzi di tali mura si rinvengono:
·          nell'Argolide
·          nella Tessaglia
·          Boviano e Sepino nel Sannio
·          Montenero Domo nell'Abruzzo Citeriore
·          Palena
·          Juvanum ( che vorrebbe dire figlio di Giove )
·          Monte Porrara
·          Guado di Coccia
·          Collis Civitae ( Collis Macinarum, Abruzzo Citeriore nei pressi dell'attuale Colledimacine )
·          Lama dei Peligni.

Altri fra i quali Livio, Diodono, Siculo, Plinio, Silvio Italico non parlano di Pelasgi bensi di Pallini e riferiscono che questi
popoli furono spesso in lotta con i Romani.

Romanelli D. (diciannovesimo secolo) afferma che tali scrittori col nome Pallini intendevano anche o solo Peligni. Al contrario però, Giuseppe Calidonia nei suoi scritti "La diocesi di Valva e Sulmona" afferma:
                             "Altro famoso popolo dei Peligni fu i Pallenenses,
                             situato alle falde della Majella."
Ciò premesso il passo che separa i Pelasgi dai Peligni è breve
se non inesistente.

Nicola Corcia storico napoletano scrive nel diciottesimo sec.
"Abbiamo in prima per fermo che una parte della gente pelasgica si stanziasse nella regione dei Peligni, nella regione del cui nome non si è data per ancor alcuna plausibile spiegazione."

Perciò a me sembra che l'origine di tal nome si debba a quella di qualche città dell'Asia, e son da credere che quest'antica città doveva nominarsi PELLINA, e la città omonima della Tessaglia e dell'Acaia, e Pallina o Pollena città dell'Acaia.

A ciò la conferma del tema l'origine pelasgica del nome PALLINIJ o PELIGNI. Ma cessato il tempo della dominazione pelasgica per la conquista dei Sanniti o Sabelli rimase l'antica denominazione il nome dei Peligni.

Altri scrittori quali il Corcia credono di poter opporre che il nome di Peligni scaturisca dal greco Pella che significa lutulento cioè fangoso, per essere l'amena vallata di Sulmona di natura fangosa.  Attualmente la tesi più attendibile pare sia da rinvenire quella della provenienza dalla lingua greca Pella, dove "pella" significò roccia o pietra, e si spiegherebbe anche, sempre secondo questi critici come Pelasgi significherebbe costruzioni con grosse pietre poligonali. 

Da queste considerazioni è possibile sostenere il trinomio PELASGIPALLINIPELIGNI abbia anche grande attinenza a Pallena che significa roccia col riferimento a ciclopica che fu dato al monte Palleno oggi PORRARA.  A corollario di questa tesi il Corcia afferma ancora come anche in questa relazione viene ribadito che i primitive non solo ma anche oggi, nel trasferirsi dalla patria d'origine i popoli hanno costruito in oggi tempo nuove città dove si stanziavano i nomi di quelli della madre patria che avevano abbandonato.  Polibio insigne storico greco conferma ancora quanto detto.  E proprio da questa tesi ci è possibile ammirare quanto della culture europea è presente in altri posti sperduti della terra.

Anche Tito Livio dal "De Urbe condita" parlando dell'assedio posta dai romani a Siracusa afferma che il console Marcello aveva ai suoi ordini gli alleati dei romani i PALLINENSES.

Evidentemente etano queste tribù o popoli sempre di modeste proporzioni suddivise per nome discendenza e territorio.

Infatti, si parla di una federazione dei Peligni celebre per il suo valore e per la sua robustezza fisica. Plinio li chiama fortissimi, Silvio Italico li chiama ACRI ossia GAGLIARDI.

Dovunque notizie dei Peligni si hanno solo dal loro contatto con i romani. Essi Combatterono varie guerre con i romani partecipando con la confederazione Sannitica (quarto sec. a.C. ) e guidati da Erminio nel 32 a.C. costrinsero i superstiti soldati romani alle forche caudine. Nelle Guerre Puniche i Peligni oltre che offrire soldati all'esercito romano presero parte alla battaglia del Metauro contro Asdrubale, fratello del temuto Annibale.

... ma i pastori sulla breccia
dei colli urne di Annibale
sono misere scaglie,
e sbuchi dalla terra dei serpi
salutando il letto di cartocci
l'ultimo luno squartato nel ventre ...

(M. Rocovic )

M. Rocovic da " una lunga puzza ."




Ad avvalorare questa ipotesi e cioè che i Pelasgi abbiano dato le origini a queste terre vi è anche un'attuale testimonianza:

         la MAJELLA

         Per la Majella !!!

         Mannaggia alla Majella!!!

Nome tanto imprecato ma tanta caro agli abruzzesi.  Dal mito di Cibele, in origine FRIGIA il cui culto dalla Grecia fu trasferito a Roma, che era la dea della fecondità e della terra, madre degli dei e degli uomini; Ovidio la mutò in MAGNA Mater. "MATER deorum terra" era la più adorata dei popoli pelasi.

Era la madre turrita che a Roma veniva rappresentata seduta sul trono, con due leoni al fianco, ed una corona turrita sul capo. La gente italica trasformò le antiche divinità, e CIBELE fu rappresentata in MAJA da cui MAJELLA Madre.

Impugnate nuovamente le armi contro Roma ebbero una parte di primo piano nella cruenta guerra sociale. Vinti, sopportarono la sconfitta subendo la dura e feroce repressione del dittatore Cornelio Silla ( 82 a.C. ) che fece radere al suolo le loro città.  Non rassegnati presero nuovamente parte ad una campagna contro la Capitale grazie ad un gladiatore: SPARTACO.

Infatti, le tribù stanziate in queste zone erano punto di riferimento o base logistica per gli schiavi che Roma utilizzava sulla Majella per l'estrazione dell'oro.  In questa guerra insurrezionale svolta dal 73 al 71 a.C. l'illustre ribelle fece basilare affidamento sugli schiavi. Nel reclutare il proprio esercito Spartaco si recava di persona nei luoghi più caldi; ed uno di essi doveva essere appunto le genti che abitavano in Palena, Lettopalena, Montenero, Pizzoferrato, Colledimachine, Lama, Taranta etc....

Sconfitti di nuovo, ma da una guerra combattuta lontano dalla terra dei Peligni, la storia di questo popolo, appunto quello PELIGNO, diventa oscura.  Oscura a tal punto che nessun segno monitore o di rilievo lo riporta alla ribalta.  Da quanto si riesce a sapere gli scritti parlano delle nostre terre come insediamento di popoli che hanno cercato di sfruttare il difficile terreno montano della Majella quale baluardo ai loro villaggi; traendo da questi territori il sostentamento alla sopravvivenza con la selvaggina e l'allevamento del bestiame.

Questi popoli a ridosso della Majella orientale furono menzionati anche da Plinio e probabilmente si riferiva a Juvanum quale centro commerciale, Palena, Tarranta e Lama quali centri industriali e Colli Macinarum quale centro di reclutamento di mano d'opera per il funzionamento della zona industriale.

