LA GIUNGLA DELLE FILIPPINE

di Tito Livio

Dobbiamo confessare che abbiamo sempre accolto con una punta di incredulità le notizie sul ritrovamento nella giungla del Borneo o delle Filippine di soldati giapponesi che, a distanza di parecchi decenni dalla fine della guerra, ancora si nascondevano, ignari del fatto che la guerra fosse finita da un pezzo.

Incredulità legittima, vista la strada che il mondo ha fatto nel frattempo, cosa che rende paradossale l'idea che qualcuno possa condurre una vita fuori dal tempo, ignaro dell'evoluzione del contesto circostante.

Talmente paradossale che non ci accorgiamo nemmeno che forse alcuni "soldati giapponesi" stiano in realtà nascosti anche in mezzo a noi, in quest'Italia del 2002, convinti di combattere ancora un'epica battaglia per la vittoria finale di una guerra ormai finita (e persa) da tempo.

E' questa la sensazione che abbiamo avuto qualche giorno fa, ascoltando l'ennesima puntata dell'ormai famoso processo per la vendita della SME, quello che vede imputato tra gli altri l'attuale Presidente del Consiglio.

Come noto, a suo tempo i giudici del Tribunale di Roma impedirono di fatto la vendita di un'azienda di Stato, la SME, ad una Società privata per un prezzo pari a un quinto di quello che venne invece ricavato dalla vendita avvenuta qualche anno dopo. Quelli che stavano realizzando l'affare siedono ora su alt(r)i scanni, Berlusconi su quello degli imputati, accusato di aver corrotto i giudici per convincerli a bloccare la vendita: non chiedeteci perché, così è.

Uno dei pilastri dell'accusa è la sceneggiata che si svolse al famoso Bar Mandara grazie alla quale, tra microspie nascoste sotto i tavolini e che si inceppavano, e origliamenti di spioni, trascritti a spizzichi e bocconi (è il caso di dirlo) su tovaglioli di carta intrisi di maionese, venne realizzata una audiocassetta con la registrazione di un colloquio tra giudici romani, contenente la presunta "confessione" della corruzione.

Dopo anni che il processo si trascina sulla base delle "prove" fornite da questa mitica audiocassetta, finalmente nei giorni scorsi i periti del Tribunale di Perugia ne hanno accertato la manipolazione, spingendo quel Tribunale a disporne il sequestro, onde svolgere indagini sulle manomissioni.

Alle richieste della difesa di sospendere il processo, il cui impianto accusatorio in gran parte su quella cassetta si basa, nell'attesa dell'espletamento di queste indagini, il PM che conduce l'accusa ha tranquillamente dichiarato: "Con tutto il rispetto per i colleghi di Perugia, che devono giustamente svolgere il loro lavoro, questo processo deve comunque andare avanti!". Auspicio pienamente accolto dal "Tribunale del Riesame" che ha decretato la non-rilevanza della manomissione dell'audiocassetta ai fini del processo in corso, autorizzandone quindi la prosecuzione.

Ohibò! Lasciamo pure stare lo strano gioco di ruolo tra presunti corrotti, presunti corruttori e presunti difensori degli interessi dello Stato, lasciamo pure stare la posizione della difesa che ha sempre definito inattendibili i due pilastri accusatori, la cassetta e le rivelazioni di una "pentita eccellente": ma come fa un uomo della strada, dotato di semplice buon senso, a capire come la Giustizia, in perfetta conformità alla Legge, possa impone ad un processo di andare avanti fino alla conclusione (che per l'accusa non può che essere una sentenza di condanna degli imputati), quando una delle prove principali risulta essere stata manomessa, ed un Tribunale esterno ne ha ordinato il sequestro per accertare chi e perché ha avuto interesse a manometterla? Ma dov'è finito il peloso garantismo italiano?

Non abbiamo difficoltà a comprendere la volontà di un Pubblico Ministero di portare a termine il frutto di anni di lavoro certosino a tempo pieno, abbiamo più difficoltà a comprendere come si possa giudicare ininfluente ai fini processuali la scoperta della manipolazione di una delle prove ritenute sino a quel momento decisive!

Poiché non dubitiamo della buona fede dei protagonisti di questa vicenda, ci chiediamo se tanta ostinazione nel voler arrivare, prove o non prove, ad una sentenza di primo grado, possibilmente con una condanna, non risenta magari di quel clima da crociata che dal 1992 in poi ha visto una parte della Magistratura lavorare per distruggere la vecchia classe politica prima ("Rivolteremo l'Italia come un calzino...!") ed il nuovo imprevisto ostacolo per la Sinistra poi ("Io quello lo sfascio...!").

Crociata che ha provocato anche lacrime e sangue, e di cui gli Italiani hanno ormai ampiamente mostrato di avere le scatole piene, considerandola conclusa. Conclusa ma anche inconcludente, alla luce delle tante sentenze che hanno sciolto i castelli accusatori di un intero decennio, con riabilitazioni talvolta postume.

Insomma, come per i soldati giapponesi nascosti nella giungla a proseguire, per fedeltà all'ideale, una guerra finita cinquant'anni prima, e finita non per stanchezza ma addirittura col fragore di due bombe atomiche, così sembrerebbe di poter ravvisare una sorta di "accanimento ideale" in certi Palazzi di Giustizia italiani, insensibili ai mutamenti epocali nel frattempo intervenuti.

Il dubbio che di questo si tratti, sembrerebbe confortato dall'analoga pervicacia con cui la Procura di Palermo, dopo il crollo dell'impianto accusatorio contro Andreotti, messo in luce dalla sentenza assolutoria, vorrebbe ricorrere in Appello per imbastire un secondo processo con le stesse "carte" del primo. Insomma, un clima da crociata, un intestardimento ideale che, come la giungla delle Filippine per i soldati giapponesi, sembra impedire a dei combattenti generosi ma rimasti isolati e tagliati fuori dalla realtà, di ricevere notizie recenti dal mondo, di smobilitare e quindi riabituarsi alla vita civile.

Naturalmente è soltanto un'impressione, non possiamo pretendere di averne certezza. Però, se così non fosse, cosa rispondere a quel nostro amico romanaccio che aspetta da dieci anni la sentenza per una causa civile e che, parlando di certi Magistrati, chiese: "Ma questi, nun c'hanno gnient'artro da fà?".

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