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Platone

Platone dipinto da Raffaello nella Scuola d'Atene  (le sembianze reali sono quelle di Leonardo).

[luglio 427-347: nel "Protagora", ma con sostanziale coerenza di tutte le altre  fonti, il Socr. platonico sostiene che si fa il male solo per ignoranza del bene; appena cioè il bene appare alla coscienza, assume un assoluto potere attrattivo nei riguardi del volere ( dal presupposto che ogni bene fosse attrattivo- piacevole (edò) nasce la teoria cirenaica che ogni piacevole fosse bene. Ma il bene non è per Socr. una concezione teoreticamente espressa, cioè distinta dal mondo del desiderio e della volontà - altrimenti non si potrebbe capire la potestà irresistibile del bene sul mondo del sapere. Il bene socratico attrae assolutamente la volontà perché non è teoria che comanda dal di fuori, valida sia per il passato (fatti) che per il futuro (speranza i), ma solo per quest'ultima parte del tempo. 

Ma se il bene non può essere applicato al passato, allora non è oggettivabile come concetto universale, anche se Socr. sente l'esigenza di fare del bene un oggetto- verità non ristretto al singolo individuo, ma cogente per tutti. Nel "Protagora" si enuncia in generale l'impossibilità di scindere l'unica areté in virtù particolari. Insomma la concettualità del bene è universalità (tendenza platonica che inizia qui a delinearsi) o è sapere individuale nel senso di semplice scopo, conosciuto e perciò voluto, totalmente all'interno della vita consapevole della prassi?  

Nel "Lachete"(sulla virtù come coraggio) si evidenzia il dissidio fra il bene come termine ultimo del volere e il bene termine eterno del sapere. Nello "Ione" si mostra che la poesia, al pari della virtù, non è effettiva conoscenza delle cose cantate. Con il "Gorgia" inizia il distacco platonico da Socr.: si esclude qualsiasi validità dell'interpretazione edonistica dell'eudemonismo di Socr., all'opposto il principio dell'attraenza del bene si sviluppa solo in senso rigoristico ascetico fino a delineare - anche se non espressamente - la superiorità al desiderio eudemonico come somma felicità, il sapere non serve più a dirigere la prassi ma come ideale contemplativo fine a se stesso. Le opere successive delineano nelle singole forme l'idealità trattata nel "Gorgia". La felicità come giustizia è trattata nella "Republica": la virtù nell'individuo coincide con la virtù nello stato, ed è sapere che sovrasta - sia pure come dover essere che può non essere -  la prassi; il retto agire deriva dal retto sapere), solo chi sa deve governare, senza riguardo per l'individuale libertà di coloro che non sanno; Plat. è  teorico di una monarchia della sapienza (e nelle "Leggi" sarà lui a occupare tale trono): il concetto universale è ratio cognoscendi del bene solo in quanto è anche ratio essendi. Il concetto è l'essenza dei fatti, l'universale, "idea" (idea, eidos), quel che essenzialmente, veracemente è (ontos on), in quanto è l'assolutamente costante, il sempre pari a se stesso. Le cose partecipano della realtà solo in quanto partecipano (methexsis) dell'idea; la partecipazione può essere intesa come "presenza" (parusìa) di quest'ultima nella cosa oppure come "imitazione" (omòiosis, mìmesis) dell'idea da parte della cosa , onde le idee si confermano come eterni modelli (paradéigma) cui si conforma il divenire. Alla logica della parola (logos) maieutica si sostituisce quella del vedere (etimo di idea-eidos), una metafisica della luce per cui la realtà suprema è oggetto della visione suprema e l'IDEA del Bene sovrasta come il sole tutte le altre (mito caverna in Repubblica, VII: la verità è prodotto non di discussione ma di intuizione). Quel che è veramente bello e buono attrae ("Simposio", "Fedro") non come coscienza del desiderio (Socr.) ma come desiderio della conoscenza il cui compiuto ideale è la conoscenza senza desiderio. Con "Menone" e "Fedone" si elabora la teoria della conoscenza come reminiscenza (anàmnesis), faticoso richiamo alla memoria in virtù della "somiglianza" del reale all'ideale. La soluzione radicale del problema etico consiste nello svincolarsi dall'impaccio carnale in vista della futura beatitudine contemplativa iperuranica, per cui scopo della vita è la preparazione alla morte (melétema thanàtu, studium mortis): qui arriva a scissione l'unità socratica del desiderato- saputo, assumendosi il saputo come  criterio universale sovratemporale di ogni atto. Viceversa per Socr. la morte (in Apologia) è o impassibile sonno senza sogni (sviluppo epicureo) o prosecuzione della prassi terrena interrogando con maggior sicurezza i grandi delle età passate. Ma Plat., infaticabile correttore di sè medesimo, con il "Timeo" e il "Filebo" riprende il motivo socratico della prassi nell'affermazione della concretezza emotiva e passionale del volere (sviluppata poi da Arist.). Nel maggior dialogo gnoseologico ("Teeteto"), si cerca di sistemare l'antitesi parlare- contemplare sovrapponendo l'intuizione immediata del pensiero noetico al procedimento discorsivo (=logico- verbale) del pensiero dianoetico. Ma il contemplabile mondo delle idee  si riduce nella sua gerarchia interna a un sistema di concetti universali culminante nell'idea di estensione massima /comprensione minima: l'Essere o il Bene, nota come del contenuto di tutte le altre idee. Qui il mondo delle idee richiede, nella sua struttura gerarchica, la dialettica, un supplemento socratico del parlare: non tanto un "parlare ininterrotto" (necessario a Socr,. per contrapporsi alla logorrea sofistica) quanto un "parlare definendo" con il metodo della divisione (diaìresis) che parte da un concetto superiore (Bene i) e tende a raggiungere il definiendo, il che implica l'unire soggetto e predicato con il "ti estin" socratico". Si sfugge al problema parmenideo del sì e del no, individuando nel non- essere un "essere altro", l'antinomia positivo-negativo viene trasformata nel binomio (tutto positivo) de "lo stesso"(tautòn) e de "l'altro"(éteron) cioè dell'identità e dell'alterità dando giustificazione concreta sia alla logica-parola dell'affermare ("Sofista") che a quella del negare ("Parmenide": Zenone con le sue stesse mani distrugge l'essere, in quanto per criticare i socratici costruisce l'argomento del "terzo uomo": gli uomini reali sono tra loro simili in forza dell'unico uomo ideale cui partecipano, MA questo è a sua volta simile a quello come l'esemplare agli esemplati, e così via all'infinito. Nell'ultimo scritto (VII lettera, 353 a. C. o dopo) rivendica il supremo valore della verità intuita sulla parlata e anche sulla scritta/cristallizzata (insofferenza già presente nel "Fedro". In Plat. s'incontra già genesi -problematica e dissoluzione della sistemazione logica aristotelica del pensiero parlato.]

Il filosofo è presente nel libro III delle "Vite di filosofi"  di Diogene Laerzio.

Dante Alighieri pone Platone nell'Inferno (IV,134)  tra i sapienti che vengono prima della venuta di Cristo. Viene ripreso il suo pensiero in Purgatorio (III,43 e IV,24).

Petrarca lo indica come principe di ogni filosofia.

 

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