Dell'antichissima città di Juvanum di cui si sa poco, I test sono sparsi su un ampio pianoro, dove sono visibili i resti di civiltà sannitico-romana, come
il  DECUMANUS Maior
il  Cardo
il  palazzo dei "Vectigalis"
la  Basilica
il  teatro greco a ridosso della collina sulla quale sorgeva il Capitolium col tempio dedicato forse a Giove od Ercole, il cui culto era molto sentito nella Valle Aventina.

Iuvanum sorgeva, e questo lo testimoniano gli scavi fatti un ventennio fa, su una serie di alture da dove era facile controllare gli accessi verso il cuore dell'Abruzzo attraverso la valle dell'Aventino e del Sangro.  L'elemento di congiunzione fra I due popoli o tribù doveva essere oltre che ad una interdipendenza di lavoro anche da interesse strategico.  Infatti, facendo un volo al di sopra del baluardo della Majella, o per chi non ha la possibilità di volare guardando la Lama o Taranta in alto verso Colledimacine si nota che esso è l'unico punto da dove si domina la valle dell'Aventino.

Se poi a questa considerazione si aggiunge che il colle è immediatamente a ridosso di un altro valico molto importante quale Coccia a 1605 metri di alt. e che tale valico mette in comunicazione la valle Aventina con Campo di Giove, ci è facile dedurre che già le genti di allora avevano tenuto in giusta considerazione di strategia militare la posizione di Colledimacine.

Per l'importanza che aveva raggiunto questo punto di osservazione ai tempi dei primitivi, è agevole ora supporre come le antiche tribù montane dei Peligni, dalla vita semplice pastorale, legata ai valori della famiglia e della religione, per procurarsi una sicurezza che li ponesse al riparo da contese improvvise con altre tribù, o magari per il dominio della zona dei pascoli ubertosi, di immense selve per la caccia di acque freschissime I Peligni ed in essi le genti di Collis Macinarum avessero esteso il loro dominio nell'alta valle Aventina, fina alle pendici orientali dei monti Pizzi, comprendendo Pizzoferrato e tutta la sponda sinistra del fiume Sangro, come ci riferiscono alcuni autorevoli storici. A tal proposito è da penare che, attraverso le pietre scalpite in maniera similare a quelle di Juvanum, un tempio dedicato alla dea Diana, dea della caccia, sorgesse su uno dei colli costituenti ora il paese di Colledimacine in località dell'attuale piazza principale.

Si pensa che il tempio in esame sia 'ex chiesa dedicata in seguito a San Rocco.  Dalle pietre costituenti il facciale è da pensare anche, che la chiesa durante il medio evo sia stata chiesa fortezza del paese.  Oggi le stesse pietre che hanno assistito a tanti pagani sacrifici o a tanti religiosi riti fanno orgogliosa testimonianza ad un moderno edificio adibito a casa parrocchiale.

Certamente la principale attività dei nostri antenati era la pastorizia, fonte principale della loro esistenza.  Questa attività seguendo il corso della stagione, si svolgeva in due fasi che avevano luogo in primavera ed in autunno, consistente nella TRANSUMANZA delle greggi. Col ritorno della bella stagione, i pastori, dalla pianura del Tavoliere menavano le greggi verso le alture dei monti d'Abruzzo, percorrendo un primo tratto di costa adriatica, e poi, inoltrandosi lungo la Val di Sangro, raggiungevano quella dell'Aventino, per poi fissare gli stazzi sui nostri pingui pascoli rigati da innumerevoli piccoli corsi d'acqua.  All'approssimarsi dell'autunno avveniva la demonticazione.

Certamente quella della pastorizia, attività che i nostri predecessori svolgevano su vasta scala, era molto redditizia per le nostre popolazioni montane. Ne derivò, fra l'altro, che i frequenti contatti con quelli della DAUNIA, formarono una compenetrazione di usanze e costumi che diventarono comuni ad esse, non solo, ma molti nuclei familiari di una zona si fissarono nell'altra e viceversa.

Le preziose e fragorose acque della valle Aventina, dal rapido corso, ricco di cascatelle lungo il soleggiato versante orientale della Majella presto vennero utilizzate, creandovi i primi preziosi mulini per macinarvi il grano: le prime industrie di quei tempi lontani!

Il paesaggio brullo con una misera vegetazione costituita da pochi steli d'erba bruciati dal caldo estivo e dal freddo invernale offriva ed offre come abbondante prodotto pietre di ogni risma da quelle ornamentali a, quelle per lavoro.  Quantunque vi fossero stati legli sforzi per stabilire quali fossero i costumi e le attività di quelle genti ci è stato nulla o molto poco tramandato. Quasi tutto è stato distrutto dal tempo e dalle numerose invasioni che si sono succedute nell'arco della storia italiana. Tanto è vero che il Madonna di Torricella dei Peligniritiene che le città o paesi di questi luoghi sono scomparsi "PER IL MUTEVOLE DESTINO DI OGNI COSA TERRENA."

Il cronista Cristoforo afferma invece che i centri della vallata Aventina furono rovinati dai Goti.  Ma oltre ad i Goti resta ancora oggi il segno della dominazione longobarda definita come un ciclone infernale.  Guidati da Alboino essi invasero con le intere famiglie ed il bestiame quasi tutto il paese sino al fiume Sangro.  Questo incrementò lavori di fortificazione da parte di città che già ne erano munite e l'esilio per altri.  Quale via di scampo presero le nostre popolazioni all'avvicinarsi di così terribile flagello?  Certamente I nostri antichi avi si rifugiarono verso le alture della Majella.  Di fatti in contrada Melete ad oltre 1770 metri d'altitudine, il De Nino ha rintracciato tracce remote di stanziamenti umani, come resti di cocci di terracotta e di altri utensili primitivi.  Per avere un'idea delle barbarie dei Longobardi basta il gesto compiuto dal loro re Alboino, che obbligò la moglie Rosmunda, figlia di Cunimondo, re dei Gepidi, a bere nel teschio di suo padre, che il feroce re aveva usato come coppa. 

Dopo l'assassinio di questa belva umana, ad opera di Rosmunda, I duchi longobardi elessero come re Autari, il quale prese per moglie la figlia del re dei Ravari, Teodolinda, che era cattolica.  San Benedetto da Norcia, attraverso Teodolinda, indusse I Longobardi a farsi cattolici; per abbracciare una religione che, predicava la mitezza e l'umiltà , li doveva aiutare a diventare meno selvaggi di quello che fino ad allora erano stati. 

Le orde longobarde, sotto la guida di FAROALDO, avevano già occupato gran parte dell'Italia centrale e quindi anche l'Abruzzo.  Spingendosi lungo le principali vallate del Pescara raggiunsero la conca Sulmonese irradiandosi sulle alture; altre orde aggirando la Majella, occuparono il chietino e penetrando nella valle dell'Aventino, raggiunsero le nostre comunità. E' superfluo ricercare le fonti per abbastanza eloquenti I toponimi di alcune località dove essi presero dimora, come la vicina FARA S. Martino, Lama, FARA Filiorum Petri, lungo la valle del Foro (I), qualche ceppo si inserì anche più a monte e non da escludere Colle, Palena, Taranta.  Altra considerazione è costituita dalle numerose chiese dedicate a S. Michele Arcangelo che divenne loro protettore.  Ve n'era una anche nel territorio di Palena che sorgeva sopra un'altura dei monti Pizzi, di fronte alla Madonna dell'altare, ove sono tuttora visibili gli antichi ruderi della chiesa dedicata a S. Michele Arcangelo.  I longobardi suddivisero l'Abruzzo in sette GASTALDATI: Marsi, Valva, Amiterno, Forcone, Aprutium (Teramo), Pinne e Teate.  Il Gastaldo era il capo amministrativo e della giustizia di una gastaldia.  Gli abitanti del Gastaldato teatino, come quello degli altri gastaldati, avendo giurato fedeltà a Carlo Magno conservarono leggi e consuetudino longobarde:
"In aprutio servatur jus longobardorum
et illud expedit" (II)
sicché solo le leggi longobarde erano le sole che venivano osservate.  Ciascun tribunale secondo quelle definiva le cause, e secondo le medesime si regolavano I contratti, le successioni, I testamenti, le punizioni dei delitti, le confisce e tutti "secundum longobardorum legem" erano molto sbrigativi e senza appello.  (III)

(I) Le "Fare" erano gruppi di famiglie longobardo che vivevano alle dipendenze di un monastero, in cui l'Abate oltre ad esser il loro capo religioso era anche il capo civile della piccola comunità.

(II) Teja: Jus Regni Long. (Lib. IV)

(III) Editto Rotari.


Anche in questa autonoma usanza ne abbiamo testimonianza a poche centinaia di metri dall'abitato di Colledimacine.  Qui vi sorge un naturale dirupo dovuto al lento assestamento della terra.  Oggi questo dirupo corrisponde al nome di Curth vecchia
-alias Corte vecchia-

Dalla storia non scritta ma tramandata dalle generazioni è da ritenersi che il tribunale di dui si parla "secundum longobardorum legem" di ceppo longobardo, fosse composto da vecchi costituenti la corte che a loro volta si riunivano in un luogo loro adibito' per Colle appunto era stato scelto Curte vecchia.  Oggi lo chiameremmo il Palazzaccio, palazzo gi giustizia... etc. etc. comunque la funzione a parte il nome era quello di amministrare la legge.

Da questa senile riunione ne scaturiva una sentenza e la relativa immediata esecuzione. Così il condannato a morte se viene bendato veniva trasportato di peso in cima e da lì spinto ad imitare Dedalo dalla parte Est, che offre caduta libera per un centinaio di metri ed un atterraggio su irti e taglienti massi.

Nessuno è tornato!

Perlomeno non ci è facile reperire notizie in questo senso. Lì il cadavere veniva miseramente abbandonato a se stesso preda di rapaci animali carnivori.
Oggi cosa resta?
Non certo le ossa consunte e mangiate dal tempo
Resta la storia ed a sua testimonianza CURTH vecchia.

I rovi che lo circondano stanno ad indicare che questa pratica è in disuso ed appartiene al passato, e questo lungo di pena e giustizia immediata, ospita da qualche decennio un quieto naturale "residence" estivo ed invernale nella parte superiore per le volpi, e nella parte inferiore per i cinghiali.

(3) Fra gli articoli dell'EDITTO DI ROTARI eccone qualcuno:

·          Se qualcuno avrà pensato o tramato contro la persona del re, sarà condannato a morte ed I suoi beni confiscati
·          Se qualcuno insieme col re avrà tramato la morte di un'altra ossia avrà ucciso un uomo per comando di lui, non sarà per niente colpevole.
·          Se qualcuno avrà ucciso il proprio padrone, sarà lui stesso ucciso
·          Se qualcuno avrà impedita la via ad una donna libera o ad una fanciullaossia le abbia fatto qualche ingiuria, darà una composizione di soldi 90.
·          Quando di notte un "uomo libero" sarà stato trovato nella corte (abitazione di un altro, e non avrà presentato le mani per farsi legare, se sarà ucciso non sarà ricercato dai suoi parenti e se darà per riscattarsi 80 soldi.
·          Se qualcuno avrà piagato un altro al capo in maniera da rompergli le ossa, per un osso comporrà soldi 12.  Se saranno stati due, comporrà soldi 24.
·          Se qualcuno avrà fatto cadere ad un altro uno o più denti mascellari, per un dente darà una composizione di soldi 19.
·          Se un servo avrà osato unire a sé in matrimonio una donna o fanciulla libera, incorrerà nella pena di morte.  E di quella che fu consenziente al servo I parenti abbiano la potestà di ucciderla, e di fare quello che vogliono delle cose di lei.
·          Se qualcuno avrà trovato nel proprio prato uno o più porci a scavare fossi, ne uccida uno solamente e non sia ricercato.

Le terre teatine, dopo la caduta del Regno Longobardo, si trovano staccate dal Ducato di Benevento. Infatti, il cronista Erchenperto narra che, quando Gimoaldo, signore di Benevento, nell'anno 801 si mostrò nemico dei Franchi, Carlo Magno, che allora era a Roma, non ricevendo atto di sottomissione, mandò contro di lui Pipino, suo figlio, il quale, muovendo da Roma per la Marsica e per i Peligni, condusse l'esercito alle terre teatine che erano guardate dai Beneventani e pose l'assedio a Chieti, difesa gagliardamente dal baldo ROSCHINO, ma dopo strenua Lotta Pipino, l'occupò dandola alle fiamme. (4)

In quell'epoca, a Colle esisteva già una delle prime chiese cristiane: SANCTA MARIA DELLA TOMBA fondata dai monaci benedettini di San Vincenzo al Volturno.

Similmente tali monaci fondarono a Palena un'altra chiesa cristiana " SANTA MARIA DE PALENA " e ciò viene rinonfermato anche da Carlo Magno nel 774. (5)

Da quanto è dato saper dei Longobardi e dal loro modo di organizzare politicamente le genti, si ricava la convinzione che essi furono un popolo, diciamo pure una razza, in cui prevaleva il senso della vita e del modo di organizzare le cose, le forze umane sul piano dalla produzione. Sembra chiaro che essi dettero molto importanza all'agricoltura, attività nella quale dai primordi della civiltà umana, si è trovata l'autentica via sicura per l'esistenza.  L'inclinazione verso l'agricoltura sta a dimostrare una, particolare propensione di quel popolo a rivolgere alle risorse natura1i le più attente premure, risorse che però richiedono una particolare dedeizione, una particolare tenacia modo di credere nellà possibilità dell'uomo congiunte razionalmente a quanto la natura può dare, ma non può regalarci da sola.  Infatti tutto ciò che oggi è incolto e a quell'epoca non lo era. Questo è da attribuirsi al fatto che altri paesi erano numerosi nella zona quali: LISCIAPALAZZO, PIZZI Superiori, PIZZI Inferiori, Castra JOHANNIS ALBERICI (Castelletta), SASARINE, Località LA TOMBA.

(4) "Nam Tellures teatensium et urbes a dominio Beneventorum tune subtractae sunt usque in presens." Mon. Gen. Hist. Long. 326 n. 5
(5) Chronicum Volturnorum Vol. II, pag139.

A sollevare le miserie degli scampati alla valanga barbarica fu la grande opera dei monaci Benedettini che illuminati dalla luce del cristianesimo infusero amore e speranza alle tristi popolazioni guidandole verso la rinascita.  Nel 703, dopo Monte Casino sorgono sulle rive del Volturno altri monasteri e spora tutti il monastero di SAN VINCENZO AL VOLTURNO, ad opera del Conte Gisulfo di Benevento, il quale provvide ad adottare I benedettini di una vasta estensione di terra.  Ottenuta questa dotazione
i Benedettini iniziano la dura lotta di redenzione che esplode in tutto il suo vigore col monito caratteristico " ORA ET LABORA " monito indirizzato ai vassalli del monastero per dare loro un ideale di vita.  I benedettini si spinsero subito dopo verso gli alti monti dell'Abruzzo, dove prima dell'altipiano fondarono un monastero sui ruderi di un tempio a Diana, denominandolo SANTA MARIA DE QUINQUEMILIA e da qui raggiunta la valle dell'Aventino fondarono altre chiese fra le quali SANTA MARIA DI PALENA e SANTA MARIA DE LA TOMBA.

Siamo nel 774 e da questa documentazione storica Colledimacine in quei lontanissimi tempi aveva certamente una sua importanza, sotto il profilo della sua posizione che le offriva pascoli in abbondanza, acque e pietre. Certamente l'opera civilizzatrice dei benedettini fu una mano provvidenziale per queste popolazioni che vivevano nella più profonda ignoranza e miseria.

Monte Cassino ancora oggi ha per gli abruzzesi dell'alto Aventino non solo un alone di fascino ma anche di richiamo. Questa opera di ricostruzione materiale e morale fu quasi cancellata nell'820 d.C. dalle incursioni dei Saraceni che seminarono ovunque terrore e distruzione. Prima ad essere prese di mira furono i monasteri e le chiese saccheggiati con estremo vandalismo; sicché di nuovo questi monti furono estremo ma sicuro rifugio alla furia devastatrice dei nuovi barbari.

A queste calamità si aggiunge nell'anno 847 un'altra: il famigerato terremoto che nel sannio ed in Abruzzo rase al suolo tutti i centri abitati e non, senza risparmiare edificio alcuno. Ne parla fra l'altro Luca Ostiense. (I)

Oltre le invasioni precedenti l'Abruzzo subisce anche i Franchi, i quali in gastaldati longobardi sostituiscono le Contee.  Sotto i Franchi risultò che il comitato Teatino aveva da tre lati la Majella, la Pescara ed il Mare, e verso sud pare ci fosse il fiume Trigno. Il comitato Teate, con quello dei Marsi e dei Valva costituì a sud il lembo estremo dell'impero di Carlo Magno, e del regno italico. Nell'anno 1035, però, in Italia meridionale giungono i Normanni capitanati da Guglielmo detto Braccio di Ferro. Morto Guglielmo le milizie normanne passano al comando di Roberto detto il Guiscardo che liberano le Puglie dai Bizantini e la Sicilia dai Saraceni ad opera di Ruggero I.  Consolidata la loro potenza nel meridione i Normanni cercano di allungare le mani sull'Abruzzo e iniziano con una condotta alquanto strategica le operazioni militari nel 1061.  Dilagano nelle terre della Val Pescara che erano sotto la giurisdizione del Monastero di S. Clemente a Casauria, successivamente, nel 1064 la conquista fu proseguita con maggior violenza dal figlio di Goffredo, detta "LORETELLO," e che impose ai monaci casauriensi di dichiararsi vassalli di lui.  La conquista dell'intera marca teatina fu poi compiuta con inaudita violenza da UGO MAL OZZETTO, personaggio molto crudele, il quale fisso il quartiere generale a Lanciano. 

(I) Cum annus ab Incarnatione Domini octigesimus quatragesimus septimus vulvueratur, tam terremotus per universam Beneventi fuit regiunem.  Ut Isernia fere tota a fundamentis corrueret, multusque ibi populus st ipse cum eis eorum Pontifex interiret.  Apud Manaste riumquoque San Vincentij terremotus idem plurimas domos evertit."

Fu appunto in questo periodo di occupazione che I Normanni raggiunsero la Valle Avenitna e attraverso Penna Domo, Juvanum, Monternerodomo, Collis Macinarum, Piczi, Palena, Monte Porrara sino all'altipiano della Majella.  L'altra colonna invece, al comando di Riccardo d'Altavilla, mosse dall'interno, lungo il dorsale appenninico abruzzese alla conquista delle terre marsicane e, scendendo verso la conca di Sulmona, e poi attraverso il valico di Forca Palena, si ricollegò con gli armati che erano provenuti dalla via adriatica.  Fu, grosso modo, una manovra a tenaglia per aggirare il massiccio qui stato venne diviso dai limiti naturali del Gran Sasso e della Majella in due ducati, come si rileva "Catalogo dei Baroni."

Questi continui mutamenti determinati da guerre più o meno sanguinose e caratterizzati da spietati saccheggi sconvolsero la regione teatina, che dovette subire le dure imposizioni dei vincitori e la distruzione dei castelli e paesi, specie di quelli che avevano opposto maggior resistenza favorita dalla loro posizione; fra essi quelli di Colledimacine, Pizzi, Palena, Forca Palena, per cui le nostre popolazioni furono angariate e lasciate nella più avvilente miseria e abbandono.  Ricordando le invasioni della metà del sec. Xo va tenuto presente che Carlo Magno aveva dovuto raccogliere cavalieri per le sue guerre; nell'impossibilità di pagarli in moneta era stato costretto a pagarli con terre e con diritti su di esse; così il patrimonio terriero veniva sottratto a man mano dall'ingente dominio patrimoniale dell'impero.  Ecco dunque come vennero a formarsi gli elementi del feudo: il BENEFICIUM, la IMMUNITAS e la FIDELITAS che crearono la figura del vassallo.  Il patrimonio terriero diventò pertanto una preziosa ricchezza, un mezzo potente di soggezione perché permetteva al duca di procurarsi I guerrieri, ricompensandoli con investitura di un feudo.  La conquista dei Normanni sconvolse tutto l'ordinamento barbarico e il nome Aprutium - Aprutio limitato sino ad allora alla provincia di Teramo si estese a tutti gli antichi comitati abruzzesi.  Il Feudo è quasi sempre un agglomerato di uno o più castelli, di villaggi, di casali e di case sparse per le campagne; terre dominanti donde la parola in DOMO, alcune delle quali sono di proprietà del signore a titolo patriarcale, come Palena in Domo, Montenero Domo, Penna Domo, preziose località di carattere strategico, quale Colledimacine. Altre terre sono tenute dal signore in Beneficum, ed a loro volta in tutto od in parte, da lui subconcesse a Vassalli minori "Valvassini."

E perciò quasi tutte autarchiche, ciò è indipendenti dal punto di vista economico. Si ebbero così TERRE DOMINICHE e TERRE TRIBUTARIE o MASSERICE, suddivise in piccoli poderi, assegnati a coltivatori liberi o "liberari." Si creano i MANSI donde la parola MASSERICIA (1) Accresciuta la proprietà e la potenza del feudatario, a discapito dei monasteri, si vennero creando più corti nell'ambito della stessa proprietà che dipendeva dalla principale: dal PALATIUM.

Considerando il significato di alcuni toponimi dell'alta Valle Dell'Aventino, quali LISCIA PALAZZO, località fra Colledimacine e Pizzo Ferrato; SANTA MARIA DEL PALAZZO, antico monastero Benedettino, sorto sui ruderi del "Capitolium" dell'antica JUVANUM, ci è agevole dedurne che il PALATIUM non era altro che la residenza preminente della Corte Baronale,  arrocata sopra una posizione dominante da offrire un'ottima sicurezza di difesa. Il sistema feudale che i Normanni portarono, al momento del loro insediamento mantenne in vita gran parte degli ordinamenti amministrativi finanziari e giudiziari dei Bizantini, Longobardi, e Arabi ma soffocò ogni sintomo di libertà nei grandi e piccoli centri. Lo stata e i Signori feudali avevano il diritto su tutti i beni terrieri ,come quelli detti "usi civili." I feudatari ne fecero, sovente "difese" per limitare lo "jus pascendi."  La nota caratteristica che risulta dalla conquista Normanna è perciò la FEUDALE, e di importanza Feudale è il documento più interessante che ci resta della dominazione Normanna il "Catalogo dei Feudi dell'Italia Meridionale" conservato nei "Registri Angioini" dell'archivio di Stato di Napoli vol 242.  E dato alle stampe dal Borello il 1653,  dal Fimiani il 1787 e dal Del RE il 1845.

Il Borelli lo credette compilato ai tempi GUGLIEMO il Buono per la Crociata in Terrasanta ma secondo alcuni scrittori moderni, si tratta di diversi quaderni compilati prima del 1161 e rinnovati nel 1168 per le due spedizioni contro il Bizantino Paleologo e l'altra contro il Barbarossa. A detti cataloghi si aggiunge:

Il "CATTALOGUS BARONUM," ossia il Catalogo dei Baroni che non era altro che il registro del servizio feudale nelle province napoletane durante la metà del sec. XII. Venne compilato dalla "Magna Curia" durante il regno di Ruggero il Normanno, il quale sancì nel suo statuto opera altamente giuridica rispetto ai tempi, le prerogative del Sovrano su tutti i Feudi dell'Italia Meridionale.  In questa "Catalogo" sono elencati tutti i feudi con a ?ianco, i rispettivi feudatari essi hanno elencato anche il valore economico proprio del feudo, secondo la denuncia dello stessa possessore.  Segue, subito dopo, il numera dei cavalieri e degli scudieri richiesti, con l'aumento del servizio militare.  I feudatari venivano distinti in due classificazione quelli che tengono IN DEMANIUM o IN CAPITE un feudo, e quelli che l'hanno ottenuto soltanto, IN SERVITUM.  Quelli che tengono "in demanium" posseggono personalmente o direttamente dal RE (A DOMINIO REGE) il feudo; i secondi, possegono per subconcessione.  Riassunendo, il feudo consisteva in una qualunque proprietà concessa dal RE a titolo di vassallaggio, dietro giuramento di fedeltà, a prezzo del servizio militare, aumentato di un certo numero di cavalieri in caso di guerra. L'AUGMENTO ciò è l'aumento, non si riscontrava più nel periodo della dominazione successiva, la sveva, in quanto gli Svevi dimezzarono la quantità del servizio militare "dell'Augmento." Carlo I d'ANGIO' trasformò l'obbligo del servizio militare con una tassazione un denaro (ADOHAMENTUM), quando il feudatario no poteva servire di persona.

(1) Mangus in vulgari italicorum dicitus quantitas terrae que sufficit duobus bobus in anno ad laborandum.  E' chiamato "Manso" in volgare italico, una quantità di terra che copre la possibilità di lavoro che due buoi fanno in un anno.

Abolita successiva la milizia feudale, l'ADOHA rimase come una qualunque contribuzione pecuniare del 26 e 1/2 del valore del feudo.  Ogni barone del Regno che disponeva di 20 once d'oro di entrate feudali, corrispondenti a ducati 120 di denaro  (1) era tenuto a contribuire con un MILE, cioè un cavaliere, appartenente all'ordine della nobiltà feudale, fondata sul valore del cavaliere stesso, fornito di armi e di cavallo (armis et equis) seguito da due scudieri, anch'essi forniti di armi e cavalli.  La ripartizione della spese era molto elementare, così ripartita: se il conflitto si svolgeva dentro il regno le spese per il mantenimento del cavaliere erano a carico della ""MAGNA CURIA".  Quei baroni che invece avevano entrate feudali inferiori a 120 ducati, si univano fra loro, fina a raggiungere, sommando, 120 ducati.  Quindi ogni uno contribuiva in proporzione al mantenimento di un cavaliere e due scudieri.  Si evince che Colle era sotto la contea di Palena insieme a Lama, Taranta, Forca Palena, Rocca dei Pizzi, ed altri castelli (per un totale di undici feudi) e disponeva con l'aumento, di venticinque cavalieri e cinquanta scudieri: una nutrita schiera di 75 audaci e gagliardi cavalieri della Majella orientale che partecipò alle imprese guerresche dei secoli passati.  Sembra che nella regione pelign fossero I BORRELLI, discendenti dai Conti Valvensi che sembrano di origine francorum, a dettate legge.  La strategia usata da questi audaci, spregiudicati e scaltri signorotti, sin dal sec. XI fu quella di diventare ricchi e potenti a spese dei beni dei monaci benedettini, ottenendo le terre o con sottili raggiri rapinandole o facendosele cedere a livello.  Ciò è riportato anche dal Muratori nella sua colossale opera "ANNALI D'ITALIA."
...o si studiavano di pelare ora soavemente ora con violenza le chiese col promettere un annuo canone, e intanto donare qualche terra in proprietà ad essi luoghi sacri per indurre I Vescovi e gli Abati col piccolo presente vantaggio a livellar essi beni....
(1) Il ducato era quivalente a L. 4.25 del temp.

Nell'anno 1176 Federico Barbarossa, battuto a Legnano dalle forze dei liberi comuni, si affrettò a concludere col papa a coi comuni liberi una tregua decennale e quindi rientrò in Germania.  Questo leone morente non si rassegnò a lasciare la preziosa preda, l'Italia; difatti, prima della sua morte, con abilissima mossa politica matrimoniale, riuscì a far sposare a suo figlio Enrico IV la della Costanza di Altavilla, erede del regno di Sicilia, salvando così la potenza degli Hohenstaufenn con quella dei Normanni.

Nel 1189, dopo la morte di Guglielmo II normanno, due irriducibili partiti turbarono il regno di Puglia e di Sicilia.  Uno faceva capo a Tancredi di Altavilla, cugino del re deceduto, mentre l'altro si era schierato con Enrico IV di Casa Sveva, figlio di Federico Barbarossa.  Tancredi ebbe il sopravvento sull'altra fazione e fu incoronato a Palermo nel 1190 mentre Enrico IV fu coronato a Roma dal papa Celestino III.  Giunto a Napoli per assumere il possesso del regno, dovette abbandonare il napoletano per l'infierire della peste.

Pochi anni dopo I due contendenti morirono e su tutti emerse Federico, figlio di Enrico IV spalleggiato anche dal papato nella figura del pontefice Innocenzo III prima e Gregorio IX dopo. 

Incoronato imperatore Federico si rivelò ben presto uno dei monarchi più illuminati del tempo.  Istituì la Scuola Siciliana, dove poeti e pensatori scrissero nella lingua del popolo, o volgare italiano invece che in latino e realizzò la nuova costituzione del Regno rimaneggiando ed adattando ai tempi quella di Ruggero II il Normanno. (1)
Sottomise anche I Baroni a lui ostili e che si erano schierati a favore del papa quando il pontefice aveva scomunicato l'Imperatore perché si era rifiutato di partire per la V crociata in terrasanta.

(1) Federico abolì lo sconcio diritto dello "JUS PRIMAE NOCTIS" cui avevano abusato I baroni.

Fu proprio in seguito a tale scomunica che i baroni si  schierarono chi con l'imperatore chi con il pontefice.  Ne scaturì una lotta feroce in tutto il Regno.

Il conflitto si estese anche nel nostro Abruzzo, dove il contrasto fra le due fazioni assunse toni di guerra civile.  Per quello che ci riguarda da vicino Il Castello di Santa Maria di Monteplanizio di Lettopalena ligio alle premure del vaticano fu devastato dagli armati dei baroni limitrofi che si erano schierati con le milizie ghibelline imperiali.

Dopo la sconfitta delle milizie papali, Federico II obbligò il pontefice Gregorio IX a liberarlo dalla scomunica Successivamente l'imperatore sbaragliò anche le altre forze a lui ostili a Cartenoca, impadronensodi persino del Carroccio.  La morte di Federico II, avvenuta a Castel fiorentino presso Lucera nel 1250 disorientò profondamente il partito ghibellino in Italia.  Entra così in crisi la dominazione sveva.  Il nuovo papa Urbano IV nel 1261 prosegue con tenacia il proposito di abbattere completamente il dominio svevo, e vi riesce appoggiando Carlo D'Angiò figlio del re di Francia Luigi VIII.  Il piano iniziato da Urbano IV viene portato a termine dal suo successore Clemente IV nel 1265.
L'Abruzzo schieratasi a favore degli svevi e contro quindi la nuova corrente subì ancora una volta il peso nella guerra.  Le forze sveve furono scofitte a Scurcola presso Tagliacozzo e Carlo D'Angiò pressoché vincitore assoluto mise subito in atto la sue vendetta contro città, castelli, e feudatari a lui ostili.  Divise anche l'ampio territorio abruzzese, formato da 720 Terre, in due zone
                   Ultra flumen piscariae
                   citra flumen piscariae.

Dalle cedule delle generali sovvenzioni si nota anche un'altra suddivisione delle terre teatine

                   Teate maior
                   Teate minor

In dette cedole si nota che Colledimacine faceva parte di Teate Maior, ossia Abruzzo Citra flumen Piscarie.
Una suddivisione ulteriore, comunque, vede ancora

         Abruzzo I Aquilano
         Abruzzo II Marsica.

Questa ulteriore suddivisione fu voluta da Carlo I D'Angio per natura fiscale e per la riscossione del pagamento delle tassazioni.

Infatti, il duro sistemo tributario angioino si fondò su due proventi:

1.          Imposta fondiaria riscossa dal Giustiziere e data in appalto ad ufficiali corrotissimi distribuiti in ogni terra.
2.          Imposta di carattere staodinario, che si verificava quando la corte era a corro di denaro e doveva far fronte ad esose quanto inutili spese di sfarzosità  o militari.

Comunque la seconda da carattere straordinario che era diventò ben presto a carattere ordinario.  Nel 1270 in occasione del matrimonio fra Beatrice, figlia di Carlo I D'Angio con Filippo D'Angio fu richiesto ai sudditi un supplemento di ben 35 mila once d'oro, pari a 8.80 quintali.  Somma enorme tenuto conto delle misere condizioni dei sudditi.  A tale calamità se ne aggiunse un'altra: la carestia del 1270.
Malgrado tutto la vita continua e la storia anche.
Dopo Giovanna I D'Angio, sale al trono di Napoli Ladislao, il quale per continuare la guerra contro I D'Angio' sposò per interesse la bella Costanza I Chiaramonte, ricchissima siciliana, e col denaro di questa principessa sostenne la guerra.  Esauri toil danaro, nel 1412 divorziò dalla bella siciliana per sposa un'altra ricca: la sorella del re di Cipro.
Iniziata una spedizione in Abruzzo contro Luigi II e contro I Caldoresi, sconfitto, ritornò a Napoli attraverso il Molise.  Scomparso dalla scena questo giovane principe ascese al trono di Napoli la sorella Giovanna II e Liugi III D'Angio.  Gli eserciti contrapposti si scontrarono a Pacentro e Campo di Giove dove gli angioini al comando di Giacomo Caldora furono sconfitti da Braccio Da Montone al servizio di Alfonso di Aragona.  Dopo la sconfitta Braccio de Montone effettuò una vera caccia all'uomo nelle vesti dei caldoreschi sino a Castel di Sangro.  Accanto a questa travagliata storia di guerra e di miseria passiamo ad analizzare solo marginalmente anche l'aspetto economico-commerciale, tenendo presente che non e difficile immaginare quale già stata la sorte dei nostri avi nel periodi precedentemente illustrato.

HANDWRITTEN MATERIAL HERE

Il commercio della lane no vade il paese industrialmente preparato.  In esso vi sono delle fasi marginali di un paese industrializzato:

a. produzione di materia prima
b. Fornitura di mano d'opera
c. rifinitura di prodotti.

"a"
La produzione si verifica grazie agli innumerevoli e numerosi greggi che esistevano.  Infatti, la lana di pecora veniva usate come merce di scambio presso I lanifici di Palena e Taranta, che ad iniziare dagli Svevi, verso la fine del 1200 ad incoraggiare l'industria, ed alcuni centri come quelli summenzionati ebbero sicura fortuna.  Proprio quella fortuna che poi regredì sino alla crisi sotto la dominazione Angioina.  Questa viene avvalorato da uno specchio sinottico delle Università della Valle dell'Aventino e limitrofe.  In tale specchio fa eccezione il calo dell'anno 1670 e che è attribuito al periodo della peste.

Universita (1) Anno Anno Anno Anno Anno
  1447 1596 1670 1447 1881
Palena 166 305 142 824 4169
Torricella Peligna 40 126 60 186 4161
Lama dei Peligni 90 160 103 417 3215
Lettopalena 71 108 83 364 1559
Colledimacine 30 102 39 207 1450
Fallascoso 17 41 32 77 633
Montenerodomo 28 109 54 155 1875
Casoli 119 261 150 686 6109
Fara San Martino 38 152 94 165 2691
Palombaro 23 83 21 129 1263
Gessopalena 137 205 177 669 3396
Civitella M. Rai. 26 58 37 121 877

"b"
Era d'obbligo che tali centri fossero catalizzatori di lavoratori dei passi della Valle.  Essendo le uniche industrie donne e bambini venivano ad arrotondare le entrate familiari con lavori meno pesanti dei campi. 

"c"
questa attività si ricollega alla precedente.  Era questo un lavoro effettuato da tutti ed in qualunque ora della giornata.  Ancora sino a qualche anno fa si vedevano donne anziane e non, in un lavoro domiciliare per effettuare frange e ricami su prodotti smerciati grezzi dai lanifici.  Di questa ne parla marginalmente Lorenzo Giustiniani nel dizionario storico-geografico delle due Sicilie. 

Come accertato nel corso di questa ricerca le pietre devono essere state un ausilio molto importante per il lavoro di queste genti. 

Pietre di ogni tipo; per lavoro e per abbellimenti, sculture in pietra ed oggi ne restano I segni evidenti, ad iniziare dallo stemma del paese.  Infatti lo stemma, murato oggi sul portale della Chiesa principale consta di tre monti, un giglio angioino e due rose.  Il segno dell'antica Università (1) è una macina di mulino e ciò probabilmente era evidente allusione al nome del paese.  Simili stemmi, comunque, con segni allusivi al nome non sono antichi e rari in Abruzzo.

(1) "UNIVERSITÀ" era il nome o meglio la denominazione medioevale data ad ogni comune tassato con un minimo di 20 once di ADOHA, in quanto la popolazione dei "castra" soggette alla giurisdizione del feudatario, divise in gruppi di MILES e dei SERVITIALES si strinsero a poco a poco al feudatario per la ??? degli interessi e della reciproca difesa.


Sez. Nap. I-C-200 (da Lorenzo Giustiniani dizionario storico-geografico Regno delle Due Sicilie)

Colledimacine - terra in "Abruzzo citro" in diocesi di Chieti.  È situata sopra di un colle di aria sanissima, godendo di un ameno orizzonte, specialmente verso il mare adriatico, che è distante miglia 20 circa.  Da Chieti è lontana miglia 27, e da Sulmona, Lanciano, Ortona, Vasto, Aimone, Castel di Sangro circa 20.  Verso mezzogiorno, a ponente, alla distanza di quattro miglia, è circondata dalle montagne la "Ferrara," e dalla "Maiella," ricoperte per tutto giugno di neve, onde rende alquanto rigido il clima nelle stagioni d'inverno e di primavera.

Il territorio confina a levante col tenimento di "Fallascoso," e di "Montenegro d'uomo," da mezzogiorno colla stessa terra, e col feudo dette dei "Pizzi;" da ponente con quello di Taranta e di Letto-Palena e da settentrione coll'altro di Lama e di Torricella.

Tutta la sua circonferenza è di miglia 10.
Dalla parte di maestro è bagnata dal fiume Aventino, di cui dissi qualche cose nell'articolo di Civitella Messer Raimondo.
Nel detto feudo di Pizzi vi si vedono gli avanzi di un antico paese chiamato "Liscia-Palazzo."  Questo feudo è contiguo all'atro della Castelletta," che si appartiene al Duca dei "Casoli," e vi sono molti cerri e feggi.  Nei luoghi aperti vi menano gli armenti di esso duca.  Vi si trova molta caccia di beccacce, starne, pernici, e altri uccelli; e similmente capri, lupi, volpi, lepri, ed anche orsi. 

Nei luoghi poi petrosi non vi mancano vipere ed aspidi.
La produzione sono quelle di prima necessità e quel poco che sopravanza vedono nelle vicine terre.  Vi è una fontana molto comoda a quei contadini per la coltivazione degli ortaggi.
Vi hanno introdotto fenanche le patate.
Nel detto fiume vi pescano trote ed angiulle.
Nel 1532 la sua popolazione fu tassata per fuochi 92, nel 1545 per 92, nel 1561 per 102, nel 1595 per 131, nel 1648 per 120 e nel 1669 per 89.
In oggi ascendono I suoi naturali a circa 840 addetti all'agricoltura ed alla pastorizia dei propri animali.  Una parte di essi nel mese di novembre si porta nella campagna di Roma a fare carboni.  Le donne filano la lana e tengono anche dei panni per li mercanti di Palena e di Taranta.
Il possessore è Domenico dei marchesi Tramondi in Sulmona. 

I vari tipi di pietra quivi esistenti si prestano a questo tipo di impiego polivalente.

Il primo è il lavoro di una pietra più malleabile, sempre lavorata a mano, con pazienza e tenacia nei vari momenti di relax o nei periodi durante I quali l'agricoltura richiedeva una sosta forzata, per la costruzione di: ciotole, scale, soglie per davanzali di balconi o finestre, campitelli ornamentali, vasi per qualunque tipo sia per la conservazione degli alimenti sia ornamentali.
Il tutto veniva finemente levigato con martello e scalpello.  Si ha ancora oggi la possibilità di notare; il vecchio non curato, il vecchio lavorato con cura ed il vecchio lavorato con una aggiunta di edificio ultimamente finito e sovrapposto al vecchio.  Ciò si è verificato in quanto si è estinto quel lavoro artigianale che permetteva tale tipo di produzione.

Sino ad un ventennio fa ricordo di operai che quadravano queste pietre, ed il loro scalpellio infrangeva il silenzio che ora ricopre insieme ai rovi queste apposite cave.

Non vi sono state industrie vere e proprie, il tutto si svolgeva tramite  un artigianato locale, ora estinto, che smistava in misura limitata questi prodotti, effettuati su commissione, anche verso I centri viciniori.



Altri lavori di notevole fattura tecnica ed ora rimasti a testimonianza di questa attività sono:
·          la facciata, sempre in pietra paesana, della Chiesa di San Nicola di Bari con un portale molto elegante e con un rosone corrispondente in alto.
·          Una fonte battesimale con base di pietra scolpita, con la data 1622.
·          Due pile di acqua santa, in pietra paesana scolpite con fregi del XVI sec. Altri lavori del genere si trovano nella Valle dell Aventino come Taranta, Lama e Palena.

Ma mentre questi erano prodotti raffinati, quello che ha focalizzato su di se' il mondo del lavoro e della produttività è  senza dubbio uno più grezzo: la "MACINA."

Queste venivano prodotte grazie a pietre dure e rugose, quale la pietra vorgalmente detta focaia, presente ovunque. 

Il suo uso e la sua scoperta deve essere remota.  Non so di preciso se vi sono state in questi luoghi fabbriche per l'esportazione o solo fabbriche di macine, e, mi è stato difficile recepire notizie in tal senso; credo comunque che questa sia una ipotesi da scartare visto che pietre focaie si trovano ovunque e sono pesanti da trasportare . Penso però che la macina quivi sorta è di epoca senza dubbio remota.

Oggi il suo uso è scomparso.  Fra qualche anno molto probabilmente non senne parlerà più; ma la mia infanzia e le generazioni che mi hanno preceduto hanno vissuto un arco di tempo a diretto contatto con la loro era aurea.

Ne ho visto di vario tipo tutte funzionanti tramite forza motrice fornita dalla corrente.

Un esempio, oggi esposto in un parco giochi, mostra due ruote da mulino per grano o granturco.

Come si vede esse non erano tratte da un monoblocco di pietra, bensì da tanti elementi cementati insieme e racchiusi da un fermo in ferro.

Il funzionamento di tale tipo di macina era assicurato da una serie di pulegge che traevano l'energia necessaria al movimento, da un motore elettrico. Tenendo ferma la macina inferiore, quella superiore ruotava tramite il sistema sopra accennato, e provvedeva col peso e la forza di attrito a schiacciare I chicchi di grano che venivano convogliati entro apposite scanalature situate fra le due ruote.  Queste scanalature col tempo si livellavano ed occorreva un enorme lavoro fisico eseguito a mano con martello e scalpello per ripristinarle.
Un tipo precedente a questo, funzionante sino agli anni "30 era il mulino ad acqua, Il principio di funzionamento era lo stesso; cambiava la fonte dell'energia. Il moto, infatti, si ricavava da una enorme ruota fatta girare dall'acqua.

La conversione di tale energia si otteneva tramite ruote dentate fatte in legno, e di un legno molto dure quale sorbo o ciliegio.

Per avere acqua a sufficienza molte volte venivano fatti scavi e canali costituenti vere e proprie opere.  Tali opere di convogliamento di acque confluivano su una artigianale diga sovrastante il mulino che fungevano anche quale serbatoio nei periodi di secca e, venivano chiamate in lingua volgare "rifolza."

Oggi sono anch'esse ricoperte da rovi e selvaggia vegetazione e solo con la testimonianza di alcuni anziani mi è stato possibile trovarne le tracce.

Non mancano in paese ricordi verso tipi più antichi, appartenenti al secolo scorso, di mulini.  Da quello che mi è parso di capire il principio di funzionamento è rimasto universale, la differenza consisteva sulla disposizione delle pietre (ruote) e sulla diversa fonte dell'energia.  Si tratta di mulini ricavati ai piani terreni od interrati delle case; dove la ruota ferma, quell'inferiore, era adattata all'uso su blocchi di pietra già preesistente ed opportunamente sagomata, e, la ruota mobile, quella superiore, concentrica alla prima tramite un perno centrale era direttamente collegata alla periferia con un'asta; alla quale veniva direttamente applicato il moto fornito da un uomo ad animale.

Resti di tali strutture sono ancora parzialmente presenti?  Il tempo e le avversità quali la guerra (1) ed terremoti, ne hanno accentuato il degrado, per cui fra qualche anno anche queste rovine non saranno più decifrabili.

(1) Il paese fu completamente distrutto nell'ultimo conflitto mondiale dalla "Linea Gustav"
Per il sacrificio e la lotta sostenuta contro le forze tedesche nel 1975 il Comune è stato decorato dal Presidente della Repubblica con "croce di guerra al valor militare"

Così sono giunto alla fine di questa ricerca toccando quello che il paese ha di più remoto senza aver dato una risposta/ COLLEDIMACINE perché?

Quello che a prima vista, dalla credenza popolare, sembrava logico e dato per scontato, in realtà si è rivelato astruso e pieno di ombre. Ma la tradizione pur se mista alla leggenda nasce da dei fatti concreti; e pertanto anche qui dovevano esercì elementi in comune fra "macine" e nome del paese  (anche se documenti in tal senso non ve ne sono).

A tal proposito cade la tesi che ci collega al 1316 anno in cui

"...l'ottava parte di Colle di Machine si taglio'
ad Adoa a Ruggieri di Colle delle Machine forse
da questo primo nome si gentili' il secondo Maci-
ne.  E collo stesso di Colle delle Machine se ne
dice possessore Ruggieri del medesimo Colle delle
Machine in quel registro...."

Cade in quanto l'Antinori pur riportando fededelmente una suddivisione del feudo di Colle di Machine allo stesso Ruggierri attesta già la presenza di tale nome, ed in una postilla riporta come preesistente il passe di Collis macinarum.
Questa postilla ci proietta ancora indietro nel tempo e personalmente credo che questa soluzione pur se più contorta ed eclatante giustifichi in maniera più esauriente la mia curiosità.

Infatti, penso, che il sintagma Collis macinarum sia di chiara origine latina.

"COLLIS MACINARUM"

collis - tardo latino collis/is femm. sing.
colle, altura, sito sopraelevato.

macinarum - delle /di macine, genitivo plurale di
macinae ae termine latino con significato
di macchinario, macina.
Tale termine ereditato dal taro greco -
mechanè - è da considerarsi "naturalizzato"
latino a tutti gli effetti, tanto è vero che
è parte costituente il suddetto sintagma, che
poi da origine all'attuale toponimo in ita-
liano corrente.

HANDWRITTEN NOTES

Questo per dire che l'origine del nome si ente latino è da identificarsi col menzionato collis macinarum.
Se non vi fosse stato infatti, il tramite latino, il nome avrebbe conservato lo stesso accento del genitivo plurale greco - mechanòn - trasformandosi poi in italiano con un toponimo simile a - colle mecanò - .

Sono naturalmente ipotesi, ma si sostengono l'una con l'altra anche col fatto che la posizione isolata del posto abbia isolato lo stesso perlomeno nella toponomastica, dell'elemento greco-latino.

Ad ulteriore dimostrazione di ciò dovremmo aggiungere l'assenza, già messa in rilievo, dell'appellativo "PELIGNA."

Potremmo però dare ancora  un significato diverso alla parola macina-mechanè.  In fatti, sia in greco che in latino I significati del termine spaziano; da macina per o; grano, a macchinario in genere ed a macchina da guerra (machenà).

La chiave del rebus dovrebbe essere proprio in questo ultimo significato preso in considerazione.  Avendo parlato di Colle in posizione isolata e predominante, sicuramente ambita, con funzione di controllo della valle sottostante era per I politici ed I militare di allora una posizione da difendere e forse proprio con macchine da guerra di cui le macine di oggi sono i resti.

Volendo però non mancherebbe una ulteriore spiegazione riferita a macchinario generico.  Questa però varcherebbe addirittura la soglia dell'era della rivoluzione agricola, e, ci accosterebbe al III o IV millennio avanti Cristo.

Mi riferisco alle costruzioni murarie di tipo pelasgico presenti nelle nostre zone.  Infatti per tale tipo di ingegneria edile si richiedevano o uomini di costruzione ciclopica o, verosimilmente, uomini normali che si aiutavano con macchinari adatti all'uso!!!

Quanto alla realizzazione odierna "COLLEDIMACINE" diversa da Colle di macine I da quella di Colle delle macine non ci si deve stupire più di tanto.

Infatti, considerando la traduzione del genitivo plurale latino in italiano nella sua forma più corretta dovremmo avere "delle macine" parola che poi attraverso il tempo e attraverso la deformazione, in uso corrente, della pronuncia dialettale quale "colle dj llh mmacine" siamo giunti a quello scritto con l'attuale "COLLEDIMACINE."


Bibliografia

Francesco VERLENGIA: Paesi, tradizioni, leggende della valle dell'Aventino.


 

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